FuoriOrario N°4 Anno XXX (maggio-giugno)

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N4°

Anno XXX

Maggio - Giugno 2017

Amici tra le Parole

Insegnare l’Italia ai migranti

Lettere dalla Torre di Londra

Il testamento spirituale di Thomas More

La Primavera Tradita

Quale futuro per le primavere arabe?

Somewhere

BEYOND THE SEA


INDICE EDITORIALE (La Redazione) PAROLE DI VITA (Don Luigi) LETTERE DALLA TORRE DI LONDRA (Gabriele Ciancitto) IL FUORISEDE DISPERATO

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L’ANGOLO DEL GIURISTA (Gaetano Mercuri) LXVI CONGRESSO NAZIONALE

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«BEATI I POVERI IN SPIRITO»: l’incontro con i migranti (Giovanna Minotti) LA PRIMAVERA TRADITA (Marco Demo)

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É SOLO UNA CANZONE? (Mario Succes) GUARDA E IMPARA: Indovina chi viene a cena? (Massimiliano Puppi) IL PIACERE DELLA LETTURA: Solo la luna ci ha visti passare (Francesca Bertuglia) RIDICI SU...

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RESPONSABILI REDAZIONE Lucilla Incarbone Francesca Bertuglia RESPONSABILE GRAFICA Massimiliano Puppi

DIRETTORE RESPONSABILE Maria Teresa Antognazza DIREZIONE, REDAZIONE via S. Antonio, 5 - 20122 Milano EDITORE Coop. Culturale In Dialogo s.r.l. Milano. Registrato presso il Tribunale di Milano, n. 113 del 16/02/1987 Milano, 11 Marzo 2014 Anno XXVIII n. 1

COLLABORATORI Chiara Di Vito Pietro Giorcelli Miriam Maistrelli Giovanna Minotti Gabriella Serra Marco Demo Gabriele Ciancitto Mario Scucces Erica Scuma Susanna Brogin Alessia Caiezza Gaetano Mercuri

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Da qualche parte al di là del mare Fuori Orario vi presenta questo nuovo numero dedicato al LXVI Congresso Nazionale, che quest’anno si terrà a Pavia e a Vigevano. Mediterraneo e migrazioni saranno il tema del Congresso, che ripercorriamo come una sorta di filo rosso durante il nostro numero. Le nostre pagine non hanno abbandonato però lo stile che ci sta a cuore, con articoli di cultura, informazione e divertimento, con un’attenzione particolare però al Mediterraneo come luogo di sofferenza e di tragedia, ma anche di speranza.

EDITORIALE

Una realtà sconcertante, che non si può ignorare a causa del dramma che comporta. Come possono cambiare la situazione un gruppo di studenti? Ci si chiederà forse. La risposta è evidente: intanto ne parlano. E parlarne non è poco, in quanto porsi il problema, discutere sulla tematica, operare un confronto è già qualcosa, almeno dal loro, dal nostro punto di vista. È cercare di essere meno indifferenti, è un tentativo di eliminare i pregiudizi, è un’occasione per guardare tutti insieme ad un’attualità sconvolgente che ci sta sormontando. Se il Congresso porterà frutto, probabilmente lo finiremo con molte più domande che risposte, e con le nostre domande e le nostre idee avremo allargato il nostro punto di vista e spostato il nostro orizzonte proprio là, da qualche parte al di là del mare.

LA REDAZIONE

Vuole essere l’occasione per soffermare lo sguardo e riflettere su questo tema perché, essendo giovani italiani, non possiamo dimenticarcene. Infatti Italia vuol dire anche mare, vuol dire anche Mediterraneo, nonostante a volte s’ignori la questione pensando semplicemente che le nostre belle spiagge del sud siano luogo di vacanza. Ma sappiamo tutti che non è così: negli ultimi anni sono state migliaia e migliaia le persone scomparse nel tentativo di raggiungere l’Europa, terra di speranza.

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PAROLE DI VITA

Dove sono tua sorella e tuo fratello La fatica nel riconoscere il volto dell’altro ha radici lontane. Oggi è accentuata perché l’incontro con l’altro è diventato imprevedibile: te lo trovi sotto casa senza bisogno di andare a cercarlo e senza poterlo scegliere. I confini si son fatti sottili e il mondo, come si suol dire, è diventato un piccolo villaggio. Ma tutto è cominciato quando all’inizio della storia umana i nostri progenitori hanno dato ascolto al “Serpente che parla” il quale ha insinuato il sospetto che ci fosse un dio invidioso che limitava la libertà degli uomini per tenerli lontani dal potere. La ribellione non ha generato maggior libertà, ma solo una grande paura. È entrato nel cuore dell’uomo il desiderio di possedere e di prevaricare e dunque il sospetto che colui che sta davanti a te senta lo stesso desiderio e così tu non puoi fare meno di difenderti. Dice la Bibbia che “Adamo e sua moglie Eva erano nudi e non avevano vergogna”, ma, dopo aver ascoltato la voce del serpente “si accorsero di essere nudi”; da quel momento l’altro è diventato un “mistero pericoloso”. Ogni epoca ha avuto davanti il “volto minaccioso” di qualcuno. Nei nostri giorni i volti minacciosi sono aumentati a dismisura; conosciamo un numero indefinito di persone e in poche ore vediamo più gente di quanto i nostri vecchi ne vedevano in tutta la vita. Ma siamo più liberi? Parrebbe di no, perché se l’altro fa paura cerco di evitarlo e, se non è possibile, cerco di eliminarlo. Eliminare è il contrario di “annodare”, cioè costruire legami; per paura non costruisco legami, ma senza legami io divento “a-nonimo”, cioè senza nome. Il volto dell’altro mi è necessario per conoscere il mio. Ecco il punto: conoscere l’altro, cioè incuriosirsi, accettare che sia quello che

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DON LUIGI Assistente Spirituale FUCI UCSC

vuol essere, non vederlo come il limite; mi illudo di poter possedere ogni cosa, ma il volto dell’altro, anche quello amico e amato, non può essere posseduto. Ogni volto è il volto di una persona viva, che ha sentimenti, interiorità, paure, dolori, desideri, sensazioni che magari neppure lui conosce e tutto questo “mondo vivo” si mette in movimento quando ti vede e tu ti spaventi perché non sai gestire il tuo mondo, figurarsi se sai gestire il mondo di un altro. La vita spesso diventa il gioco a “nascondino” e ci sono almeno tre modi di nascondersi: eliminare l’altro, farlo diventare una fotografia, possederlo. Sono modi sbagliati e tragici perché, isolando l’altro, si finisce per negare sè stessi. C’è, invece, un percorso sano ed una terapia per togliere la paura. La prima tappa è la meraviglia che è la scintilla che spinge a conoscere, la seconda tappa è superare la paura e cominciare a scoprire come si possono costruire legami, la terza tappa si chiama empatia, cioè mettersi ‘nei panni dell’altro’. La meta di questo percorso è sorprendente: magari ci si accorge di non conoscere ancora bene l’altro, ma intanto si è scoperto di conoscere meglio se stessi.



LA NOSTRA STORIA

GABRIELE CIACCITTO Giurisprudenza

Lettere dalla torre di Londra: il testamento spirituale di Thomas More

«Lo supplico [Il Signore] di chiamarmi a Sé, quando lo vorrà, nell’eterna beatitudine del Paradiso, e, nell’attesa, di concedere a me e a voi, sia pure prostrati dalle sofferenze e tribolazioni, di meditare sull’amara agonia patita da nostro Signore prima della passione sul Golgota. Se lo faremo diligentemente, ho fede che troveremo lì conforto e consolazione». Anno Domini 1534. Torre di Londra. Thomas More riversa il moto della propria anima in queste parole indirizzate dalla prigionia alla figlia Meg, nell’ultima lettera che scriverà prima dell’esecuzione della condanna capitale per alto tradimento. Queste poche righe racchiudono il suo testamento spirituale. L’inchiostro è pesante, ma il tratto della penna è fermo. Lacrime sul viso della dolce Margaret. Lacrime sul viso di papà Thomas. Lei lo aveva supplicato di aderire allo scellerato progetto di Enrico VIII di dichiararsi indipendente dalla Chiesa di Roma, dopo che il Papa – ironia della storia – lo aveva nominato difensor fidei nella lotta all’eresia luterana. Lui aveva cercato di convincere Margaret che non poteva accettarlo. Il prezzo sarebbe stato troppo alto. Il prezzo sarebbe stato la sua anima.

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Così rimane chiuso nel suo silenzio, che pare l’unica strada per sperare fino all’ultimo nella grazia del re. Spera che Enrico non arrivi a sacrificare per orgoglio personale l’uomo che da sempre aveva considerato uno dei suoi più cari amici e consiglieri, tanto da elevarlo alla carica di cancelliere dello scacchiere. Forse la mente del re è troppo lontana dal ricordo delle lunghe e piacevoli chiacchierate nella dimora dei coniugi More a Chelsea, dove si alleggeriva dal carico delle sue responsabilità di sovrano e si divertiva a gareggiare con la piccola Meg su chi padroneggiasse meglio il latino. Adesso ciò non sembra contare nulla. Non più da quando ha deciso di sposare in seconde nozze Anna Bolena, ignorando il legittimo vincolo che lo legava a Caterina d’Aragona. Sa benissimo che Moro non approva la sua scelta. Conosce la sua fedeltà alla Chiesa di Roma, che nella persona del Sommo Pontefice si è infine decisa – nonostante le ripetute pressioni della corona inglese – a dichiarare valido il matrimonio con la zia dell’Imperatore. Nonostante non condivida la decisione di Enrico, Moro giudica legittimo l’atto di successione con il quale i diritti ereditari alla corona inglese passano ai figli che il sovrano avrà con la nuova regina. Il re, però, non si limita a questo e supera


il punto di non ritorno quando si decide a promulgare l’atto di supremazia, che sancisce la superiorità della corona inglese sul papato anche in campo spirituale. L’atto di supremazia viene firmato da tutti i notabili del regno ad eccezione di Moro, del card. Fisher e di quattro monaci certosini. Il silenzio di Moro grava come un macigno sulle spalle del re, che di fronte alla propria corte e a tutto il popolo si trova a dover giustificare l’astensione di colui che era considerato uno dei più grandi umanisti del suo tempo e che godeva di prestigio in tutta Europa. Lo stesso Machiavelli, che non lo aveva certo in simpatia, lo definì «uomo quasi divino» ed Erasmo, che era suo amico e nutriva per lui profonda stima, dedicò a Moro il suo Elogio della follia. La nuova regina vuole la firma di Moro e convince il marito a usare anche la forza, poiché è persuasa che «se la coscienza più eletta presente nel regno negava la firma, a nulla serviva la firma degli altri». La posta in gioco è molto alta. L’accusa è di alto tradimento e la condanna capitale lascia atterriti. Per i condannati è prevista l’impiccagione e lo squartamento. Il rischio per Moro è elevato. Non era la prima volta che sfidava il sovrano per il proprio senso di lealtà e giustizia. In catene, nella penombra filtrata dalle grate della cella in cui è prigioniero pensa a

quando da rappresentante dei londinesi al Parlamento osò sfidare il padre di Enrico, opponendosi alla imposizione di un prelievo fiscale che avrebbe lasciato le fasce più deboli della popolazione inglese sull’orlo di un abisso di fame e incertezza. Già a quel tempo, nei vicoli bui della periferia londinese, si parlava della sensibilità di Sir Thomas per i derelitti e gli orfani. La sua casa di Chelsea era chiamata la casa della provvidenza, perché in essa trovavano ospitalità coloro che cercavano un po’ di carità cristiana e un piatto di minestra calda. Quella volta era andata bene. Il re aveva “solamente” arrestato per qualche tempo il padre di Moro, il giudice John More, come avvertimento, e costretto il figlio ad un soggiorno temporaneo in Europa. Dopo un po’ le acque si calmarono e Moro poté ritornare dal suo esilio sul continente per prestare i suoi servigi a corte. Un brivido percorre la schiena del prigioniero senza processo. La notte è fredda. E scura. Accovacciato all’angolo, con la nuca poggiata su una pietra squadrata, guarda un raggio di luna che fende il buio della sua cella. Sto facendo la cosa giusta? Pensa. In fondo non cambierà nulla. L’Inghilterra sarà anglicana, con tutti i suoi figli. Il mio sangue sarà concime per la terra. La mia vita un ricordo che

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appassirà con la vecchiaia dei miei figli e delle mie figlie. Per te, mio Dio…cosa vale per te la mia morte? Scorre le pagine di una Bibbia rattrappita dall’umidità. Forse scorre con lo sguardo il dialogo tra Pilato e Gesù, e si sofferma sulla domanda che Pilato rivolge al re dei giudei: «Quid est veritas?». Silenzio intorno e dentro di lui. Quella domanda gli risuona dentro sempre più forte, fino a fargli pulsare le tempie scavate dalle privazioni e dagli interrogatori. Qual è la verità su di lui? Quale verità può accogliere tutta la sua esistenza e darle senso? La risposta appare un’ ineludibile esigenza. Dalla sua risposta dipende ciò che scriveranno i giudici nella pronuncia che potrebbe dargli – e gli darà – la morte. La verità sulla Legge che racchiude nel cuore, che ha guidato da sempre il suo agire, che ha plasmato la sua identità e che non si è dato da sé assume una consistenza nuova, quasi tangibile. È il giogo che non opprime di cui si parla nel vangelo. È quel dono che gli è stato fatto insieme agli straordinari talenti di cui ha goduto, e di cui ha fatto buon uso per servire il suo re e la sua nazione. Se la rinnega, rinnega sé stesso. La testimonianza menzognera di un amico lo tradisce. Si chiama Richard Rich e ha ricevuto i suoi trenta denari

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con il cancellierato del Galles. È la svolta decisiva per coloro che lo vogliono morto e dimenticato. Arriva la condanna dei giudici. Il re non è presente all’esecuzione. Si dice sia rimasto nei suoi appartamenti a piangere l’amico cocciuto che non si è piegato alla sua volontà. Brutta copia di un padreterno capriccioso. Moro ripercorre il vissuto di quel Cristo in cui crede e spera. Accetta questo epilogo con l’umorismo che lo ha sempre contraddistinto, e che ha un fondamento saldo nella propria fede. Quando il boia lo conduce al patibolo si concede il lusso di ironizzare, chiedendogli aiuto per salire i gradini malfermi e rassicurandolo che per scendere ci avrebbe pensato da sé. Riceverà l’ultimo regalo del re con una morte veloce, per decapitazione. Questa è la storia di Thomas More. Questa è la storia di un uomo libero.


IL FUORISEDE DISPERATO POLLINO LO CHEF FUCINO

Pasta al Salmone 320 gr di pasta 200 gr di salmone affumicato 1 scalogno 30 gr di burro 200 ml di panna fresca noce moscata sale erba cipollina

Fate cuocere la pasta in una pentola con abbondante acqua salata. Intanto tagliate il salmone a pezzetti. In una padella, fate rosolare nel burro lo scalogno finemente tritato e aggiungete il salmone. Quando è ben cotto e rosolato, versate la panna e un pizzico di noce moscata. Scolate la pasta, versatela nella padella e fate amalgamare il tutto lentamente.

Impiattate la pasta aggiungendo qualche pezzetto di salmone affumicato tenuto da parte e decorate con dell’erba cipollina tritata.

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L’ANGOLO DEL GIURISTA Le migrazioni hanno, più o meno fortemente a seconda delle epoche, caratterizzato la storia dell’uomo. Pertanto il Diritto se ne è costantemente interessato nei vari contesti e momenti storici. È ben noto quanto i flussi migratori siano divenuti oramai un problema al centro della quotidiana, generale polemica politica vista la loro costante crescita a causa della grave ed ancora irrisolta crisi economica in corso dal 2008 e di quella che Papa Francesco ha ben definito essere una “terza guerra mondiale a pezzi”. Normalmente le migrazioni possono essere volano dell’economia, poiché alleggeriscono il peso demografico dei paesi in via di sviluppo e nel contempo rilanciano l’oltremodo appesantito mercato del lavoro delle nazioni c.d. “ricche” permettendo di rallentare la decrescita e l’invecchiamento della popolazione delle stesse. Tale meccanismo appare oggi inceppato e la politica del diritto in tema risulta essere fortemente influenzata dal montante populismo che propone il rifiuto dell’altro come uno dei suoi piatti forti. Proprio per i molteplici valori ed interessi in gioco in tema di migrazioni si è sviluppata una notevole quantità di fonti del diritto. Il diritto consuetudinario internazionale non pone limiti alle nazioni in tema di politiche migratorie purché queste non violino i diritti umani fondamentali dello straniero. Accoglimento, respingimento ed espulsione non possono cioè avere luogo con modalità che risultino “oltraggiose” nei confronti del migrante. Le convenzioni internazionali, a partire da quella firmata a Ginevra nel 1951, e la loro applicazione a livello giurisprudenziale da parte delle Corti, hanno invece più fortemente ed efficacemente tutelato i migranti: è stato creato lo status di rifugiato per colui il quale nel proprio paese abbia ragionevolmente modo di temere di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, sesso, diversità di opinioni politiche ed appartenenza ad un determinato gruppo sociale. A partire dalla convenzione O.N.U. del 1984, gli Stati aderenti sono obbligati a non espellere o estradare i migranti verso paesi in cui vigano la tortura o altri trattamenti disumani e degradanti.

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GAETANO MERCURI Giurisprudenza Il legislatore italiano si è sforzato, in particolare nell’ultimo quarto di secolo, di dare pratica attuazione a tali trattati internazionali. Non si può non notare però che la legislazione in materia di migrazione ha assunto un carattere “alluvionale”: ciò è dovuto particolarmente ai continui provvedimenti d’emergenza in risposta ai continuamente crescenti flussi immigratori, ai frequenti cambi di governo e alle sempre fluttuanti maggioranze parlamentari, certo, ma soprattutto alla generale impreparazione della classe dirigente e della popolazione in una nazione come la nostra, storicamente patria di emigrati più che destinazione agognata da parte di immigrati. Tuttavia si possono in questa sede elencare quei pochi importanti interventi che hanno inquadrato e ordinato in qualche modo la materia dell’immigrazione nel nostro Paese: la legge 39/1990 c.d. “Martelli”, la prima con cui si tentò di dare una disciplina organica sull’onda emotiva creata da quella prima grave emergenza che fu lo sbarco degli albanesi sulle coste della Puglia; la l. 40/1998 e il d.lgs. 286/1998; infine la l. 189/2002 c.d. “Bossi-Fini”. Provvedimenti che solo in parte sono riusciti a dare una risposta alla complessità dei problemi posti dalle migrazioni verso il nostro paese (pensiamo all’integrazione attraverso la garanzia del diritto al lavoro e allo studio) attraverso la definizione penalistica di immigrazione clandestina e l’introduzione di norme sull’obbligatorietà del permesso di soggiorno legato a requisiti molto stringenti come quelli di dimostrare di avere un lavoro, tenere un buon comportamento sociale. Il migrante non integrato che non abbia ottenuto asilo politico e che non dimostri di essere in possesso di tali requisiti può ora essere soggetto a provvedimenti di espulsione/ estradizione verso i paesi di origine.


CHIARA DI VITO

economia e gestione dei beni culturali e dello spettacolo Siamo ormai giunti alla 66esima edizione del Congresso Nazionale della F.U.C.I. e come ogni anno i fucini di tutta Italia raggiungeranno una della città della penisola per incontrarsi e approfondire una tematica che da universitari cattolici abbiamo a cuore. Il tema di questo 2017 sarà il Mediterraneo, questione che non possiamo più ignorare, benché non sia delle più semplici. La complessità di analisi di questo tema non deve però spaventarci, come giovani universitari infatti dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia le sfide che il presente ci offre e - senza pretese di essere i salvatori del mondo (e a quanto pare ce ne dovrebbe essere uno solo... che diceva di essere il figlio di Dio) - dobbiamo cercare di fare il nostro piccolo: ciascuno di noi è senza dubbio responsabile in prima persona del mondo che andremo ad abitare. Ma non mi dilungo oltre su ciò in senso stretto perché troverete già altre pagine a riguardo all’interno dell’inserto speciale, come il focus sulle Tesi Congressuali. Mentre le prime due giornate saranno dedicate alla questione del Mediterraneo, le due giornate seguenti invece saranno interamente occupate dall’Assemblea Federale. Si tratta del momento in cui si esprime maggiormente la democraticità della Federazione; il culmine del lavoro di un intero anno associativo e il punto di partenza per il nuovo anno. L’Assemblea Federale è infatti il luogo in cui tutti i fucini hanno la possibilità di raccontarsi la propria

esperienza confrontandosi tra loro, fare nuove proposte e discuterle assieme e, non da ultimo, percepire l’ampio respiro che ci caratterizza come Federazione dislocata su tutto il territorio nazionale. Un’occasione molto preziosa dunque che è difficile da scordare. Come fucina un po’ più agée non posso sicuramente dimenticare i mitici dibattiti che durano lunghe ore durante la prima giornata di lavori che sfociano però, con grande naturalezza, nella risate serali che ciascuno di noi porta sempre nel cuore. Ma tornando alla questione della città ospitante, questo Congresso presenta una particolarità. Oltre a svolgersi nella regione più bella e simpatica di tutta Italia (fucinamente parlando si intende, e detto da una toscana si capisce la gravità della cosa) si terrà in ben due città: Pavia e Vigevano. Mi piace pensare che questa dulice scelta voglia un po’ simboleggiare lo spirito della nostra regione. Come probabilmente saprete, e la provenienza dei nostri due Incaricati Regionali lo fa notare perfettamente, la Lombardia è una regione formata da persone che provengono da realtà molto diverse tra loro ed è proprio in questa pluriformità che si può cogliere il senso profondo della F.U.C.I. Unire le diversità è una nostra speciale caratteristica, e speriamo in questi giorni di poterlo dimostrare. Dunque, benvenuti e buon Congresso a tutti!

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SUSANNA BROGIN Giurisprudenza Vigevano, Avgevan in dialetto vigevanese, è definita “la città perfetta” da Leonardo Da Vinci. Circondata dai boschi del Parco del Ticino-Vigevano accoglie il visitatore con l’armonia della celebre Piazza Ducale: “una sinfonia su quattro lati” secondo la definizione del grande maestro Arturo Toscanini. La Piazza Ducale, nel cuore della città, è una delle più famose piazze d’Italia, detta anche “Salotto d’Italia” per la sua forma a pianta rettangolare racchiusa su tre lati da edifici porticati omogenei e sul quarto lato dalla facciata della Cattedrale. Venne costruita per volere di Ludovico il Moro, tra il 1492 ed il 1494, come anticamera del Castello divenuto residenza ducale. All’angolo sud-ovest si trovava la rampa, ora Scalone d’onore, che conduce al cortile del Castello passando sotto la torre del Bramante. L’aspetto attuale della Piazza è dovuto in buona parte agli interventi del 1680, compiuti dal Vescovo Caramuel e da opere successive. La Piazza è l’ingresso d’onore all’imponente Castello, ideata dal Bramante con il concorso di Leonardo da Vinci, ed è incorniciata dal Duomo di Vigevano, dedicato al patrono Sant’Ambrogio. La costruzione fu iniziata da Francesco II Sforza nel 1532 su una precedente chiesa del Trecento e terminò con la sua consacrazione nel 1612. L’originale facciata concava fu realizzata in stile barocco dopo la morte del vescovo. Città d’arte, ma anche città d’acque,

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Vigevano è attraversata da canali e dal fiume Ticino che offre scorci e oasi naturali di indubbio fascino. Da Ludovico il Moro a Eleonora Duse, sono tanti i personaggi che hanno visto la luce in questa città, ancora oggi nota in tutto il mondo per la produzione di scarpe di qualità e per la sua industria meccano-calzaturiera. Di origine longobarda, Vigevano nasce come luogo fortificato corrispondente all’attuale cortile del Castello. Successivamente si sviluppa il borgo esterno, le cui case ed edifici sorgono sul luogo oggi occupato dalla famosa Piazza Ducale. Si trasforma in libero Comune a partire dal 1198, mentre nel 1277 la storia di Vigevano si lega a quella delle potenti famiglie milanesi dei Visconti prima e degli Sforza poi. Grazie all’opera di Luchino Visconti e di Ludovico Sforza detto il Moro, tra XIV e XV secolo, il borgo di Vigevano inizia la sua trasformazione in residenza estiva, in delizioso soggiorno per gli svaghi e gli ozi della corte ducale: il Castello viene adibito a dimora di prestigio grazie all’opera di artisti come Bramante, la Piazza Ducale in scenografico spazio libero da case ed edifici, regale atrio d’ingresso al Castello. I tesori e la storia di Vigevano saranno il tema della serata di sabato durante il Congresso Nazionale FUCI, che si svolgerà a Pavia e Vigevano dal 4 al 7 maggio 2017.


ERICA SCUMA Medicina Situata all’inizio della pianura padana e attraversata dal fiume Ticino, la città di Pavia si colloca nella Bassa Lombardia, poco a nord della confluenza del Ticino e del Po. La sua posizione strategica l’ha resa oggetto di conquiste da parte delle popolazioni che si sono avvicendate nella zona. Le origini di Pavia la riconducono alle tribù della Gallia transpadana; diventerà, poi, una città più importante in epoca romana col nome di Ticinum. Dopo varie vicende, che la vedono oggetto degli interessi di Attila, Odoacre, Teodorico e dell’Impero Romano d’Oriente, nel 572, dopo un lungo assedio, si arrende alle truppe longobarde che la scelsero come capitale del loro regno col nome di Papia. Numerosi –seppure modificati nel tempo - sono i segni di questi due secoli di dominazione: la chiesa di San Michele, allora cappella palatina destinata alle incoronazioni e la chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro. Alla dominazione longobarda segue, nel 774, quella carolingia, per arrivare poi nell’epoca dei comuni, in cui Pavia diventa una delle tante città in Italia che condividono il nome di “città delle 100 torri”. Le torri gentilizie erano un simbolo di potere per tutte quelle famiglie che si contendevano il controllo delle istituzioni comunali ed erano una vera e propria caratteristica del periodo. Attualmente ne sono rimaste soltanto cinque: contornano lo skyline pavese e sono di fatto le più antiche d’Italia.

Nel successivo periodo delle signorie, Pavia passa sotto la famiglia dei Visconti di Milano (1359). Probabilmente la storica rivalità tra le due città, che di fatto distano solo 38 km, ha origini ben più antiche, ma sicuramente questo è uno dei massimi momenti di tensione; ma è proprio in questo periodo che Galeazzo II Visconti, mecenate di Petrarca, fonda l’Università degli studi di Pavia (1361) e costruisce il Castello Visconteo (1360 -1365). Sarà poi il figlio Gian Galeazzo ad avviare i lavori di costruzione della Certosa. La storia di Pavia si lega indissolubilmente a quella della sua università: la città è sede di tantissimi collegi universitari, tra cui l’Almo Collegio Borromeo, il più antico collegio di merito in Italia, voluto dal santo cardinale Carlo Borromeo e fondato nel 1564 e il Collegio Ghislieri, fondato nel 1567 da papa San Pio V (al secolo Antonio Ghislieri). La presenza di più di diecimila studenti universitari rende Pavia una città unica nel suo genere: l’antichissima tradizione goliardica, la fitta rete di collegi storici e residenze per universitari, il pullulare di organizzazioni universitarie e il riguardo che riservano i cittadini pavesi nei confronti delle esigenze degli studenti, contribuiscono a fare di Pavia una fra le città universitarie più famose, nonché un luogo fantastico in cui vivere i propri anni universitari.

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I TEMI

Delle tesi oltre le Tesi Era settembre 2016, sessione di esami modalità on, come si suol dire, quando mi chiesero di entrare nella squadra che avrebbe steso le Tesi per il Congresso F.U.C.I. 2017, dal tema, Unire le diversità. Il primo pensiero che fece capolino nella mia testa fu: Chi, io?. Sì, io. E, attraverso milioni di indecisioni, pensieri e domande, accettai. Dissi di sì perché avrebbe potuto essere un’ottima occasione di crescita dato che mi interessava molto l’argomento. E così è stato! Quest’anno è stato scelto il tema del Mediterraneo, come filo conduttore per il Congresso Nazionale. All’inizio è stato difficile selezionare gli argomenti che sarebbero poi stati trattati: un tema così vasto da una parte permette di spaziare attraverso discipline diverse e dall’altra, comprende più di duemila anni di storia. E il background dei paesi in difficoltà interessati alle migrazioni è fatto di colonialismo, di sfruttamento di terre, di risorse e di manodopera. I punti salienti della Storia passata sono tragici esattamente come lo è il presente; non vi era rispetto per le minoranze etniche e religiose. Informandoci per più di un mese, grazie a siti web e bibliografia, abbiamo selezionato i cinque ambiti di approfondimento in cui ora sono divise le Tesi: culturale, religioso, geopolitico, politico e sociopolitico. Così io, Marianna, Claudio, Calogero e Luigi ci siamo divisi in queste aree di interesse, in base alle nostre attitudini personali. Dopo quasi cinque mesi di lavoro e di collaborazione, siamo riusciti a stendere la versione definitiva delle bozze delle Tesi congressuali. Io mi sono occupata della parte sociopolitica, tenendo conto sia dei miei interessi personali sia del Corso di Laurea da me intrapreso. Il primo pensiero è subito corso ai diritti umani nel Mediterraneo: in un momento come quello che stiamo vivendo i paesi che si affacciano sul mare nostrum, sin dall’esordio del fenomeno chiamato

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LUCILLA INCARBONE Scienze del Servizio Sociale primavera araba, sono sempre al centro della cronaca estera per la grave situazione di guerra in cui versano. Abbiamo ritenuto importante approfondire la questione perché non rimanga soltanto nelle notizie che sentiamo di sfuggita al telegiornale, ma perché faccia parte di un ragionamento che ci coinvolge come cittadini e cristiani. Pensiamo all’immagine del mare come ponte e, all’opposto, a quella del mare come muro: il collegamento umano, la solidarietà da un lato e l’ostacolo, la divisione dall’altro. Il gesto migliore sarebbe quello di portare nel cuore l’idea del mare che è unione, cultura, simbolo di etnie che presentano punti in comune, ma guardando alla realtà

dei fatti sappiamo che non è così purtroppo. All’interno di questo tema così vasto, l’idea è stata quella di fare un focus sull’immigrazione, come fenomeno che ci tocca da vicino, in qualità di cittadini di uno dei paesi di approdo dei profughi e come ambito di pesanti violazioni dei diritti umani. Dopo aver inquadrato a grandi linee la situazione attuale è stato interessante fare un excursus sulle diverse associazioni e organizzazioni internazionali che se ne


stanno occupando in questo momento, da Amnesty International alla Comunità di S.Egidio, analizzando anche ciò che l’Unione Europea e lo Stato Italiano stanno facendo a riguardo. Comune opinione è che l’UE non stia facendo abbastanza, accusando il fatto che i singoli Stati debbano agire da sé, però è a partire da essa che si sono sviluppati degli ideali comuni per salvaguardare i diritti umani e sociali delle popolazioni dei paesi del Mediterraneo. Parallelamente allora, si può citare anche l’azione dell’ONU, che si è spesa per rimediare alle conseguenze provocate dalle guerre negli Stati in difficoltà. Dopo aver scritto le Tesi, posso sicuramente affermare che, nonostante la difficoltà dell’impegno, per via dell’ampiezza del tema e delle numerose fonti possibili da consultare, è stato interessante e positivo approfondire una tematica così attuale che non ci deve lasciare indifferenti. Questo è proprio ciò che la scrittura delle Tesi mi ha insegnato: ogni giorno succedono moltissimi fatti nel mondo: sta a noi trovare i modi per metterci la testa così da avere la possibilità di essere informati, non come semplici spettatori, ma come persone che con coscienza ragionano su ciò che accade intorno a loro, a noi. Con questo non significa per forza che ci si debba sentire obbligati a interessarsi

a tematiche di questo genere, ma per lo meno si può provare, un passo alla volta, a diventare un po’ più consapevoli e a imparare anche a pensare la politica, come la nostra Federazione ci insegna. Infatti è nostra responsabilità, in quanto giovani universitari, essere in grado di pensare con la nostra testa e avere la capacità di riflettere sulle cose: non possiamo permettere che la vita ci passi sopra la testa oppure - come ha ricordato Papa Francesco in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù tenutasi l’estate scorsa a Cracovia - lasciare che ci siano altre persone meno giovani e meno buone a prendere decisioni al nostro posto. In conclusione, posso di certo consigliare questa esperienza: se ve lo chiederanno in futuro, dite di sì, non importa quanti dubbi avrete. Perché la F.U.C.I. ti fa sempre crescere, sia attraverso il servizio prestato alla Federazione sia attraverso l’incontro con le persone. Insomma, se scommetterete sulla F.U.C.I., sarà una scommessa già vinta in partenza!

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CONGRESSO Come ogni anno, torna l’appuntamento nazionale della F.U.C.I. per eccellenza: il Congresso. Quest’anno si svolgerà su due città, Pavia e Vigevano, che si stanno preparando ad accogliere fucini provenienti da tutta Italia per discutere uno dei temi di più grande interesse collettivo: il problema dei flussi migratori attraverso il Mediterraneo. Le due città hanno messo da parte le storiche rivalità per cooperare alla realizzazione dell’evento: mentre Pavia onora la sua storica tradizione universitaria ospitando le prime due giornate tematiche, a Vigevano si terranno i più alti momenti associativi della federazione. Un anno intero di lavoro culminerà, nelle quattro giornate tra il 4 e il 7 maggio, in una bellissima occasione per condividere momenti formativi e aggregativi in pieno spirito fucino.

R.A.F Ogni anno l’Assemblea Federale elegge alcuni rappresentanti che vadano a ricoprire il ruolo di RAF, Rappresentante Assemblea Federale. Ad essi spetta infatti il compito di rappresentare l’Assemblea Federale in Consiglio Centrale, che accompagna, coordina e guida tutto il lavoro della Federazione. Vengono presentati durante l’Assemblea Federale da un avente diritto al voto e la loro votazione è segreta. Durante tutto l’anno si suddividono in diverse commissioni di studio e si occupano di approfondire le tematiche scelte dalla Federazione attraverso le mozioni di indirizzo e di produrre materiale che può essere utile al singolo gruppo o alla regione, per accompagnare durante l’anno i fucini nel loro cammino di ricerca. Poliedrici e versatili, i RAF si occupano dei filoni portanti del percorso fucino: dal percorso socio-politico a quello culturale, da quello teologico a quello universitario. Il loro incarico dura solo un anno, ma nulla toglie che possano ricandidarsi!

ASSEMBLEA FEDERALE Le giornate del 6 e 7 maggio sono interamente dedicate alla vita della Federazione. L’assemblea federale è infatti la massima espressione della democrazia fucina, un momento che ci si ritaglia per fare il punto della situazione, per confrontarsi e per ascoltarsi. L’assemblea si compone di tutti i presidenti di gruppo, dagli incaricati regionali, dai RAF (Rappresentanti Assemblea Federale) e dai membri di presidenza nazionale. Saranno inoltre eletti due presidenti, per tradizione non facenti parte oggi della federazione ma che ne hanno condiviso il percorso in passato, che guideranno i lavori assembleari con diritto di parola e di voto. I fucini semplici, benché abbiano solo diritto di parola, sono caldamente invitati a dare il loro contributo per lo svolgimento dei lavori. Tantissimi sono i punti all’ordine del giorno, che vanno dallo stato della federazione alla presentazione e discussione delle mozioni.

MOZIONI Le mozioni, che siano di indirizzo, statutarie o d’ordine, sono il mezzo più efficace che hanno i fucini che partecipano all’assemblea federale di dettare l’andamento dei lavori e del prossimo anno federativo. Di mozioni d’ordine ne sentiamo parlare ad ogni assemblea fucina che si rispetti: attraverso queste si modifica lo svolgimento dei lavori assembleari (non a caso sono l’incubo degli incaricati). Le mozioni di indirizzo invece guidano il cammino verso il nuovo anno federativo; dettare un andamento concorde e comune è sicuramente uno degli obiettivi che si deve porre l’Assemblea Federale tutta. Le mozioni di statutarie, infine, sono quelle attraverso cui si propone una qualche modifica allo Statuto Nazionale della F.U.C.I. Sia le mozioni di indirizzo sia quelle statutarie vengono prima attentamente valutate dalla Commissione verifica poteri, che controlla che tutto sia in regola.


GRAND’ ANGOLO GIOVANNA MINOTTI Lettere

«BEATI I POVERI IN SPIRITO» l’incontro con i migranti

Da tempo nel mio quartiere si parla dell’apertura di un centro di accoglienza per 300 richiedenti asilo negli spazi della vecchia caserma. Da una parte si crea un comitato per l’accoglienza e l’inserimento nella realtà locale dei migranti, dall’altra ci sono manifestazioni di protesta dei contrari all’uso della ex-caserma per ospitare questi uomini e queste donne. Il primo novembre il comitato per l’accoglienza organizza una festa in occasione dell’arrivo nel centro della maggior parte dei migranti. Intorno al 10 novembre la professoressa di didattica dell’italiano agli stranieri in Università Cattolica dà una comunicazione alla classe. Una sua collega chiede se c’è qualcuno interessato ad un volontariato come insegnante di italiano in una struttura appena aperta. Io vado dalla professoressa e le chiedo di potermi mettere in contatto con i referenti del progetto perché voglio assolutamente cogliere quest’occasione. Scopro che la struttura appena aperta è proprio la ex-caserma vicino a casa! Meravigliata per questa coincidenza e curiosa di vedere finalmente com’è questa realtà di cui tanto sento parlare, entro nel centro di accoglienza e, dopo una prima riunione organizzativa, mi metto in gioco nel tenere le prime lezioni. Nei cinque mesi trascorsi da allora mi sono stupita di molte cose. I ragazzi e le ragazze appena arrivati in Italia non sanno quasi nulla della lingua italiana e qualcuno fatica a scrivere perché poco alfabetizzato, ma quasi tutti conoscono l’inglese o il francese, a seconda di qual è stata la potenza colonizzatrice del loro Paese d’origine. Ciascuno di loro sa diverse lingue, ad esempio, oltre a inglese

o francese, una lingua creola e due lingue locali: sono dunque quasi tutti trilingue o quadrilingue e a nessuno sembra un fatto straordinario o di cui potersi vantare. Quando cammino nel cortile interno della ex-caserma, vedo i ragazzi passeggiare tranquilli nelle loro infradito e ascoltare la musica, poi mi trovo con loro nella mensa mentre pranzano e chiacchierano: non mi sarei aspettata che in un centro di accoglienza l’atmosfera potesse essere così familiare, che potesse esserci l’aria di casa. Penso che un grande contributo all’instaurarsi di un simile clima sia dato dalla onlus che gestisce il centro: essa si avvale del lavoro e dell’impegno solidale e sorridente di molti uomini di varie nazionalità come coordinatori e come cuochi; inoltre collabora con un’impresa sociale che organizza brevi corsi professionalizzanti, con un CPIA (Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti) che si occupa della scuola di italiano e con il comitato solidale del quartiere. Ma anche l’atteggiamento dei migranti è fondamentale perché l’ambiente sia in genere sereno e accogliente. I ragazzi del centro mi insegnano la capacità di adattamento e mi mostrano la bellezza di uno sguardo semplice e senza pretese nei confronti della realtà. Io non ho conosciuto direttamente la generazione degli italiani che nei primi decenni del Novecento partiva per “la Mericargentina” – l’Argentina secondo i giovani siciliani che varcavano l’oceano senza aver studiato molto di geografia – e dintorni, ma penso che i migranti di oggi e quei nostri bisnonni siano accomunati dallo spirito di speranza e di affidamento a Dio e al prossimo, dalla consapevolezza serena

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di cos’è la vita e dal coraggio di gettarsi, soli, in una realtà estranea. Credo che questi giovani migranti, che hanno proprio l’età di noi universitari, siano i poveri in spirito di cui parla il Vangelo: loro hanno lasciato le loro case, i loro vestiti, le loro sicurezze e hanno confidato nel fatto che qualcuno si sarebbe preso cura di loro, che la loro vita non sarebbe andata perduta, che Dio o Allah avrebbe dato loro un futuro; il Vangelo dice che loro è il regno dei cieli (Mt 5,3). Il mondo cosiddetto occidentale ha su di loro una grande attrattiva, coi suoi vestiti, ma soprattutto con la tecnologia: nel centro c’è il wifi e i ragazzi lo usano per collegarsi a internet dai loro cellulari e rimanere in contatto con parenti e amici, ascoltare musica, guardare film e anche semplicemente passare il tempo, dal momento che le loro giornate sono piuttosto povere di impegni. Il loro obiettivo e desiderio è poter lavorare: non chiedono altro che un lavoro per potersi pagare da vivere e avere una vita normale; sono giovani e potrebbero fare lavori di ogni genere, ma noi, contrariamente ad ogni loro aspettativa, non abbiamo da offrir loro un lavoro. Chissà cosa succederà nel loro futuro… Eppure loro sono tranquilli, sono poveri in spirito. Ciò che di più significativo traggo dall’esperienza di questi mesi – come penso che spesso accada nella vita – sono gli incontri che ho il dono di vivere. Da dicembre insegno ad un gruppo di donne, dai 18 ai 35 anni, e così ho l’occasione di conoscerle – soprattutto le più assidue nella frequenza al corso – e scoprire che voglio loro bene. C’è chi mi ha raccontato di aver lavorato come infermiera e di essere dovuta partire per sfuggire, con il suo bimbo, all’epidemia di ebola; c’è chi ha 18 anni e ama indossare veli colorati; c’è chi fa fatica ad abituarsi al clima italiano e mi dice spesso di stare «così così».

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Alla fine, io credo, l’esperienza più umana che si possa fare di fronte al cosiddetto “problema dei migranti” non consiste tanto nel parlare degli sbarchi a Lampedusa, quanto nell’incontrare un fratello e una sorella, che probabilmente da Lampedusa sono passati, e nel riconoscere – con un saluto, un sorriso e magari un dialogo – l’uguale dignità e bellezza di ogni essere umano. Indipendentemente dal passato, che ci distanzia e ci differenzia per molti aspetti, e dal futuro, incerto sia per me che per loro, il presente ci dona l’occasione di accoglierci l’un l’altro: non solamente io posso accogliere nel mio cuore ciascuno di loro, ma anche ogni migrante che mi incontra può accogliere me nel suo cuore. Non servono, infatti, ricchezze e case spaziose per accogliere l’altro: serve solo un cuore umano, consapevole di non bastarsi da solo, aperto all’umanità dell’altro.


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POLITICA & SOCIETÀ

La Primavera Tradita Si parla spesso in negativo delle Primavere Arabe, se ne parla per ricordare il fallimento e la destabilizzazione che hanno causato, si discute sulla forza con cui hanno portato la nascita del fantomatico Stato Islamico e della crisi umanitaria migratoria, ma nessuno si ricorda più dei protagonisti che in quei giorni hanno fatto sentire la propria voce: i giovani. Il 18 dicembre 2010 a Tunisi il giovane Mohamed Bouazizi si dà fuoco dopo aver subito dei maltrattamenti da parte della polizia tunisina, questa è stata la miccia che ha fatto scoppiare le primavere arabe dalla Tunisia al Bahrein. Centinaia di migliaia di giovani hanno occupato per settimane le piazze delle capitali dei loro paesi, hanno protestato contro i governi che per quasi quarant’anni li hanno tenuti sotto scacco. I manifestanti hanno dato voce alla loro rabbia, hanno chiesto maggiori libertà civili, forme di governo più democratiche, economie più aperte alle imprese e ai sogni, sistemi di welfare e di istruzione che fossero accessibili a tutta la popolazione. I giovani, per lungo tempo, sono stati costretti a reprimere i propri sogni, le proprie speranze e aspettative di un futuro per la propria vita e il proprio paese a causa dei governi che erano retti da “uomini soli al comando” e che hanno incarnato politiche

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MARCO DEMO Giurisprudenza autoreferenziali e dittatoriali retaggio dell’ideologia nazionalista degli anni sessanta poi trasformatasi in islamismo politico. Nella realtà, però, sono state delle coperture che si sono concretizzate nella ricchezza e nell’avidità dei dittatori che le hanno rette. I paesi dell’area panaraba non sono stati altro che dei feudi tenuti in pugno da personaggi come Ben Alì, Mubarak o Al-Assad che hanno spartito le ricchezze del paese con la propria famiglia e i propri fedelissimi. Il popolo, ridotto alla miseria, non è mai stato calcolato ed è stato per troppo tempo senza un futuro. I giovani, come chiunque viene al mondo per la prima volta, hanno desideri e speranze, si immaginano una vita piena di obiettivi e forse vissuta meglio di quella dei propri genitori. Hanno, però, conosciuto una realtà fatta di corruzione e mal funzionamento dello stato. Essi si sono sentiti soffocare da una atmosfera del genere soprattutto quando si sono resi conto, grazie a Internet, che il mondo al di fuori delle dittature poteva essere migliore. I social media hanno fatto da megafono alle loro richieste, sono state intessute reti sociali in cui tutti i giovani alla fine hanno urlato a gran voce le loro speranze di libertà, di futuro, per poter accedere all’istruzione, per poter lavorare senza


dover corrompere funzionari governativi, per non dover andare a lavorare a dodici anni al fine di pagare delle medicine che lo stato (inesistente) non passava. Ai bambini del Nord-Africa e Medio Oriente, sia ieri che oggi, non è stato consentito di vivere la propria giovinezza, intesa come periodo di sogni e speranze, ma sono divenuti subito adulti e hanno dovuto lottare duramente per sopravvivere. Nel 2011 i giovani nelle piazze delle Tunisia, Libia, Egitto, Siria, Bahrein, Yemen hanno detto basta e hanno voluto farsi sentire, hanno urlato al mondo il loro oblio. Non ci sono stati partiti alla guida delle manifestazioni, non ci sono stati leader di spicco che hanno fatto rivoluzioni o preso il potere, in quelle piazze nei primi mesi di quell’anno ci sono stati solo i giovani. In poco tempo la comunità internazionale si è mobilitata per sostenerli, i mass media occidentali hanno aperto i riflettori su una nuova realtà, i social network hanno raccontato i momenti più concitati della

protesta. Il primo governo a cadere è stato quello della Tunisia di Ben Alì, l’unica primavera araba che sembra terminata con un lieto fine dopo l’insediamento di un governo democraticamente eletto e laico, sebbene nell’ultimo ci sia stata un forte di tensione con i gruppi terroristici della zona. È andata peggio in Egitto dove, dopo aver visto la caduta di Mubarak e la convocazione delle elezioni, le speranze dei giovani sono state bloccate dal voto delle campagne che hanno contrastato in massa l’idea di una democrazia laica e hanno sostenuto il leader dei Fratelli Musulmani Mohamed Morsi, il quale dopo aver indetto un processo di riforma costituzionale di matrice islamista è stato fermato da un colpo di stato dei militari che hanno instaurato una nuova dittatura capeggiata dal generale Al-Sisi. In Siria, Libia e Yemen gli epiloghi sono stati ancora più tragici dato che le rivolte durate per mesi sono sfociate in guerre civili e settarismi tutt’ora in corso.

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I giovani arabi non sono stati ascoltati, prima sono stati strumentalizzati dall’Occidente per fare cadere i regimi scomodi che non permettevano alle multinazionali americane del petrolio di poterlo estrarre dai giacimenti locali e poi sono stati abbandonati al loro destino fatto di guerre o nuove dittature. Oggi ai giovani delusi da questa mancata occasione storica spettano solo due scelte: possono arrendersi alla realtà dei fatti entrando a far parte delle milizie che sostengono l’una o l’altra fazione che si contende il potere, nel peggiore dei casi vendendo le proprie speranze al sedicente Stato Islamico e finendo la propria vita alla guida di un’autobomba per uccidere altra gente in cambio di qualche soldo da poter dare alla propria famiglia; oppure le famiglie vendono tutto ciò che hanno per racimolare i soldi per i viaggi della speranza, in questo modo possono intraprendere la traversata del Mar Mediterraneo e cercare di ricreare una nuova vita nei paesi occidentali. Il futuro e i sogni dei giovani che hanno creduto in una primavera per i propri paesi sono stati annientati dall’aridità e rigidità che l’inverno degli adulti ha fatto calare sulla loro speranza.

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MUSICA MARIO SCUCCES Conservatorio

Il Potere delle Note

Quando un bambino inizia a studiare musica, solitamente comincia con l’allenarsi alla percezione di alcune importanti caratteristiche musicali tra loro opposte: le note acute e quelle gravi, oppure il forte e il piano, o altre differenze armoniche e melodiche. Quando chiunque si avvicina a un pianoforte, noterà prima di tutto che ci sono alcuni tasti bianchi e altri neri; sicuramente chi non si occupa di musica è possibile che penserà che i tasti neri abbiano una funzione diversa da quella dei tasti bianchi, invece in realtà non è così. Le note, come ci insegna la musica di Schonberg e in generale il percorso musicale successivo al Romanticismo, non sono 7 ma 12, e i tasti neri hanno la stessa dignità musicale e lo stesso ruolo di quelli bianchi. Quando andiamo ad ascoltare il concerto di un’orchestra, noteremo sicuramente una grande varietà di strumenti, e di musicisti. Ogni strumento, diverso dagli altri, ma in sintonia con gli altri, riesce a trasmetterci quella sensazione di pienezza, di perfezione che solo un’orchestra, intesa non come moltitudine di strumenti, ma come una perfetta unità, ci può dare. O se pensiamo a un brano per pianoforte solo, ci viene in mente la grande quantità di note che il pianista suona contemporaneamente per poter creare delle armonie interessanti. Ecco, questi brevi spunti elencati qui sopra mi fanno spesso riflettere e mi permettono di declinare al meglio nel quotidiano tutto ciò che la musica riesce a darmi, o, per meglio dire, tutto ciò che riesco a ricevere dalla musica; perché in fondo la missione di un musicista è quella di fare musica per parlare alla gente, l’arte non può mai essere considerata un piacere egoistico fine a sé

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stesso. Allora anche solo da uno strumento musicale come il pianoforte chiunque può imparare a capire che, soltanto dalle differenze, -suoni acuti e gravi, dinamiche opposte, il forte e il piano- si può creare unità; da un pianoforte possiamo capire che i bianchi e i neri, intesi come tasti o come persone, hanno la stessa e identica funzione e dignità; oppure da un’orchestra possiamo imparare che in fondo gli uomini, nella loro diversità, possono unirsi e dialogare proprio come accade in un’orchestra. Probabilmente Kim Jong, presidente della Corea del Nord, o lo stesso Donald Trump non hanno mai riflettuto su questi aspetti che la musica può offrire, forse perché non leggeranno mai questa pagina o altre pagine simili. La cosa importante è che, voi che leggete, possiate non soltanto sentire o ascoltare la musica, ma iniziare a guardare alla musica come uno dei principali mezzi di pace e di dialogo. E’ quello che ogni vero musicista cerca di fare giorno dopo giorno: dialogare con gli altri attraverso un linguaggio che è universale, che prescinde dalle note scritte in un pentagramma, e soprattutto, un linguaggio che fa delle differenze la ricchezza più grande.


GUARDA E IMPARA

MASSIMILIANO PUPPI Teologia

Consigliare un film non è un affare semplice, per questo lascio sempre che lo faccia Lucilla. Questa volta però tocca a me e lo farò con il mio stile. Per raccontare l’integrazione, la speranza e i tanti temi del nostro congresso potrei citarvi molti film, ma nessuno sarebbe più adatto del grande classico cinematografico del 1967 Indovina chi viene a cena?. Un film dalle ambientazioni semplici e dai tempi a volte un po’ troppo anni sessanta, ma che proprio nei dialoghi riesce a dare il meglio di sé. È la storia di “Joey” Drayton, ragazza bianca, cresciuta in un’agiata famiglia liberale di San Francisco, che si innamora di John Prentice, un medico afroamericano. Conosciutisi appena dieci giorni prima alle Hawaii, decidono di sposarsi; si recano così a San Francisco, dove Joey intende presentare il fidanzato al padre, Matt, proprietario di un giornale e alla madre, Christina, che possiede una galleria d’arte: John vorrebbe l’incondizionata approvazione dei genitori di lei prima del matrimonio. Christina aderisce all’entusiasmo della figlia, ma Matt, troppo preoccupato per le difficoltà a cui la coppia andrebbe incontro, non è dell’idea di dare la propria approvazione. La situazione diventa ancora più intricata quando arrivano i genitori di John, invitati da Joey, i quali ignorano che la ragazza è bianca. Già da questo primo assaggio del film, assaggio che rimarrà taleper evitare spoiler, potete intravedere la ricchezza di una riflessione che sa spaziare dal

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romantico fino al politico, dal drammatico alla commedia, senza mai annoiare o stancare. Prima di allora il cinema non aveva mai trattato lo spinoso problema dei matrimoni misti. “Indovina chi viene a cena?” ci ha provato con molta cautela, affidandosi a due “testimoni” al di sopra di tutto: Katharine Hepburn e Spencer Tracy. Il problema del matrimonio misto fa emergere anche sensazioni lontane dal problema, ma che nella discussione si condensano. Alla fine naturalmente ogni cosa termina nel migliore dei modi e tutti si comportano alla perfezione. La storia dolcemente composta, ma inedita nei film, rappresenta qualcosa di molto importante, anche se il filtro è quello della tradizione hollywoodiana del lieto fine. L’amore è una cosa ben più importante della diversa pigmentazione della pelle, questo ci insegnala morale del film, una morale ancora molto attuale, che a mio parere può acquistare più significato se alla parola amore sostituiamo la parola accoglienza, soccorso, compassione. “Indovina chi viene a cena?” è un film classico, e come tutti i classici non smette mai di raccontare qualche cosa; è un film profetico perché sa leggere la società e criticarla saggiamente, è un film piacevole che non vi farà rimpiangere il tempo speso nel vederlo. “Ma voi siete due esseri perfetti, che vi siete innamorati, e che purtroppo avete una diversa pigmentazione. E adesso io credo che qualunque obiezione possa fare un bastardo sulla vostra intenzione di sposarvi, solo una cosa ci sarebbe di peggio, e cioè che voi due, sapendo quello che fate, sapendo ciò che vi aspetta, e sapendo quello che sentite, non vi sposaste.” (Mat)


IL PIACERE DELLA LETTURA FRANCESCA BERTUGLIA Lettere Da questa strada blu solo la luna ci ha visti passare. Sembra lo slogan di una pubblicità, ma non lo è. La strada blu è una metafora: è il mare, il Mediterraneo, questo mostro che ormai parla solo di morte. Solo la luna ci ha visti passare invece è il titolo di un libro edito da Mondadori, scritto da una certa Maxima in collaborazione con la giornalista freelance Francesca Ghirardelli. Si dice che il tema della migrazione e del Mediterraneo sia sempre lo stesso. Eppure ogni storia non è sempre la stessa, anche se tutti quegli uomini che attraversano paesi in guerra subiscono un destino crudele comune. Ogni persona ha il proprio viaggio da affrontare e da vivere. Sopravvivere ad esso è solo una parte, perché la sfida sta ricominciare dopo. Maxima è una ragazza siriana di origine curda che a soli quattordici anni ha percorso la tratta dei Balcani per sfuggire dall’incubo della guerra civile, e che, grazie all’aiuto e alla professionalità della Ghirardelli, ha avuto l’occasione di raccontare e riscattare se stessa, dimostrando come la determinazione sia l’arma della salvezza per uscire da un sentiero buio. La Siria, con Aleppo devastata e con la base militare dell’Isis al suo interno, da mesi ormai è uno dei luoghi più pianti del mondo. Ma Maxima non vuole piangerlo soltanto il suo paese, lo vuole difendere, lo vuole ricordare. E soprattutto vuole ricordare che tutto questo non è retorica, perché in prima persona lei e altri migliaia di rifugiati l’hanno vissuto sulla pelle, sperimentando la fatica, la povertà, la paura ma anche la soddisfazione di avercela fatta grazie a chi ha provato solidarietà e coraggio. Ungheria, Austria, Germania, Serbia, Macedonia, Mar

Egeo e finalmente Olanda (dove la ragazza si trova attualmente) sono le terre attraversate da Maxima prima rinchiusa in un camion, invisibile e muta, come se non avesse nemmeno un’ombra, poi su un gommone e infine camminando. Sudore, sangue e lacrime sembra essere la sintesi di quelle centinaia di chilometri che sembrano non finire mai, percorsi senza alcuna certezza. Le parole di speranza e di forza, pronunciate da chi sa nel concreto cosa esse significhino, appaiono disarmanti. La violenza di un viaggio come quello del Mediterraneo però è reale ed è altrettanto disarmante restare inerti davanti a questo dramma. Ecco, esseri umani come Maxima ci chiedono proprio di non rimanere indifferenti. E ritornando a quella terribile distesa d’acqua blu, che dire. Nessuno ha parlato, solo la luna li ha visti passare quei corpi ammucchiati come stracci, ed è rimasta in silenzio, come la poesia vuole. Semplicemente li ha ascoltati, custodendo il loro segreto, quello della vita.

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RIDICI SU... domandare è lecito 1) Ma Amedeo Modigliani scrisse “sempre caro mi fu quest’elmo collo”? 2) Ma gli operai che fanno i biscotti Krumiri non scioperano mai? 3) Ma il Monte Grappa è alticcio? 4) Ma il bullismo a scuola lo praticano i più “bravi” della classe? 5) Ma le “Tribute Band” sono organizzate da Equitalia? 6) Ma se uno viene travolto da una macchina, che poi si dà alla fuga, mentre cammina per le strade di Cuba, sono stati i Pirati dei Cairaibi? 7) Ma chiamarlo “casco” non è un cattivo auspicio? 8) Ma ai protestanti non gli sta mai bene niente? 9) Ma nelle località turistiche del Mar Morto, c’è vita? 10) Ma in Paradiso, san Vittore è guardato con sospetto?

che bellissimo essere dio


CALENDARIO

Gruppo FUCI Università Cattolica 27 APRILE 4-7 11 18 8

MAGGIO MAGGIO MAGGIO LUGLIO

INCONTRO DI PREPARAZIONE AL CONGRESSO NAZIONALE CONGRESSO NAZIONALE ASSEMBLEA DI FINE ANNO FESTA DI FINE ANNO ASSEMBLEA PROGRAMMATICA DIOCESANA

Gli incontri si tengono il GIOVEDÌ dalle 17 alle 18.30 presso la Saletta F.U.C.I. (secondo chiostro, pianterreno scala F, vicino ingresso Gnomo)

Gruppo FUCI Università Statale 4-7 11 14 25 8

MAGGIO MAGGIO MAGGIO MAGGIO LUGLIO

CONGRESSO NAZIONALE LECTIO COMUNITARIA ASSEMBLEA REGIONALE A LODI APERITIVO DI FINE ANNO ASSEMBLEA PROGRAMMATICA DIOCESANA

La Lectio si terrà alle 18 nella chiesa di S. Maria Annunciata - via Festa del Perdono 7 L’aperitivo di fine anno si terrà alle ore 19 in sede F.U.C.I. via S. Antonio 5, secondo piano.


La F.U.C.I. è una federazione di gruppi universitari che, con lo stesso sentire e con uno stile condiviso, vogliono vivere l’Università come luogo di crescita umana attraverso l’aggiornamento e la riflessione, con impegno e propositività. Il gruppo si inserisce pienamente nella realtà della chiesa locale e ne condivide il cammino. Dunque è Chiesa in Università e Università nella Chiesa. Questa natura confessionale non impedisce comunque la partecipazione anche a chi non condivide lo stesso cammino di fede. La F.U.C.I. mira anche a formare cittadini responsabili, qualunque sia il loro campo di impegno. Propone quindi ai suoi aderenti percorsi per imparare a “pensare la politica”.

Come Contattarci: FUCI MILANO DIOCESI E-mail: fucimilano@gmail.com Presidente: Chiara Di Vito (chiara.grace.divito@gmail.com /346 490 0749) UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE E-mail: presidenzafuci.ucsc@gmail.com telefono: 02 7234 2565 Presidente: Giovanna Minotti (minottigiovanna@hotmail.it) UNIVERSITÀ STATALE E-mail: fucimilanostatale@gmail.com telefono: 02 5839 1311 Presidente: Miriam Maistrelli (miriam.maistrelli@hotmail.it)

Collabora con noi!

scrivi a: fuoriorario.fucimilano@gmail.com


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