n.62 SETTEMBRE

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Mensile • Anno VII • N°62 Settembre 2012 • Euro 3,50

Focus Vini rossi identità del territorio

Ospitalità La Suite raffinato rifugio procidano Tecnologie Il futuro irrompe in cucina

Foto di Alex Peroli

Emergenti Nuova Zelanda enologia rampante

PER I PROFESSIONISTI E GLI APPASSIONATI

9 771971 763003

ISSN 1971-7636

20062

Lorenzo Cogo

Giovani galletti crescono a El Coq



editoriale

Chiaroscuro Barbara Amati amati@foodandbev.it

D

iceva Wiston Churchill: “Il tempo dei rinvii e delle mezze misure è finito. È il tempo delle conseguenze”. Ed eccole qui, le conseguenze. Un’Italia immobilizzata dalla paura del domani, dalla mancanza di denaro e di risorse, dalla penuria di progetti, dalla speranza di intravvedere una via di uscita. E, soprattutto, per i cittadini comuni, la convinzione di essere al centro di un’ingiustizia che fa ricadere sulle loro spalle, senza toccare privilegi intoccabili, la responsabilità di risistemare i conti di un’Italia che rischia di affondare. Ognuno di noi fa il proprio dovere e riduce le proprie spese (sebbene i consumi in calo aggravino la situazione delle aziende in un circolo vizioso) limitando gli sprechi e cercando di far quadrare i conti, perché ciò che entra è sempre uguale e ciò che esce è sempre di più. Gli italiani, però, secondo

la recente analisi del Censis, preoccupati dalla crisi economica, dalla corruzione politica e dall’immigrazione, considerano necessari moralità e onestà, rispetto per gli altri e solidarietà. Valori che sono alla base di una società sana, di un senso di responsabilità che può agevolare la crescita. Se è vero che la corruzione è un male che trabocca ogni giorno dalle cronache, ci lasciano allibiti -noi poveri mortali- tutti quei “ non so, non sapevo, non ero io preposto a controllare”. Ma bisogna prendere coscienza che sono soldi sottratti a tutti noi: milioni di euro dati agli amici in una girandola di favori che crea tesoretti di cui nessuno sa mai nulla, in una distrazione di cui non ci si capacita, se non intuendo pesanti connivenze. Con una supponenza che non ha altro risultato che lasciarci indignati. Ma chi paga tasse e conti fino all’ultimo euro, con una trasparenza estrema, chi si vede Preoccupati dalla arrivare cartelle esattoriali sempre più pesanti, e le paga perché così gli è stato impocrisi economica, dalla sto, non può limitarsi all’indignazione. Occorre che questo malcostume (per dirlo in corruzione politica e leggerezza) sia fermato, occorre una nuova coscienza civile che ci induca a giudicare dall’immigrazione, gli chi ruba i nostri soldi (perché di questo si tratta) un ladro, e sia quindi giustamente punito. Perché divora il futuro dei nostri figli, che continuano a fuggire all’estero italiani considerano (4-5 per cento) dove trovano lavoro per merito, impoverendo ulteriormente il Paese. necessari moralità Nell’immobilismo che ci circonda per loro non c’è posto. e onestà. Valori È dunque una priorità rilanciare l’industria, anche attraverso una ripresa dei consumi fondamentali per il che si restringono sempre di più. Secondo Assolowcost, nel 2012, il 63 per cento degli rilancio della credibilità italiani ha speso meno in nuovi abiti, il 60 per cento ha ridotto le spese per l’intrattenidel nostro Paese mento e i pasti fuori casa, il 54 per cento è passato a prodotti più economici nel largo consumo e il 44 per cento usa meno l’auto. Consumatori che sono orientati ad acquistare prodotti e servizi di qualità italiana, ma a prezzi minimi, ai quali le aziende rispondono riorganizzandosi sui nuovi budget di spesa proponendo prodotti a prezzi bassi ottimizzando processi industriali e distributivi. Quello, però, che le imprese non dovrebbero contenere sono gli investimenti per la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione di prodotto come quelli per la promozione e la pubblicità che portano visibilità e nuove possibilità di mercato, soprattutto per gli investitori stranieri. Bisogna reagire per rendersi visibili e appetibili per il consumatore, infondendo fiducia nei mercati, ma, soprattutto, far conoscere i prodotti e la loro qualità, da sempre la più produttiva promozione di marketing. F&B Si dice che l’Italia sia già ripartita. Vogliamo sperarlo.

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44 Food&Beverage vi dà appuntamento al 12 ottobre 2012 Direttore Editoriale Aureliano Amati direzione@foodandbev.it Direttore Responsabile Barbara Amati amati@foodandbev.it

Sommario

Collaboratori di Redazione Giulia Maria Basile, Federica Belvedere, Silvana Caminada, Irene Catarella, Stefano Masin, Bibi Monti, Simona Percivalle redazione@febeditoriale.com via Simone d’Orsenigo 5 - 20135 Milano tel. 02 47787220 - fax 02 47787237 segreteria@foodandbev.it Collaboratori Adriano Baffelli, Francesca Barni, Nicola Dante Basile, Paolo Becarelli, Maria Cristina Beretta, Donatella Bernabò Silorata, Elena Bianco, Pietro Bongiorno, Jerry Bortolan, Luigi Caricato, Manuela Caspani, Francesco Colombera, Alberto Corrado, Beppe Francese, Laura Gambacorta, Luca Gardini, Marco Ghedini, Fabiano Guatteri, Rocco Lettieri, Alessandro Luongo, Giulia Marcucci, Monica Mazzanti, Gianna Melis, Betty Mezzina, Giorgio Montanari, Anna Pesenti, Arabella Pezza, Cesare Pillon, Paola Poli, Carlo Ravanello, Beatrice Rioda, Patrizia Romagnoli, Giulio Cesare Saviozzi, Roger Sesto, Gualtiero Spotti, Biagio Testa, Franco Tosca, Bianca Trao, Ezio Zigliani, Bianca Zille Foto: Claudio Ciraudo & Max Majola, Michele Esposito, Fototeca Trentino Spa, New Zealand Winegrowers, Pernod Ricard NZ Ltd, Alex Peroli, Renato Vettorato Responsabile Amministrativo e Commerciale Aldo Ballestra ballestra@febeditoriale.com Pubblicità Italia F&B Editoriale tel. 02.47787220 Grafica e impaginazione Pigierre Srl - via Angelo Maj 12 20135 Milano Stampa Tiber Spa - via Volta 179 25124 Brescia Distributore esclusivo per l’Italia Press di Srl - Segrate (Mi) Editore F&B Editoriale Srl Sede legale p.zza San Camillo de Lellis 1 20124 Milano Reg. al Trib. di Milano n. 720 del 27/9/2005 Lunedì 10 settembre 2012 Euro 3,50 4 | Food&Beverage settembre 2012

Editoriale Chiaroscuro Barbara Amati

pag. 3

incontri I sapori di Bottura a Russiz Superiore Francesco Colombera

pag. 18

pasta Lo Spaghettone con la cravatta Irene Catarella

pag. 21

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COVER STORY Lorenzo Cogo, piccoli galletti crescono Gualtiero Spotti

pag. 30

chianti Melini interpreta il Governo alla Toscana Nicola Dante Basile

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milano Al grande cerchio per nutrire l’anima Irene Catarella pag. 38

SANGIOVESE La Riserva di Umberto Cesari Stefano Masin

pag. 42

SPECIALE Vini rossi, identitari del territorio Roger Sesto

pag. 44

territori Il Monferrato della Tenuta Tenaglia Stefano Masin

pag. 52

ROMA Maxelâ raddoppia e conta fino a dieci Jerry Bortolan pag. 54

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FOOD&BEVERAGE online Siamo in internet al sito www.febeditoriale.com

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Food&Beverage è un prodotto F&B Editoriale srl Sede operativa via Simone d’Orsenigo 5 20135 Milano Recapiti Centralino Redazione Commerciale/Amministrazione Fax

F&B

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attualità TECNOLOGIE Hi-tech, il futuro irrompe in cucina Bianca Zille

pag. 56

VINi Nuova Zelanda, rampante quarantenne Paolo Becarelli

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rubriche

pag. 68

Scelte di gusto Spirit Barman Spirit Place Libri Pillole di storia Allo specchio

OSPITALITà L’antico spirito sardo a Su Gologone

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Gualtiero Spotti

pirelli Uno sguardo da gourmet sul mondo della F1 Simona Percivalle

Uomini e Vigne pag. 8 Novità da stappare pag. 14 Food Valley pag. 16 Lodge & Spa pag. 24 Business News pag. 26 Il mondo in pentola pag. 28 Cultura & Gusto pag. 94

pag. 6 pag. 88 pag. 90 pag. 96 pag. 97 pag. 98

pag. 70

firenze Toscanità prêt-à-manger al Museo Gucci Giulia Marcucci

pag. 72

sfiziofood Il Pomodorino del Piennolo Laura Gambacorta

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pag. 74

ITINERARI Caleidoscopica Hong Kong Elena Bianco pag. 78

SHANGHAI Inaugurato il New Italian Center Irene Catarella

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pag. 83

SPIRITSAKE Il sake di Hiroshima e la sua regina Elena Bianco

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quartieri alti La Suite, per gustare Procida Barbara Amati

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scelteDIGUSTO Il ristorante preferito, la bevanda più amata, l’abbinamento perfetto: ogni mese Food&Beverage dà voce ad alcuni imprenditori del nostro settore e a personaggi noti per conoscere le loro preferenze gourmet e scoprire gusti e abbinamenti che talvolta ci possono sorprendere

Atleta

Alessandra Sensini Sfiziosa salutista

Il ristorante del cuore Aquaniene, Roma Il piatto della passione Bistecca ai ferri La bevanda preferita Birra Piatto e bicchiere mon amour Pasta con sugo alla salsiccia e Rosso di Maremma Drink preferito Mojito A tavola con… gli amici

Produttrice vitivinicola

Francesca Planeta Sofisticata tradizionalista Il ristorante del cuore Roger La Granouille, Parigi Il piatto della passione Cozze al limone La bevanda preferita Vino bianco ghiacciato di Sicilia Piatto e bicchiere mon amour Pizza e Cerasuolo di Vittoria Drink preferito Mojito A tavola con… mio marito Gian Paolo e i miei figli Pietro e Angelo

Imprenditore

Giovanni Rana Golosa solidità Il ristorante del cuore Tre Corone di Giovanni Rana, Verona Il piatto della passione Risotto alla mantovana La bevanda preferita Franciacorta Cà del Bosco Piatto e bicchiere mon amour Tortellini ricotta e spinaci e bollicine rosé Drink preferito Spritz A tavola con… delle donne

Showman

Marco Columbro Accoglienza toscana Il ristorante del cuore La mia casa Il piatto della passione Caciucco La bevanda preferita Vino rosso toscano Piatto e bicchiere mon amour Rosa di salmone al vapore e Anthilia di Donnafugata Drink preferito Rossini A tavola con… la persona che mi ama e gli amici

FOOD&BEVERAGE È ANCHE ON LINE www.febeditoriale.com

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Abbiamo sperimentato

Abbiamo scelto

Abbiamo atteso

www.umbertocesari.it


uominievigne champagne

L’eccellenza di Piper-Heidsieck È

stato il pluripremiato head winemaker di Piper-Heidsieck, Régis Camus, a guidare una straordinaria degustazione di quattro etichette davvero speciali -questi Champagne sono distribuiti da Branca- al Westin Palace di Milano. Due Millesimati, un Brut e un Rosé. Il primo è stato il Piper-Heidsieck Rare 2002, uno Champagne la cui storia inizia nel 1976, un’annata particolarmente torrida che ha messo a dura prova le uve e gli enologi della maison i quali, tuttavia, hanno saputo volgere la natura “capricciosa” a loro vantaggio. Le uve, 70 per cento chardonnay e il rimanente pinot nero, si sono evolute nel tempo dando sentori di frutti esotici che al palato lo rendono profondo, ampio ed elegante. Fresco e vivace, con profumi di pera e mela, è il pluripremiato Piper-Heidsieck Brut, espressione massima dello stile della maison che nasce da un accurato assemblaggio di oltre 100 cru rigorosamente selezionati e vinificati singolarmente. Questo sans année è composto per la maggior parte di uve di pinot nero che conferiscono struttura e forza, mentre alcune parti selezionate a mano di pinot meunier e chardonnay assicurano un risultato di grande equilibrio. Il Piper-Heidsieck Brut Vintage 2002, invece, è uno Champagne da intenditori, con la struttura e l’ampiezza che caratterizza i grandi millesimati, con sentori di papaya e noce di cocco, e sensazioni di burro, miele d’acacia e tè bianco al palato. Una vera sorpresa il Piper-Heidsieck Rosé Sauvage, audace, elegante e vivace, di un color rosa intenso e dal forte aroma di frutti rossi freschi come ribes nero, mora, amarena e fragola.

cinema

cultura

A Umberto Eco il premio Zorzettig-@uxilia

È

stato assegnato a Umberto Eco il Premio Zorzettig-@uxilia dedicato alla cultura e alla solidarietà. Alla sua prima edizione, il riconoscimento è stato promosso da Annalisa Zorzettig (nella foto) titolare della cantina Zorzettig di Spessa di Cividale, a Cividale del Friuli (Ud). Massimiliano Fanni Canelles, presidente della Onlus @uxilia, ha spiegato che gli obbiettivi dell’iniziativa sono di offrire un segno di gratitudine a quanti si sono distinti a livello nazionale e internazionale nel campo della cultura. Questa la motivazione della giura per l’assegnazione del premio: “Umberto Eco, uno dei più significativi rappresentanti della cultura italiana nel mondo che ha saputo trasmettere la conoscenza, elaborata e praticata nelle forme più diverse per educare e condurre l’Uomo alla consapevolezza del primato della coscienza”.

marche

Con Vinodentro il Trentino diventa un set La Fondazione Edmund Mach-Istituto agrario di San Michele all’Adige, in Trentino sarà, assieme ad altre luoghi della regione, un vero set cinematografico. Fino al 6 ottobre, infatti, si svolgeranno le riprese del film Vinodentro, diretto dal regista, sceneggiatore e produttore Ferdinando Vicentini Orgnani. Liberamente ispirato al romanzo Vino Dentro di Fabio Marcotto, è una storia tra il noir e la commedia, in cui i vini trentini saranno i protagonisti accanto ad attori noti come Giovanna Mezzogiorno. Ed è la prima volta che il mondo del cinema italiano affronta un argomento come il vino.

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Appassimenti aperti per scoprire la Vernaccia Due domeniche, l’11 e il 18 novembre, rendono omaggio alla Vernaccia di Serrapetrona Docg e del Serrapetrona Doc con Appassimenti aperti, la manifestazione marchigiana che narra il legame profondo tra il territorio e uno dei suoi prodotti simbolo. La manifestazione marchigiana permette di visitare le cantine, che per l’occasione si aprono al pubblico con intere pareti di grappoli appesi, i famosi “appassimenti”, l’antica tradizione di mettere ad appassire le uve per mesi prima di procedere alla vinificazione. In degustazione lo spumante rosso dai toni speziati e dalla spiccata mineralità.


concorsi

Riparte con Stefano Binda lo Sparkling Menu di Villa

I

piatti creativi di Stefano Binda della nuova trattoria Dac a Trà a Castello di Brianza (Lc) hanno accompagnato la prima tappa della decima edizione del concorso Sparkling Menu organizzato da Villa Franciacorta. Scopo dell’evento, la cui finale si svolgerà a settembre 2013 nella sede dell’azienda a Monticelli Brusati (Bs), è quello di far elaborate agli chef in concorso dei menu in cui ogni portata sia abbinata a uno dei pregiati Franciacorta Villa. Lo chef Binda ha realizzato una parmigiana estiva con anguilla leggermente affumicata abbinata al Franciacorta Diamant Pas Dosé. A seguire degli gnocchi morbidi di piselli, pancia di maialino croccante e salsa allo scalogno ed erbe, accompagnati dal Franciacorta Satèn Brut, mentre il filetto di fassone in crosta di pane, noci di macadamia e crema di fave e pecorino, abbinato al Franciacorta Cuvette Brut.

toscana

Peretti acquista la Tenuta Ridolfi

L’

imprenditore veneto Giuseppe Peretti, il cui core business è la moda, al pari di tanti suoi colleghi è stato contagiato dalla passione per il vino che gli ha fatto comprare, anni fa, la storica Tenuta Ronchetto a Larciano, nel Chianti Docg, in Toscana, 22 ettari di cui 5 coltivati a vigneto e 11 a ulivo. Ma la passione per il vino non si è fermata, così ha recentemente acquistato anche l’azienda agricola Ridolfi a Montalcino, sulla Strada del Brunello, una tenuta di 54 ettari di cui 21 coltivati a vigneto. La zona è collinare, a trecento metri sul livello del mare e la produzione si divide tra Brunello di Montalcino Docg, Riserva Docg e Rosso di Montalcino Doc. Anche questa, come la Tenuta Ronchetto, è caratterizzata da una filiera produttiva che punta a valorizzare la tradizione, come la raccolta a mano delle uve, pur senza rinunciare alle moderne tecnologie.

langhe

Rapalino, fra tradizione e modernità

I

n un anfiteatro di colline vitate delle Langhe, a Neviglie (Cn), si trova l’Azienda agricola Rapalino i cui vini raccontano storie di territorio e la passione autentica di chi lavora la vigna e produce il vino. L’azienda è a conduzione famigliare da generazioni, con i fratelli Claudio e Marco aiutati da papà Giorgio: grande attenzione per la tradizione e per le moderne tecniche di vinificazione per il Barbaresco, la Barbera d’Alba, il Nebbiolo, il Dolcetto e il Moscato. Nascono nei vigneti di Treiso, nella sottozona del Barbaresco denominata Ferrere, le uve per il Barbaresco 2007, portato a maturazione in botti di rovere da 500-700 litri, per 30 mesi. Il vino passa poi 4 mesi in vasca di acciaio e 12 mesi in bottiglia prima della commercializzazione. Dal colore granato intenso con riflessi rubino, è complesso, con sentori di spezie dolci, erbe officinali, rabarbaro e cacao; in bocca è potente, con un tannino dolce, consistente e una persistenza infinita, con un interessante retrogusto ammandorlato.

olimpiadi

Casa Italia festeggia con Carpenè Malvolti Gli atleti azzurri hanno brindato alle loro vittorie alle Olimpiadi 2012 di Londra con Carpenè Malvolti. L’azienda veneta, infatti, è stata fornitore ufficiale della Squadra Italia Coni durante i giochi olimpici, ed è stata presente per tutta la durata dell’evento a Casa Italia, nel cuore di Londra: un’imponente struttura, spazi per eventi, conferenze, ristoranti, dove si sono svolte degustazioni con eccellenze made in Italy. Carpenè Malvolti ha fornito a Casa Italia quattro vini rappresentativi: le bollicine di Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg Extra Dry e Cuvée Brut Docg, Superiore di Cartizze Docg e Rosè L’Arte Spumantistica Carpenè Malvolti, che hanno accompagnato pranzi e cene esclusive.

aperitivi

Aperitage, stile vintage all’Enterprise Riprendono il 20 settembre all’hotel Enterprise di Milano gli Aperitage, aperitivi in stile vintage per rivivere le migliori epoche della dolce vita. Il format sarà un modo insolito di vivere lo spirito originario dell’aperitivo, nonché un’occasione per intraprendere un appassionante viaggio tra le tendenze che nelle varie epoche hanno caratterizzato questo rituale metropolitano ormai parte integrante delle abitudini dei milanesi e non solo. Cinque giovedì (il terzo del mese) per cinque tappe in cui la storia della musica farà da fil rouge, raccontando un fenomeno di costume rappresentativo di un decennio del ‘900. E da cosa iniziare se non dai mitici ragazzi di Liverpool? L’evento inaugurale sarà dedicato ai Beatles con performance dal vivo, videoproiezioni e una mostra fotografica.

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uominievigne MARCHI

champagne

Pernord Ricard lancia Aperitivo Ramazzotti

Pommery, due chef per un menu d’artista

Aperitivo Ramazzotti, realizzato nello stabilimento di Canelli (Asti), è la nuova proposta green che Pernord Ricard lancia per dare rinnovata linfa al marchio. Si tratta di un aperitivo dall’avvolgente colore ambrato, realizzato esclusivamente con arance calabresi e aromatizzato con erbe di provenienza biologica, privo di qualunque traccia di coloranti. Con questo prodotto l’azienda vuole dimostrare la sua attenzione al territorio e all’ambiente con il rispetto alla naturalità degli ingredienti che lo compongono. Pernord Ricard Italia punta, così, a conquistare un nuovo segmento di mercato, quello dell’aperitivo.

L

chianti

Fattoria Montemaggio, team al femminile

N

vitignoitalia

Incontro-degustazione con i vini premiati 2012 Il 26 ottobre il Grand Hotel Santa Lucia sul lungomare di Napoli accoglierà la serata di degustazione organizzata da Vitignoitalia per festeggiare le aziende vincitrici dell’VIII concorso dei vini premiati nel maggio scorso nell’ambito del Salone dei vini e dei territori vitivinicoli italiani. Sono aziende importanti e piccole realtà in crescita, grandi nomi nazionali e produttori di nicchia. Alla serata parteciperanno i produttori e sui banchi da degustazione ci saranno tutte le etichette premiate: rossi, bianchi, rosati, bollicine e passiti. Dal Testamatta 2009 di Bibi Graetz di Fiesole, speciale Miglior rosso assoluto 2012, al Ben Rye 2009 di Donnafugata, Gran Medaglia d’oro ex aequo con Franciacorta Docg Riserva Francesco Iacono 2004 dei Fratelli Muratori (www. vitignoitalia.it).

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a cucina di Alberto Fol, chef de La Cusina del Westin, ha incontrato la cucina dello chef stellato Fabio Baldassarre dell’Unico di Milano per accompagnare gli Champagne Pommery. L’evento Due Artisti per un Menù Unico: ispirato a SpontaneousInterventions, all’Hotel The Westin Europa & Regina di Venezia, è stato organizzato per celebrare la presenza del Padiglione Usa alla Biennale di Architettura. Fol e Baldassarre si sono dunque ispirati alle SpontaneousInterventions, 124 testimonianze di micro-interventi di architettura realizzati sul territorio statunitense. Dall’aperitivo al dessert, ogni portata è stata abbinata a una diversa interpretazione di Champagne della maison, come il Pommery Noir, l’Apanage Blanc, la Cuvée Louise e il Vintage Gran Cru 1999. Nella foto, il brindisi tra Mimma Posca, direttore commerciale Italia Pommery, e Giuseppe De Martino, general manager dell’hotel veneziano.

el comune di Radda, tra Siena e Firenze, nel cuore del Chianti, la Fattoria di Montemaggio è un esempio di azienda che segue i dettami dell’agricoltura biologica, certificata dal 2009, con un utilizzo minimo di prodotti chimici e il massimo rispetto per la natura. Ma è ancora più interessante il fatto che si tratta di una realtà di 70 ettari, di cui 9 coltivati a vite, guidata da donne: Valeria Zavadnikova, giovane proprietaria di origine russa ma con un background internazionale, e Ilaria Anichini, agronomo e direttore dell’azienda. Dal 1996, l’enologo Andrea Paoletti segue la produzione sia in vigna sia in cantina. I vigneti della Fattoria di Montemaggio sono ricchi di galestro, alberese e arenarie e sono coltivati per lo più a sangiovese, con piccole porzioni di merlot, pugnitello, chardonnay, malvasia nera e ciliegiolo.

nomine

Alberto Cordero presidente di Albeisa

È

Alberto Cordero di Montezemolo, dell’Azienda agricola Monfalletto, il nuovo presidente dell’Albeisa. Cordero ha raccolto il testimone dal presidente uscente Enzo Brezza titolare della Brezza. L’Albeisa, fondata nel 1973 per promuovere e valorizzare i vini dell’albese attraverso l’omonima e caratteristica bottiglia, è conosciuta in tutto il mondo anche per essere l’organizzatrice dell’evento Nebbiolo Prima, anteprima mondiale di Barolo, Barbaresco e Roero. “Puntare sull’internazionalizzazione sarà uno dei primi impegni anche per il futuro -dice Alberto Cordero di Montezemolo- La mia volontà è di essere in prima fila con tutto il consiglio di amministrazione e rafforzare il lavoro di squadra, perché anche i consiglieri più giovani contribuiscano alle scelte accanto a chi ha maturato una maggiore esperienza”.



uominievigne marche

appuntamenti

Ciù Ciù, il territorio al centro dell’attenzione

Grapperie aperte in tutt’Italia il 7 ottobre

Una produzione di circa 600 mila bottiglie, 130 ettari coltivati e una linea di più di dieci etichette. Questa è Ciù Ciù, azienda gestita dai fratelli Walter e Massimiliano Bartolomei (nella foto) nei pressi di Offida, uno splendido borgo medioevale vicino ad Ascoli Piceno. Ciù Ciù, dal soprannome della famiglia Bartolomei, è molto attenta ai sistemi di coltivazione dei vigneti, rigorosamente a basso impatto ambientale. Oltre a produrre bianchi e rossi, Ciù Ciù ha investito nei vitigni autoctoni passerina e pecorino da cui nascono bianchi profumati e fragranti.

È forse il distillato più rappresentativo del nostro Paese, la grappa, e l’Istituto nazionale grappa, forte della spinta anche sui mercati esteri, è pronto a lanciare la nona edizione di Grapperie aperte che si svolgerà domenica 7 ottobre. In quella data, molte delle 136 grapperie dislocate sul territorio apriranno le porte delle loro cantine per mostrare agli appassionati, ma non solo, come avviene il procedimento di lavorazione delle materie prime e la distillazione, per toccare con mano ciò che si è abituati semplicemente a degustare.

scultura

Guerrieri Rizzardi premia i giovani

F

ino al 23 settembre alla Barchessa Rambaldi di Bardolino saranno esposte le opere dei finalisti della III edizione del Concorso di scultura Antonio Canova patrocinato da Guerrieri Rizzardi. Rivolto a giovani scultori diplomati dalle Accademie di Belle Arti italiane, è dedicato alla virtuosità dell’opera di Antonio Canova e al suo precoce talento. La cerimonia di premiazione si terrà a Villa Rizzardi a Pojega di Negrar, in Valpolicella, il 25 settembre. A presiedere la giuria del Concorso di scultura, Gabriella Belli, direttore della Fondazione musei civici di Venezia. Tante le domande di partecipazione degli allievi delle Accademie di Belle Arti italiane, giunte da Bologna, Milano, Napoli, Reggio Calabria, Torino e Verona. Il vincitore oltre a ricevere un premio in denaro, avrà l’opportunità, il prossimo anno, di tenere una personale al Museo e Gipsoteca Antonio Canova.

vodka

Corner I Spirit all’Enoteca Ferrara

L’

area è elegante ed esclusiva, con colori total black a richiamare il design puro e trasparente della bottiglia di I Spirit Vodka, con grafica rigorosamente in bianco e nero, e un’elegante carta di cocktail fantasiosi interamente dedicati a questo prodotto. È il primo corner brandizzato I Spirit Vodka in un noto locale della Capitale, l’Enoteca Ferrara delle sorelle Paolillo, pioniere di prodotti di alta qualità. Lapo Elkann, Fantinel, Cipriani e Cosulich hanno dato vita tre anni fa a una vodka tutta italiana, I Spirit. Prodotta dalla distillazione di cereali finissimi e selezionati vini bianchi di alta qualità, questa vodka made in Italy ha affascinato il mondo della moda, della cultura, del design internazionale.

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PREMI

Il Casato Prime Donne a Maria Lanzetta

H

a subito l’incendio della farmacia di famiglia, spari sulla sua auto e altre minacce, ma ha accettato di rimanere al suo posto in difesa della legalità e dei suoi concittadini: per questo il sindaco di Monasterace (Rc), in Calabria, Maria Carmela Lanzetta, ha ricevuto il Premio Casato Prime Donne 2012 promosso dall’azienda di Montalcino di Donatella Cinelli Colombini, che si avvale di un team interamente femminile. Maria Carmela Lanzetta è una farmacista, moglie e madre, prestata alla politica, quasi un eroe per caso, che ha trovato il coraggio di non cedere ai soprusi suscitando la solidarietà e il consenso delle istituzioni nazionali, ma soprattutto dei suoi concittadini. Dal suo impegno civile è scaturito un movimento di reazione all’illegalità che ha trasformato la giovane sindaco in un simbolo di speranza per i territori in cui il rispetto delle regole comporta sacrifici e rischi.


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Novitàdastappare veneto

Per Dogarina una Dolce glera L’

azienda trevigiana Dogarina ha aggiunto alle sue etichette una nuova proposta: Dolce, prodotto con uve glera coltivate nei vigneti di proprietà dell’azienda agricola trevigiana. Il vino è spumantizzato in autoclave, così da poterne esaltare al meglio le particolari caratteristiche peculiari. Amabile e delicato, con un buon equilibrio tra alcolicità e freschezza, ha un fine perlage. Al palato è avvolgente, con sentori di glicine e mela verde che gli conferiscono una piacevole nota dolce e duttile negli abbinamenti. Con Dolce l’azienda di Campodipietra di Salgareda (Tv) vuole far comprendere agli estimatori le innumerevoli sfumature che questa uva può offrire. A impreziosire ulteriormente il vino, la raffinata bottiglia collio è vestita con la preziosa etichetta decorata a motivi floreali, per trasmettere l’eleganza del prodotto.

alto adige

Anrar, la preziosità del Pinot nero

S

i chiama Anrar ed è una Riserva 2009 del primo Pinot nero della Cantina Andriano, la più antica dell’Alto Adige. Il nome rappresenta l’unione tra Andriano e la parola “rarità”, intesa come unicità. Prodotto con uve selezionate di pinot nero coltivate sulle colline di Pinzano a Montagna (Bz), Anrar è un vino che affina esclusivamente in barrique per dodici mesi, per poi concludere la maturazione in bottiglia borgogna. Al naso è caratterizzato da una complessa struttura fruttata, con seducenti aromi di bacche di bosco e ciliegie, dolci note di spezie e foglie di tè e sfumature lievemente affumicate. Al palato incanta con morbidi tannini a grana sottile e un corpo compatto. Anrar si va ad aggiungere ad altri rossi importanti della Cantina, come il Tor di Lupo e il Lagrein dell’Alto Adige.

friuli venezia giulia

Gheo, rosso giovane in onore alla Terra

T

re nobili vitigni come pinot nero, refosco dal peduncolo rosso e schioppettino, in percentuali rispettivamente del 25, 55 e 20 per cento, danno vita a Gheo, il nuovo rosso dell’azienda Conte d’Attimis-Maniago con la vendemmia 2011. Le colline della tenuta Sottomonte nel comune di Buttrio (Ud), nei colli orientali del Friuli, sono caratterizzate da un suolo composto da marne e arenarie. La resa per ettaro si aggira sui 70 quintali di uva, da cui si ricavano circa 50 ettolitri di vino a ettaro. La vendemmia manuale inizia dalla terza decade di settembre e il vino poi matura in moderni silos in acciaio fino all’imbottigliamento. Il colore è rosso rubino con riflessi violacei, all’olfatto spiccano profumi speziati e confettura di piccoli frutti di bosco. Al palato offre sensazioni di frutta rossa e spezie. Gheo è un vino giovane, profumato e vinoso pensato per avvicinare i giovani al consumo dei vini di qualità: infatti ha solo 12°C.

sicilia

vodka

Florio conquista con lo spumante Dolce

Purity Vodka la purezza del distillato

Florio entra nel mondo dello spumante con Dolce Florio, ultimo nato nell’azienda siciliana produttrice di grandi Marsala e passiti. Un vino aromatico dai sentori mediterranei e dalle note agrumate, caratterizzato da un’immagine allegra ed elegante. Prodotto con la consueta artigianalità che contraddistingue tutti i vini Florio, nasce da uve moscato raccolte a mano nei vigneti della zona centro-occidentale della Sicilia. Spumantizzato con il metodo Charmat, Dolce Florio è fresco, brioso, ben equilibrato: un vino vivace, da abbinare non necessariamente al cibo, adatto a chi è curioso della vita e ama celebrarne gli avvenimenti con spirito e ironia.

Distillata 34 volte con una dispersione di prodotto del 90 per cento. Nasce così Purity Vodka, distribuita da Sagna, prodotta nel sud della Svezia nel Castello di Ellinge. Il master blender Thomas Kuuttanen ha impiegato dieci anni per elaborare questa esclusiva ricetta: la vodka è prodotta in un alambicco artigianale in rame e in oro costruito ad hoc, con forma a fungo e una capacità di appena 600 litri. Il ciclo del distillato prosegue poi in un contenitore ermetico in oro 24 carati, da dove viene rimosso per una successiva distillazione. Anche il packaging è particolare: la bottiglia è di vetro trasparente e sfaccettato come un diamante per ricordare la preziosità del cristallo.

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sicilia

toscana

Tasca d’Almerita stupisce con Ghiaia Nera

Il Matto delle Giuncaie Inaspettato Sangiovese

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i chiama Ghiaia Nera ed è l’ultima etichetta dell’azienda siciliana Tasca d’Almerita, nata sul versante nord est dell’Etna. Il nome è un palese richiamo ai sedimenti vulcanici che compongono i terrazzamenti su cui crescono i vigneti della tenuta. Il vino è ricavato da una selezione delle migliori uve nerello mascalese vendemmia 2010, un’annata che già nelle previsioni prometteva buona freschezza e intensità del frutto. Ma le caratteristiche di questo Ghiaia Nera sono legate anche al progetto agronomico dei nuovi impianti da cui proviene l’uva. Buona parte dei grappoli, infatti, arriva dalla nuova vigna di contrada Sciaranova, dove i filari sono stati impiantati sulle terrazze di muretti a secco tra il 2007 e il 2008. I 18 mesi passati in botti di rovere da 30 ettolitri per l’affinamento donano alle 25 mila bottiglie di Ghiaia Nera sentori floreali, di glicine in particolare, e di frutti rossi di bosco di buona persistenza anche in bocca.

veneto

PerlApp, l’extra dry di Perlage

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o Spumante Extra Dry PerlApp, prodotto con uve glera e incrocio Manzoni da Perlage, azienda vitivinicola biologica di Farra di Soligo (Tv), è un vino innovativo creato apposta per i giovani, perché, oltre ad avere una bassa gradazione alcolica (10,5% vol.), permette una connessione diretta con il “mondo Perlage” attraverso il Qr-Code posto sull’etichetta e con cui si scarica una App contenente informazioni dettagliate su curiosità, eventi, ristoranti e luoghi da vistare nel territorio. Vinificato in bianco secondo il metodo Charmat, è giallo paglierino scarico con riflessi verdi, fruttato con ricordi di mela verde e fiori bianchi di campo. Armonico al gusto, è di buon corpo, persistente, morbido e amabile. Il packaging è elegante e colorato, come si addice a un prodotto indirizzato a un pubblico giovane.

pantelleria

Vinisola, una passione per lo Zibibbo

V

inisola è una piccola realtà siciliana che riunisce un gruppo di persone il cui intento è valorizzare i prodotti dell’isola di Pantelleria, forte di valori quali territorialità e tradizione. Dalle uve zibibbo che nascono sull’isola, Vinisola produce tre vini di particolare personalità distribuiti dall’Azienda Sarzi Amadè: Arbaria Passito di Pantelleria Doc, un vino da meditazione dal gusto vellutato, aromatico e dolce, che si accompagna a formaggi erborinati e piccanti e ai dolci della tradizione siciliana; Pantelleria Moscato Liquoroso Doc, che ha un caratteristico profumo di uva matura e un sapore dolce aromatico con retrogusto mandorlato; Zefiro Pantelleria Bianco Doc, dal profumo caratteristico di uva zibibbo, aromatico e avvolgente: di bella struttura, è perfetto per l’aperitivo, ma ben si accompagna sia a piatti a base di pesce o verdure, sia a piatti di carni bianche.

Il Matto delle Giuncaie è un vino il cui nome si ispira a una novella del Fucini in cui si racconta, in un’atmosfera onirica, l’incontro fra il poeta e un personaggio originale delle campagne toscane che, man mano, svela una personalità e una sensibilità impareggiabili. È così anche per questo rosso Igt di Francesco Passerin d’Entrèves, proprietario di Fattoria Dianella a Vinci (Fi), un vino che inizialmente si rivela vigoroso (nasce da uve sangiovese, di un unico cru), ma poi regala morbidezza e bevibilità inaspettate, con note di tabacco amalgamate a frutti rossi e un sapore complesso e articolato. Versatile, il Matto delle Giuncaie esprime il meglio di sé accompagnato a tradizionali piatti di cacciagione e carni alla griglia.

sardegna

Argiolas rinnova Costera e Perdera L’etichetta come specchio del territorio: l’azienda vitivinicola sarda Argiolas ha ripensato l’estetica delle etichette di Costera e Perdera, due rossi della linea Tradizione. Il leitmotiv rimane il medesimo, la rosa dei venti per Costera e il simbolo del sole per Perdera, che vengono però ridefiniti nelle dimensioni e nei colori e valorizzati dalla stampa a rilievo su carta bianco ottico. Il progetto punta a mettere in risalto il nome del vino e del vitigno che prevale nell’uvaggio: cannonau di Sardegna per Costera e monica di Sardegna per Perdera. Ma non è tutto. Argiolas è intervenuta anche sul peso delle bottiglie, riducendolo a 500 grammi e permettendo, così, un sensibile risparmio energetico legato alla diminuzione di emissioni di carbonio per la produzione e il trasporto.

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foodvalley pasticceria

Con Loison per una dolce insolita estate È

difficile cambiare le tradizioni, perché ci danno sicurezza e scandiscono con regolarità lo scorrere del tempo, rendendolo quasi immutevole. Così, il panettone esce sugli scaffali a ridosso delle festività, per indicare che manca poco a Natale, e il gelato, in tutte le sue varianti, dà il via alla primavera e alla bella stagione. Ma alcune voci fuori dal coro hanno iniziato a diffondere un pensiero anticonformista. Così, Dario Loison, storico pasticcere vicentino il cui nome è legato ai dolci natalizi, ha lanciato per l’estate il concorso Insolito gelato tra i food blogger che ha riscosso un grande successo: creare un gelato al panettone. I 45 concorrenti si sono dati battaglia dando libero sfogo alla loro creatività. La vincitrice è stata la blogger Maria Grazia Viscito, www. cookingplanner.it, con il gelato alla ricotta, fichi e panettone ai fichi. Ma non è tutto, perché l’estroso pasticcere ha rivisitato per l’estate un altro dolce tipico delle sue terre, La Veneziana, simbolo della raffinata tradizione pasticcera della Serenissima. Loison ha quindi arricchito questa burrosa e dolce focaccia di prodotti di eccellenza italiana. Sono nate, così, La Veneziana al mandarino, con canditi di mandarino tardivo di Ciaculli; La Veneziana al Pistacchio di Bronte, utilizzato sia per la guarnizione in granella che per la crema di farcitura; La Veneziana Amarena e Cannella, che abbina il frutto tipico dei Colli Euganei alla spezia originaria dell’isola di Ceylon.

sali

Sei gemme esotiche per la cucina d’autunno Hanno colori e sapori unici ed inimitabili: sono i sali di Gemma Selezione della Compagnia Italiana Sali, produttore del famoso brand del sale Gemma di mare. Dalle isole Hawaii alle vette dell’Himalaya, dall’outback Australiano al Mar Mediterraneo, per condire con fantasia ed esotismo i piatti più raffinati e le ricette più colorate. Si può scegliere tra sei differenti “gemme”: il Sale rosa dell’Himalaya, il Sale rosso Alaea delle Hawaii, il Sale nero delle Hawaii, il Sale verde al bamboo delle Hawaii, il Sale affumicato integrale o il Sale in fiocchi del Murray River Australiano e ogni piatto sarà un viaggio indimenticabile (www.gemmadimare.com).

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nespresso

U, la macchina che ti conosce

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ultima nata in casa Nespresso si chiama U. Semplice, intuitiva, funzionale e dal design elegante, questa macchina offre in casa la migliore esperienza del caffè, ma non solo. U, infatti, si ricorda la lunghezza del tuo caffè preferito, si adatta agli spazi di casa tua e la completa come oggetto di design compatto. E che dire della tecnologia? Il riscaldamento avviene in appena 25 secondi, il sistema di condotti è progettato in modo da renderla tra le più pulite in commercio, ed è energeticamente economica in quanto composta per il 30 per cento da materiali riciclati e con un sistema che dopo 9 minuti di inattività la fa spegnere automaticamente. In vendita a 139 euro, ha visto come testimonial un’attrice dall’eleganza innata come Valeria Solarino, accolta dal direttore generale di Nespresso Italia, Martin Pereyra.

acque

Liberty, una nuova veste per Gaudianello e Leggera Il Gruppo Norda veste di nuovo le bottiglie Gaudianello provenienti dalle storiche acque delle Fonti di Monticchio: l’Effervescente Naturale Gaudianello e l’Oligominerale Leggera, che traggono peculiarità e particolari caratteristiche dalla natura incontaminata che circonda l’antico vulcano Monte Vulture. La bottiglia Liberty, disegnata dallo studio LavelliAdv di Bergamo, si caratterizza per un pack che unisce tradizione e design: sulla bottiglia in vetro bianco spiccano le nuove etichette che richiamano in chiave più moderna l’origine e l’unicità delle antiche Fonti lucane.


inaugurazioni

eventi

Con Ham Roma cede agli hamburger

Il pane, protagonista in Alto Adige

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opo il successo riscosso a Milano, Ham Holy Burger raddoppia e apre anche a Roma all’interno dell’affascinante ex spaccio di birra Peroni. Dalla capitale meneghina a quella nazionale, però, la formula non cambia: panino gourmet, con hamburger di sola carne piemontese (quella della Granda) e ordinazioni in formato ipad.i tablet, inseriti in una apposita postazione nella Ham Free Zone, servono non solo per consultare il menu, chiedere un conto unico o separato, ma anche per navigare gratuitamente su internet. Un format moderno e dinamico che unisce la semplicità della proposta, l’hamburger, alla tecnologia del terzo millennio in un ambiente elegante ed essenziale.

birra

Bavaria si rifà il look

B

avaria, brand olandese di birra, che vede nell’Italia il secondo Paese per importazioni nel mercato europeo, si è rifatto il look. La tradizionale Bavaria Classica, infatti, ha lasciato il posto a Bavaria Premium blue generation, una bottiglia dalla linea snella ed elegante. Il blu rappresenta, appunto, il nuovo colore che richiama freschezza e modernità, andando in controtendenza alla tradizione che vede nel verde il colore tipico della comunicazione nella birra. Inoltre, grazie alla forma triangolare del collo della bottiglia, visibile sia dal fondo, sia dal top, Bavaria è ora riconoscibile anche al tatto. Forma che vuole anche rendere omaggio ai tre fratelli Swinkels, fondatori dell’azienda, e ai tre elementi necessari e sufficienti per produrre la birra: malto, luppolo e acqua.

buongusto

Piccoli cuochi crescono

© Ilike - Fotolia.com

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ducare al buon gusto fon da piccoli sappiamo tutti quanto è importante. Saper scegliere gli ingredienti e saperli assemblare per proporre qualcosa di buono e gustoso anche. Così, il 6 e il 7 ottobre il ristorante La Secchia Rapita di Modena sarà il palcoscenico di Cuochi per un giorno, il primo Festival nazionale di cucina per bambini ideato da Laura Scapinelli e da La Bottega di Merlino. Grazie alla collaborazione con grandi chef, i cuochi under dodici potranno cimentarsi nella preparazione di ricette dall’antipasto al dolce. Tutto sarà all’insegna del divertimento ma è importante anche l’aspetto didattico; cucinando i bambini imparano anche a mangiare e ad avere un rapporto sano con il cibo. L’evento è realizzato con il patrocinio del Comune di Modena e il sostegno di aziende come Barilla, Nostromo, Conad.

Dal 27 al 30 settembre, Bressanone diventa la capitale del pane. Si festeggerà, infatti, la decima edizione del Mercato del pane e dello strudel. In piazza Duomo si diffonderanno le fragranze delle varietà di pane tipiche dell’Alto Adige e si potranno assaporare i diversi prodotti con il marchio di qualità dei panificatori e dei pasticceri altoatesini. Il marchio Qualità Alto Adige garantisce l’utilizzo di ingredienti naturali e l’assenza di conservanti ed esaltatori di sapidità. Le degustazioni saranno accompagnate da percorsi storici per conoscere le tradizioni altoatesine, da dimostrazioni di panetteria per imparare l’arte antica dei fornai locali e da una cornice musicale di gruppi folk del luogo.

monouso

Jmg innova la tavola con stoviglie riciclabili Zen, mediterranea, campagnola, di design: grazie a Jmg, azienda alle porte di Milano specializzata nella realizzazione di prodotti monouso per la tavola, ogni cena e ogni menu hanno il loro abito perfetto, elegante e in colori brillanti. L’azienda, infatti, propone collezioni di piatti e posate di plastica riciclabile, nel rispetto dell’ambiente, tovaglie e tovaglioli di carta. Piatti e posate, quindi, saranno nuovamente trasformati in oggetti di uso quotidiano come bottiglie, arredamenti da esterni, indumenti di pile. E per i più rigorosi green, Jmg ha creato la linea Nat 3 in fibre vegetali totalmente biodegradabile: sono piatti e bicchieri semplici, bianco naturale, robusti e impermeabili, venduti nella Grande distribuzione (www.jmgeurope.com).

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incontri Vieni in Italia con me: fra le vigne in una serata d’estate, un percorso tra le creazioni del tristellato Massimo Bottura accompagnate ed esaltate da una verticale di Collio Bianco Col Disôre di Russiz Superiore di Marco Felluga. Per un’esperienza sensoriale di grande levatura

Suggestioni e sapori di un viaggio nel gusto Francesco Colombera

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ucina e vini d’autore, ovvero l’incontro fra le creazioni culinarie del tristellato Massimo Bottura, Chef’s Choice 2011 (ovvero il migliore al mondo secondo i suoi stessi colleghi) e i vini di Russiz Superiore, storica maison creata da Marco Felluga, divenuta leader nell’enologia friulana. È accaduto in una serata indimenticabile nella Foresteria di Russiz Superiore, immersa fra le vigne del Collio goriziano. Ad accogliere gli ospiti, Roberto Felluga (a cui Marco ha passato il testimone sia della Marco Felluga che di Russiz Superiore), con il padre e la moglie Elena. A condurli nel percorso del gusto, Massimo Bottura, che ha creato per l’occasione un simbolico viaggio attraverso i sapori che, da Nord a Sud, rendono unica la cucina italiana. I suoi cibi sono stati esaltati da una straordinaria verticale di Collio Bianco Col Disôre di Russiz Superiore, vino portabandiera dell’azienda, decretato come uno dei “dodici bianchi immortali” dell’enologia italiana. E proprio per farne comprendere a pieno le radici da cui proviene e la complessità e l’armonia del risultato finale, prima della cena sono stati degustati i 4 monovitigni che compongono il Collio Bianco Col Disôre:

Sopra, due creazioni di Massimo Bottura, il baccalà Mare Nostrum e il Think green, accompagnati dal Collio Bianco Col Disore 2006 e 2003. A destra, lo chef tristellato con, a sinistra, Roberto Felluga, la moglie Elena e il padre Marco 18 | Food&Beverage settembre 2012

la Ribolla gialla 2010 Marco Felluga e, accompagnati da finger food, il Pinot bianco Riserva 2007 Russiz Superiore con il crostino di porri, scalogno e tartufi, il Friulano 2011 Russiz Superiore con il ricordo del panino alla mortadella e il Sauvignon Riserva 2008 Russiz Superiore con il Parmigiano reggiano di Bianca modenese 36 mesi di stagionatura con un aceto balsamico di 45 anni della riserva di famiglia di Massimo Bottura. Vieni in Italia con me: questo il titolo della cena che si è aperta con granita ai profumi concentrati di Sicilia abbinata al Collio Bianco Col Disôre 2009 ed è proseguita con baccalà Mare Nostrum, Think Green (il racconto sulla vera essenza del Parmigiano reggiano, ottenuto dal latte della Bianca modenese libera di pascolare a cielo aperto), compressione di pasta e fagioli con croste di Parmigiano reggiano bollite e tagliate sottilissime a sostituire la pasta (ricordo della nonna emiliana). I tre piatti erano accompagnati da Collio Bianco Col Disôre 2006, 2003, 2001, mentre il Collio Rosso Riserva degli Orzoni 1994 si è perfettamente abbinato al vitello arrostito con emulsione di rapa, e Horus 2005 (l’interpretazione che Roberto Felluga ha dato del Picolit, profumato passito composto per il 90 per cento da picolit, 5 per cento da sauvignon, 5 per cento da friulano) al croccantino di fois gras con cuore di aceto balsamico tradizionale di Modena. F&B



foodvalley nomine

RISTORANTI

Cristiano Ludovici vicepresidente Isit

La cucina alle erbe di Scanderberg

Cristiano Ludovici, amministratore delegato del Prosciuttificio Gozzi (Gruppo Alimentare Valtiberino) e Consigliere del Consorzio del Prosciutto Toscano, è stato nominato vicepresidente dell’Istituto Salumi Italiani Tutelati (Isit) che riunisce i consorzi della salumeria ed è presieduto da Nicola Levoni. Quella del Consorzio del Prosciutto Toscano in Isit è una presenza importante, in rappresentanza di uno dei prodotti della tradizione più apprezzati e conosciuti, che sta vivendo un periodo di grande consenso fra i consumatori, anche grazie alle iniziative a cui il Consorzio partecipa. Tra cui la presenza a Casa Italia, quartier generale degli atleti italiani alle Olimpiadi di Londra.

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solidarietà

Fini, insieme per il terremoto

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manifestazioni

Primi d’Italia focus pasta a Foligno Dal 27 al 30 settembre Foligno (Pg) sarà la capitale de I primi d’Italia, il Festival organizzato da Epta Confcommercio giunto alla XIV edizione. Per quattro giorni il centro storico della città umbra sarà un suggestivo palcoscenico per riso, pasta, polenta, zuppe, formati regionali, ricette della tradizione e piatti creativi. Non mancheranno le scuole di cucina tenute da chef come Mauro Uliassi e Gennaro Esposito. Torneranno anche in questa edizione gli incontri dedicati agli Itinerari del Gusto, Pasta d’autore e A tavola con le stelle, momenti formativi guidati da personaggi del mondo della cucina e dello spettacolo che prepareranno ricette della tradizione italiana tra concerti e momenti d’intrattenimento.

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a il nome di un eroe albanese del 1500, Scanderberg, il ristorante dello chef Vincenzo Pingitore, nel Parco nazionale del Pollino, in Calabria, nato nel 1972 e che festeggia oggi quarant’anni di attività. Ed è proprio dalla moltitudine di specie botaniche di cui il Parco è ricco, dall’erba viperina, alla rapista, alla borragine e altre erbe di campo e di bosco, che nasce una cucina particolare di tradizione mediterranea ma che dà spazio all’identità del territorio. Una cucina vegetariana, ma non solo, golose insalate e primi piatti semplici arricchiti con olio extravergine anche aromatizzato alle erbe e ai cinque frutti rigorosamente calabresi, cedro, bergamotto, clementina, arance rosse di Calabria e Piretto. La tradizione della cucina mediterranea è al ristorante Scanderberg al centro di una continua innovazione nel trasformare le pietanze d’un tempo assecondando l’evoluzione della gastronomia.

arà destinata a risanare i danni dalle strutture dell’Associazione La Lucciola e al suo Centro di Terapia integrata per l’infanzia, la parte di utili raccolti dal Gruppo Fini attraverso Fini. Insieme per il terremoto, progetto promosso dall’azienda a sostegno delle popolazioni colpite dal sisma in Emilia Romagna, territorio di nascita cui è profondamente legata da 100 anni. L’Associazione La Lucciola è stata gravemente danneggiata dalle scosse dello scorso maggio ed è stata dichiarata inagibile: con il prezioso supporto dei consumatori che hanno acquistato una confezione di pasta fresca della linea Gran Classici Fini riconoscibile grazie all’apposito bollino bianco, Fini ha raccolto importanti fondi prorogando l’iniziativa di solidarietà fino alla fine di agosto.

biscotti

Deseo, cantuccini tascabili e al limone

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a famiglia Pandolfini, proprietaria del Biscottificio Antonio Mattei affiancato dalla linea Deseo, lancia i famosi biscotti di Prato, più noti con il nome di cantucci, nel nuovo formato da 125 grammi, mantenendo sempre disponibili i classici formati da 250 e da 500 grammi cui si affiancano ora i cantuccini tascabili. Se il Biscottificio Antonio Mattei rappresenta l’azienda di tradizione dal 1858, la linea Deseo, che punta sull’innovazione, presenta il sesto gusto dei cantuccini, realizzati con la scorza del limone candito, ottimi con la tisana allo zenzero o con zibibbo e malvasia. Fra le novità anche biscotti di fine pasticceria, come i crunch al burro, semplici o nelle varianti al limone o cocco, e i brutti buoni e croccanti con nocciole e mandorle tostate.


pasta Tra Napoli

Gragnano nasce una insolita collaborazione tra due eccellenze. la Casa Marinella, marchio leader della cravatta sartoriale nel mondo, e lo storico pastificio Gentile di Gragnano e

si uniscono nel nome della migliore qualità artigianale italiana

Lo Spaghettone con la cravatta Irene Catarella

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osa può avere in comune uno Spaghettone di 2,7 millimetri prodotto da grano italiano con una cravatta di pura seta jacquard? Se si parla di Gentile, uno dei pastifici storici di Gragnano, e Marinella, la cravatta più famosa nel mondo, il comune denominatore si chiama qualità, di quelle con la “Q” maiuscola, incentrate sull’esperienza data dal tempo e sull’amore per quello che si fa, con le mani e con il cuore. Così , Maurizio Marinella un giorno incontra la famiglia Zampino, proprietaria dello storico pastificio Gentile dal 1948, scopre il vecchio laboratorio artigianale dove viene ancora oggi prodotta e confezionata la pasta secondo i segreti del processo naturale di essiccazione “Cirillo” e, senza alcun dubbio, si convince che Gentile è il partner giusto per investire in un’azienda pastaia autentica, che avesse come prerogativa i valori della sua impresa: territorio, famiglia, artigianalità e qualità. “Siamo orgogliosi di questa liason con un nome che nel mondo rappresenta una delle più belle storie di successo napoletane”, spiega Alberto Zampino, titolare con la famiglia del Pastificio Gentile. “L’unione fra questi due importanti marchi partenopei rappresenta anche il riscatto di una terra che a volte, fortunatamente, viene ricordata anche per le sue eccellenze e per i valori che stanno dietro a questi grandi risultati: il successo di entrambi nasce da una grande passione, da una competenza

Alberto Zampino, titolare con la famiglia del Pastificio Gentile, e Maurizio Marinella, creatore delle cravatte famose in tutto il mondo: li accomunano gli stessi valori che puntano all’eccellenza

data dall’esperienza quotidiana sul campo ma anche da una rigorosa cultura del lavoro che abbiamo imparato dai nostri padri”. Spinti da queste affinità i due marchi daranno vita nei prossimi mesi ad alcuni specifici progetti che mirano a evidenziare queste due eccellenze campane. Già in molti casi la pasta Gentile e le cravatte Marinella si accompagnano in comuni ed esclusivi canali commerciali. Inoltre, a breve sarà inaugurato uno show room del pastificio proprio accanto al negozio storico Marinella alla Riviera di Chiaia, nel cuore di Napoli. Qui verranno esposte anche le linee di conserve a marchio San Nicola dei Miri che nascono nel laboratorio artigianale di famiglia a Gragnano: il Pomodoro San Marzano Dop, gli ortaggi tipici come il carciofino Violetto di Castellammare, le confetture di Albicocca del Vesuvio, la Percoca campana. Dal prossimo anno sarà anche possibile acquistare la pasta Gentile prodotta con la pregiata varietà di grano duro Senatore Cappelli che, grazie al suo colore e profumo, è considerato “il re del grano duro”. La nuova produzione nasce in collaborazione con l’azienda Scaraia, sementificio in esclusiva del grano duro Senatore Cappelli coltivato negli incontaminati campi della Basilicata. Un ulteriore passo verso l’eccellenza del prodotto, sempre più autentico ed elegante. Come F&B un vecchio artigiano, con la cravatta. Food&Beverage settembre 2012 | 21


foodvalley birra

successi

Summer Cascade la Non filtrata di Poretti

Senna festeggia 85 anni di attività europea

Non filtrata 7 luppoli-Summer Cascade è la nuova birra prodotta per essere degustata al meglio nella bella stagione. La nuova birra del Birrificio Angelo Poretti si distingue per i suoi profumi ricchi e il suo sapore amaro accentuato, che ben si sposano all’equilibrato grado alcolico (4,8 per cento). Cascade indica il nome del luppolo principe utilizzato per realizzare questa birra; molto versatile, ottima con antipasti e primi di pesce o pizza, rappresenta un fresco e dissetante aperitivo. Disponibile in bottiglia da 33 centilitri e alla spina nei pub, la Summer-Cascade si va ad aggiungere alle altre quattro birre di Casa Poretti: Splügen 3 luppoli, Originale Chiara 4 luppoli, Bock Chiara e Bock Rossa 5 luppoli.

Senna, azienda austriaca di punta nella produzione e distribuzione di materie prime e semilavorati per la gastronomia e la pasticceria, festeggia 85 anni di servizio reso in 18 Paesi europei, quali l’Italia, la cui filiale è stata aperta a Rimini nel 2000. Luigi Celli, amministratore delegato della divisione italiana (nella foto), indica la ragione del successo nella qualità del servizio proposto: “Dal prodotto alla logistica precisa e all’appartenenza a una holding molto forte del settore alimentare”. I nuovi obiettivi di Senna sono una nuova linea di prodotti naturali privi di lattosio, glutine, grassi idrogenati, conservanti, coloranti e aromi artificiali.

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RISTORANTI

QB, dove il mercato incontra la cucina

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B mercato e cucina, la catena di ristoranti in cui è possibile fare la spesa di prodotti buoni e sani e gustare i piatti preparati dallo chef, raddoppia a Milano. In viale Pasubio 8, infatti, ha inaugurato il secondo spazio, dopo quello aperto in viale Cenisio nella palestra Getfit. Con i due di Genova e quello di Brescia, salgono così a cinque i ristoranti QB mercato e cucina dislocati sul territorio nazionale. Negli oltre duecento metri quadri del nuovo locale milanese i valori sono i medesimi: bontà dei prodotti, che possibilmente devono essere anche artigianali; naturalità dei cibi, che devono essere genuini; localismo, ossia predilezione verso prodotti legati a chiare zone di provenienza tipiche e al territorio. Sono così oltre trecento le referenze presenti nel nuovo spazio milanese, aperto anche la domenica dalle 8 alle 16.

confezioni

Mancini, nuovo packaging per la pasta

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a pasta dell’azienda marchigiana Mancini, prodotta con il grano duro seminato e raccolto nella tenuta che si tramanda di padre in figlio, si presenta con una nuova veste. L’elegante packaging è stato realizzato per il formato da 500 grammi ed è costituito da una pratica busta trasparente con dicitura bianca, perfetta per l’uso quotidiano. Non bisogna dimenticare le altre due confezioni a cofanetto, quella da 1 chilo, rigida e trasparente con dettaglio in cartoncino bianco, e quella classica da 500 grammi di cartoncino bianco con finestra trasparente. Mancini utilizza uno speciale sistema di produzione della pasta lunga, delle particolari trafile circolari in bronzo, nonché basse temperature di essicazione e tempi lunghi di lavorazione per esaltare la qualità dei grani duri.

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limited edition

Pepsi celebra Marilyn con una lattina speciale

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epsi celebra il 50 esimo anniversario del mito di Marylin con una lattina Pepsi Light Limited Edition che evoca lo charme della più grande icona di stile. Marylin Monroe è da sempre considerata al di fuori delle mode del momento e il suo volto è rimasto impresso sulle tele di tanti grandi artisti. Tra tutti Pepsi ha scelto il più rappresentativo, Sid Maurer, artista che spazia dalla pittura, alla musica, al graphic design, per creare una lattina in edizione limitata in grado di rievocare il carisma e il sex appeal della bella attrice americana. Le opere del poliedrico creativo sono attualmente esposte al Museum Master International di New York, insieme ad altri grandi nomi dell’arte moderna e contemporanea.


Cantina Tramin sinfonie olfattive dalla culla del Gew端rztraminer Termeno | Alto Adige S端dtirol | Italia

Food&Beverage settembre 2012 facebook.com/cantinatramin

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LODGE&SPA gavi

Ostelliere, il piacere della contemplazione A

Monterotondo di Gavi (Al), dove Piemonte e Liguria si fondono in un paesaggio unico per bellezza e storia, l’azienda agricola Villa Sparina, ex complesso colonico risalente al ‘700, è oggi anche una struttura alberghiera di primo livello in cui arte, enogastronomia e territorio sono valorizzati con grande dedizione. La villa, infatti, comprende l’Ostelliere, albergo quattro stelle superior dove si respira la passione per l’arte della famiglia Moccagatta, e la Gallina, un raffinato ristorante in cui lo chef Massimo Mentasi propone piatti ispirati della tradizione locale. Un luogo di contemplazione, dove è possibile fare lunghe passeggiate, un corso di yoga a bordo piscina o rilassarsi nel giardino esterno, degustando un calice di vino.

alto adige

Napura, raffinato design

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perto a marzo, il Napura Art & Design Hotel è una struttura innovativa situata tra Merano e Bolzano, nel cuore della Strada del Vino. Le 41 suite, tra junior, deluxe e royal, rispondono al desiderio di lusso e relax, in un ambiente elegante e informale allo stesso tempo: le suite sono dotate di cucina, per far sentire gli ospiti come a casa propria. L’hotel ha un design moderno; per realizzarlo è stato utilizzato legno di larice e gli arredi sono ricchi di oggetti d’arte di noti creativi. Sul tetto, la Sky Terrace: 850 metri quadri di spazio dedicati al benessere del corpo e della mente; vasche idromassaggio riscaldate, la spa con bagno a vapore e cromoterapia, sauna finlandese e docce emozionali, il tutto circondato da una spettacolare vista sulla Val d’Adige e le Dolomiti.

chianti

Lo chef Di Pirro al Castello del Nero

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ambio della guardia in cucina al Castello del Nero Hotel&Spa, membro di The Leading Hotels of the World e residenza signorile di campagna del XII secolo, nel cuore del Chianti, convertita in boutique hotel 5 stelle lusso. Sono solo pochi mesi che Giovanni Luca Di Pirro è l’executive chef del ristorante del Castello del Nero. Romagnolo di nascita, abruzzese di origini e toscano di adozione, con esperienze in celebri ristoranti, Di Pirro ha creato un concept culinario ispirato a tradizione e territorio, che arricchisce con tocchi contemporanei che lo portano talvolta a osare. Il menu non può che “sdoppiarsi”: da una parte, l’omaggio alla toscanità con, ad esempio, ribollita o prosciutto grigio del Casentino con crème brulée al pecorino; dall’altra, piatti creativi, come l’uovo cotto a bassa temperatura, con cialda di pane e asparagi, gamberi rossi di Porto Santo Stefano con fagioli Zolfini all’uccelletto.

valle d’aosta

costiera amalfitana

Parc Hotel Billia moderna Saint Vincent

All’Hilton Sorrento Palace tra natura e storia

È stato inaugurato a Saint-Vincent il Parc Hotel Billia, un quattro stelle ricavato dall’architetto Piero Lissoni dall’ala moderna del Grand Hotel. La struttura, che dispone di 119 camere di cui 6 suite è dedicata in particolare alla clientela congressuale e familiare. Annesso all’hotel, il ristorante Le Rascard Salon et Terrasse di 450 metri quadri. L’area business, che sarà inaugurata a novembre, comprende sette sale per una capienza fino a 600 persone. Non mancherà il collegamento al Saint-Vincent Resort & Casino, dato che il Grand Hotel Billia nacque nel 1908 proprio a supporto del Casinò.

Ha una vista incantevole sul Golfo di Napoli e il Vesuvio. È l’Hilton Sorrento Palace, a soli dieci minuti a piedi dal centro storico di Sorrento, cittadina deliziosa e punto di partenza per Pompei, Ercolano, la Costiera Amalfitana, Positano, Vietri sul Mare o l’isola di Capri. La struttura offre la possibilità di coniugare una vacanza alla scoperta delle bellezze naturali e storiche dell’area con tanto sport e relax, grazie a uno spettacolare complesso di sei piscine comunicanti, campo da tennis, fitness centre, e ampi giardini. E per gli amanti della cucina, il ristorante Sorrento propone piatti innovativi e della tradizione mediterranea.

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roma

Parco dei Principi lusso nella città eterna

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oma città eterna, bella, antica, unica e inimitabile. E proprio in una delle zone più esclusive della Capitale, il quartiere Parioli, c’è il Parco dei Principi Grand Hotel & Spa, proprio a ridosso di Villa Borghese. La ricchezza dei materiali, la scelta dei colori e degli stucchi dorati, tendono a ricreare la sontuosità e la ricchezza delle ville patrizie dell’antica nobiltà romana di fine ‘600. Unica nel suo genere, la Prince Spa è un esclusivo centro benessere di 2.000 metri quadri dotato di una maestosa piscina sovrastata da un soffitto tempestato di cristalli Swarowski e di sontuose suite dorate per i trattamenti di coppia. Per gli amanti della cucina, non si può non gustare i piatti dello chef executive del ristorante Pauline Borghese Agostino Petronio, che propone pesci e crostacei di primissima scelta, con grande attenzione rivolta alla cucina wellness.

Concept

TownHouse Street, innovazione a Milano

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el 2010, dalla collaborazione tra Alessandro Rosso e l’architetto Simone Micheli, è nato il progetto TownHouse Street, una rivisitazione strutturale e concettuale di ex spazi commerciali e uffici trasformati in studio e suite per permettere a turisti e uomini d’affari di vivere la città “con vista sulla città”. I primi Permanent hospitality spaces (Phs), sono stati realizzati nella zona di via Goldoni, ma recentemente sono stati inaugurati sette nuovi studios in via Santa Radegonda, a pochi passi dal Duomo, in un palazzo un tempo sede di uffici. Gli spazi, quattro stelle lusso disegnati da Micheli, hanno un design sofisticato e colori che richiamano la città, oltre a essere realizzati con materiali ecologici per la miglior sostenibilità ambientale e prodotti altamente tecnologici.

sardegna

Hotel Parco Torre Chia, la bellezza del sud

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el sud della Sardegna, l’Hotel Parco Torre Chia è una struttura quattro stelle a pochi chilometri da Cagliari, arroccata sulle pendici del Parco naturale lagune di Chia. Affacciato sul meraviglioso golfo, l’hotel dispone di oltre 230 camere dotate di ogni comfort. Per gli amanti del benessere, è dotato di area solarium esterna, cabine massaggio, saune e bagno turco, ma anche di una palestra per chi al relax preferisce il fitness; per i più sportivi, campi da tennis, calcetto e golf, grazie a una convenzione con il Golf Club Is Molas. Splendida la piscina immersa nel verde e circondata da fiori e piante da cui godere una vista impareggiabile. Valore aggiunto dell’Hotel Parco Torre Chia, sono le attenzioni dedicate ai più piccoli, con una piccola piscina, un miniclub e un ristorante con menu personalizzato.

dolomiti

Residenza Mirabell Dedicata al benessere È dedicata al benessere, la Residenza Wellness Mirabell a Valdaora al Plan de Corones, nelle Dolomiti della Val Pusteria, a poco più di 1.000 metri di altitudine. Il Mirabell (che conta 55 camere e suite) ha un ampio centro benessere, 1.200 metri quadri immersi nel giardino, con due bagni turchi con varie essenze, il laconicum (sauna romana), una sauna per donne (biosauna), la sauna tirolese (sauna finlandese), l’aromarium (bagno di calore aromatico), la vasca idromassaggio e una splendida piscina. Molte anche le attività sportive a cui ci si può dedicare in qualunque stagione dell’anno, dall’equitazione, al golf, alla bicicletta.

venezia

Falsi d’autore al Molino Stucky Fino al 16 settembre l’Hilton Molino Stucky Venice ospita la mostra di falsi d’autore della collezione di Giuseppe Salzano. Titolo della mostra, Klimt al Molino, in onore proprio del protagonista Gustav, ma non solo. Tra i falsi d’autore, anche Matisse e Andy Warhol. Lo splendido albergo della catena Hilton conta 379 camere, di cui 88 executive, 44 suite e una presidential suite sulla sommità della torre, due ristoranti e il più grande centro benessere della città lagunare. Ampi gli spazi congressuali, ideali per piccoli e grandi eventi: le sale sono distribuite su una superficie complessiva di 2.600 metri quadri nel nucleo del complesso alberghiero, collegate internamente a tutte le altre aree dell’hotel e dotate di accesso esterno autonomo.

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Businessnews birra

Buone notizie dal mondo del luppolo S

egno positivo su tutta la linea. Secondo quanto pubblicato da AssoBirra l’Associazione degli industriali della birra e del malto che con i suoi 44 associati tra grandi e medie aziende, microbirrifici e malterie rappresenta il 98% del mercato della produzione nazionale, nell’ultimo anno la crescita è stata del 4,7%. Sono stati prodotti, infatti, 13 milioni e 410 mila ettolitri di birra con un export record di 2 milioni e 86 mila ettolitri che hanno fatto segnare un +11,6% nel 2011 rispetto al 2010. Anche il consumo procapite è aumentato, con un dato registrato del +1,4% portando quasi a 29 litri il consumo interno. Nei primi sei mesi del 2012, inoltre, sono stati venduti già 6 milioni di ettolitri di birra, il che indica, rispetto al medesimo periodo dello scorso anno, un incremento dell’1%. La birra è un settore, quindi, che funziona e che dà lavoro, incluso l’indotto, a quasi 150 mila persone, facendo entrare nelle casse dello stato circa 4 miliardi di euro l’anno. Anche se in prospettiva europea l’Italia rimane all’ultimo posto come consumo procapite, 29,4 litri contro i 72,4 litri della media europea, “è innegabile che ormai rappresenti un patrimonio economico, sociale e culturale del nostro Paese e che piaccia sempre

più agli italiani -afferma Alberto Frausin, presidente di AssoBirra- Sono 36 milioni, infatti, i connazionali che consumano birra e secondo l’Ispo, Istituto per gli studi sulla pubblica opinione, è la bevanda alcolica preferita degli under 54”. E, infatti, nel 2011, considerando anche i marchi importati, gli ettolitri commercializzati sono stati 17 milioni e 715 mila, e parte di questo quantitativo finisce anche nei bicchieri nei 16 milioni di donne consumatrici di birra. Ma la birra italiana adesso piace anche all’estero. Il 16,3% della produzione viene, infatti, esportata, e il 60% finisce Oltremanica, seguita dal 9% negli Stati Uniti, il 6,3% in Sudafrica e il 4,4% in Francia. L’aumento di produzione interna ha anche migliorato la bilancia commerciale con le importazioni riducendo il deficit del 5%. Bene anche il mercato delle birre speciali che è aumentato di 400 mila ettolitri arrivando al 44% del totale dei consumi. Per quanto riguarda la distribuzione, le abitudini degli italiani sono leggermente cambiate in quanto è diminuito leggermente il consumo cosiddetto fuori casa a fronte di un pari aumento dell’acquisto nella distribuzione moderna. Insomma, si beve più birra, ma più a casa che fuori.

distribuzione

ittica

Accordo Cirio-Colavita per il mercato Usa

Nostromo, fatturato in aumento del 4,6%

Il Gruppo Conserve Italia ha siglato un accordo commerciale in esclusiva con Colavita Usa per la distribuzione della gamma di pomodoro Cirio nel retail e nell’horeca. Colavita Usa, controllata dalla società italiana Colavita, è da 30 anni tra i più grandi importatori di prodotti italiani in Nord America. L’accordo prevede la distribuzione dei prodotti del Gruppo nei 51 Stati dell’Unione americana con l’obiettivo di introdurre nel mercato Usa attraverso l’esperienza di Colavita tutti i prodotti a base di pomodoro sia nel trade sia nel fuori casa, dando visibilità e cogliendo opportunità di business attraverso la valorizzazione della qualità e tradizione del brand Cirio.

Cresce del 4,6% su luglio 2011 il fatturato di Nostromo, storica produttrice di tonno i cui ricavi, al 31 luglio di quest’anno, sono ammontati a 76,6 milioni di euro. Nostromo, che dal 1993 appartiene al Gruppo spagnolo Calvo, una realtà che conta 3.000 dipendenti, 4 stabilimenti produttivi e una flotta di proprietà, copre circa il 10% del mercato delle conserve ittiche. L’obbiettivo aziendale attualmente è contenere i costi delle materie prime, lavorando sui processi di produzione, come spiega il direttore generale di Nostromo, Roberto Sassoni, al fine di non gravare sulle spalle del consumatore finale che comunque può sempre contare sulle promozioni che accompagnano i prodotti.

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accordi

V

Cremonini con Sberbank per il mercato russo

Consumi in discesa ma l’export regge

incenzo Cremonini, amministratore delegato del Gruppo Cremonini, e Maxim Poletaev, vicepresidente di Sberbank, hanno firmato a Mosca un accordo di cooperazione strategica della durata di cinque anni, finalizzato a sostenere lo sviluppo in Russia delle attività del Gruppo italiano in concessione commerciale con i brand Inalca, Marr e Chef Express. Attualmente Cremonini sta costruendo un macello dotato della più moderna tecnologia a Orenburg, ai confini del Kazakistan. La banca, che concede anche un primo finanziamento di 1,5 miliardi di rubli (38 milioni di euro), è punto di riferimento imprescindibile per lo sviluppo dell’attività di Cremonini in Russia, uno dei mercati più promettenti in questo settore.

Il bilancio sul primo semestre 2012 tracciato dal rapporto Ismea, Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare, sui diversi settori dell’agroalimentare parla piuttosto chiaro: la produzione è in calo, a fronte di una domanda interna in difficoltà e di un export, almeno in Europa, che non corre con gli stessi ritmi di crescita del biennio precedente. Tra le cause principali c’è la diminuzione del potere d’acquisto delle famiglie. I comparti più colpiti sono latte e derivati con -2,6 per cento, ortofrutticoli -1,2 per cento, prodotti ittici -2,2 per cento, infine, vini e spumanti -1,8 per cento. Tengono il mercato, invece, i derivati dei cereali e le carni, mentre le bevande crescono dello 0,4 per cento. A sostegno dell’agroalimentare, anche se con una minor incidenza rispetto al 2011, ci sono le esportazioni, in particolare verso i Paesi fuori dall’Unione europea.

acquisizioni

Campari entra nella giamaicana LdM

C

agroalimentare

on azioni pari all’81,4% Campari acquisisce una quota di controllo in Lascelles deMercado, società holding quotata in borsa con sede a Kingston, in Giamaica. L’operazione, il cui perfezionamento dovrebbe avvenire nel corso del quarto trimestre 2012, del valore di 330 milioni di euro, permetterà a Campari di diventare player di riferimento del mercato chiave del rum con i brand Appleton Estate, Appleton Special: White, Wray & Nephew e Coruba. Prosegue, così, il piano di crescita del Gruppo che entra nell’importante segmento del rum consolidando la massa critica nei mercati nordamericani e rafforzando il segmento spirit.

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ILmondoINpentolA

Andrea Berton al timone di Pisacco Milano. E finalmente Andrea Berton realizza il sogno di un locale suo. In via Solferino 48 nel cuore di Brera, il quartiere più fashion e alla moda di Milano, il 17 settembre inaugurerà Pisacco, bar ristorante dedicato alla cucina italiana, ma in chiave moderna e senza fronzoli, semplicemente sana e gustosa. Al timone il bistellato Andrea Berton che, lasciato il Trussardi alla Scala, dopo setti anni di successi e grandi soddisfazioni, fonda, con un gruppo di soci -architetti, collezionisti, avvocati e manager- accomunati dalla passione per la ristorazione, un bistrot contemporaneo. Lo chef non si è lasciato andare a confidenze sulla cucina, ma le tre parole chiave che accompagneranno il ristorante sono freschezza, professionalità e accessibilità. E non c’è dubbio che sarà esattamente così, conoscendo la competenza e la costante ricerca della qualità delle materie prime che ha sempre accompagnato le scelte di Berton, così come l’utilizzo che fa della tecnica per far risaltare i sapori degli ingredienti nel rispetto della stagionalità e del territorio.

Eataly inaugura all’air terminal Ostiense Roma. Anche a Roma, dopo Torino, New York e Tokyo, Oscar Farinetti ha aperto lo spazio polivalente di Eataly, all’interno dell’air terminal Ostiense: un’area di 17 mila metri quadri, su quattro livelli, progettata dall’architetto Julio Lafuente in occasione di Italia90. Ottanta milioni di euro per recuperarlo e trasformarlo in un’Ikea del food, magari luxury. Per le eccellenze dei prodotti esposti e per i prezzi di vendita, Eataly è la “stazione” dove fermarsi per fare un pieno di piaceri enogastronomici. Sfizi dolci e salati al piano terra, dove si trovano gelateria, pasticceria, piadineria e panetteria. Al primo piano la birreria artigianale, con salumi, formaggi, fritti e l’angolo della pasta fresca, tirata a mano davanti agli occhi dei clienti. Al secondo piano, i secondi piatti. Pescheria e macelleria fanno da contraltare ai ristoranti, abbinati seguendo la regola: “Si cucina ciò che si vende, si vende ciò che si cucina”. C’è anche l’Osteria Romana, dove gustare tutto lo straordinario repertorio preparato da Anna Dente. L’aspettativa è quella di accogliere una media di 35 mila visitatori al giorno e servire migliaia di pasti, con costi che vanno dai 10 ai 100 euro. (j.b.) 28 | Food&Beverage settembre 2012

L’Ortica punta sull’Olanda Best. È incerta la sorte del ristorante Ortica di Bedizzole (Bs), poiché Piercarlo Zanotti, il cuoco, ultimamente è impegnato a portare al successo l’equivalente locale olandese che si trova a Best, vicino a Eindhoven, ed è diventato uno dei luoghi di ritrovo del buon mangiare all’italiana in Olanda. Ambiente elegante in un’antica casa di campagna, l’Ortica raccoglie le intuizioni gastronomiche di Piercarlo e una panoramica sui classici del Bel Paese accompaganati dai vini firmati dal cuoco, oltre a una curata selezione internazionale. (g.s.)

Koerper, da Lisbona a Rio Lisbona. Dopo sette anni di successi per le sue invenzioni culinarie, Joachim Koerper, grande cuoco tedesco dell’Eleven di Lisbona, ha deciso di voltare pagina. Chiude il suo ristorante, anche se è il più ricercato ed esclusivo della città, punto di riferimento per i gourmet portoghesi, e si trasferisce a Rio de Janeiro, insieme alla moglie brasiliana, per aprire un altro ristorante dove creare nuovi piatti e per dare, come dichiara, “la felicità e altre emozioni all’umanità”. Joachim è un cuoco itinerante. Dopo aver conquistato le due stelle Michelin al Girasol di Alicante, decise di andare a far felici i portoghesi a Lisbona, e, ora, i Carioca a Rio de Janeiro. D’altra parte, il Brasile è in grande fermento culinario e a Rio e a San Paolo è un susseguirsi di aperture di nuovi ristoranti con chef che arrivano da tutto il mondo. Una febbre da food e bossa nova contagiosa. (j.b.)

Atmosfera d’altri tempi al Vivanda Brail. Aperto da un solo anno, il ristorante Vivanda, a Brail in Engadina, aperto da un anno, è diventato il posto più intrigante e piacevole nell’intera valle. Per tante ragioni. La prima è che ai fornelli c’è Dario Cadonau, brillante interprete di una cucina con chiari riferimenti locali ma di ampio respiro, con il marchio di garanzia dato dal lavoro negli anni passati alla corte del grande Philippe Rochat nel tristellato svizzero Hotel de Ville di Crissier. Poi c’è il piacevole contesto alpino dell’albergo In Lain della famiglia Cadonau, interamente in legno, integrato nell’ambiente valligiano. Infine, la curiosità della saletta nella quale viene preparato il formaggio e il burro, neanche fossimo in un caseificio in malga… Accoglienza discreta e d’altri tempi in un contesto di design razionale in stile montanaro. (g.s.)



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Š jovannig - Fotolia.com

Servizio fotografico di Alex Peroli


Lorenzo Cogo Un’ascesa folgorante quella del giovane talento di Marano Vicentino, dal tratto molto personale e diretto, che mescola effetti estetici, trascorsi iberici, derive quasi fusion e verticali di diverse consistenze. Come nei quattro stupefacenti piatti di nuova ideazione. Tra le sue passioni, la cottura alla brace, l’affumicatura, e l’utilizzo delle doppie griglie

El Coq, giovani galletti crescono Gualtiero Spotti

M

Lorenzo Cogo ha una dichiarata passione per la cucina spagnola, ma nel nome del suo ristorante “el” è un articolo dialettale e Coq era il soprannome di papà Mariano. Accanto al titolo, il piatto di pluma di cerdo iberico con pesto di rucola, cardamomo nero e salsa al tofu

arano Vicentino è un paese nel quale certo non si capita per caso. O lo si attraversa sulla via tortuosa del pellegrinaggio che porta verso i luoghi storici della Grande Guerra, sul vicino Monte Cengio, al Pasubio o nella Valdastico, dove si sono combattute estenuanti battaglie di posizione tra austriaci e italiani, oppure ci si muove alla ricerca del capannone giusto, visto che si trova nel cuore pulsante dell’operoso nord est italiano, ovvero in quella che fino a poco tempo fa era la celebrata macro regione traino dell’economia nazionale e oggi è invece alle prese, come quasi tutti del resto, con una feroce e duratura crisi globale che sembra ben lungi dall’esaurirsi a breve. C’è dunque da stupirsi non poco se al di fuori dalle grandi piazze della cucina contemporanea e delle metropoli, in un anonimo borgo veneto, tra industrie e piccola imprenditoria nostrana, da poco più di un anno a questa parte si nasconde uno dei talenti più celebrati della ristorazione italiana: un giovane cuoco capace di mettersi in gioco in questi tempi difficili scegliendo il rischio di lavorare in provincia in un locale per fini gourmet. Lorenzo Cogo, ventiseienne nativo di Marano Vicentino, ci accoglie in una torrida giornata di fine agosto nel suo delizioso e immacolato ristorantino El Coq (con poco più di una ventina di coperti), nascosto nella corte interna di un palazzo di recente costruzione posizionato in centro al paese, e il primo aspetto che colpisce superando la soglia d’ingresso è la giovane età dell’intero staff presente in cucina e in sala. Un po’ sulla scia, se vogliamo, dei grandi cuochi di nuova generazione che negli ultimi anni hanno scalato le classifiche di merito e si sono imposti nelle più pre-

stigiose guide, così anche qui l’età media è decisamente bassa e addirittura non arriva ai trent’anni. “Ma è giusto che sia così -dice Cogo- perché se si vuole crescere bisogna circondarsi di gente dinamica e che ha sempre bisogno di nuovi stimoli”. E non a caso proprio Lorenzo è stato il primo a seguire la linea non facile di un percorso itinerante tra molte cucine, soprattutto all’estero, prima di ritornare a casa sua per aprire un ristorante, in un’ascesa folgorante che ha destato attenzione tra gli addetti ai lavori. L’inizio di tutto però risale agli anni Novanta, quando Lorenzo inizia (a soli otto anni) a pelare cipolle e tritare prezzemolo nella gastronomia del padre, nel vicino paese di Malo. “È stato il mio primo approccio con la materia prima -ricorda- e mi ha fatto capire che dovevo seguire questa strada, che è poi quella della mia famiglia. A 14 anni sono passato in una pasticceria e poco dopo ho frequentato le trattorie della zona, per apprendere i rudimenti di cucina del territorio e per conoscere la tradizione. È stato un periodo molto intenso dal punto di vista formativo. Si passava dal lavoro Food&Beverage settembre 2012 | 31


Lorenzo Cogo

Lorenzo con il padre Mariano che gestisce il nuovissimo Bistro Da Cogo, nel vicino paese di Malo; in alto a destra il raviolo di gamberi con brunoise di sedano, lattuga di mare, mango, wasabi, lime, caviale di salmone, polvere di olio

quotidiano al ristorante, ai servizi esterni per eventi e matrimoni. Una scuola durissima ma fondamentale per conoscere tutti gli aspetti che determinano la vita e la carriera di un cuoco”. Il primo salto di qualità verso i fornelli che contano avviene con il lavoro nei ristoranti della zona già conosciuti dalle guide gastronomiche, prima al Cinque Sensi di Malo e, subito dopo, all’Emozioni, dove lavora per Massimo Trentin (già secondo di Fasolato e Perbellini), prima che questi smettesse per problemi di salute. A seguire, quando Lorenzo ha solo vent’anni, e prima delle esperienze all’estero, arriva la sosta a Montecchio Precalcino, nella stellata Locanda di Piero. Da qui in poi Lorenzo capisce che se vuole crescere ulteriormente deve frequentare quei ristoranti che, in giro per il mondo, stanno determinando nuovi trend in cucina: “In qualche modo avevo bisogno di capire quale fosse la mia strada, e per questo ho iniziato a viaggiare, a conoscere nuovi chef e nuovi stili, a vedere cosa accadeva fuori dal mio mondo”. Prima in Australia, tra Melbourne (al Vue de Monde) e Sydney (da Marque) e poi con lo stage

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da Heston Blumenthal al Fat Duck e da altri cuochi di grido, prima di arrivare da Victor Arguinzoniz a Etxebarri (nelle vesti di sous chef), dove trova la sua dimensione gastronomica ideale. Un’affinità di intenti con il cuoco basco, al punto da voler trasferire quello stile della cucina e quell’impronta di cottura alla brace, di affumicatura, di utilizzo delle doppie griglie per cuocere su entrambi i lati, proprio nel suo progetto di ritorno a casa, a Marano. Prima, però, lo scorso anno, ci sono i due mesi di stage al Noma, giusto per curiosare nella celebrata cucina nordica; poi, in primavera, l’inaugurazione di El Coq, un ristorante che già nella scelta del nome la dice lunga sulle idee del cuoco. “Volevo un nome che fosse internazionale, ma anche che non avesse un senso o, meglio, diversi livelli di interpretazione. L’articolo El, infatti, non è come molti pensano legato alla Spagna e alle mie passate esperienze lavorative. È semplicemente dialetto veneto! Poi volevo portare la natura all’interno del ristorante e mi è sembrato che il gallo fosse l’animale più adatto per rappresentare la genuinità, la buona tavola, i buoni prodotti. E, infine, questo era il soprannome di mio padre Mariano, che in tutti questi anni mi ha sempre sostenuto nelle scorribande all’estero”. La famiglia gioca sempre un ruolo fondamentale nelle scelte di Lorenzo, anche oggi che, legatissimo al padre (praticamente un fratello maggiore vista l’età, cinquant’anni, e l’aspetto da eterno ragazzino), ha da poche settimane inaugurato un bistrot a Malo, sulle ceneri del vecchio ristorante di famiglia, il Papillon, chiamandolo semplicemente Da Cogo. “È un locale molto più easy -rivela Lorenzo- che non vuole avere pretese di cucina creativa contemporanea, ma che bada al sodo. Mio padre lo gestisce in prima persona mentre io preparo la linea di cucina, che prevede la formula agile delle gustose tapas, ma anche piatti del territorio rivisti in una chiave un po’ più moderna. Un ristorante, quindi, decisamente informale dove


Tra i nuovi piatti dello chef, l’omaggio alla barbabietola, un piatto decisamente divertente. A destra, un tavolo per due. In basso, Lorenzo Cogo trasporta la legna per il fuoco

passare per un aperitivo, per un semplice caffè, per fare quattro chiacchiere tra amici e che solo in qualche occasione proporrà i piatti nello stile di El Coq. Per il resto, rimane la filosofia di grande attenzione dei prezzi per entrambi i ristoranti, di cura verso una cucina istintiva, con linee guida ben determinate dettate dall’informalità e dalla passione. Senza dimenticare quella duttilità di fondo che permette di lavorare a diversi livelli, soprattutto in tempi dove la crisi ti dice chiaramente che devi adattarti alle esigenze del consumatore finale. In fin dei conti, a un anno dall’apertura di El Coq -afferma il cuoco-vediamo in ogni momento come sia importante avere una clientela fidelizzata, non solo di appassionati gourmet che arrivano sull’onda del buon momento che stiamo vivendo, ma fatta di affezionati cui riservare sempre nuove emozioni e da coccolare quotidianamente”. Sotto il profilo stilistico e nelle dichiarazioni di intenti non c’è da stupirsi che uno dei cuochi preferiti da Lorenzo Cogo, andando a pescare tra quelli di casa nostra, sia Paolo Lopriore, genio introverso (e qualcuno direbbe controverso) de Il Canto, il ristorante della Certosa di Maggiano, a Siena. Il cuoco vicentino si trova a suo agio, come il pupillo di Gualtiero Marchesi, nell’approccio diretto sui sapori, nella forte autonomia, nello splendido isolamento al di fuori delle strade del gusto più bazzicate, nel rigore di una precisa identità. Tutta una serie di caratteristiche che fuoriescono in uno stile dal tratto molto personale e diretto, facile da riscontrare nei

piatti. Soprattutto in quelli nuovi, che mescolano mirabolanti effetti estetici, trascorsi iberici, derive quasi fusion e verticali di diverse consistenze. Capita anche nei quattro piatti che mostriamo in queste pagine, con le ultime creazioni di Lorenzo Cogo in ordine di tempo. Il raviolo di gamberi (presentato al tavolo in accompagnamento a una pietra alla brace sulla quale viene scaldato un olio di semi) ha all’interno una brunoise di sedano, mentre la lattuga di mare esterna fa da involucro. Il piatto viene completato dalla verza, da una purea di wasabi, lime e mango, dal caviale di salmone, dalla polvere di olio, dai germogli e da fiori di maggiorana. Il cannellone di ricotta e grano saraceno è trasparente ed è realizzato con acqua di pomodoro. A finire il piatto, poi, troviamo il pangrattato con peperoncino, i semi di basilico e i cubetti di zenzero, sottilissime lamelle di pomodoro, foglie di origano e una spolverata di pepe e sale Maldon. Al tavolo, il cannellone viene presentato con uno zabaione salato preparato nel sifone. Il terzo piatto è un omaggio alla barbabietola e vede un insieme di elementi (acidità, alcol, affumicatura) Food&Beverage settembre 2012 | 33


Lorenzo con il maître sommelier Marco Locatelli: tutto lo staff di cucina e di sala è molto giovane. Qui sopra, il passaggio della carne e dei funghi shiitake alla brace. Sotto, il cannellone ricotta e grano saraceno

che rendono la degustazione decisamente divertente. In un’unica presentazione ci sono tapioca, yogurt, purea di barbabietola, gel di Martini rosso, mini barbabietole cotte nel loro succo e leggermente affumicate, sorbetto di yogurt, bacche di sambuco (da mangiare direttamente dal rametto) e dischi di barbabietola marinati nel Martini rosso. Il quarto piatto è la pluma di Iberico con pesto di rucola, cardamomo e salsa al tofu. È una carne di maiale cotta alla brace e passata su carbone vegetale, che nel piatto vede anche l’aggiunta di funghi shiitake, aglio nero e un fondo di maiale. Sono tutti piatti evocativi, di carattere, che raccontano bene della cifra stilistica di Lorenzo Cogo, come dice in maniera esaustiva anche la prima pagina del menu di El Coq: “La mia cucina guarda al futuro, cercando di portare innovazione tecnica nel controllo del gusto, mantenendo sempre spietata la selezione delle materie prime”. Risoluto, ma anche pratico, Lorenzo ha diviso la carta in due parti ben distinte. Nella sezione denominata l’Io Culinario si affronta uno dei due menu degustazione (a 6 e a 10 portate e abbinamento vini al bicchiere) più di ricerca, mentre nella sezione chiamata Il Grezzo Originario si sceglie alla carta tra materie prime e proposte alla brace (anche di pesce). Qualche esempio? Ci sono la battuta di carne del Nebraska e l’uovo di Paolo Parisi con Parmigiano Reggiano e burro noisette, l’insalata di gamberi rossi di Sardegna e la costata di vacca Rubia Gallega alla brace, i tagliolini al tartufo nero estivo e il trancio di ricciola

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di fondale alla brace, la selezione formaggi “Famiglia Gastaldello” e gli scampi di Sardegna alla brace. E i vini? A pensarci c’è l’affabile Marco Locatelli, maître sommelier, ventisette anni da Bergamo, arrivato a El Coq lo scorso ottobre pieno di buone intenzioni e desideroso di lavorare in un ambiente giovane: “La carta è divisa anch’essa in due sezioni denominate storia e ricerca. Nella prima è facile trovare classici italiani e francesi, che ogni buon ristorante di livello deve tenere, mentre nella seconda si va verso scelte internazionali di piccole aziende, che è bello e stimolante andare a ricercare e abbinare ai piatti che escono dalla cucina. Anche con qualche biodinamico, magari, che nel Veneto sta vivendo un momento di grande interesse soprattutto da parte dei produttori, ma senza esagerare. La cantina ha più o meno duecento riferimenti, ma dovessi scegliere io berrei sempre un Riesling, e restando tra le etichette di casa nostra mi piace consigliare il Franciacorta della piccola azienda vinicola Brutell, nelle versioni Satin, Brut e Rosé. In un ambiente così contenuto e con pochi coperti il ruolo del maître sommelier è fondamentale e passa dall’accoglienza del cliente alla complicità nello scegliere il vino giusto. Il ruolo un tempo imponeva la professionalità innanzitutto, ora, invece, chi viene al ristorante cerca sempre la persona di cui fidarsi, ma anche qualche coccola e attenzione in più”. Infine, una curiosità per chi si accomoda al tavolo: la mise en place è scomponibile e diventa in un paio di veloci mosse la base per il piatto e per le posate, F&B tutto firmato rigorosamente El Coq. scheda

El Coq via Canè 2/C 36035 Marano Vicentino (Vi) tel. 0445.1886367 www.elcoq.com ristorante@elcoq.com


...THE REAL VOYAGE OF DISCOVERY CONSISTS NOT IN SEEKING NEW LANDSCAPES BUT IN HAVING NEW EYES. Marcel Proust

2012 www.vinieleva.it Food&Beverage settembre

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ChiantI Far degustare un vino nuovo a una fascia di consumatori diversa. È Chianti, ma è un Re-Chianti, allocuzione ambiziosa che corrisponde a una linea di prodotti concettualmente inedita. Due vini innovativi e tuttavia ottenuti nel solco della tradizione secolare del territorio

Melini reinterpreta il Governo alla toscana Nicola Dante Basile

S Chianti Docg e Chianti “Governo all’uso toscano” le nuove proposte di Melini

i può reinterpretare un vino dall’anima nobile e antica come il Chianti e farne strumento strategico per arginare la deriva in atto dei consumi che, causa la crisi economica e l’altalena dello spread, colpisce anche uno dei prodotti più famosi dell’offerta enologica made in Italy? La domanda è alquanto probabile che se la siano posta in tanti tra i centomila e uno vignaioli che coltivano le agresti e, a tratti, persino selvagge colline toscane. Per certo, se l’è posta il maggiore tra loro, il Gruppo italiano vini (Giv), che vanta una ragnatela di aziende in tutta la Penisola e che, nella terra bagnata dall’Arno, dispone di una batteria di tenute agricole e cantine di tutto rispetto. Tra queste la Melini di Caggiano, nei pressi di Poggibonsi (Si): più di trecento anni di storia sulle spalle, 160 ettari di vigneti, 10 milioni di bottiglie, di cui 70 per cento Docg, e un contributo non comune dato alla costruzione dell’immagine del vino Chianti nel mondo. Basti dire di ciò che ha significato il vino imbottigliato in fiasco di vetro impagliato: era la seconda metà del secolo XIX e quella confezione straordinariamente innovativa per l’epoca, ripresa poi da tutti i vignaioli chiantigiani e utilizzata

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fino a pochi decenni orsono, è rimasta indelebile nell’immaginario collettivo nazionale e non. Ebbene, i maggiorenti del Giv-Melini non solo si sono posti l’interrogativo, ma hanno anche formulato una risposta. Anzi, una doppia risposta che fa perno sulla particella “re” anteposta a Chianti -ReChianti- così da lasciare spazio al gioco delle parole e alla fantasia del consumatore di pensare in libertà sul ruolo del Chianti quale “re dei vini” o “vino dei re”. Allocuzione certo ambiziosa e, al tempo, puerile, che nel caso specifico di Melini corrisponde a una nuova linea di prodotti concettualmente inedita. Due vini figli dell’innovazione e tuttavia ottenuti nel solco della tradizione secolare del territorio. Non potrebbe essere diversamente, visto che per una prima proposta fortemente correlata al nome stesso del Chianti Docg,


“l’innovazione -spiega il direttore dell’azienda Marco Galeazzo- consiste nell’aggiungere al vino appena svinato altra uva fresca, così da conferire al prodotto finale un sentore più accentuato del frutto e lunga persistenza in bocca degli aromi varietali”. La seconda proposta, quella del Chianti “Governo all’uso toscano”, ovvero l’origine del Chianti stesso, riguarda un vino ri-fermentato con assemblaggio di grappoli di sangiovese raccolti e lasciati a un moderato appassimento nel fruttaio. Anche in questo caso la miglioria percepita all’assaggio è di un vino dal corpo ricco di polifenoli, tannini nobili e decisa personalità. Dunque, “un modo nuovo di bere”, per usare il claim che sostiene la campagna di lancio dei due prodotti in vendita con bottiglia a campana, che richiama lo storico e mitico fiasco di vetro. Insomma, il nuovo e la tradizione insieme per un nuovo mercato che avanza. Un concetto caro al presidente del Giv Corrado Casoli, secondo il quale “il mondo del vino è sempre stato diviso tra produttori tradizionalisti e innovatori. Non è un mistero che cinquant’anni fa si beveva molto peggio di oggi e se ora la qualità premia il merito va sicuramente a quanti hanno creduto e investito nell’innovazione tecnologica, con la consapevolezza che l’innovazione fine a se stessa non ha storia se mancano i presupposti di rispetto

del patrimonio viticolo, di salvaguardia dell’ambiente, di storia e cultura della qualità. Il nostro Gruppo -continua Casoli- è presente sul mercato italiano e su quello internazionale con un ventaglio di marchi e vini molto ampio. Sappiamo di avere le radici ben piantate nei territori ad alta vocazione viticola, ma questo non ci esime dal fare ricerca sul campo e sperimentazione in cantina, strada obbligata per migliorare continuamente l’offerta, adeguandola a quelli che sono i gusti del nuovo consumatore. Con Re-Chianti abbiamo voluto realizzare vini che prima non avevamo; vini che ci permettono di allargare il nostro portafoglio, migliorando l’approccio con i partner commerciali e rispondere alle nuove richieste del consumatore. Non solo, ma ci piace pensare che in questo modo mettiamo in campo tutti gli strumenti per reagire F&B alla crisi dei consumi”.

produzione

Una controllata libertà di scelta Di vignaioli rispettosi alla “regola” del Chianti dettata da Bettino Ricasoli negli anni dell’Unità d’Italia, da un pezzo non ce ne sono più in giro per la Toscana. Lo stesso disciplinare ante litteram del “barone di ferro”, che definì la giusta mescolanza delle uve da usare per produrre Chianti (prevalenza di uve rosse sangioveto, con aggiunta di cannaiolo e una parte modesta di uve bianche malvasia), ancorché accettato per quasi un secolo e mezzo, ha subito modifiche nel tempo: una prima volta nel 1967, con l’arrivo della Doc e, dieci anni dopo, con la Docg. E mentre per il Chianti Classico Docg l’ultimo disciplinare ha escluso il ricorso alle uve bianche, nel caso del Chianti Docg è concesso l’utilizzo di malvasia fino a un massimo del 10 per cento. Ma anche in questo caso è crescente il ricorso dei produttori a fare un prodotto in purezza con 100 per cento sangiovese, ma non è insignificante la pattuglia di quanti preferiscono un dosaggio di altre uve a bacca rossa locali, comprese quelle di cabernet, considerato ormai un vitigno autoctono. Insomma, nessun segreto ma semplicemente una libertà di scelta controllata che ha permesso al vino Chianti di avere successo su tutti i mercati internazionali. Al punto che oggi il nome Chianti è un lemma della lingua di Dante tra i più conosciuti al mondo.

È a ridosso delle colline del Chianti che sorge la tenuta Melini, ideatrice dell’audace progetto Re-Chianti, che vede protagonista l’unione di concetti inediti e tradizionali nella vinificazione e nella presentazione dei prodotti. In alto, Marco Galeazzo, direttore della Tenuta

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milano Maria Marangelli ha scelto di proporre una cucina quasi integralmente vegana, senza carne, né pesce. Una decisione nata da una riflessione, etica e da studi alimentari. Qui si predilige il benessere a tutto tondo, tendendo a migliorare il rapporto con se stessi e con gli

Al grande cerchio per nutrire l’anima Irene Catarella

D L’interno del ristorante milanese in cui giallo e arancione creano un’atmosfera ideale per le relazioni e per gustare al meglio i piatti

opo una lunga esperienza nella ristorazione, cinque anni fa Maria Marangelli rilevava il locale di via Michelangelo Buonarroti, in una delle zone più rinomate di Milano. Nel giro di un anno, la grande svolta: realizzare un ristorante che rispecchiasse il suo modo di pensare e la sua filosofia di vita, basata su una tipologia di alimentazione vegetariana: Al grande cerchio. “Devo dire grazie alla crisi del ristorantino che gestivo, perché mi ha permesso di fare il grande passo. È proprio questa la dimostrazione che una crisi può rappresentare una grande opportunità quando se ne scopre la giusta chiave di lettura; infatti, mi sono guardata dentro e ho deciso di trasformare il locale in qualcosa che mi somigliasse. Il successo è venuto proprio da questa personalizzazione e dal fatto che amo il mio lavoro e non volevo abbandonare il settore, nonostante le difficoltà economiche”. Maria era stata vegetariana in gioventù, ricorda che circolavano dei quaderni di controinformazione alimentare tra i ragazzi ed è stata sempre molto attenta al cibo per motivi di salute. Ma solo grazie alla crisi ha avuto la grande intuizione di accorgersi che fino ad allora aveva fatto ristorazione come gli altri e non come voleva lei, ed era per questo che le cose non andavano bene: “Un locale deve rispecchiare

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l’anima del proprietario, dei cuochi e del personale: solo così ciò che si prepara ha un valore e un’energia che attraggono i clienti e li affiliano, in quanto diventa creazione unica e inimitabile. Occorre ricordare che la ristorazione è guida nei percorsi individuali delle persone nell’ambito alimentare perché, se si riesce a impostare un clima di fiducia, i clienti assumono consapevolezza che uno dei fattori di spicco per il raggiungimento del benessere è il cibo e si affidano


per farsi guidare in questo cammino”. Il cibo è il primo bisogno, insieme al respiro, e il primo dono d’amore che ogni essere umano ha nella vita: infatti, molte persone restano legate a determinate ricette perché ricordano l’infanzia; molti non vogliono cambiare piatti in tavola perché hanno paura di perdere questa memoria, tanto che spesso rifanno le ricette di famiglia per ribadire il legame affettivo e il senso di appartenenza, per sentire cioè le proprie radici. Per questo motivo chiunque arrivi Al grande cerchio trova un’accoglienza calorosa e amicale che gli permette di mangiare in un clima nutriente per il corpo e per lo spirito, anche grazie alle pareti tinteggiate con colori caldi e tenui che variano dal rosso al giallino e all’arancio. La biodesigner Marina Russo ha contribuito ad allestire un ambiente che attraverso i colori esalti con il rosso il richiamo alla terra, con l’arancione l’apertura alle relazioni e alla convivialità, e con il giallo, sfumatura dello stomaco, l’induzione a un’ottima digestione e al soddisfacimento personale, visto che è il colore anche del plesso solare, sede della gioia. Chi mangia Al grande cerchio, quindi, percepisce il senso di appartenenza alla grande famiglia dell’umanità, ossia la presenza di un porto sicuro a cui ancorarsi e in cui sentire pienamente ciò che è; al contempo sa che tutto questo costituisce un trampolino di lancio per ogni possibile trasformazione interiore, senza perdere di vista la propria natura. In quest’ottica si comprende come il cibo, considerato nutrimento dell’anima, porti alla spiritualizzazione, che non viene più considerata come semplice materia bruta. La scelta di una ristorazione quasi integralmente vegana, che esclude cioè carne, pesce e i loro derivati, ma che Al grande cerchio conserva, per chi la desidera sulla pizza o su altro, l’uso della mozzarella, nasce sia

Maria Marangelli e Caterina Mosca con due collaboratrici all’ingresso del locale. A destra, un originale carpaccio di sedano rapa e una rivisitazione della tradizionale torta Sacher senza uova

da una riflessione etica, sia da uno studio alimentare, secondo cui la carne produrrebbe muco all’interno del nostro organismo, causa di varie malattie. Nel locale di Maria si escludono anche i cereali raffinati, come le farine e il riso bianchi, o i prodotti trattati chimicamente, come lo zucchero bianco, perché, secondo lei, la vitalità del cibo è più alta quanto più ci si avvicina come

Le ricette del grande cerchio, curato da Caterina Mosca, è prezioso per chi ama sperimentare la cucina vegana

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milano

I piatti de Al grande cerchio colpiscono già per i loro variopinti colori come il fucsia dell’orzotto con le fragole e il Vermentino, in alto, il giallo aranciato della parmigiana di zucca e porri e il particolare caramello di liquirizia della bavarese di zucca alla liquirizia, qui accanto

natura crea. Anche con questa scelta di materie prime, il ristorante si ricollega alla tradizione: infatti, propone ricette utilizzando degli ingredienti alternativi, come il muscolo di grano o il seitan, sostituti della carne. A proposito di arrosti, quello di seitan all’uva rappresenta un piatto saporito e già apprezzabile alla vista, anche da chi si approccia in modo diffidente a una cucina vegetariana. E forse nessuno immagina di poter gustare un’originale bavarese la cui matrice è costituita dalla zucca gialla guarnita con della liquirizia fusa, o una maionese senza uova a base di soia o, ancora, degli hamburger di lenticchie di montagna. Per quanto riguarda le bevande, Maria ribadisce di offrire ai propri clienti l’acqua potabile di Milano, garanzia di qualità e freschezza, tisane e succo di mela per far sperimentare una degustazione più naturale del cibo, ma anche vini bianchi e rossi esclusivamente di colture biologiche. Nonostante le materie utilizzate abbiano un costo superiore rispetto a quelle consuete, è possibile pranzare con dei menu a 10 euro che 40 | Food&Beverage settembre 2012

includono un primo, un secondo e un dolce; il basso costo serve a incentivare l’approccio a questo tipo di cucina. Caterina Mosca, responsabile della comunicazione e autrice del libro di cucina naturale Le ricette del Grande Cerchio appena uscito (edito da Vallardi), ribadisce che la cucina del locale è principalmente di gusto e vuole spronare le persone ad avere maggiore sensibilità per quello che mettono in bocca. Nel suo libro, Caterina non solo presenta i piatti in base alle stagioni, ma dà anche un cenno, importante per il lettore, alle proprietà nutrizionali delle materie prime che costituiscono le ricette. Al grande cerchio si organizzano corsi di cucina vegetariana e i cosiddetti “aperitivi con chiacchiera”, ossia dei momenti pomeridiani in cui, dopo aver degustato a buffet diversi piatti stuzzicanti, si ascoltano le dissertazioni di persone che vogliono condividere con gli altri il proprio sapere, relativamente ad argomenti legati all’evoluzione interiore, alla medicina alternativa, al miglioramento del rapporto con se stessi e con gli altri. In una città spersonalizzante come Milano, questo locale vuole essere punto di riferimento affettivo e nutrizionale per tutti, affinché le persone possano trovare un luogo dove non si viva a compartimenti stagni, bensì in una dimensione familiare, come si faceva anticamente attorno al focolare domestico. A tavola i saperi si assimilano in modo più piacevole, così come, parallelamente, il palato gode dei diversi sapori. Lo slogan Varietà di sapori, varietà di saperi, che è il motto del ristorante, ricorda il simposio dei Greci, che mentre alimentavano il corpo dialogavano sui misteri dell’esistenza e sul perché della vita: benessere a tutto tondo. F&B scheda

Al grande cerchio via Michelangelo Buonarroti 8 20145 Milano tel. 02.48004737 www.algrandecerchio.it


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vitigni Il Sangiovese di Romagna Doc Riserva ha cambiato l’approccio a questo vino da parte dei consumatori. A parlare è la qualità nata nell’azienda di Castel San Pietro da metodologie produttive che uniscono l’elevata tecnologia alla tradizione figlie dell’intuizione e della passione

La Riserva di Umberto Cesari espressione del Sangiovese Stefano Masin

T Umberto Cesari, patron dell’azienda di Castel San Pietro: il suo Sangiovese Riserva, vino fortemente romagnolo nel profumo, nel sapore e nel processo produttivo, è figlio di alta tecnologia e profonda passionalità

utte le dinastie hanno un inizio. E la regola non scritta vuole che più l’impero è esteso, più la dinastia è antica. Umberto Cesari rappresenta un’eccezione a questa regola, perché partendo da zero, in poco più di quarant’anni, l’azienda oggi possiede 130 ettari vitati, produce due milioni di bottiglie l’anno e ne esporta il 70 per cento in 52 Paesi. A sottolineare quanto detto, il capostipite, Umberto Cesari, non è l’avo che ha dato vita nell’800 a una tradizione ormai secolare, bensì colui che a metà degli anni ’60, invece che seguire le orme del padre proprietario di una storica osteria bolognese, decise di dedicare la vita alla sua terra e al Sangiovese di qualità. Così, oggi, l’azienda di Castel San Pietro (Bo), che porta il suo nome e che continua a gestire con il sostegno della famiglia, la moglie Giuliana e i figli Gianmaria e Ilaria, ha fatto da battistrada al Sangiovese con la “S” maiuscola, in Italia e nel mondo, facendo ricredere tutti coloro che, appunto, nel pregio di questo vitigno (allevato e prodotto con le corrette metodologie) proprio non credevano. Il suo Sangiovese in purezza ha cambiato completamente l’approccio a questo vino da parte dei consumatori italiani e non. È il Sangiovese di Romagna Doc Riserva che nasce da viti di un’età media di quindici anni e crescono su un terreno collinare argilloso a un’altezza che oscilla tra 300 e 450 metri sul livello del mare,

con una resa per ettaro di 80 quintali. La vinificazione avviene in acciaio a temperatura controllata per un periodo compreso tra 14 e 20 giorni, per poi riposare 24 mesi in botti di rovere italiano e di Slavonia da 30 ettolitri. Questa lavorazione permette al vino di raggiungere una gradazione alcolica piuttosto alta, sui 13 gradi, e consente una capacità di invecchiamento tra cinque e sette anni. Il Sangiovese di Romagna Doc Riserva è espressione massima della terra da cui proviene. Il colore rosso rubino intenso con sfumature granata ricorda la passione e il cuore che i romagnoli mettono in qualunque progetto. Il profumo è vinoso e intenso, con sentori di viola, ma è in bocca che questo Sangiovese dà il meglio di sé. Secco, ampio e leggermente tannico, è piacevole da bere, caldo, avvolgente e compagno inseparabile di carni rosse, arrosti e formaggi stagionati come il Parmigiano Reggiano, che ne esaltano le caratteristiche organolettiche. Se un vitigno autoctono come il sangiovese è rinato a nuovi splendori è anche merito di Umberto Cesari che ha creduto da sempre nella valorizzazione del territorio rispettando l’ambiente e ha saputo unire tecnologia e tradizione dimostrando che, infine, alla base del successo di un’azienda, ci sono sempre F&B professionalità e passione.



focus Non più percorribile l’ormai esausta strategia del buon rapporto qualità-prezzo, occorre intraprendere il sentiero dell’originalità stilistica. Come? Riuscendo a far coesistere nel calice facilità di beva da un lato e riconoscibilità territoriale e varietale dall’altro

Rossi identitari Così si vince Roger Sesto

S

i sa. Sia per una ben nota congiuntura economica disgraziata, sia per un consumo sempre più attento e contenuto di vino (soprattutto) rosso, le etichette di fascia intermedia, al ristorante proposte alla carta in una fascia di prezzo tra i 20 e i 40 euro, sono quelle che più stanno patendo questa fase di transizione, quelle che più faticano a trovare una propria collocazione di mercato, assediate dal basso dai tanti prodotti a buon mercato e spesso anche più che discreti provenienti dal nuovo mondo vinicolo. Cosa fare allora per uscire da questo circuito vizioso? Dato per assodato che più di tanto i costi non possono essere tagliati dalle nostre cantine e che la qualità è un concetto sul quale non si può nemmeno più discutere, non resta che trovare soluzioni stilisticamente alternative, capaci di attirare

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Morbidi e fruttati, senza eccessivo alcol e pronti in tempi relativamente brevi, sono i vini che mettono d’accordo produttori e ristoratori che puntano a prodotti di grande bevibilità


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l’interesse dei consumatori, magari più giovani e più aperti al nuovo (i giovanissimi hanno scarsa capacità di spesa e la fascia più matura si affida a gusti consolidati o a un portafogli più importante). Una possibile soluzione, intrapresa dai produttori e molto gradita dai ristoratori, è quella di proporre vini morbidi, fruttati, pronti in tempi relativamente rapidi eppure capaci di evolvere, con poco apporto di legno, senza eccessivo alcol, dotati di freschezza, bevibilità, ma anche identitari e varietali. Il far coincidere così tante caratteristiche apparentemente contrastanti fra loro in un medesimo vino potrebbe sembrare una mission impossibile, eppure, grazie ad accorte selezioni di uve provenienti da differenti aree viticole e a pratiche di cantina adeguate ma non invasive, si tratta di un obiettivo raggiungibile. Willy Stürtz, direttore tecnico ed enologo della Cantina Tramin, va fiero del suo Alto Adige Pinot nero Maglen. “Si tratta di una selezione ottenuta da due microzone fra loro complementari, la cui sintesi consente di ottenere un Pinot nero equilibrato e complesso. Circa due terzi delle uve provengono dal cru Mazzon, il saldo da Glen. Punto di forza del Maglen è perciò la selezione di queste due aree, che danno uve dal carattere ben definito, caratterizzate da basse rese (40 ettolitri di vino per ettaro) e gestione razionale delle vigne”. A Mazzon, dove i vigneti stazionano a 400-450 metri sul livello del mare, i suoli sono sabbioso-ghiaiosi, con inserti a medio impasto: un terreno drenante che assorbe acqua e non crea stress alla vite; ciò agevola una perfetta maturazione delle uve, foriere di vini di marcata struttura tannica, bella spalla e persistenza. Glen è una frazione del Comune di Montagna; qui le viti insistono a un’altitudine di 550-600 metri, esposte a sud, beneficiate da elevata

escursione termica: un mix di fattori che si traduce in un apporto di note di frutta fresca e acidità. Partendo da uve ben mature, fermentazione e vinificazione hanno luogo in tini di legno, segue un affinamento di 12 mesi in barrique e tonneau, nuove al 20 per cento. Il risultato finale è un vino dal naso ciliegioso e speziato, ma senza esasperazioni fruttate, per una beva elegante, persistente, dalla serrata trama tannica che garantisce lunga e virtuosa evoluzione; un vino che comincia a dare il meglio di sé dopo tre anni dalla vendemmia. “Il target del Maglen? Non è un prodotto facilissimo da capire per il neofita: è più adatto a essere apprezzato da un consumatore edotto che ne capisca l’eleganza -sottolinea Stürtz- Il suo canale distributivo è la ristorazione medio-alta, soprattutto regionale e, a macchia di leopardo, nazionale, alla quale vendiamo a 13 euro franco cantina; in ogni caso le 12 mila bottiglie prodotte all’anno finiscono tutte nell’horeca”.

Accorte selezioni di terreni e di uve fanno sì che le aziende producano sempre più vini dalla forte personalità e identità territoriale, moderni e facilmente abbinabili a tavola

Importanti, ma di grande bevibilità “In genere il Maglen, che vendiamo a 29 euro, ci viene richiesto spontaneamente dai nostri clienti -precisa Baldo Arno, patron del Zür Rose di Cortaccia (Bz)- Dal canto nostro lo suggeriamo al calice, a rotazione con altre etichette. Si tratta di un vino assai ben accetto da parte dei nostri commensali”. Dunque, pur non essendo un vino semplice e pur avendo un certo costo, può dirsi un prodotto che si vende quasi da solo… “Ma sì! Grazie al suo corpo non eccessivo, al suo frutto, alla sua finezza è apprezzato da una clientela trasversale: ha delle caratteristiche di gradevolezza che lo distinguono da altri Pinot Food&Beverage settembre 2012 | 45


focus Due immagini del Zür Rose di Cortaccia: la preferenza degli estimatori va ai vini fruttati e fini come il Pinot nero Maglen dell’altoatesina Cantina Tramin: un vino non facile e dalla serrata trama tannica che comincia a dare il meglio di sé a tre anni dalla vendemmia

Ha compiuto 60 anni il Chianti Classico Riserva Ducale oro di Ruffino, un vino di incredibile attualità, un classico, ma figlio di avveniristiche soluzioni di vigna e di cantina

nero che pure abbiamo in carta. E poi si adatta bene alla nostra cucina, a base di carni leggere e pesce; ma a dirla tutta, la nostra linea gastronomica sembra fatta apposta per il Pinot nero in generale. Servendolo fresco, come è nostra abitudine, con i piatti a base di prodotti ittici il Maglen funziona benissimo”. Provengono dai vigneti di Maso Cervara, a Mezzolombardo (Tn), nel campo Rotaliano, le uve di un importante rosso firmato dalla Cavit di Trento: il Teroldego Maso Cervara, un vino affinato 15 mesi in botti e barrique e con una breve maturazione in bottiglia. La scelta di legni e tempi di elevazione, per un vitigno scontroso come il Teroldego può essere cruciale ai fini della gradevolezza e dell’armonia del vino che ne deriva. “Il Maso Cervara Teroldego Rotaliano è un vino destinato all’alta ristorazione e alle enoteche. La linea I Masi rappresenta il top di gamma di Cavit, con vini importanti, frutto di un’elaborata ricerca volta all’individuazione di ecosistemi particolarmente favorevoli e tecniche di vinificazione molto attente. Solo nelle migliori annate viene prodotto un numero limitato di bottiglie di Maso Cervara Teroldego Rotaliano (15-20 mila), destinate principalmente al

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mercato nazionale. Data l’importanza e la storicità di questo vitigno all’interno della regione, il mercato trentino costituisce ovviamente la quota più rilevante delle vendite. “Lo serviamo sia a calice, a 4,50 euro, sia a bottiglia, a 25 euro, con una leggera prevalenza di richieste a favore di quest’ultima -dice Franco Zanella, sommelier dello Scrigno del Duomo di Trento- È un vino che riusciamo a vendere sia in base ai nostri suggerimenti, ma anche grazie a una domanda spontanea da parte di una clientela che già lo conosce e lo apprezza: stranieri, o comunque gourmet che vengono da fuori regione; importanza e identitarietà lo rendono più gradito a consumatori over 40: i giovani vogliono vini più fruttati e beverini. Più in generale, se c’è un Teroldego che ci vien facile proporre, è proprio il Maso Cervara, essendo meno aggressivo e rustico di molti altri Teroldego, appena ammorbidito da una sapiente elevazione in legno, che però non ne snatura la tipicità”. È un vino importante che richiede di essere decantato: “Una volta pronto per il servizio, ci piace accostarlo a formaggi stagionati, carni rosse alla griglia; piatti autunnali come il capriolo con polenta o canederli asciutti con lingua di vitello: piatti importanti e trentini”. La fascia di prezzo in


cui si inserisce il Cervara, sta funzionando ancora bene? “Diciamo di sì. I vini che a noi costano fino a 10 euro riusciamo a proporli a prezzi accettabili e si vendono; quando si sale a 12 o più euro, i prezzi in carta si fanno importanti e si comincia a fare fatica. Dal punto di vista gustativo, oggi vanno bene i vini di una certa importanza, ma eleganti e accattivanti, tra l’altro caratteristiche che li rendono adatti a un maggior eclettismo gastronomico; i vini troppo rustici o ruffiani hanno invece meno spazio. Un altro aspetto interessante di questo Teroldego della Cavit -conclude Zanella- è la sua buona longevità: per 7-8 anni non fa altro che evolvere virtuosamente…”.

Alleggerire la fase di affinamento Che vino è il Filio? “Villa Sandi esporta in 70 Paesi sia vini fermi che spumanti; i nostri clienti desideravano avere un prodotto affine al nostro rosso di punta, il Corpore, ma più accessibile, meno strutturato e con un minor affinamento in legno: ecco il perché del Filio, anch’esso un taglio bordolese come il fratello maggiore. Vino nato sia per l’insorgere di un nuovo segmento di mercato, sia per un naturale completamento di gamma -spiega il patron dell’azienda di Crocetta del Montello (Tv), Giancarlo Moretti Polegato- Intendiamoci, Filio resta comunque un premium prodotto in 30 mila bottiglie, con protocolli di vinificazione simili al Corpore, ma con caratteristiche di maggior snellezza e di minor

impegno; oggi è necessario produrre vini più pronti, non essendo più disposti né i ristoratori a far magazzino, né i consumatori ad aspettare. Con il Filio, tra l’altro, pensiamo di riuscire ad avvicinare i giovani a vini di una certa struttura, abituati come sono al Prosecco, che pure fa parte del nostro core business”. Aggiunge Polegato: “Va detto che sia il Corpore, nato nel 2001, sia il Filio, uscito con la vendemmia 2008, non sono rimasti nel tempo uguali a se stessi. I gusti dei consumatori, italiani e stranieri, si sono nel frattempo evoluti, orientandosi verso vini meno omologati e più di territorio, il che ci ha indotto ad alleggerire soprattutto la fase di affinamento, riducendo il ruolo del legno e i tempi di elevazione, oggi di 12 mesi per Corpore e di 6 per Filio”. “Il Filio è un vino dall’ottimo rapporto qualità/prezzo, adatto alla cucina messicana e tex-mex del locale, a base soprattutto di carne: le fajitas sono perfette per questo rosso, come le diverse nostre proposte alla griglia; ma pure il nostro tonno siciliano scottato o i gamberoni in camicia di pancetta ben si adattano -precisa Fabio D’Auria, del Joe’s Bar di Milano- La nostra carta dei vini, ricca di 100 etichette, è insolitamente ampia per un messicano, perciò il Filio va prima proposto, anche perché io lo amo molto; ma poi, una volta fatto conoscere, è il cliente stesso che la richiede. Proposto a 18 euro, è molto apprezzato dai giovani, che stanno tornando a bere vino rosso: piacevole, accattivante, con moderate note di legno, pare fatto apposta per fidelizzare i consumatori meno pronti a vini

Franco Zanella, sommelier dello Scrigno del Duomo di Trento, ama il Teroldego, un vino che ben rappresenta il territorio trentino. E il Maso Cervara di Cavit, ammorbido da una sapiente elevazione in legno, armonico ed elegante, è tra i suoi preferiti

È un Brunello polposo, dalla vibrante trama tannica, caldo di alcol, con aromi intensi, il Brunello di Montalcino Castel Giocondo dei Marchesi Frescobaldi: nasce su terreni dalla duplice natura, magnificamente esposti

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focus

Un’immagine del Joe’s Bar di Milano che ha in carta un centinaio di etichette. Si punta molto su Filio di Villa Sandi, taglio bordolese, ben strutturato, ma con un limitato affinamento in legno per renderlo più accessibile e meno impegnativo

troppo impegnativi, ossia gli under 40. Per queste ragioni Filio si è guadagnato una domanda stabile nel tempo, un suo spazio, anche grazie alla sua elasticità negli abbinamenti”. Correva l’anno 1947, in piena Guerra Fredda, fra l’uscita nei cinema della prima di Tom & Jerry, la presunta cattura aliena a Roswell negli Stati Uniti e la redazione della Costituzione Italiana, quando -nella Toscana della ricostruzione - Ruffino creava la selezione Oro del suo vino più significativo, la Riserva Ducale. Erano anni in cui il Chianti si faceva con uve a bacca nera e bacca bianca pigiate con i piedi, imbottigliato nei famosi fiaschi avvolti nella paglia, dai tratti giovani, semplici e beverini, più utili a dare energia che a offrire piacevolezza. Però, già ai tempi, era costume serbarne un poco -il migliore- per le occasioni speciali. Questa selezione doveva anche saper migliorare con gli anni, a dimora in cantine

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adatte, per offrire maggiori suggestioni al momento solenne della sua stappatura; qui il concetto veniva ribaltato: vino come bene edonistico e non strettamente alimentare; una filosofia che oggi pare quasi scontata, ma che negli anni Cinquanta era perseguita assai di rado e in cui però Ruffino credeva moltissimo.

Classici ma non austeri La genesi del Chianti Classico Riserva Ducale Oro sta dunque in questo credo; per un vino che ha accompagnato nei decenni la crescita nella nostra giovane Repubblica, scandendo i principali accadimenti del nostro Paese dal Dopoguerra ai giorni nostri, attraversando indenne gli anni difficili del vino italiano nella metà degli anni Ottanta fino alla grande rinascita che senza sosta ha attraversato tutto il territorio del Chianti Classico e la nostra migliore enologia. Assaggiando oggi in retrospettiva annate miliari come la 1985, la 1990, la più recente 2001 o la 2007, vendemmia del 60° anniversario effigiata con un’etichetta speciale celebrativa, si può apprezzare la bontà di una scelta che ai tempi impose per Ruffino ambiziose e avveniristiche soluzioni di vigna e di cantina. Vini che oggi mostrano grande armonia, finezza e classicità, senza per questo risultare austeri e difficili. Vini assolutamente moderni e di incredibile attualità, dunque. La Marchesi Frescobaldi, come altre aziende vinicole chiantigiane e no, anni fa e in tempi non sospetti decise di giocare la carta del Brunello, convinta a ragione che ci fosse spazio per un’ulteriore interpretazione di questo fondamentale vino dell’enografia italica. La sfida, poi vinta sul campo, consisteva nel produrre


© Comugnero Silvana - Fotolia.com - Luiz - Fotolia.com

un vino filologicamente corretto, ma al tempo stesso innovativo rispetto alle etichette già presenti sul mercato. Il Brunello di Montalcino firmato da Frescobaldi lo si produce nella Tenuta di Castel Giocondo, con vigne poste fra i 250 e i 450 metri sul livello del mare, estese su 152 ettari e ben esposte a sud e a sud-ovest, con una densità di 5.500 piante a ettaro. Un ruolo importante è svolto dalla duplice natura dei suoli: parte dei terreni sono ricchi di sabbia, ben drenati, con una discreta presenza di calcio e un pH neutro, un profilo geologico che infonde finezza ed eleganza; in parte si caratterizzano invece per la presenza di galestro, argilla, generoso apporto di calcio e pH leggermente alcalino, suoli scuri che apportano struttura e potenza. Grazie alla sintesi di queste variegate caratteristiche pedologiche il sangiovese si esalta e

si traduce -favorito da macerazioni molto lunghe e all’affinamento in barrique e botti di rovere di Slavonia- in un Brunello polposo, dalla vibrante trama tannica, caldo di alcol, gustativamente lungo, dagli intensi profumi di mora, viola mammola, speziato di pepe e chiodi di garofano, tabacco, cuoio e carne cruda, ma anche suadente, armonico, elegante. Moderno e “di territorio” al tempo stesso.

Morbidezza e tipicità Terre degli Svevi, attraverso il brand Re Manfredi, è l’avamposto lucano del Gruppo Italiano Vini. A Venosa, nel cuore del Vulture, poggia la sua produzione su tre declinazioni di Aglianico del Vulture (oltre a un bianco e a un rosato): Serpara, Re Manfredi e il nuovo TT. Se il primo, un cru di maschito, è vino di territorio, balsamico, elegante e austero, e il secondo presenta un naso più immediato e fruttato, il Taglio del Tralcio (TT) presenta delle caratteristiche tutte sue. Una domanda sorge spontanea: in presenza di due etichette di Aglianico, che bisogno c’era di crearne una terza? “Avevamo necessità di produrre un vino più pronto, con minori costi di produzione e affinamento, vendibile dai ristoranti a un prezzo di 16-18 euro -spiega Andrea Lonardi, enologo e direttore di cantina- Dopo

Re Manfredi, l’Aglianico di Terre degli Svevi del Gruppo Italiano Vini, è un vino di territorio, balsamico, elegante e austero. Al suo fianco l’azienda ha creato TT, Taglio del tralcio, Aglianico dal naso più immediato e fruttato

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Due immagini di Terre degli Svevi, dove nasce l’Aglianico di nuova generazione, morbido e con tannini setosi . Sotto, Massimo Carluccio, patron dell’Happy Moments Restaurant di Lauria ha in carta anche i Re Manfredi che propone con soddisfazione

varie sperimentazioni siamo usciti in aprile con il TT 2010; un rosso di relativa pronta beva rispetto agli altri vini del Vulture, varietale ma morbido e moderno al tempo stesso. Come siamo riusciti a raggiungere questo obiettivo? Il 30 per cento delle uve, vendemmiate circa 10 giorni dopo l’apice della loro maturazione, subisce il taglio del tralcio, così da avere una frazione di bacche naturalmente appassite in pianta; grazie a questo accorgimento, il vino si trova arricchito di note dolci di frutta rossa, i tannini si fanno setosi e la beva morbida e grassa; al contempo, per bilanciare queste 50 | Food&Beverage settembre 2012

sensazioni accomodanti si vendemmia il resto delle bacche con leggero anticipo, in modo da salvaguardare freschezza e balsamicità, contenendo anche il grado alcolico. Da questo ‘compromesso’ vitienologico nasce un vino accattivante, pulito e gradevole, dove il ruolo del legno è marginale”. Ma qual è il target del TT? “I giovani! -risponde senza indugio LonardiIl TT è vino da winebar, da sbicchierare, moderno ma non stucchevole; gastronomicamente eclettico: dagli antipasti alle carni grigliate sino -servendolo fresco- a preparazioni salsate a base di pesci grassi. Ma intendiamoci -chiosa l’enologo- non siamo in presenza di un vinello ruffiano: riconoscibilità varietale e territoriale rimangono, anche perché la base di partenza è costituita da uve di qualità, ragion per cui anche la sua capacità di evolvere nel tempo è fuori discussione”. Il TT si inserisce in un più ampio progetto di riconfigurazione del marchio Re Manfredi; un brand per il canela horeca che si assesterà su un totale di 500 mila bottiglie, di cui 100 mila costituite dal Taglio del Tralcio. Una conferma degli auspici di Andrea Lonardi viene da Massimo Carluccio, patron dell’Happy Moments Restaurant di Lauria (Pz): “Il TT, che abbiamo in carta a 15 euro, è un vino fresco, godibile, fruttato, con poco apporto di legno, ma con tutta la sostanza e la struttura di un Aglianico del Vulture. A tutto pasto è molto eclettico, va bene anche con le zuppe di pesce ed è apprezzato da chi ama il gusto dell’Aglianico, ma desidera bere senza eccessivo impegno; giovani, ma non solo. Tra l’altro è il primo rosso del Vulture dall’abbigliaggio così ricercato, dall’impostazione stilistica così particolare; perciò si è subito ritagliato un suo segmento di mercato e chi lo assaggia spesso F&B lo richiede”.



territori La Famiglia Ehrmann, già imprenditrice in Germania, una decina di anni fa si è innamorata delle colline del Monferrato e ha deciso di dedicare nuova forza ed energia allo sviluppo della storica Tenuta Tenaglia, valorizzando i vitigni autoctoni e il territorio, anche attraverso l’arte

Tenuta Tenaglia, Monferrato dal cuore bavarese Stefano Masin

I Sabine Ehrmann, titolare della splendida tenuta ai piedi del Santuario di Crea, e alcuni vini con le etichette artistiche create dal marito Giuseppe Olivieri

talia e Germania sono nazioni legate da corsi e ricorsi storici, ma che di fatto non hanno mai avuto molto in comune. La prima più allegra e sentimentale, più seria e concreta la seconda. Ma quando la determinazione incontra la passione, il successo è assicurato. È ciò che è capitato a una famiglia originaria della Baviera: imprenditori di successo nel comparto del food, si sono innamorati dell’Italia e in particolare del Monferrato, in Piemonte. Così, Alois e Hannelore Ehrmann hanno coronato il sogno di vivere e produrre vino sulle colline monferrine acquistando nel 2001 la Tenuta Tenaglia, a 450 metri sul livello del mare e ai piedi del Parco naturale del Santuario di Crea, oggi Patrimonio mondiale dell’umanità. La tenuta fu fondata nel 1600 dal governatore di Moncalvo, Giorgio Tenaglia, famoso capitano di ventura e intraprendente mecenate, che volle crearsi un’oasi dove ritirarsi a meditare prima e dopo le sue battaglie. Nel 2004 Sabine Ehrmann, figlia di Alois e Hannelore, già legata all’Italia dall’amore per il marito pittore e scultore di origine partenopea Giuseppe Olivieri, entra attivamente nell’azienda vitivinicola di famiglia. A parte qualche ammodernamento effettuato negli ultimi dieci anni, “la tenuta ha mantenuto la medesima struttura -spiega Sabine Ehrmann- In compenso, abbiamo portato a 30 gli ettari coltivati a vite. Per noi è importante far crescere e far conoscere la zona del Monferrato e i vini autoctoni”.

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E, in effetti, la produzione si concentra su Barbera e Grignolino, anche se, un po’ per gioco e un po’ per sfida, la signora Ehrmann, che ha trovato nella tenuta un piccolo vigneto di syrah, da tre anni produce tremila bottiglie di questo vino in purezza: Olivieri etichettato con la riproduzione di un’opera d’arte del marito, un gesto d’amore che si traduce in una bottiglia da collezione. Ma, a parte questo vezzo, il vino più rappresentativo della Tenuta Tenaglia è il Barbera Monferrato Superiore 1930 Una Buona Annata, lanciato nel 2010 e dedicato agli ottant’anni del padre Alois. Di questa Barbera in purezza, che riposa sia in barrique nuove sia in tonneau, escono dalla cantina circa 2.600 bottiglie: in appena due anni si è guadagnata la finale per i tre bicchieri del Gambero Rosso. Un vino nato dalla passione di Sabine Ehrmann per questa terra e i suoi prodotti. Lei stessa, d’altra parte, ha dichiarato che “per fare il vino ci vuole passione, perché, senza, sarebbe troppo faticoso”. Ma Sabine ha saputo far crescere i vini figli del Monferrato come il Grignolino, spesso sottovalutato, anche grazie all’altra sua grande passione: l’arte. La tenuta, infatti, spesso ospita eventi e mostre di artisti contemporanei: perché, in fondo, il buon vino cos’è se non un’opera d’arte? F&B



roma Il Gruppo, che ha per ora dieci locali in diverse città, ha inaugurato il secondo ristorante romano. Un brand tutto italiano che a breve aprirà anche a Londra. Carni selezionate di fassone piemontese e una filiera corta per ottenere 44 proposte di piatti di carne, cruda o cotta

Maxelâ raddoppia e conta fino a dieci Jerry Bortolan

R Al Maxelâ si gusta la rivincita della carne bovina piemontese

addoppia a Roma Maxelà, un nuovo modo di fare ristorazione in maniera intelligente e di grande qualità in tempi di crisi. Se fino a ieri nello storico Riccioli Cafè, di via delle Coppelle, le proposte gastronomiche erano di solo pesce, ora che il ristorante ha cambiato nome e proprietà, il menu offre solo carne. Gli irriducibili amanti della bistecca al Maxelâ possono fare un viaggio di vera lussuria gastronomica, potendo affondare i denti nella straordinaria carne di fassone piemontese, proveniente da selezionati bovini femmina di almeno due anni, macellata e frollata dai 20 ai 25 giorni, come la fiorentina alla Maxelâ o la costata all’antica, detta anche la “carne dei Principi” per la sua straordinarietà. Insomma, qui siamo al top della qualità di questo prodotto che, se in questi ultimi anni sembra aver perso un po’ di glamour rispetto al pesce, è riproposta al meglio grazie a imprenditori capaci ed esperti del settore come Roberto Costa (uno dei soci fondatori insieme ad Alessandro Garrone e Marco Pedrelli, nonché direttore operativo), che ha lavorato molto sulla qualità e sulle caratteristiche indispensabili per l’allevamento dei bovini. Costa ha realizzato una filiera corta dove gli animali vengono seguiti dal pascolo fino alla macellazione, stabilendo anche, fin nei dettagli, le modalità di trasporto e della consegna al ristorante. Un servizio indispensabile per ottenere alta qualità e una reale garanzia per l’alimento. È questo l’unico modo in cui, secondo il Gruppo Maxelâ, si può vincere la scommessa gastronomica del futuro. “Personalmente, non credo che il nostro lavoro si possa definire in termini di catena produttiva -commenta Roberto Costa- Siamo degli artigiani specializzati, un po’ artisti, che amano la propria produzione, confezionando un piatto cominciando dagli ingredienti migliori. Spesso mi chiedono: può un macellaio essere un artista? Sì, certamente, quando la passione per il suo lavoro si unisce alla meraviglia che può suscitare l’operato delle sue mani, rendendolo

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quasi immortale, nel lavorarlo per estrarne le parti più pregiate dell’animale e esaltarne poi il gusto in cucina, come ci confidava lo chef Davide Scabin che si lavora personalmente la carne di fassone”. Il brand Maxelâ è sul mercato da nove anni con 10 ristoranti, in sette città, tra cui oltre a Roma (con i due locali di via delle Coppelle e di Borgo Vittorio) e Genova (con il primo locale a Vico al Ferro), anche a Milano, Torino, Modena, Rimini, Livorno. Cinque milioni di euro investiti fino ad oggi, due solo per l’apertura di Roma in via delle Coppelle e di quella, che avverrà a breve, di Londra. Duecentomila i pasti serviti nel 2011, 11 quintali di carne acquistata ogni settimana e con 44 proposte di piatti di carne, cruda o cotta, tutte di fassone piemontese. Il nuovo locale romano è stato accolto con entusiasmo e interesse anche dai tradizionalisti clienti “pesciaroli” che sono passati dal crudo di tonno a quello ben più saporito e intenso di una battuta all’Albese (solo con sale e pepe nero); o alla tartare al bacon e cipolle stufate o alla francese condita con Worcester sauce, tabasco, cetrioli, senape, capperi e tuorlo d’uovo (sempre tosti e barocchi, anche nel cibo, questi francesi…). Nel menu si può spaziare dalle polpette, agli hamburger, alla tartare, le interiora, le tagliate, gli affettati e i “porchi” con la doppia coppa di maiale alla griglia, la braciola di maiale impanata e vestita con pomodorini Pachino. Se sono gustosissimi per idee e bontà dei piatti, il massimo lo si ha nel chiedere il conto: tutte le proposte che troverete in menu vanno dai 6 ai 12 euro, tranne il super carré di manzo fassone che costa dai 40 ai 45 euro al chilo, praticamente come in macelleria. Fondamentale è sapere cosa si sta mangiando: al Maxelâ, sul tavolo, si trova un depliant che spiega cosa

sia la razza fassone e la filiera corta, le caratteristiche alimentari della carne che raccontano del suo basso tasso di colesterolo e della sua bassa carica batteriologica. Un indirizzo dove si può cenare tutti i giorni, anche magari provando uno dei primi di tradizione genovese come i mandilli al pesto, o gustare, tra i dolci, il latte dolce fritto. Senza dimenticare che via delle Coppelle è uno dei cuori pulsanti della movida notturna romana, posta strategicamente tra piazza Navona e il Pantheon, dove sia i romani che i turisti si dirigono ogni giorno per vivere serate all’insegna del glamour. F&B

La carne di fassone, oltre a essere una squisitezza gastronomica, dalla tagliata alla tartare, dalla costata alla fiorentina, è consigliata per il suo basso tasso di colesterolo e la minima carica batteriologica

scheda

Maxelâ via delle Coppelle 13 00186 Roma tel. +39 06.68210313 romacoppelle@maxela.it aperto pranzo e cena chiuso la domenica

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tecnologie Gli elettrodomestici intelligenti arredano la cucina professionale e quella domestica, eco-compatibili e all’avanguardia. Creatività dei designer e praticità della produzione s’incontrano, coniugando la funzionalità moderna con il rispetto della tradizione. Parola di chef

Hi-tech, il futuro irrompe in cucina Bianca Zille

I

l futuro irrompe in cucina. Il forno dialoga con il pc. Il frigo ci dice quando dobbiamo fare la spesa. L’aspirapolvere ormai non ha più bisogno di noi, ma va avanti da solo, stanza dopo stanza, senza richiedere alcuna spinta manuale. Eccoli, gli elettrodomestici “intelligenti”. E se in un futuro non così tanto remoto anche gli chef sparissero, sostituiti da aggeggi hitech che faranno tutto da sé? Scenario possibile, anche se non così probabile, per molti. Certo è che la cucina, il tanto amato focolare domestico, oggi è diventato un moderno e accessoriato “laboratorio”. Da sempre la stanza più frequentata della casa, ricca di sapori e profumi, dove stare insieme, è anche il luogo dove si fanno scelte importanti, si confessa il brutto voto, si decide con gli amici la meta delle prossime vacanze. Insomma, il locale della

Alessandro Boglione si affida agli elettrodomestici aspettandosi elevate prestazioni. A lato, il Full Induction CX480 di Gaggenau, piano cottura eco-compatibile e a induzione 56 | Food&Beverage settembre 2012


convivialità per eccellenza. Ma ha perso -anche se non del tutto, per ovvi motivi- alcune delle sue originali funzioni, quelle della preparazione e del consumo del cibo tout court. Al tempo stesso -dicevamo- è un bel “laboratorio”, dove progettisti e produttori mettono in gioco le loro rispettive abilità, dove le sfide tra creatività e funzionalità sono all’ordine del giorno. Anche perché arredare l’ambiente cucina è ancora un investimento in cui gli italiani credono e sono ancora disposti a spendere. Certo, in modo attento, valutando e confrontando. Perché la cucina oggi si trova tra due fuochi. La paura della crisi che preoccupa gli operatori da una parte e la voglia di rilancio dall’altra. È, in fondo, la stanza più allegra della casa degli italiani: dai modelli classici a quelli di design, in materiali diversi, dal metallo alla muratura al legno, multicolor e con una particolare inclinazione alle soluzioni naturali.

Vince il multitasking Ma la vera domanda è: come sarà effettivamente la casa di domani? Come la desiderano gli italiani? Sondaggi, studi, ricerche, ci dicono che questa stanza della casa viene considerata sia come un rifugio, sia- ed è questa la nuova tendenzacome luogo da condividere con amici e parenti. Anche perché in periodi come questi, di “controllo delle spese”, il tempo trascorso tra le mura domestiche risulta essere sempre maggiore. Il living -inteso come “soggiorno+cucina”- è il vero cuore dell’abitazione. Possibilmente, eco-sostenibile. Sì, perché ora progettisti e produttori propongono a ritmo continuo arredamenti che esprimono forti connotazioni di responsabilità ambientale, nel pieno rispetto della natura. Una sorta di marchio o di etichetta a garanzia dei materiali utilizzati, senza mai tralasciare ovvia-

mente l’aspetto estetico. Arredi e complementi, dunque, che aiutano a vivere meglio. Dove tutto è a portata di mano. La cucina contemporanea oggi vede soprattutto soluzioni modulari, da comporre liberamente, anche in base al proprio budget. Sarà che il presente vuole idee forti, che la casa si fa più compatta, che il multitasking allarga la sua influenza, che gli spazi si aprono a dinamiche diverse, che la flessibilità è un valore irrinunciabile. In tutti i casi, un oggetto non è abbastanza generoso se ha solo una funzione. Due è meglio. Tre è possibile, vedi CTline (Boffi), un sistema di colonne con ripiani di diverse altezze e profondità giocato sulla diagonale. Può stare in soggiorno come in bagno. Ma se lo metti in cucina offre soluzioni inedite. E così, in quest’ottica, gli acquisti frazionati -oggi un modulo, domani un altro- sottolineano una logica nuova: lo slow buy. Il tempo dice che cosa serve adesso, nel futuro si vedrà. Meglio sommare cosa a cosa, secondo un disegno mobile e pragmatico. Come la cucina Icon di Ernesto Meda, progettata da Giuseppe Bavuso. Qui il bancone mobile lascia libertà di utilizzo, mette in relazione la cucina con il living, migliora la relazione

Alcuni esempi di arredi e cucine hi-tech, come il Ctline di Boffi, dalla grande duttilità di impiego, e Icon di Ernesto Meda, ideata per giocare con lo spazio e la mobilità degli elementi. Qui sopra, il cuoco Cristian Bertol, che allo spazio-cucina contemporaneo chiede una tecnologia che gli vada incontro con la propria semplicità e funzionalità


Focus

Il designer Marc Newson, da sempre all’avanguardia per quel che riguarda tecnologia e design, e il piano cottura da lui ideato per Smeg, in una triplice offerta cromatica. Sotto, Ludovica e Roberto Palomba, due tra gli art director più riconosciuti a livello internazionale per marchi affermati come Elmar e Boffi

con lo spazio. Mentre ergonomia e tecnologia rendono più facile il lavoro e quindi la vita. E i colori più di tendenza? Via libera al bianco, un evergreen, ma anche a sfumature tenui, legate ai colori della natura, a cui affiancare colori forti e decisi (vedi gli ultimi modelli di Elmar, ma anche quelli di Febal). E i materiali sono quelli che rispettano la massima eco-compatibilità. Alcune aziende, ad esempio, hanno brevettato piani di lavoro inattaccabili da qualsiasi urto o taglio, ma anche specifici trattamenti antibatterici per rendere più igieniche tutte le superfici. Gli elettrodomestici sono super-tecnologici, of course. Per una massima efficienza energetica. Il tempo dello spreco è ormai un pallido ricordo. Frigoriferi a temperature interne programmabili, secondo il tipo di alimenti che si intendono conservare e in base al momento del loro utilizzo. Nell’era digitale, alcune aziende sono addirittura arrivate a introdurre un’applicazione per registrare la posizione e la data di scadenza degli alimenti deperibili. E ancora: forni multifunzione e piani cottura dalle forme minimaliste ma estremamente pratiche, cappe di aspirazione silenziose che sembrano sculture futuristiche o quadri d’autore. Perché, ormai, la tecnologia diventa anche arredo. Ad esempio i prodotti della linea firmata per Smeg da Marc Newson, uno fra i principali interpreti del design internazionale, sono declinati nella versione total white. Forno, piano cottura e cappa in una perfetta coerenza stilistica nella tradizione di un’azienda che da sempre -e forse per prima- ha investito nel connubio tra tecnologia e design. Questo è un momento delicato, durante il quale si confrontano la creatività dei designer con la concretezza e il diffuso conservatorismo degli addetti

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alla produzione. Certo è che un buon progetto nasce da una buona idea alla base, ma poi ci deve essere anche un dialogo tra designer e produzione per non far nascere un progetto scontato, sia dal punto di vista della forma che da quello del contenuto.

Design e produzione s’incontrano Un buon progetto è sempre frutto di una collaborazione. Ma anche da un’attenta analisi dei cambiamenti della società. Partendo dal presupposto che lo spazio cucina è oggi nella casa uno dei più complessi, articolati e ricchi di tecnologia; e aggiungendo il non indifferente dettaglio che il design destinato alla cucina è assolutamente più soggetto a usura che non quello destinato al resto della casa (vedi tutti gli “attacchi bellici” derivanti dall’utilizzo di liquidi come aceto e limone, padelle ustionanti appoggiate su piani di lavoro, e tutte le attività connesse con l’attività del cucinare: e quindi tagliare, affettare, sminuzzare, sventrare, spelare). Insomma, appare subito evidente che la ricerca sui materiali, sulle finiture, sulle cerniere, così come quella sulla distribuzione, sulla razionalizzazione dei movimenti, sia molto più avanzata presso i produttori di cucine che non tra i loro colleghi che si dedicano al living o alla zona notte. Che ora prestano un orecchio attento alle vere esigenze del consumatore finale. Anche perché l’utente in questione non è un utente qualunque, bensì un consumatore 2.0, che vive su Internet, vuole dialogare direttamente con l’azienda ed è alla ricerca di progetti con servizi competitivi più che di prodotti. Poi, avendo a disposizione fonti di informazione pressoché illimitate -come il web, i blog e i social net-


work (che in molti casi hanno sostituito i customer service delle aziende)- il consumatore non si accontenta più di essere acquirente passivo, ma desidera essere protagonista del mercato, fino a condizionare gli stessi progetti delle aziende. Sempre più cittadino del mondo, non cerca più solo singoli prodotti da acquistare, quanto, piuttosto, progetti credibili. E se l’utente in questione fosse proprio lo chef? Alessandro Boglione, ad esempio, cuoco del ristorante Al Castello di Grinzane Cavour (Cn), ammette che le aziende produttrici di grandi elettrodomestici gli hanno semplificato la vita nel corso degli anni. E non poco. “A volte c’è un confronto -afferma- ma in realtà io intervengo solo per delle piccole migliorie e soprattutto in occasione di debutti particolari o per la presentazione di nuovi modelli. In linea di massima, però, le soluzioni le danno loro a me! Io poi mi adeguo”. Boglione è affascinato dai prodotti di Indesit Company, da fuochi e forni della linea Luce di Hotpoint-Ariston. “Nell’Openspace entra una tale quantità di cibo che per una cena importante si può fare un bel banchetto. Mi sono davvero divertito -continua Boglione - come un professionista che gioca con un forno che nasce per un target casalingo. Mi sono messo nei panni della massaia -che magari non ha una certa manualità- alla quale viene data la possibilità di provare dei programmi già determinati con diverse cotture, per realizzare ricette diverse, dal pane al pesce. E poi in questo forno c’è una cavità interna con ben 77 litri di capienza e un divider che ci consente di lavorare o solo sotto o solo sopra. Oppure, togliendolo, si può usare tutto il forno, programmando cotture diverse

contemporaneamente fino a 100° C di diversità tra una camera e l’altra, per la carne e per il pesce. La cosa bella è che né gli odori né i sapori si mescolano”. Oltre al divertimento però -tiene a specificare- ciò che un grande chef deve essere in grado di ottenere da un elettrodomestico è un’elevata performance. “In questo altro modello, il Monomanopola, troviamo un’omogeneità di cottura quasi da professionista, perché si ottiene una cottura ovunque uguale, nei diversi livelli. A livello ecologico, infatti, consuma il 20-30 per cento in meno. E poi dal punto di vista dell’azienda, c’è anche il fattore sicurezza. Il vetro del forno è freddo, dettaglio non trascurabile per chi ha dei bambini in casa”.

La professionalità arriva a casa nostra Ma come stanno cambiando, dunque, cibo e casa? Diffusi sono ormai i giardinetti condominiali, ad esempio, dove si allevano i pesci. Oppure l’orto sul terrazzo. C’è chi si spinge più in là, tenendo proprio lì, in quei 5-10 metri quadrati, un piccolo kit per allevare un pulcino e, magari, avere poi un uovo fresco tutte le mattine. La tendenza dell’home farming non è solo sinonimo di risparmio, ma anche di grandi preoccupazioni generalizzate, tra mucche pazze e mozzarelle blu. Oggi ci si preoccupa molto di più che in passato di quello che si mangia. E così, in una rivalutazio-

Apprezzato anche da Boglione, il forno Luce di Hotpoint-Ariston offre sicurezza, capienza, praticità, e garantisce performance eccezionali. Per i piani cottura, il Freeinduction2 di Siemens riconosce automaticamente la presenza e la posizione delle pentole, mentre l’Oversize di Franke unisce estetica sofisticata a efficienza e razionalizzazione dello spazio

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Il forno DGC 5080 XL di Miele, oltre a garantire un funzionamento tradizionale e a vapore, possiede una sonda termometrica wireless utile a controllare meglio la cottura. A lato, un esempio del nuovo sistema di cassetti e cassettoni Bulthaup, Schubsystem Stahl

ne generalizzata dei piaceri della tavola, di pari passo troviamo anche la trasformazione di ognuno di noi in piccoli artisti in cucina. Con annessi e connessi. E così i segreti e le sperimentazioni dei grandi chef vengono mutuati dalla cucina professionale all’ambiente domestico. Quegli elettrodomestici, prima solo appannaggio degli stellati, sono ormai sempre più presenti tra le mura di casa. Tra questi, l’abbattitore che raffredda rapidamente il cibo, mantenendone il gusto, le proprietà nutritive e organolettiche, molto usato nei ristoranti per pre-cucinare. Come Freddy, di Irinox: un abbattitore di temperatura per la casa di derivazione professionale, che consente appunto con il ciclo di raffreddamento rapido di portare la temperatura del cibo appena cotto da 90°C a 3°C, l’ideale per la conservazione degli alimenti in frigorifero per 5-7 giorni ai massimi livelli qualitativi. Oppure, grazie al suo ciclo di surgelazione rapida a -18°C, dà la possibilità di congelare rapidamente: l’acqua contenuta viene portata alla solidificazione in microcristalli (che non ledono fibre e membrane cellulari) in tempi brevissimi e, al momento dello scongelamento, struttura, consistenza e colore degli alimenti risulteranno inalterati, come se non fossero mai stati congelati.

Risparmio energetico e funzionalità Risparmio energetico abbinato alla freschezza del cibo è il binomio su cui puntano anche le apparecchiature di raffreddamento e congelazione Liebherr, azienda attenta all’utilizzo efficiente delle risorse fin 60 | Food&Beverage settembre 2012

dai primi processi. Ad esempio, il calore che si forma nella fase di produzione viene recuperato come energia per il riscaldamento. Garantire il massimo della funzionalità con un occhio di riguardo all’estetica è l’approccio di Franke, che con il piano di cottura a incasso Oversize, garantisce un’ottimizzazione degli spazi ed ergonomia d’uso. E poi ci sono i piani cottura a induzione, con prestazioni più elevate e meno consumo di gas. Il Full Induction CX480 di Gaggenau è composto da 48 microinduttori disposti a nido d’ape, che trasformano il piano in un’unica zona cottura, e da un display TFT touch control, che riconosce e scalda le pentole nel punto in cui si trovano, indipendentemente dalla loro forma e grandezza. E poi, oltre ad essere scaldate automaticamente, le pentole si possono spostare liberamente. Infine, le impostazioni di cottura possono essere memorizzate e richiamate se necessario in un momento successivo. Stesso riconoscimento automatico della dimensione e posizione di ogni pentola è nel piano cottura Freeinduction2 di Siemens, con due zone cottura free sulle quali è possibile collocare ogni tipo di pentola, fino a occuparne tutta l’area disponibile. Tutti diventati ormai elettrodomestici di largo consumo, insomma. Pezzi utilissimi usciti dalle cucine professionali per planare nel nostro ambiente domestico. Tecnologia e innovazione sono applicate anche alla cottura, in particolare quella a vapore, sempre più utilizzata perché preserva vitamine e principi nutritivi contenuti negli alimenti. Il forno DGC 5080 XL di Miele, che è un tradizionale a tutti gli effetti ma funziona anche a vapore, diventa utilissimo quando si devono preparare piatti di carne che richiedono fasi di cottura umide e asciutte alternate. Per l’arrosto, in particolare, la sonda


termometrica wireless, unica nel suo genere, misura la temperatura interna della pietanza e consente di ottenere ottimi risultati di cottura. Oppure ci sono gli innovativi sistemi Steam Flex Cavity Prodige di Hoover, che generano particelle d’acqua a ultrasuoni migliorando la distribuzione del vapore all’interno del forno e favorendone di conseguenza la cottura uniforme. Il Vita Steam di Miele arriva allo zen della cottura. In questo elettrodomestico l’arte del vapore sposa la tradizione mediterranea con l’esclusiva tecnologia Vita Steam: gusto, colori e genuinità dei piatti vengono esaltati, cucinando pietanze diverse contemporaneamente senza confonderne i sapori.

Moderna semplicità Ecco, dunque, alcuni oggetti del desiderio dei nuovi chef del Terzo Millennio, che sono cresciuti a pane e consigli dei più grandi cuochi del secolo scorso. Abbiamo chiesto a Cristian Bertol, del ristorante Orso Grigio a Ronzone Trento (Tn), qual è il pezzo che manca nella sua cucina e che in realtà gli semplificherebbe la vita. Tra il serio e il divertito ha risposto: “Un sosia!”, per poi aggiungere, un po’ nostalgico: “Ho lavorato con alcuni tra i cuochi più famosi al mondo: Nadia Santini de Dal Pescatore a Canneto sull’Oglio (Mn) è come una mamma per me, ad esempio. Ecco, lei non usa il forno a vapore, per mentalità. A me magari piacerebbe averlo. Ma certi pensieri mi hanno forse un po’ condizionato: non amo i forni a vapore con la sonda, preferisco invece un buon forno a vapore che vada bene. Insomma, la semplicità che funzioni bene. Perché troppa tecnologia mi porta ad avere a volte dei problemi di praticità.” E ancora: “Da un elettrodomestico moderno non

chiedo l’impossibile. Chiedo molta semplicità. Oggi ci sono molte tecniche che anche le casalinghe usano quotidianamente: l’induzione, la non induzione, ecc. quello che io auspico è una cucina più facile in cui lavorare, in modo che il cucinare diventi qualcosa di meno stressante. Perché quando hai un posto comodo, pratico e funzionale, riesci a cucinare anche bene”. Dello stesso avviso Mattia Poggi, altro chef mediatico, questa volta di Alice Tv. Anche lui da una cucina cerca un po’ di semplicità in più rispetto a ciò che si vede oggi. Perché l’biettivo di un cuoco è innovare nella tradizione. “Perché c’è la tendenza di ritornare ai piatti di una volta, ai piatti originari della cucina italiana, anche se -ammette Mattia- il contesto è cambiato e la cucina della nonna non esiste più. Quindi è necessario stare al passo con i tempi, sempre tenendo conto però di quelle che sono le basi”. Ma qual è lo strumento più utile per lui? “Sicuramente i fuochi, perché a livello professionale si sono fatti dei progressi e dei passi in avanti incredibili. Di contro, troppa tecnologia applicata agli elettrodomestici di largo consumo è sì mirata a migliorare la vita e le prestazioni culinarie delle casalinghe, ma spesso può tramutarsi in un trabocchetto. E quindi non soddisfa né una cosa, né l’altra. Da casalingo -continua- penso che gli elettrodomestici cosiddetti ‘parlanti’, perché collegati a un pc o a uno smartphone, siano una grande cosa. Da cuoco, invece, non penso riuscirei mai ad affidarmi completamente a un computer, mentre cucino. Un computer non sostituisce una mano, una bocca, il proprio palato. Questo per quanto riguarda la cucina professionale. Mentre a casa penso si possano preparare dei grandi pranzi e delle grandi cene grazie anche all’aiuto di una cucina hi-tech”. F&B

Gli innovativi sistemi d’arredo Slim e Slim Isola Cross di Elmar: forme architettoniche e leggerezza di struttura caratterizzano queste due creazioni, frutto del design di Ludovica e Roberto Palomba. Sotto, Mattia Poggi, che nella cucina professionale all’eccessiva tecnologia preferisce un approccio più immediato e semplice

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vini Nel Marlborough, la maggior area vinicola del Paese, famosa per i suoi Sauvignon blanc freschi e profumati, oggi si punta su certificazione biologica e sostenibilità. Molte le opportunità per i vini italiani,

Nuova Zelanda rampante quarantenne Paolo Becarelli

P Vigneti nella regione vinicola di Auckland e, nella cartina, le sue tre sottozone

rendete un mappamondo e appoggiate una matita sull’Italia. Immaginate poi che la matita si dilati in lunghezza, passi per il centro del mappamondo e sbuchi fuori dalla parte opposta, cioè in prossimità del 45° Parallelo sud. Sarete in Nuova Zelanda, Paese diametralmente opposto al nostro e con il quale abbiamo molte affinità geomorfologiche. A partire dalla conformazione stretta e lunga del paese, costituito da due isole separate fra loro da uno stretto di poche

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© New Zealand Winegrowers

ma la barriera del prezzo frena la diffusione di etichette di qualità


© Pernod Ricard NZ Ltd

miglia: la massima distanza dell’entroterra dal mare è di 130 chilometri, mentre ce ne vogliono quasi 1.500, grosso modo come in Italia, per andare da un capo all’altro. Poi il clima: sub-tropicale nell’isola del Nord, continentale in quella del Sud, che è più fredda perché più vicina al polo sud ma è anche riparata dai venti freddi provenienti dall’Australia grazie alla costale delle Alpi neozelandesi. Infine, il suolo. La Nuova Zelanda è la nazione più giovane della terra e pertanto ha una grande varietà di terreni. Si va da quelli sabbiosi a quelli ghiaiosi, da quelli argillosi a quelli alluvionali formatisi grazie ai depositi delle acque nelle piane costiere. Detto questo, non sorprende sapere che in Nuova Zelanda si coltiva la vite e si producono ottimi vini, alcuni dei quali si collocano ai vertici delle classifiche mondiali. Straordinario è invece che la storia enologica del Paese non abbia più di 40 anni. Tanto per dare un’idea di quanto rapidamente si sia sviluppata la vitivinicoltura in Nuova Zelanda, basti pensare che nel Marlborough, la maggior area vinicola del Paese (si trova nel nord-est dell’isola del Sud e vi si produce il 75 per cento del vino neozelandese), famosa per i suoi Sauvignon blanc freschi e profumati, fino al 1970 pascolavano indisturbate le pecore e non c’era quasi traccia di vigne. La prima vite in Nuova Zelanda fu messa a dimora nel 1819 a Kerikeri, villaggio a nord-est dell’isola del Nord. Gli annali riportano che fu Samuel Marsden, un missionario anglicano, a piantare la prima vite (Marsden è ora il nome di una fiorente tenuta vinicola), ma non danno notizia di che vitigno si trattasse; si dovette comunque aspettare altri 20 anni perché lo scozzese James Busby, da un vigneto piantato sempre vicino a Waitangi, ottenesse le prime bottiglie di vino. Benché Busby e i suoi seguaci avessero

piena fiducia nelle potenzialità vinicole della Nuova Zelanda, la produzione non ebbe il successo sperato. Per diverse ragioni. Innanzitutto mancava una cultura enoica: i primi tentativi di impiantare una moderna vitivinicoltura si scontrarono con il fatto che i pionieri di questa iniziativa furono inglesi, i quali non possedevano né la tradizione vinicola né le conoscenze scientifiche per cimentarsi nell’impresa. In secondo luogo, come gran parte dell’Europa fra la fine dell’800 e l’inizio del 900, il Paese fu devastato da un attacco di fillossera che mise in ginocchio i produttori, costringendoli a estirpare le viti. Terzo, fino a 50 anni fa esisteva un forte pregiudizio sociale nei confronti del vino e dei danni causati dall’alcol, e questo portò le autorità governative a emanare una sorta di proibizionismo che ne ostacolò la diffusione. Solo per fare un esempio, si iniziò a vendere vino nei negozi solo dopo la seconda guerra mondiale (e tutt’oggi per acquistare una bottiglia al supermercato occorre aspettare il benestare del supervisore delle casse: non solo se dimostri meno di 18 anni, ma anche se sei ultrasettantenne…). Nei ristoranti e negli alberghi il vino ebbe diffusione solo dopo il 1960. Neppure pub e bar potevano dirsi al riparo delle leggi antialcol, perché dovevano chiudere rigorosamente alle 22.

A sinistra, grappoli di riesling e, a destra, degustazione di vini bianchi e rossi a Villa Maria, azienda storica della Nuova Zelanda (nata nel 1961) con vigneti sia nel’Isola del Nord sia in quella del Sud

Il dominio dopo Isabella L’enologia in Nuova Zelanda non ebbe quindi vita facile, tanto più che la reazione dei viticoltori agli attacchi di fillossera e oidio fu di piantare vitigni ibrido franco-americani come Baco noir (simile al Clinton) e Isabella (uva fragola) i quali, se resistevano bene alle malattie, producevano però uva più adatta alla tavola che alla bottiglia. I vini che se ne ricavavano erano dolciastri, spesso fortificati per farne prodotti di Food&Beverage settembre 2012 | 63


vini

Filari coltivati con metodi di agricoltura biologica di Muddy Waters, nell’Isola del Sud. A destra, la macerazione del mosto con le bucce nella cantina di Villa Maria

qualità almeno sufficiente per essere consumati. La svolta si ebbe alla fine degli anni Sessanta, quando si cominciò a sostituire il vitigno Isabella con varietà vinifere di provenienza europea. Inizialmente si utilizzò il müller thurgau (vitigno che in Germania dà grandi soddisfazioni) perché il clima neozelandese ha diverse affinità anche con la terra tedesca, essendo freddo d’inverno, relativamente piovoso e in grado di garantire una maturazione omogenea dei grappoli. Il müller thurgau fu però presto soppiantato in popolarità dal sauvignon blanc, vitigno che trovò il proprio terreno d’elezione nella regione del Marlborough. Vinificato in acciaio a temperatura controllata, senza passaggi in legno per mettere in risalto le caratteristiche varietali, consentì di produrre vini dall’inconfondibile profumo fruttato e dai sentori di frutta tropicale, freschi e dalla marcata acidità naturale come quelli resi celebri a Cloudy Bay da David Hohen e dal suo enologo Kevin Judd, premiati nel 1985 a Londra come i

etichette

Ecco i magnifici 10 In una cantina cosmopolita non dovrebbero mancare questi 10 vini neozelandesi. Mark Young li ha scelti per noi perché più di altri esemplificano i diversi terroir della Nuova Zelanda e le cantine che hanno lavorato meglio negli ultimi anni. 1- Kumeu River Hunting Hill Chardonnay 2- Felton Road Block 5 Pinot Noir 3- Fairbourne Estate Marlborough Sauvignon Blanc 4- Millton Clos de Ste Anne Chenin Blanc 5- Pegasus Bay Aria Riesling 6- Bilancia la Collina Syrah 7- Fromm Fromm Vineyard Pinot Noir 8- Framingham “Auslese” Riesling 9- Escarpment Kupe Pinot Noir 10- Craggy Range Sophia Merlot

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miglior Sauvignon blanc del mondo. Oggi il sauvignon blanc è il vitigno maggiormente coltivato in Nuova Zelanda: 17.972 ettari su una superficie vitata totale di 33.600 ettari. Il successo dei Sauvignon blanc è, come d’altronde quello di tutti i vini neozelandesi, assai recente: il primo vigneto di viti europee nel Marlboroug risale al 1973, mentre la costituzione dell’Istituto del vino neozelandese, il New Zealand Wine, data 1975. Da allora l’enologia ha fatto passi da gigante grazie anche a una legislazione che non prevede norme rigide sulla coltivazione e sulla produzione di vini, lasciando così ampi margini alla sperimentazione. Sperimentazione che, va però detto, ha sempre come obiettivo la qualità e la competizione sui mercati internazionali. Parallelamente al sauvignon blanc, i viticoltori neozelandesi hanno messo a dimora per lo più uve di vitigni cosiddetti internazionali. Fra quelli a bacca bianca, il riesling, il pinot gris, il gewürztraminer, lo chardonnay. Proprio quest’ultimo, sebbene negli ultimi 10 anni non abbia visto aumentare significativamente il numero di ettari vitati (3.515 nel 2002, 3.792 nel 2012), ha però dato molte soddisfazioni, almeno in termini di prestigio, ai produttori neozelandesi. Dalle produzioni delle zone di Gisborne, Hawke’s Bay e Auckland (con le sottozone di Kumeu/Huapai, Henderson e Waiheke island) nell’Isola del Nord e Nelson, Marlborough e Canterbury in quella del Sud provengono infatti Chardonnay superbi, citati in tutte le riviste enologiche e in grado di competere con le più affermate etichette mondiali. Fra i vitigni a bacca rossa i più diffusi sono invece il pinot noir (4.828 ettari), il merlot (1.403), il cabernet sauvignon (521) e lo syrah (300). “Ma sono il Pinot noir e lo Syrah, entrambi vincitori di importanti premi, ad avere oggi le maggiori potenzialità sullo scenario


mondiale -afferma Mark Young, distributore in Nuova Zelanda di alcune fra le Case più note (Bilancia, Kumeu River, Graggy Range Winery, Clos de St. Anne) e importatore di etichette spagnole, francesi e italiane (Parusso, Rocca delle Macìe, Umani Ronchi, Villa Sandi)- Per migliorare ulteriormente le qualità devono però crescere e accentuare quelle differenze regionali e sub-regionali che li rendono unici. Ad esempio, nel Central Otago si possono già chiaramente identificare caratteristiche specifiche nei vini delle zone di Bannockburn, Bendigo o Lowburn-Pisa. Ma è un lavoro che richiede tempo: dobbiamo quindi avere pazienza e permettere alla nostra industria vinicola di dare sistematicità al materiale finora raccolto. Solo l’esperienza e il tempo potranno mettere in luce le singolarità di ogni vitigno e di ogni terreno. In più dobbiamo proteggere la reputazione del nostro Sauvignon blanc e aumentarne, se possibile, la qualità attraverso le sue diverse espressioni zonali”. Già, il sauvignon blanc: su 10 bottiglie vendute in Nuova Zelanda, 8 sono di questo vitigno. Che rappresenta il 69 per cento del totale dell’uva raccolta, distanziando di gran lunga pinot noir (10 per cento), chardonnay (8 per cento), pinot gris (5 per cento) e merlot (3 per cento). “Senza dimenticare il riesling e il viognier. Alcuni produttori sono anche entusiasti dei risultati di alcuni impianti sperimentali di grunn vetliner -puntualizza Mark YoungMa il problema da superare, come dicevo, rimane il fatto di

dare maggior identità e unicità ai vini esistenti. Solo così potremo rispondere a chi ci accusa di fare vini standardizzati, che presentano sempre le medesime caratteristiche organolettiche”.

Cambiare per crescere Più che sui vitigni, il futuro dei vini neozelandesi risiede probabilmente sugli stessi fattori di successo che hanno consentito in passato all’industria vinicola di affermarsi con successo e in così breve tempo sullo scenario internazionale, ossia la capacità di innovarsi e di adattarsi ai cambiamenti. Non è un caso che i due nuovi asset del marketing del vino neozelandese siano la certificazione biologica e la sostenibilità. La Nuova Zelanda ha recentemente varato un programma per la certificazione biologica che sta raccogliendo crescenti consensi. Forte del fatto che non solo ha bandito gli impianti nucleari, ma che è anche la nazione più distante da ogni altra da qualsiasi impianto nucleare, con oltre il 70 per cento della sua energia prodotta da fonti rinnovabili (sarà il 90 per cento nel 2025), vuole inoltre trasmettere il messaggio che il suo vino è prodotto in una terra “pulita”, preoccupata per l’impatto ambientale di ogni sua attività. “Vogliamo essere internazionalmente riconosciuti come eccellenti produttori di vini dalla forte personalità e di grande qualità, diversi e sostenibili”, è la parola d’ordine

A sinistra, prova di botte a Stete Landt, azienda vinicola a carattere familiare nella regione del Marlborough. A destra, grappoli di pinot noir di Palliser Estate Wines, nel Martinborough. Al centro, Clive Jones, enologo di Nautilus Estate, azienda del Marlboroug, e (sotto) Mark Young, distributore e importatore di vini italiani in Nuova Zelanda

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vini

Bottiglie di Pinot noir di Muddy Waters, un nome (acque fangose, in italiano) che è la traduzione letterale di Waipara, così era chiamato in lingua maori il luogo in cui sorge l’azienda. A destra, una vite di Babich Wines, fondata nel 1916 da Josip Babich, immigrato croato, e che ora possiede vigneti in quattro diverse zone della Nuova Zelanda

del New Zealand Wine. E in un mondo sempre più sconcertato dai “buchi neri” che si verificano nei processi alimentari, dalla mucca pazza in poi, questo potrebbe essere un segnale forte in grado di rassicurare i consumatori e attrarne di nuovi. Al contempo, il New Zealand Wine lavora per creare una stretta liaison fra produttori e coltivatori. L’obiettivo è che entrambi siano coesi nel difendere l’immagine dei brand nazionali e nel produrre vini di qualità, affermandone l’integrità e l’autenticità. Sono questi valori che hanno permesso all’industria vinicola neozelandese di superare momenti difficili come il surplus produttivo culminato nel 1983 con la decisione di espiantare parte del vigneto, oppure superare senza troppe difficoltà l’effetto combinato di una stasi della domanda e della crisi internazionale nel 2008. Ma anche di guardare senza eccessivi allarmismi al futuro. “La geografia dei mercati, le preferenze dei consumatori, la dinamica della catena distributiva e la natura della nostra offerta stanno subendo un mutamento radicale -scrivono Stuart Smith e Steven Green, rispettivamente Chair e Deputy Chair del New Zealand Wine, sull’annual report 2011- Ciò richiede investimenti nel marketing e nello sviluppo, ma ci sono tutti i motivi per credere che usciremo vincenti anche da questa sfida”.

Le opportunità per l’Italia In Nuova Zelanda il consumo di vino passa essenzialmente dal supermercato. 74 bottiglie su 100 sono scelte sullo scaffale, 16 vanno in bar e ristoranti, mentre 10 sono vendute nei negozi specializzati oppure online. Con una forte attenzione sul prezzo: il 70 per cento del vino che va al supermercato è infatti controllato dalle 2 principali catene di distribuzione, le quali vendono il 90 per cento del loro vino attraverso 66 | Food&Beverage settembre 2012

le promozioni. “Il 75 per cento del vino acquistato si situa sotto i 12 dollari e ciò costituisce una prima barriera per la diffusione del vino italiano di qualità in Nuova Zelanda”, sottolinea Mark Young. Per fortuna la cucina, lo stile e la cultura italiani sono un must, e con questi presupposti è naturale che ci sia curiosità nei confronti del nostro vino. “Ma i produttori e i consorzi di tutela italiani devono essere più flessibili se vogliono penetrare mercati emergenti come quello neozelandese. Ad esempio, non devono negare la Docg a chi vuole usare il tappo a vite, ormai universalmente accettato sia per le bottiglie di prezzo, sia per i vini premium. Persino Case vinicole celebrate come Château Margaux sono favorevoli al suo uso se può contribuire a ridurre i costi del vino e agevolarne la conoscenza -aggiunge Young- Un’altra cosa che potrebbero fare gli italiani è riportare obbligatoriamente in etichetta o in retroetichetta la composizione varietale del vino, il che aiuterebbe a rendere trasparente la composizione del vino stesso. Diffondendone così la conoscenza”. Perché informare è educare al consumo. Se i neozelandesi meno giovani hanno una conoscenza superficiale dei vini italiani e dei vitigni da cui originano, la generazione dei venti-trentenni non ha neppure quella, essendo abituata a bere etichette locali o australiane. “Il battesimo dei più giovani con il vino italiano avviene per lo più nei bistrot, nelle enoteche o nei ristoranti di città cosmopolite come Auckland e Wellington -conclude Mark Young- E non a caso la scelta ricade quasi sempre su vini che sembrano familiari, seppur solo nel nome, con quelli locali. Un esempio per tutti? Il Pinot grigio. Quello tricolore è più secco del Pinot gris neozelandese, che si rifà allo stile alsaziano. Eppure piace”. Tanto da diventare di moda a prezzi decisamente interessanti. (www.nzwine.com). F&B



ospitalità Immerso nella macchia mediterranea, tra coltivazioni di viti e olivo, nell’entroterra di Oliena, il relais della famiglia Palimodde custodisce l’arte e la memoria dell’isola, dalle ceramiche, alla tessitura, alla pittura, ma anche i sapori e i piatti della tradizione barbaricina

A Su Gologone per scoprire l’antico spirito sardo Gualtiero Spotti

L Il relais unisce il fascino del territorio incontaminato con gli eccellenti sapori sardi

a Sardegna che non ti aspetti. Quella più autentica e sanguigna, dell’entroterra, legata alle radici dell’isola. Sicuramente meno mondana di quella che finisce sui giornali gossippari e che ha poco da spartire con la luccicante e troppo spesso strabordante della Costa Smeralda. Invece, vicino al paese di Oliena, a due passi da Orgosolo e da Nuoro, a ben guardare non troppo distante dalle spiagge dorate, si trova l’hotel Su Gologone, uno dei più accoglienti e belli dell’intera isola, piacevolmente genuino e dove è facile riscoprire il vero spirito isolano. Qui, nella macchia mediterranea, ci si trova di fronte a un dedalo di camere e appartamenti, che si ramificano in un parco immenso confinante con le coltivazione della vite e dell’olivo. Un luogo idilliaco, conservato dalla famiglia Palimodde e impreziosito nel corso degli anni grazie allo scrupoloso impegno quotidiano di Giovanna, appassionata dell’arte sarda e lei stessa pittrice. È questo, infatti, un vero e proprio relais di campagna che, oltre ad essere da diverse stagioni un approdo sicuro per gli amanti della cucina tradizionale regionale, è diventato un centro importante per il recupero dell’arte e della memoria dell’isola, dalle ceramiche alla tessitura, dalla pittura alla gioielleria locale. Quasi un albergo museo dove le stanze per gli ospiti racchiudono segreti e opere d’arte da scoprire, dove ogni angolo trasuda bellezza e si esalta il gusto per l’accoglienza, dove i clienti entrano in contatto con l’artigianato locale di qualità con la creazione del marchio Su Gologone Style e con la proposta agli ospiti di partecipare a laboratori e corsi creativi, in un ambiente di totale relax. Un romantico rifugio in cui

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non mancano i comfort dell’albergo contemporaneo, tra piscina, centro benessere, palestra, boutique, tennis, biblioteca e un parco giochi per i più piccoli, ma anche la passione di una famiglia sempre impegnata a valorizzare il territorio. Se ne sono resi conto i molti vip che in queste stanze hanno sostato a lungo negli anni passati. Soprattutto attori hollywoodiani, da Richard Gere a Madonna, giusto per citarne un paio, che nei dintorni hanno girato alcuni film e sono rimasti affascinati dall’ambiente raffinato ed elegante creato dalla famiglia Palimodde. Gli amanti della cucina nostrana sanno poi che a Su Gologone non restano certo delusi, incontrando i sapori e i piatti della tradizione barbaricina, con le squisite carni che vengono preparate nello scenografico camino della sala principale del ristorante. Un invitante tripudio di porcetti allo spiedo, di vitella alla brace, di capretti al finocchietto selvatico, di salsicce, di filetti di manzo alle erbette. Per non parlare dei grandiosi primi piatti della carta, introdotti da un doveroso assaggio di pane frattau (il classico carasau con pomodoro, uova e formaggio pecorino). È difficile resistere ai maccarones de busa (una lunga pasta tirata a mano) o ai filindeu (una minestra tipica, sempre di pasta, ma cotta in brodo di pecora), anche se preparazioni più facilmente riconoscibili, come i classici ravioli ai funghi porcini, rimangono altrettanto superlativi e nel recente passato si sono aggiudicati numerosi premi alle competizioni gastronomiche in giro per l’Italia. I sapori delle erbe (il mirto, tra queste) la fanno da padrone su molti piatti, ma la cucina locale abbraccia con i suoi prodotti territoriali l’intera sosta golosa, visto che poi si assaggiano squisiti formaggi (anche arrostiti con lattuga e miele) e ci si lascia tentare dai dolci tra seadas, pasta di mandorle e gelati alla ricotta. Con la chiusura prevedibile del Fil’e Ferru, la grappa locale, anche se l’intero pasto può essere accompagnato dalla gloria vinicola del

luogo, il Cannonau Nepente. Lo staff dell’albergo si preoccupa sempre di far sentire a proprio agio l’ospite anche quando decide di varcare la soglia dell’albergo per spingersi alla scoperta dei dintorni. Così tra escursioni e trekking organizzati nella vicina Tiscali, tra i nuraghi, oppure a pranzo nella bella frasca di un pastore che abita nella sperduta valle di Lanaitto, oltre il lago del Cedrino, la Sardegna mostra le sue radici, la sua storia, le sue tradizioni. E Su Gologone diventa la principale porta di accesso alla scoperta di una cultura rurale di grande fascino, raccontata anche nei quadri, nelle sculture e nelle ceramiche di Giuseppe Biasi, di Francesco Ciusa, dei fratelli Melis (Federico, Melkiorre e Isa Casano), di Giovanni Cucca, di Ciriaco Piras e dei tanti artisti del Novecento che sono presenti nelle stanze e negli spazi comuni dell’hotel. Opere che rappresentano una collezione unica, alimentata ancora oggi dalla ricerca di Giovanna Palimodde che, quando incontra nei suoi viaggi qualche opera di un artista di origini sarde, fa di tutto per riportarla in qualche modo a casa, sull’isola. Per un lodevole istinto di conservazione del F&B patrimonio artistico sardo.

Su Gologone è quasi un albergo museo dove le stanze per gli ospiti racchiudono opere d’arte da scoprire e dove si entra in contatto con l’artigianato locale

scheda

Su Gologone Country Resort Località Su Gologone 08025 Oliena (Nu) tel. +39 0784.287512 www.sugologone.it gologone@tin.it

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parallelismi Un ricettario ideato per svelare i segreti dello chef dell’Hospitality Pirelli Fabrizio Tanfani e del suo team e per curiosare dietro le quinte dei lavori dei gommisti, perché “fare una buona gomma è come fare un buon risotto”, come dice Maurizio Baiocchi, chief technical officier Pirelli

Uno sguardo da gourmet sul mondo della F1 Simona Percivalle

A

Jenson Button e Romain Grosjean in veste di cuochi per il Motorhome, con lo chef Fabrizio Tanfani e il direttore Motorsport Pirelli Paul Hembery per l’evento Miles and Meals

qualcuno potrà sembrare azzardato ed eccessivo il parallelismo tra pista e cucina, tra mescole delle gomme e ingredienti di un buon piatto di qualità. A qualcun altro potrà far sorridere. Fatto sta che lo scorso maggio il Motorhome Pirelli si è trasformato in una cucina, dove i due piloti Jenson Button e Romain Grosjean si sono sfidati questa volta non sul circuito ma ai fornelli. La sfida fra i due campioni e l’assaggio collettivo dei piatti del Motorhome è stata l’occasione per presentare l’appetitoso set fotografico raccolto nel libro Miles and Meals-Handcrafted by Pirelli, che propone un tour foto-gastronomico le cui tappe sono gare di F1 ma i protagonisti, invece dei bolidi della F1, sono le prelibatezze elaborate nella cucina dell’Hospitality del Motorhome. Ricette tipiche della tradizione italiana reinterpretate, dunque, e presentate come situazioni topiche delle

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gare di F1. Come quella del polpo con le sembianze di un meccanico a otto braccia per un pit-stop da record o come quella che trasforma i paccheri in auto monoposto, con i pinoli che fanno da gomme, lanciate su un rettilineo di pomodori. E, ancora, l’immagine degli agnolotti-vetture impegnate in un testa a testa in curva, così come quella del basilico che interpreta efficacemente l’idea di un semaforo verde. La griglia di partenza rappresentata da filetti di manzo, sale grosso e pancetta, oppure il team at work riconoscibile nei pomodorini che si riuniscono attorno a piccole burratine, ruote di una fetta di pescespada. Infine, il tiramisù composto come fosse il podio, oppure il cocktail che richiama il momento di festeggiamenti al termine della gara. Un modo accattivante e diverso per catturare il fascino dell’universo Pirelli attraverso la forza evocativa di immagini relative al cibo. Il book fotografico, suggestivo e sorprendente per la fantasia delle composizioni, raccoglie così le ricette di Fabrizio Tanfani, chef del team diretto da Cristian Staurenghi, il gestore del Motorhome, e ripercorre, Gran Premio dopo Gran Premio, i migliori piatti cucinati nell’Hospitality Pirelli.


Ogni ricetta è preceduta da aneddoti sia sul mondo dei pneumatici che su quello dell’alta cucina, e a questo si aggiungono i racconti dei retroscena dell’attività Pirelli, presente in tutto il mondo, e del Motorhome. A completare le ricette, inoltre, il cuoco mette a disposizione consigli e curiosità sugli ingredienti utilizzati, dove trovarli e qual è il modo migliore per cucinarli, ma non mancano suggerimenti sul vino in abbinamento. Non un semplice ricettario, ma un cadeau per gli ospiti e i clienti della Casa milanese, che diventa un gioco alla ricerca di analogie tra gomme e ricette, tra mescole e ingredienti, tra pista e cucina. Il fine è svelare i segreti della cucina di Tanfani in parallelo con quelli dei gommisti di gara, accomunati dalla ricerca di un equilibrio capace di conciliare mondi in antitesi, frutto di prove continue, di esperienza e di componenti di prima qualità. L’ambizione è quella di provare a raccontare il mondo dei pneumatici da una prospettiva decisamente insolita, capace di far emergere anche l’“anima” meno tecnologica delle gomme. Quella che si esprime nella rifinitura a mano, in quella handcrafted citata nel sottotitolo del ricettario, che rappresenta il tocco finale dell’uomo, sia esso cuoco o meccanico, e che gioca un ruolo centrale e determinante sia ai fornelli che in officina. Può una gomma avere un’anima? Forse no, ma la preparazione della gomma, sì. Possiamo in qualche modo catturare l’energia che si cela dietro la pura materia e scoprire così la bellezza e la complessità della realtà? Il testo suggerisce un implicito riferimento alle potenzialità offerte dalla fotografia, grazie alla quale possiamo ampliare il cerchio delle nostre conoscenze e soprattutto sondare atmosfere e confini di mondi apparentemente molto distanti tra di loro che, invece, hanno in comune la determinazione, la creatività e l’impegno di persone capaci di trasformare il lavoro

in opera d’arte, come la perfezione di un piatto e quella tecnologica di un pneumatico. Il risultato complessivo è di stupore di fronte a un modo originale di raccontare il mondo delle gomme, descrivere il sapore del lavoro quotidiano di ingegneri, meccanici, tecnici, fatto di riunioni e studi strategici per l’analisi e la preparazione delle gomme per la gara, raccogliendo nello stesso tempo sfiziose ricette, che si possono anche scaricare on line (www.pirelli.com), e conoscere aneddoti sul circuito per inquadrare, con la suggestione evocativa del cibo, il mondo affascinante della marca leader nella produzione F&B di pneumatici.

Alcune proposte della cucina di Tanfani che riproducono situazioni riconoscibili della gara di F1. Insalata di pollo in stile paulista, Carpaccio d’oca marinato con arancia su crostino toscano, Tartare di tonno con avocado e melone, Insalata di polpomeccanico al pit stop, Gnudi con stufato di cinghiale, il cocktail Granita di fragole. Sotto, i piloti con lo chef e il direttore del Motorsport Pirelli


firenze Moda, arte, storia, artigianalità e piatti che raccontano l’autentica cucina toscana. È il Gucci Museo, spazio che racchiude la classe e la filosofia Forever Now del marchio della staffa, inaugurato pochi mesi fa nello storico Palazzo della Mercanzia, simbolo delle arti e dei mestieri

Toscanità prêt-à-manger al Gucci Museo Giulia Marcucci

L Il Gucci Café, suggestiva pausa di gusto del Gucci Museo, progettato dal direttore creativo della maison, Frida Giannini

a crema tiepida di fave, zucchine e fiori di zucca con ricotta fresca; il riso integrale freddo con ortaggi di stagione e pesto di basilico; l’insalata di cous cous integrale con ortaggi al forno freddi, ricotta fresca di pecora, radicchi misti e olio extravergine d’oliva; la tartara di filetto di manzo con pinzimonio di verdure dell’orto; calamari e scampi alla griglia con germogli, pomodori ciliegino e insalatina di rucola; lo zuccotto alla fiorentina. Li si possono gustare al Gucci Museo di piazza della Signoria, a Firenze, al Gucci Café, indirizzo che è anche sinonimo di convivialità: durante il giorno per la prima colazione, lunch, una pausa per il tè o l’aperitivo, la sera per una cena in un ambiente inusuale e di grande fascino. Per socializzare è perfetto il tavolo, chiamato, per l’appunto, social. Il menu è stagionale, con una varietà di proposte che si adattano ai diversi momenti della giornata e con una variabilità mensile, facendo leva sui migliori ingredienti acquistati nei mercati locali o da fornitori esclusivi, puntando su prodotti biologici e a Km 0. Il fil rouge di quasi tutti i piatti del Gucci Museo è la toscanità, che si ritrova o nella ricetta stessa o nell’uso di uno o più ingredienti della zona. Il Gucci Museo è stato inaugurato qualche mese fa, in occasione del 90esimo anni-

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versario della maison di moda Gucci, ed è inserito nel contesto straordinario di piazza della Signoria, all’interno dello storico Palazzo della Mercanzia, simbolo delle arti e dei mestieri fiorentini. Progettato dal direttore creativo di Gucci, Frida Giannini, è uno spazio vivente, dinamico e poliedrico, che racchiude la filosofia Forever Now del marchio, raccontandone la storia e dimostrandone vitalità, freschezza e capacità di innovare e guardare avanti, senza rinnegare il proprio passato. All’interno di questa location di 1.715 metri quadrati disposti su tre piani, unica nel suo genere a Firenze, convive una combinazione tra esposizione permanente dell’archivio storico del marchio e installazioni temporanee di arte contemporanea, selezionate con il supporto della Fondazione Pinault; fino al 4 settembre 2012, è in corso l’esposizione Lo spirito vola dell’artista Paul Fryer. L’idea di Gucci è far diventare il Museo un punto di riferimento per la città, per questo è stato pensato per offrire una serie di attività al suo interno: oltre al Gucci Caffé, ci sono il Book Store, gestito in collaborazione con Rizzoli, l’Icon Store e l’Area Social, luoghi dove è possibile sfogliare particolari pubblicazioni dedicate all’arte, alla moda, alla fotografia, al design o fare shopping, o, ancora, connettersi col mondo attraverso la rete wi-fi. Naturalmente, dopo aver visitato le sale del Museo. F&B


L’appuntamento annuale dei protagonisti del bartending

Milano, Hotel Enteprise - 24 settembre 2012 - www.barmood.it


SFIZIOFOOD Nascono alle falde del vulcano, su terreni ricchi di minerali, e maturano tra luglio e agosto. Ma la buccia spessa e l’attaccatura particolarmente resistente della bacca al peduncolo ne favoriscono la conservabilità, legati con cordicelle di canapa in grandi grappoli appesi ai soffitti

Pomodorino del piennolo oro rosso del Vesuvio Laura Gambacorta

P

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iccole bacche rosse che impreziosiscono i piatti dei migliori chef non solo campani ma un po’ di tutta Italia. Sono i pomodorini del piennolo del Vesuvio, uno dei prodotti più antichi dell’agricoltura campana, che crescono sui fertilissimi terreni ricchi di minerali del vulcano che domina il Golfo di Napoli, dove un clima ventilato e forti escursioni termiche regalano condizioni ideali per la


coltivazione di diverse eccellenze agroalimentari. E così, sul più grande complesso vulcanico attivo dell’Europa continentale, accanto alle rinomate albicocche presenti in ben 42 varietà e alle uve con cui si produce il famoso Lacryma Christi, troviamo questi deliziosi pomodorini col pizzo (la punta) che dal 2009 possono fregiarsi dell’ambìto marchio Dop. Maturano tra luglio e agosto e a renderli così speciali sono non solo la buccia spessa e l’attaccatura particolarmente resistente della bacca al peduncolo che ne favoriscono la conservabilità, ma soprattutto l’affascinante pratica di conserva di antica tradizione mediante la tecnica del “piennolo” -che in italiano si potrebbe tradurre col termine “pendolo”- di cui si trova testimonianza già nel 1858 nel testo del Bruni Degli ortaggi e loro coltivazione presso la città di Napoli. Impossibile non restare incantati nell’ammirare la maestria e la velocità con cui le massaie vesuviane posizionano una dopo l’altra le scocche (grappoletti) su un anello di filo di canapa, annodato e sospeso intorno a un asse orizzontale, appoggiandole, alternativamente sui due lati, fino a dar vita a un grosso grappolo il cui peso può variare da uno a cinque chili. Preparato il piennolo, non resta che appenderlo in un luogo asciutto e ventilato riuscendo così a godere delle preziose bacche fino alla primavera successiva. Il gusto ovviamente cambierà nel tempo aggiungendo al caratteristico dolce-acidulo del periodo estivo il gradevolmente amaro dell’inverno. Al fascino irresistibile dei piennoli non hanno saputo resistere neanche i maestri presepisti napoletani che ai grandi grappoli rossi di bacche vesuviane hanno riservato una presenza stabile nei presepi tradizionali. Ma un altro metodo di conservazione alternativo al piennolo, altrettanto tipico della zona e riconosciuto

dal disciplinare della Dop, è quello denominato “a pacchetelle”. Gli spicchi di pomodoro non pelati, chiamati in dialetto per l’appunto pacchetelle, vengono schiacciati all’interno di un barattolo di vetro con una leggera pressione della mano. Alla naturale conservazione delle bacche provvederà proprio il loro stesso succo, fuoriuscito mediante lo schiacciamento. Il prezzo di vendita dei piennoli, più alto rispetto a quello dei pomodorini provenienti da altre zone, è assolutamente giustificato se si considera che quasi tutte le fasi della produzione, dalla raccolta alla conservazione, vengono realizzate rigorosamente a mano. La coltivazione avviene tra i 150 e 450 metri sul livello del mare e riguarda tutti i comuni che ricadono all’interno del Parco Nazionale del Vesuvio. Queste piccole bacche del Vesuvio che con il loro rosso vivo danno una nota decisa di colore a tanti piatti invernali, per la loro versatilità trovano impiego sia nell’alta cucina sia nelle preparazioni povere

Alcune casse di pomodorini e un momento della raccolta. Sotto, la tipica pizza napoletana condita con i pomodorini del piennolo. Nella pagina precedente, una scocca di pomodorini e l’annodatura dei grappoli

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sfizioFOOD

Grazie alla loro conservabilità, i pomodorini del piennolo ben si adattano a piatti invernali e della tradizione campana come le friselle e la pizza. Sopra, una coltivazione e contadine impegnate nella raccolta. Al centro un grappolo creato posizionando le scocche attorno a un anello di canapa

della tradizione gastronomica campana come la fresella e la pizza. Per quanto riguarda quest’ultima, sono imperdibili la pizza col piennolo proposta dal maestro Enzo Coccia nella sua PizzAria La Notizia di Napoli o, spostandoci alle falde del Vesuvio, la montanara (classica pizza fritta napoletana), anch’essa ovviamente col piennolo, dei fratelli Salvo di San Giorgio a Cremano. La presenza in Campania di diverse tipologie eccellenti di pomodoro, come il piennolo e il San Marzano (entrambi Dop), è probabilmente una logica conseguenza del fatto che fu proprio il Vicereame di Napoli la prima zona d’Italia in cui, attraverso la Spagna, il pomodoro, insieme al peperone e alla patata, giunse dall’America Latina, dove gli Indios consumavano le bacche sia fresche sia cotte sotto forma di salse. Il pomodoro, però, non riscosse subito il successo di cui gode oggi; essendo ritenuto pericoloso per la salute, inizialmente venne apprezzato esclusivamente come pianta ornamentale. Anche se di fatto tra le classi più povere le gustose bacche rosse già si consumavano da tempo, fu

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necessario attendere la fine del ‘600 per trovare la prima ricetta ufficiale con il pomodoro, pubblicata da Antonio Latini nel suo Lo scalco alla moderna. A ufficializzare la presenza ormai consolidata del pomodoro nella cucina meridionale giunse, poi, alla fine del ‘700 il testo di Vincenzo Corrado, Il Cuoco galante, nel quale venivano illustrati ben dodici modi per prepararlo. La sua vera e propria esplosione, però, nella cucina mediterranea si ebbe grazie ai felici matrimoni con pasta e pizza, fino ad allora consumate bianche. Da quel momento il pomodoro ha conquistato sempre più spazio in cucina divenendo ingrediente di ogni genere di preparazione, persino di cocktail, come il famoso Bloody Mary, o di originali dolci. Da non dimenticare, inoltre, che sono tanti gli effetti benefici per il nostro organismo derivanti dal consumo di pomodori, ricchi non solo di vitamina C e minerali, ma anche di carotenoidi e flavonoidi dalle spiccate proprietà antiossidanti e anticancro. Un motivo in più per prediligerne il consumo. Infatti, oggi, il pomodoro è la specie orticola più coltivata al mondo (appartiene alla famiglia delle Solanacee) e l’Italia è il primo produttore europeo con circa 500 varietà: ne coltiva quasi il doppio (181 per cento) F&B del fabbisogno nazionale.



ITINERARI L’energia pervade ogni momento del vivere, compreso il cibo. Undicimila ristoranti sono la conferma che gli orientali mangiano a qualsiasi ora e che la città degli affari per antonomasia è pronta a sperimentare. L’exploit di Umberto Bombana, l’italiano con tre stelle Michelin

Caleidoscopica Hong Kong Elena Bianco

D

are una connotazione onnicomprensiva a Hong Kong, a quindici anni dalla sua restituzione alla Repubblica Popolare Cinese, è veramente difficile. La città (raggiungibile con volo diretto Cathay Pacific da Milano e Roma, www.cathaypacific.com), infatti, è molte cose insieme: convivono molte anime, molte culture, molte velocità, molte immagini; a volte antitetiche, sovente sorprendenti, sempre autentiche. Eppure, queste diverse Hong Kong coesistono in un unicum geografico di sette milioni di abitanti. Quella che di certo si respira, insieme all’aria tropicale calda e umida, è l’energia. La si percepisce chiaramente: nel fiume umano ordinato che scorre nelle gallerie del metrò, nelle devozioni dei fedeli nei templi, nei mall lussuosissimi di Central e Admiralty, così come sulle bancarelle di giade

Lo skyline di Hong Kong Island e i cartelloni pubblicitari di Central: simboli di una città che la Repubblica Popolare Cinese considera la sua immagine d’avanguardia, da mostrare con orgoglio all’Occidente 78 | Food&Beverage settembre 2012


e memorabilia di Mao di Cat Street e in quelle di food, i “dai pai dong” di Temple Street a Kowloon. Qui il cibo è uno dei fil rouge che collega, come i lunghi ponti pedonali collegano i grattacieli di Hong Kong Island, i vari strati sociali e compone un unicum anche in questo caso, fra ristoranti gourmet e street food, cucina cantonese e cucine straniere, prodotti raffinati provenienti da tutto il mondo e bancarelle di frattaglie e pesce essicato. Non si può dire di aver vissuto realmente questo luogo se non si ha partecipato a quel trend gastronomico sempre in fieri: Hong Kong sembra rinnovarsi di continuo e scegliere un locale significa scegliere anche un punto di vista unico, e sempre diverso, sulla città. Uno straordinario è sicuramente quello che si gode dallo Xiao Nan Guo, ultimo ristorante di Shanghai-Min che, in vent’anni, da ristorantino di quattro tavoli a Shangai è diventata una catena internazionale. Xiao Nan Guo è al decimo piano del mall One Peking a Kowloon, la penisola che dal continente asiatico si protende nel Mar Cinese Meridionale. Una grande vetrata sul Victoria Harbour offre una vista notevole sullo skyline di Hong Kong Island. In sala Paul Law, direttore con grande competenza gastronomica e cortesia orientale, illustra i piatti della tradizione di Shanghai, una cucina che nasce da una campagna ricca e usa cotture lente. I prodotti storici sono pesci di fiume e animali da cortile, rielaborati in eleganti presentazioni e con tecniche che ne esaltano la qualità. Come nel caso del pesce giallo, servito affumicato, dei gamberetti selvaggi di fiume, dolci e teneri, saltati velocemente al wok con fave e aceto di riso, del pollo, marinato nel vino di Shaoxing (provincia della Cina orientale, nota per la produzione dei vini di riso), del fish maw, raffinatezza cinese al confine con la medicina tradizionale che consiste nello stomaco di pesce -si usano diverse specie- essicato al sole e poi fatto rinvenire in acqua e cotto nelle zuppe. Così lavorato prende il

sapore del piatto di cui fa parte, ma la consistenza, gelatinosa e ricca di collagene, è veramente particolare. Viene servito per le riunioni di famiglia come il Capodanno e gli vengono attribuite proprietà benefiche, le più fantasiose: dal rendere liscia la pelle, compresa quella dei bimbi nel grembo materno, a favorire la fertilità delle donne mature, a migliorare la circolazione sanguigna. Pare inoltre che susciti buon umore e ammorbidisca il carattere. Marinature ed essicazioni si susseguono secondo le originarie esigenze di conservazione dei cibi nelle campagne, dove nulla viene scartato: così il maiale, brasato nella pentola di terracotta, ha un alto strato di grasso che si scioglie in bocca ed è servito su un letto di funghi matsutake, a cui l’essicazione ha conferito croccantezza e sapore. La campagna entra anche nei dolci: il miele ai fiori di osmanto, scuro e con note fruttate, riempie un dumpling di pasta di riso fritta. I fiori di gelsomino, un’esplosione di profumo, sono protagonisti del pudding. Tutto si fa più veloce e Dragon-i è il concept nato dalla visione lungimirante degli hongkonghesi Gilbert Yeung, Jackson Ng e Gordon Lam, che dal 2002 risponde alla necessità di una location cool per vari momenti della giornata. In una fusion sino-giapponese il locale, nella stretta Wyndham Street a Central, cuore pulsante della metropoli glamour, si rivolge in modo informale a una clientela internazionale. Un club di stile moderno dove trovare i migliori drink, fare una cena completa o un rapido pranzo di lavoro, sentire buona musica internazionale, organizzare un party (vantano il maggior consumo di Champagne fra i club del Sud Est asiatico). Il brunch a base di dim sum, tipico pasto cantonese che è un rito sociale di scambio di piatti fra i commensali, è un mix fra allegra informalità e tradizione. Ci si scambia assaggi di

Le due anime più evidenti fra le molte di Hong Kong: i grattacieli che si riflettono uno nell’altro a Central e la devozione di una fedele nel tempio taoista di Wong Tai Sin a Kowloon. Da una parte il cuore pulsante di un centro degli affari vitale e proiettato nel futuro, dall’altra rituali antichi ed edifici tradizionali che vivono all’ombra della modernità

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itinerari

Due facce anche nella ricca ristorazione: la bottega di un pastaio che tira a mano i noodles e la sala da pranzo di Dragon-i dove elementi tradizionali ed eleganza internazionale si coniugano nella ambientazione e nel menu

I colori serali sul Victoria Harbour dalle vetrate dello Xiao Nan Guo, cucina classica di Shangai in presentazioni raffinate, come il maiale marinato e brasato, secondo l’antica ricetta

chele di granchio impanate, dumplings al pollo o alle verdure, zampe di pollo marinate, involtini di pasta di riso con verdure e crostacei, la turnip cake, torta fritta di carote ripiena di soia, funghi e salsiccia, tipica delle feste famigliari, le famose uova millenarie o uova dei cento giorni (cioè uova di anatra avvolte in una pasta simile all’argilla che contiene sale, legno di frassino, calce spenta, tè e acqua e interrate per un periodo di tempo che varia dai 40 ai 100 giorni). Il tutto con la formula “all you can eat” (tutto ciò che puoi mangiare) a poco più di 15 euro. Ma l’internazionalità di una città si misura sul livello dei ristoranti di cucina straniera, e due indirizzi la dicono lunga. Uno è Zuma, catena di sette ristoranti in tutto il mondo, nata a Londra e di proprietà indiana. Il concept dello chef Reiner Becker e del suo allievo Yoshi Muranaka riprende la tradizione giapponese dell’Izakaya, il classico ritrovo da dopo lavoro. La delicatezza della cucina nipponica, però, viene irrobustita e adeguata a palati abituati a gusti più intensi e l’uso di sperimentazioni come l’avocado nel maki, le vinaigrette al succo di limone e le marinature, fanno di Yoshi un innovatore. La location è spettacolare: due piani di Landmark, uno dei mall più eleganti di Central,

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uniti da una coreografica scalinata in cristallo. Colori tenui e minimalismo per l’ampia sala, affacciata da un lato su un terrazzo e dall’altro sulla cucina in pietra naturale e vetro. Tutto viene fatto a vista, sia i piatti di pesce crudo, sia quelli del robata grill, la griglia a carbone per carne e verdure. Un Sake Bar offre un’ampia selezione di questa bevanda che in Occidente viene considerata solo un fine pasto da consumare caldo. Il general manager di Zuma, Christian Talpo, italiano da vent’anni a Hong Kong, ne parla con entusiasmo: “L’eccellenza delle piccole produzioni artigianali può essere apprezzata a temperatura da cantina e sostenere un menu, né più né meno come il vino che viene abbinato al piatto. Nel sake si possono parimenti avere diversi gradi di


In basso, il merluzzo nero avvolto in foglia di magnolia di Zuma, ristorante giapponese di eccellenza, e il suo Sake Bar, che il general manager Christian Talpo, grande esperto in materia, rifornisce di bottiglie rare

invecchiamento e il prodotto base, il riso, ha una resa secondo la varietà -ve ne sono di pregiate rarissime- e al terroir”. Il menu degustazione è un’esperienza: la tartare di tonno aromatizzato con miso e boccioli di myoga servito con radici di loto fritte, il sashimi di branzino spruzzato di yuzu (limone giapponese) con uova di salmone e finito con olio al tartufo, apprezzabile sia per la qualità del pesce, sia per l’accostamento uova-tartufo, perfettamente riuscito anche con uova di pesce. Straordinaria la sensazione di freschezza del pettine di mare grigliato con mela grattugiata e wasabi, così come la fragranza del merluzzo nero avvolto in foglia di magnolia. Per chi ama i sashimi e i sushi, l’hamachi roll di tonno, cetriolo e zenzero in salamoia o di tonno peperoncino verde e uova di pesce volante, sono memorabili. Un’impronta evidentemente mediterranea creata con prodotti provenienti da tutto il mondo è invece quello che si apprezza nella vicina Alexandra House, all’Otto e mezzo, ristorante omaggio a Fellini di Umberto Bombana, bergamasco di Clusone, qui da quindici anni. Non c’è da meravigliarsi che ci siano settanta ristoranti italiani a Hong Kong, ma Bombana sì, fa meravigliare. In primis perché è l’unico ristoratore

italiano all’estero con tre stelle Michelin. E poi perché lui per primo sembra essere un po’ stupito dell’enorme successo ottenuto. Come molti suoi colleghi, ha girato i grandi nomi (Ezio Santin, Michel Rostang, Jean-Pierre Vigato) e poi ha condotto la cucina del Ritz-Carlton di Hong Kong. Ma perché si è fermato qui? “Per la straordinaria energia di questa città -spiega- e perché qui, come in nessun’altra parte al mondo, riesco ad avere i migliori prodotti alimentari del pianeta, dall’agnello del Colorado al manzo australiano, dalle fragole di Malaga alla burrata pugliese, fino al tartufo, il bianchetto d’Alba”. E proprio seguendo la grande notorietà che ha assunto in Asia il tartufo come status symbol, da qualche anno Bombana è uno dei protagonisti dell’asta mondiale del tartufo che si tiene annualmente a Grinzane Cavour (Cn). L’evento è in collegamento con Hong Kong, all’Otto e Mezzo, dove i compratori asiatici si riuniscono per un acquisto opulento i cui proventi sono in parte devoluti in beneficenza. La concezione di questo chef è semplice come il suo modo di essere: cotture veloci, massima attenzione alle caratteristiche naturali del prodotto. Una cena di Bombana è un viaggio intercontinentale, ma con gusto italiano. Come il foie gras, finito con una zesta di arancio e nocciola piemontese, che arricchisce sorprendentemente di profumo la cremosità del fegato. Il tonno rosso (maguro) giapponese, servito su una base di melanzane con un dressing di pomodoro, arancia e polline di finocchio. Lo scampo a bassa temperatura, neozelandese, abbinato ai funghi cantarelli e insaporito da una riduzione di scampo e riccio di mare, parla dei sapori

Umberto Bombana, unico tre stelle Michelin italiano all’estero, si rifornisce dei migliori prodotti da tutto il mondo. Come il tonno rosso giapponese, che nelle sue mani acquista sapori mediterranei

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indirizzi gourmet

Ristoranti e alberghi

Il giardino dello Stables Grill, uno dei cinque ristoranti della Hullet House, ottocentesca ex sede della polizia marittima, che oggi propone un’ampia scelta fra cucina cinese e internazionale e dieci ampie stanze di atmosfera coloniale

La Upper House ad Admiralty, nuovissimo hotel in cima a un grattacielo che offre un ricercato lusso minimalista e una vista mozzafiato sul Victoria Harbour che si gode anche dalle indimenticabili sale da bagno

decisi delle nostre coste più che di Pacifico. Il manzo, Tajima M9, che è una straordinaria razza giapponese meno grassa del Kobe, ma comunque con una marezzatura fine che attribuisce morbidezza, è servito semplicemente con la sua riduzione, per apprezzarne tutta la qualità. Le paste fatte in casa riportano al Sud Italia, i risotti, tecnicamente ineccepibili, ai prodotti della terra del nostro Nord. E Bombana sorride appagante e appagato, come un piccolo Spirito Guardiano nostrano. Nella grande varietà di una città proiettata al futuro si può sperimentare anche il passato, alla Hullet House a Tsim Sha Tsui, la punta di Kowloon sul porto. L’edificio del 1881 in stile coloniale è stato un ufficio di polizia marittima fino al 1996, quando venne dato in gestione e trasformato da Aqua Restaurant Group, di David Yeo, eletto Ristoratore dell’anno in Asia per il 2012. Oggi è un boutique hotel di 10 camere arredate col gusto di diversi periodi storici di Hong Kong ai piani superiori, e cinque ristoranti, sale da tè, bar, al piano terra. Hullet House, testimone silenziosa di una vitalità, della città così come di Yeo, che tutto trasforma: fino agli anni ’70 del secolo scorso era affacciata sulla baia, oggi invece è nell’interno e davanti è sorto un grande centro culturale, intorno a tanti grattacieli. Nei

Xiao Nan Guo - One Pecking 1 Peking Rd Tsim Sha Tsui Kowloon tel +852 2527-8899 www.xiaonanguo.com Dragon-I - The Centrium 60 Wyndham Str. Central tel +852 3110 1222 www.dragon-i.com.hk Zuma Landmark level 5&6 15 Queen’s Rd Central tel. +852 3657 6388 www.zumarestaurant.com Otto e Mezzo Bombana Shop 202, Landmark Alexandra House 18 Chater Road Central tel. +852 2537 8859 www.ottoemezzobombana.com Hullet House 2A Canton Rd Tsim Sha Tsui Kowloon tel. +852 3988 0000 www.hullethouse.com Upper House 88 Queensway Pacific Place tel. +852 2918 1838 www.upperhouse.com

sotterranei ci sono ancora le celle (forse di pirati) e il cortile dei cinquanta piccioni ricorda i messaggeri alati dei tempi in cui non esisteva la radio. Si può scegliere una cena di dim sum al Loong Toh Yuen, il ristorante cinese, un tè pomeridiano nella ex “sala del giudizio”, una degustazione all’enoteca o un lunch in giardino allo Stables Grill, le antiche scuderie, dove il menu varia dalle tapas alla pasta, dalla pizza alle ostriche, oltre, ovviamente a pesce e carni alla griglia: una vera garanzia per gli occidentali che non possono fare a meno dei sapori di casa. Per una full immersion nella modernità di Hong Kong Island invece, Upper House, piccolo hotel ai piani alti di un grattacielo di Pacific Place, offre dalle grandi vetrate di camere e suite una vista mozzafiato sulla baia e il piacere sottile di un autentico lusso minimalista ma onnipervadente. Nella sala destinata alla vasca da bagno un cuneo di cristallo che si protende nel vuoto, nell’ampio utilizzo della tecnologia tutta a scomparsa, nei mobili e oggetti di raffinato design, fino a una serie infinita di complimentary, come il F&B tappetino per la lezione di yoga (omaggio).


Shanghai Il Padiglione italiano dell’Expo 2010 di Shanghai si è trasformato in una struttura permanente per far conoscere l’italian style, dalla moda, al design, al vino. All’Enoteca Italiana il compito di diffondere la nostra cultura enologica con attività promozionali e commerciali

New Italian Center Il vino protagonista in Cina Irene Catarella

E Il vino diventa prodotto leader dell’italian style nel mercato cinese grazie al Padiglione italiano permanente dell’Expo di Shanghai

ntro il 2014 la Cina diventerà il sesto mercato al mondo per consumo di vino, con un incremento previsto in 4 anni del 19,6 per cento annuo. Ne è convinto Giovanni Pugliese, export manager di Enoteca Italiana e vice executive director di Yishang: “Attualmente, l’Italia copre il 15 per cento del mercato enologico cinese e la vetrina che rappresenta il New Italian Center (dove si prevede un afflusso di 2.500 visitatori al giorno) farà da motore affinché questa percentuale cresca. Il vino rappresenta uno dei prodotti leader del nostro Paese, anche grazie a questo nuovo strumento, l’Italia porterà in Cina in maniera ancora più incisiva il meglio della produzione dei nostri territori, dalla Val d’Aosta a Pantelleria. Prodotti che entreranno a far parte delle attività, promozionali e commerciali, di questo nuovo grande progetto”. Protagonista nella promozione del vino italiano è il New Italian Center di Shanghai, il Padiglione italiano di 12 mila metri quadrati dell’Expo 2010 (il più visitato dopo quello cinese), che si è, appunto, trasformato in una struttura permanente. Nato dall’alleanza tra istituzioni pubbliche, società private e autorità locali, è stato inaugurato in maggio alla presenza del vice sindaco di Shanghai, Yang Xiong, del ministro per l’Ambiente, Corrado Clini, del vice presidente di Ferrari, Piero Ferrari e del presidente di Shanghai Expo Group, Ding Hao. Il New Italian Center è un palcoscenico importante per

l’Italia, non solo per il settore del design e della moda, ma anche per il nostro vino. Expo Shanghai Group (società cinese che fa capo alla municipalità di Shanghai e che ha deciso di investire nel progetto) ha siglato con Enoteca Italiana un accordo in cui l’Ente vini sarà l’unico soggetto a gestire tutto il comparto enologico del New Italian Center: dai winebar dislocati nel padiglione, alla carta dei vini dei ristoranti, fino a tutte le attività indirizzate a presentare al pubblico la produzione enologica italiana. Enoteca Italiana è presente in Cina dal 2008 con la sua sede a Shanghai, Yishang Wine Business Consulting, con l’obiettivo di affermare e diffondere la nostra cultura enologica. Il mercato cinese rappresenta, infatti, un’interessante opportunità per i vini italiani. La fase espansiva che ha coinvolto in modo massiccio i nuovi mercati negli ultimi anni è molto evidente sia in valore (Cina +145 e Russia +69), che in volume (Cina +218, Russia +123, Canada +50, Corea del Sud 34) e vede protagonista assoluta la Cina. I dati di crescita del mercato cinese sono confermati anche dalle ricerche Iwsr, confortanti anche in prospettiva, e secondo le quali, a partire dal 2012, il consumo di vino arriverà a 828 milioni di litri l’anno. Si prevede un aumento di consumo dei vini rossi del 36,4 per cento entro il 2012 e un maggior incremento dei vini bianchi che si attesterà intorno al 38 per cento. F&B Food&Beverage settembre 2012 | 83


spiritsake Immancabile in tutti i brindisi giapponesi, dal matrimonio al successo aziendale, il sake ha visto però ridursi la produzione alle attuali 1.800 aziende contro le 10 mila degli anni ’20. Una contrazione che è comunque andata a favore di una crescita della qualità

Il sake di Hiroshima e la sua regina Elena Bianco

T

erroir, fermentazione, invecchiamento, abbinamento ai cibi. Eppure non stiamo parlando

di vino. Questa terminologia, classica dell’enologia, è la stessa che oggi si usa nel Paese del Sol Levante per la produzione della bevanda alcolica nazionale proveniente dal riso, il sake (o nihonshu, cioè alcol giapponese). In Occidente abbiamo imparato a conoscerlo con l’avvento della cucina nipponica, proposto come fine pasto, sovente caldo come un digestivo. In realtà, questo uso limita le potenzialità espressive della bevanda e preclude una serie di sfumature, corpo, profumi, persistenza in bocca, che gli consentono, a una adeguata temperatura (12-14°C), di essere bevuto in bicchieri da degustazione e di accompagnare con sorprendente efficacia una cena di cucina giapponese. I sapori del Giappone in tavola sono generalmente delicati,

Tra le qualità di sake di maggior prestigio si riconosce il gingjo-shu di Miho Imada, una delle poche donne al potere in questo settore che ha reso l’area di Hiroshima una zona di eccellenza nella produzione del sake più morbido e dolce, particolarmente indicato per accompagnare i sapori tipici della cucina giapponese 84 | Food&Beverage settembre 2012

così come lo sono gli aromi e le note di gusto dei sake: un connubio in perfetta armonia che nasce da una tradizione antica. La cucina giapponese, ricordiamolo, vanta una ricchezza culturale profonda e molteplici influenze che si esplicano in gesti, abbinamenti ed estetica del piatto mai casuali; basti pensare alla cucina kaiseki (anticamente legata alla cerimonia del tè), alla raffinatezza della cucina di corte, allo stretto vegetarianesimo della dottrina Zen. Un testo classico del XIII secolo scritto da Dogen, grande maestro della tradizione buddhista Soto zen, s’intitola Istruzioni a un cuoco Zen (edito da Ubaldini Astrolabio) e descrive come la pratica quotidiana del cuoco del tempio diventi una Via alla buddhità, all’illuminazione, né più né meno della


meditazione e di molte pratiche come la cerimonia del tè, l’arte della calligrafia o l’Ikebana, che ci incantano per la loro essenziale perfezione. Il sake, d’altro canto, non ha un’origine chiaramente documentata, ma un’ipotesi accreditata lo fa risalire al terzo secolo a.C., con l’avvento della coltivazione del riso in umido. La combinazione di acqua e riso avrebbe portato a muffa e fermentazione. Il primo sake venne chiamato kuchikami no sake o “sake masticato in bocca”, ed era fatto con riso, castagne, miglio, ghiande, masticate e sputate in un contenitore: gli enzimi della saliva facevano saccarificare gli amidi convertendoli in zuccheri. Se l’idea risulta piuttosto raccapricciante, va aggiunta una nota “gustosa”: pare che il migliore fosse quello prodotto da giovani vergini. In tempi più recenti e decisamente più evoluti il sake ha raggiunto l’eccellenza in una precisa area geografica, il villaggio di Akitsu, nella prefettura di Hiroshima, famoso perché agli inizi del secolo scorso da qui venivano molti toji (mastri produttori) e kurabito (operai). Fra loro vi era Sanzaburo Miura che alla fine del diciannovesimo secolo rivoluzionò il metodo produttivo, utilizzando l’acqua povera di minerali di Hiroshima e ottenendo un sake di grande qualità: il ginjo-shu. Le caratteristiche del prodotto attuale ci vengono spiegate da Miho Imada, signora del sake della Fukucho Sake Brewery, una delle sole venti donne

Un momento del Sake festival e le geishe, per tradizione depositarie dei rituali delle cerimonie nipponiche. Sotto, alcuni esempi della cucina giapponese, essenziale e delicata

di questo settore in Giappone, mastro produttore che ha raggiunto un livello qualitativo altissimo. “Prima di Sanzaburo Miura il sake veniva prodotto con acqua dura, ricca di minerali -spiega Miho- L’acqua dolce di Hiroshima, invece, è molto più sensibile alla contaminazione batterica e, per

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spiritsake

Da sempre bevanda alcolica nazionale giapponese, il sake nasce dall’unione di alcol con il liquido derivato dalla fermentazione del riso. Offre numerose varianti di produzione, qualità e consumo, ed è estremamente legato ai costumi e alle tradizioni culturali e alimentari del suo popolo

ovviare al problema di una fermentazione incontrollata, Miura-san mise a punto la tecnica della fermentazione prolungata a bassa temperatura. Il nuovo prodotto, il ginjo-shu, risultò primo al First Nation-wide Contest del 1904 e divenne famoso in tutto il Paese. Da allora gli Akitsu-Toji furono considerati i migliori maestri produttori”. Negli anni la tradizione si è mantenuta viva, evolvendo con i tempi pur nella preservazione degli standard. Se prima il riso veniva lavorato con mulini ad acqua, il successo del sake ginjo-shu suggerì già nel 1896 a Riichi Satake, un ingegnere ferroviario della zona, l’ideazione di un macchinario per la lavorazione del riso a energia meccanica: oggi la Satake è una multinazionale che detiene una quota di mercato del 97 per cento a livello mondiale nel settore. Il sake ha generato dunque grande prosperità, ma soprattutto eccellenza, di cui Miho Imada è la portabandiera. La sua è stata una

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rigorosa preparazione secondo la mentalità nipponica, con corsi di formazione teorici e pratici, il tirocinio alla National Tax Administration Agency Research Institute of Brewing, dieci anni di apprendistato con un maestro-produttore. In lei, esile signora che da quasi vent’anni fa un lavoro ancora fisico nonostante le tecnologie, prevale la passione. S’illumina e parla della bellezza, della consistenza e della lucentezza del riso fermentato, della fragranza dei suoi vapori, della dolcezza del malto. Poi le sue aspettative: quando inizia la fermentazione la segue con sollecitudine, senza allontanarsi dalla sala dove avviene il processo, senza dormire, come se si trattasse di una nascita. E come se le bottiglie fossero tutte figlie sue, non sa dire quale preferisce. La sua etichetta Junmai Ginjo Biho è fatto col riso Yamadanishiki, una rara cultivar, pastorizzato in bottiglia per conservare intatto il lungo e delicato aroma floreale. Il Ginjo Junmai Fukucho (in etichetta Moon on the Water) invece sviluppa una grande pienezza al naso e una corposità sorprendente, pur mantenendo la morbidezza tipica del sake di Hiroshima. Una cena giapponese accompagnata da questi sake è per un palato occidentale un’esperienza gastronomica totalmente inedita ma elevata, appagante né più né meno di un salmì di cacciagione accompagnato da un Barolo o di un formaggio erborinato nobilitato da F&B un grande Sauternes.


produzione

Conoscere il sake fra tradizione e ritualità “Prova centinaia di cose e fai migliaia di miglioramenti”. Il motto di Sanzaburo Miura vive nei gesti dei Maestri del sake di Akitsu. Il riso: sakamai. I Mastri del sake lavorano con i produttori di riso della prefettura di Hiroshima per avere un riso di antica varietà, a stelo lungo, chicco più grosso e ricco di amidi rispetto a quello da consumo, più difficile da coltivare e raccogliere (arriva a differenti altezze) e con una resa inferiore, ma di qualità elevata. La lavorazione: seimai. Nella lavorazione si scarta una percentuale di sakamai che varia dal 30 al 65 per cento. Nei sake più raffinati, lo scarto è maggiore. La lavorazione è lunga: dopo diversi giorni di raffinazione, il riso perde tutta l’umidità a causa del calore provocato dall’attrito prodotto. Per non creare uno shock dovuto allo sbalzo termico, il riso viene successivamente lasciato riposare per un mese. Il lavaggio: senmai e l’ammollo: shinseki. Si utilizza solo la parte interna del prodotto lasciato a riposare, che è più morbida. S’immerge il riso in acqua, controllando nel dettaglio questa fase. Per ottimizzare il procedimento, lo si fa con piccole quantità di dieci chilogrammi per volta. La cottura a vapore: joumai. Per consentire una fermentazione completa a bassa temperatura (circa 6-10°C) per un periodo fino a 30 giorni, è fondamentale che il riso sia in una condizione ideale: se è troppo morbido si rompe e si scioglie, ma se è troppo duro non si scioglie e non si riesce a filtrare. La condizione ideale è gaikou-nainan, cioè duro all’esterno e morbido all’interno (l’esatto opposto di “al dente”, condizione perfetta per la pasta). Al fine di raggiungere questo obiettivo, viene cotto nel wagama, una grande pentola per bollire l’acqua. Il lievito: koji. La maggior parte delle bevande alcoliche si ottiene dallo zucchero. Tuttavia, il nihonshu (alcol giapponese) è l’unica bevanda alcolica al mondo in cui viene convertito l’amido in zucchero all’interno della vasca di fermentazione in contemporanea con la fermentazione di tale zucchero in alcol. Questo metodo è noto come “fermentazione multipla parallela”. Il koji (coltura starter da Aspergillus oryzae), componente base del lievito madre, crea il glucosio ed è il nucleo di questa tecnica perché determina il sapore del sake più di ogni altra cosa: non solo deve essere in grado di convertire l’amido in zucchero efficacemente, ma per ottenere il ginjo (questo tipo di sake artigianale), deve anche essere in grado di farlo lentamente. Perciò è importante controllare non solo la temperatura e l’umidità, ma anche i sapori, gli aromi e la consistenza. In questa fase si usano attrezzi tradizionali in legno. È un lavoro molto complesso, che dura giorni e richiede un controllo costante sia di giorno che di notte. La fermentazione: hakkou. Le uniche differenze con questo metodo produttivo sono date dalla varietà del riso e dal grado di raffinazione. La fermentazione avviene a circa 6° C, livello di sopravvivenza del lievito. È necessario che la temperatura non subisca sbalzi superiori a 0,1° C per 30 giorni: per questo i lotti non superano i 1.300 chilogrammi di riso. Quantità così piccole consentono di privilegiare la qualità. Al termine il mosto viene pressato. L’imbottigliamento. Anche l’imbottigliamento è un passaggio delicato. Subito dopo la fermentazione il gusto è un po’ ruvido, successivamente cresce il sapore e la dolcezza e dopo poco tempo i valori decadono rapidamente. Ogni sake ha i suoi tempi ed è fondamentale imbottigliare (nel tipico formato da 1,8 litri) al momento giusto. I migliori sake non vengono filtrati a carbone, poiché questo procedimento fa perdere parte dei sapori e degli aromi di partenza. La pastorizzazione: hiire. Il metodo di pastorizzazione migliore per non perdere gli aromi è immergere il prodotto già imbottigliato in acqua calda (60-65°C). Il procedimento richiede maggior manodopera rispetto a quello usato per sake più commerciali (riscaldati due volte, prima del serbatoio di stoccaggio e prima dell’imbottigliamento) e quindi viene utilizzato solo per sake di elevata qualità come il daiginjo e il ginjo-shu. L’affinamento o maturazione: jukunsei. Al fine di proteggere ed esaltare i sapori e gli aromi del sake, maturazione e conservazione sono di estrema importanza. I sake di qualità sono affinati in bottiglie, che consentono un più minuzioso controllo del prodotto, tenuto in celle frigo con minime variazioni di temperatura: più bassa è la gradazione, più lenta è la maturazione. Un controllo costante permette, a seconda delle condizioni, di spostare un prodotto da una cella all’altra per offrire al consumatore un sake con un gusto realmente tondo e maturo. Questa fase dura da alcuni mesi a un anno e il prodotto che si mette in commercio ha una gradazione di circa 15-16% vol.

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SPIRITBARMAN Da un’esperienza all’altra, dalla curiosità di quando era un ragazzino alla professionalità di oggi, l’ascesa del giovane Procida sembra essere accompagnata da un giusto mix di coraggio, incoscienza, dinamismo e umiltà. Così oggi è barman all’esclusivo e raffinato Sporting Hotel

A Porto Rotondo arriva l’audacia di Antonello Manuela Caspani

S La fortuna non basta e il talento va accompagnato a voglia di imparare e mettersi alla prova: lo sa bene Antonello Procida, che in pochi anni ha trasformato un’occasione in una professione di qualità

a di essere fortunato, ma non è solo la fortuna ad aver fatto la differenza per Antonello Procida, barman allo Sporting Hotel di Porto Rotondo, in Sardegna. La fortuna aiuta gli audaci, recita il proverbio, cioè chi sa cogliere le opportunità, con il giusto mix di coraggio, incoscienza, curiosità e...umiltà. Et voilà, ecco il ritratto di questo trentenne, già capobarman in strutture di livello, che oggi ha deciso di sbarcare nell’esclusiva località sarda per affiancare come secondo un professionista stimato come Sebastiano Carzedda. “È vero, ho avuto la possibilità di fare esperienze in locali importanti, in Italia e all’estero, e di portare avanti una carriera iniziata quasi per caso. Al Carducci 76 ero responsabile del bar, ma credo che non ci sia niente di male a fare un passo indietro quando si presenta l’occasione giusta”. È il motivo per cui Antonello ha risposto alla chiamata di Gianni Mannai, alla direzione dello Sporting”. Del resto, l’audacia del ragazzo si è rivelata fin da giovanissimo quando, affascinato dal “baretto” sotto casa, ha deciso di lavorare dietro un banco bar. Prima per gioco, poi, durante il servizio di leva, al circolo ufficiali. Da lì non si è fermato: prima nelle strutture turistiche, poi chiamato da un amico al Grand Hotel di Rimini in occasione di un evento importante. Deve essere stato davvero d’aiuto, perché si è fermato quattro anni: “Una struttura leggendaria. Ho imparato la misura e l’equilibrio, la capacità di cogliere le diverse esigenze, che si tratti di una grande star del rock o del

principe di Monaco”. Dal Grand Hotel a Londra, passando per corsi e concorsi, arrivando a navigare su una delle più esclusive e lussuose navi da crociera del mondo: la Oceania Cruiseship. Poi ancora il Carducci 76, l’hotel design di Alberta Ferretti, con uno staff di giovani e motivati professionisti, a partire dallo chef. “Dopo la parentesi in crociera nel 2008, sono tornato al Carducci nell’anno in cui abbiamo preso la stella Michelin, il frutto di un lavoro durissimo ed entusiasmante”, ricorda Procida. E ora la nuova proposta: Gianni Mannai e la Sardegna. La voglia di rimettersi in gioco è troppo forte... F&B iL COCKTAIL

Summer passion Per il pestato: 2 cucchiai di zucchero di canna 5 spicchi di lime ghiaccio pilè 3/10 Passoa 2/10 Aperol Barbieri 4/10 Succo ananas 1/10 Oransoda Svuotare mezzo fruit passion all’interno e mescolare. Decorare con fruit passion, ciliegina rossa e foglie di ananas.


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spiriTplace Forte di una lunga esperienza, Luigi Pennello ha progettato un format innovativo, frutto di una filosofia di vita prima che di lavoro. Così, il suo locale in un angolo magico di Venezia fonde il concetto di bar e ristorante in un’offerta con una carta dai 4 ai 50 euro

Caffè Centrale. Qui comanda la leggerezza Manuela Caspani

M Il locale dà sulla strada dove si racconta si affacciasse una giovane amata da Lord Byron

agica e misteriosa, Venezia riserva sempre sorprese. Capita così che tra i mille angoli romantici se ne scoprano alcuni sfuggiti ai nostri sguardi durante le abituali esplorazioni della città. È capitato a Luigi Pennello, maestro nell’arte di intrattenere, titolare di Caffè Concerto a Favaro Veneto, locale amatissimo nella zona. Quando Luigi ha deciso di “portare” lo stile Caffè Concerto a Venezia ha scelto una location d’eccellenza: il cinquecentesco palazzo Cocco Molin affacciato sul canale che è oggi la sede di Caffè Centrale. Ebbene, mentre erano in corso i lavori di ristrutturazione, Luigi notò capannelli di persone, stranieri soprattutto, che sostavano in un angolo nascosto, poco distante da quella che sarebbe diventata l’entrata del locale. Né ombra, né riparo, né insegna o seduta che potessero giustificarne la presenza. Finché non giunse alla scoperta che su quell’angolo ritirato si affacciava una donzella amata da Lord Byron. È bello pensare che Caffè Centrale con la sua raffinata eleganza, mai pretenziosa, neppure elitaria, rispecchi in pieno la miscela di arte e poesia che la sua sede evoca. E che la sensualità e il fascino clandestino che aleggiano in quell’angolo sorridano all’anticonformismo illuminato della direzione. Luigi Pennello ha infatti progettato un format innovativo, frutto di una filosofia di vita prima che di lavoro: “Ho aperto Caffè Concerto nel ‘79 e oggi resta un locale in auge grazie, credo, alla grande costanza e all’attenzione estrema per i particolari -racconta- Per anni ho creduto a chi diceva che a Venezia la ristorazione dovesse seguire cliché, dalla pasta al ragù per gli stranieri, ai camerieri che chiamano nel locale, per finire con gli immancabili “coperto” e “servizio”. Quando si è presentata l’occasione di ideare Caffè Centrale ho imboccato una strada diversa”. È difficile sintetizzare ma è importante sottolineare come nel nome stesso si nasconda una dichiarazione d’intenti: la parola “caffè”, infatti, non suscita come prima idea quella di un ristorante. “Credo che non ci debba essere una distinzione netta. Che il concetto di bar e ristorante si

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potessero fondere è un’idea che ho applicato al mio modo di fare ristorazione. Penso che un locale debba essere il luogo dove la gente sceglie di trascorrere piacevolmente il proprio tempo, indifferentemente dal fatto che voglia consumare una cena da cento euro o sedersi e ordinare un club sandwich e una birra. O, appunto, solo un caffè”. Già, il caffè... Quello di Gianni Frasi, sfornato da una macchina d’epoca “restaurata come una Rolls Royce”! Caffè Centrale è dunque anche un ristorante di alto livello, con una carta ricercata frutto dell’esperienza di Caffè Concerto e della visione di Luigi: “Sei anni fa ho deciso di eliminare i primi. Ho riscontrato che la gente preferisce scelte più leggere, un piatto importante unito a un dessert ricercato. È stata una decisione anche pratica, i tempi di cottura creavano difficoltà alla nostra cucina che deve necessariamente unire alla qualità la velocità -descrive Pennello- Quindi ho impostato una carta che prevede la voce Snack, a base di ingredienti sfiziosi e preziosi: club sandwich, sfoglie, focacce. E poi Pesce, Carne, Vegetariani, Dessert”. L’intento è quello di lasciare la massima libertà. In ogni senso. Possono essere presenti grandi piatti e ingredienti importanti, ma il cliente non deve mai subirne la pressione, con la possibilità di scegliere portate che vanno dai 4 ai 50 euro. Non solo, la maggior parte delle portate sono declinabili in “assaggio”, “ versione piccola”, “versione grande”. Il tutto seguendo una grammatura precisa che si traduce in prezzo adeguato e nella possibilità di comporre la cena come un puzzle: “Ho creato anche un servizio di asporto, ideando scatole speciali e ‘cappelliere’ di

vario formato nelle quali disporre le scatoline con le preparazioni. Può capitare che qualcuno non possa fermarsi, o semplicemente voglia mangiare a casa con gli amici quel che solitamente gusta qui”. Tutto, dalla cucina al bar, nasce da uno studio, forte di anni d’esperienza, che segue convenzioni stabilite: “Un grande chef certo fa la differenza in un locale, ma se lo chef se ne va il locale deve saper mantenere il suo livello e i suoi standard; da noi tutto è codificato e realizzato seguendo indicazioni precise e identiche”, conclude il ristoratore, che non dimentica di sottolineare l’importanza del lavoro di squadra, che a Caffè Centrale si traduce con l’abile direzione di Roberto Pepe, coadiuvato dalla figlia di Luigi Pennello, Federica. Stupisce la possibilità di avere non solo grandi vini al calice, ma addirittura a mezzo calice: “È chiaro, non si può fare con tutte le bottiglie, ma a rotazione; del resto, perché non dare la possibilità a chi non l’ha mai assaggiato di conoscere un Sassicaia o un grande vino di Bordeaux? O un cru di Champagne?”. Leggerezza, è il motto del locale. Unico intento è rassicurare chiunque entri che qui sarà piacevolmente conquistato, se vorrà lasciarsi conquistare, tentato, se vorrà lasciarsi tentare...O solo sedersi, dalle 18 alle 2 di notte, e ordinare qualsiasi cosa desideri, da un ottimo caffè a un cocktail ben fatto, godendosi, avvolto dalla musica, un angolo sorprendente di quella miscela di bellezza e contraddizioni che compone Venezia. F&B

La cucina spazia dalle proposte più semplici a quelle di alto livello. Unica costante: la qualità e la possibilità per il cliente di scegliere quantità e modalità di degustazione

scheda

Caffè Centrale Venezia San Marco Piscina Frezzeria n°1659/B 30124 Venezia tel. +39 041.8876 info@caffecentralevenezia.com

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QUARTIERIALTI In un giardino mediterraneo, c’è un hotel dal minimalismo discreto, semplice e famigliare nell’accoglienza, che propone una cucina di casa, tipica dell’isola. Nato dalla ristrutturazione di un antico palazzo rispetta la tradizione locale, ma è attento al design contemporaneo

La Suite, un resort per gustare Procida Barbara Amati

I Aperto nel marzo scorso, La Suite unisce eleganza ed essenzialità

l mare di un intenso blu, un allineamento di alte case di tutti i colori, strette le une alle altre quasi fosse una barricata: Procida, o Prochyta, sollevata dalle acque, è la più piccola delle isole partenopee e la meno turistica. Affascinante nei colori e nelle architetture, negli archi e nelle volte, nell scalinate che si susseguono e si rincorrono su più livelli, a Terra Murata come a Masina Corricella o a Casale Vascello. E poi cale, anfratti, grotte e spiagge. Un’isola che conserva un’anima autentica e speculare al carattere dei suoi abitanti, pescatori e marinai per tradizione, che della riservatezza e della discrezione fanno un punto d’orgoglio. E si distingue proprio per il minimalismo discreto, il semplice ma raffinato design hotel La Suite, nato dalla ristrutturazione conservativa di un antico palazzo nel cuore dell’isola. Aperto nel marzo scorso, propone un’accoglienza familiare, pur vantando servizi a 5 stelle che si rivelano in ogni dettaglio. Quindici camere e suite, tutte diverse, con terrazza o patio privato, caratterizzate da arredi contemporanei, declinate in un raffinato bianco e grigio, curate con un’attenzione particolare all’oggetto unico e ricercato di design contemporaneo e con dotazioni hi-tech, IPod dock e wi-fi in tutte le camere e nelle aree comuni. L’intero progetto di La Suite Hotel & Spa è stato concepito nel pieno rispetto della tradizione locale e dei vincoli paesaggistici dell’isola, senza alterare l’origine del luogo. La famiglia Borgogna, nell’isola da generazioni, ha voluto creare una struttura accogliente ma non lussuosa, nella quale il servizio accurato fa la differenza, rimanendo legata alle tradizioni e alle sue radici e trasmettendo agli ospiti il calore e i valori della famiglia che è tutta coinvolta nel seguire il resort, a cominciare dal giovane Fabrizio che si occupa in prima persona di ogni aspetto dell’organizzazione. Un giardino mediterraneo di 5 mila metri quadrati circonda l’albergo, tra alberi d’ulivo, rigogliosi limoni e bouganville in fiore. Ampia la piscina immersa nel verde e molti gli angoli con sofà, dondoli e poltrone,

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Struttura antica e stanze moderne di elegante semplicità e ricercati arredi di design. Al piano interrato, l’ampia Spa in pietra e legno è una zona benessere funzionale e con trattamenti personalizzati

dove rilassarsi all’ombra delle tradizionali incannucciate rinfrescati da caraffe di limonata fatta con i gustosi limoni di Procida, serviti con sollecitudine dal gentilissimo personale. A pochi minuti a piedi dall’albergo c’è la spiaggia dove è stato girato l’ultimo film di Massimo Troisi, Il Postino, e qui i clienti dell’hotel possono usufruire di sdraio e ombrelloni. Fiore all’occhiello de La Suite è la Spa, oasi di benessere e relax in pietra e legno con sauna, bagno turco, piscina interna e cabine per massaggi e trattamenti effettuati solo con prodotti naturali. Trattamenti viso e corpo antietà, rilassanti e tonificanti con pietre calde di origine vulcanica, con essenze in fusione di candela, con il vino e con il cioccolato: la Spa è già diventata un luogo di relax importante e un punto di riferimento anche per gli isolani. L’hotel non dispone di un vero e proprio ristorante, ma Le Cafè è un risto-bar dall’atmosfera informale, che occupa lo spazio che era un tempo la cantina: all’interno o nel giardino ombreggiato si può sorseggiare un aperitivo, un cocktail (da provare il Bellini La Suite creato dal barman Marco con succo di pesca, limoncello, basilico, top di Prosecco e twist di buccia d’arancia) o un light lunch. Il menu

offre sapori e profumi dell’isola come la celebre insalata di limoni, piatto tipico procidano con limoni, menta, olio, sale e aglio, la caponata mediterranea, la mozzarella di bufala con i pomodorini degli orti locali, la procidana con insalata verde, pomodorini, mozzarella, tonno e olive. A sovrintendere la cucina c’è mamma Luciana che con piacere, alla sera e su prenotazione, prepara per i suoi ospiti i piatti di casa, quelli che da sempre si trovano sulla sua tavola: dalla pasta ai carciofi di Procida, alla torta caprese, al limone con le mandorle, alle polpettine di patate con aglio e menta. Ma anche la spigola, il coniglio alla procidana, linguine al limone. È una cucina autentica e gustosa che si basa sulla disponibilità stagionale dei prodotti dell’azienda agricola di famiglia, da cui provengono verdura e frutta raccolte freschissime ogni giorno e anche il vino locale, il Levante, piacevolmente giovane e fresco, che ben si sposa con i piatti procidani. La mise en place è di una semplicità raffinata, con posate di Gualtiero Marchesi e i piatti Villeroy & Boch. “Il cibo ha grande importanza per il ricordo di un luogo ed è per questo che curiamo molto la gastronomia -spiega Fabrizio Borgogna- Ma vogliamo mantenere l’impronta di una cucina di casa, quella che anche noi gustiamo tutti i giorni. Non cerchiamo il grande chef, è la mamma che prepara ciò che le suggeriscono i prodotti della nostra campagna”. Una cucina che piace agli italiani e che affascina gli stranieri, che sono la maggior parte e che qui trovano un’oasi nella quale rilassarsi e godersi la semplicità e la spontaneità dell’isola. F&B scheda

La Suite Hotel & Spa via Flavio Gioia 81 bis 80079 Isola di Procida (Na) Tel. +39 081.8101564 www.lasuiteresort.com

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CULTURA&GUSTO A Villa Pisani di Stra, fino al 4 novembre, una settantina di opere famose di maestri conclamati ma anche di pittori considerati minori illustrano i diversi aspetti del lavoro attraverso le raffigurazioni dei mestieri svolti a

Venezia e nell’entroterra fino ai primi del ’900

L’anima nobile del lavoro nella pittura dell’Ottocento Adriano Baffelli

I La mostra veneziana svela quadri che sono affreschi su mondi, settori ed epoche

n un’epoca come l’attuale, preme l’esigenza di un radicale ripensamento sul senso e sul valore del lavoro. Contro il buio di spread, default, Bund e Btp, contro l’imperscrutabile economia irreale, per tornare a vedere equilibrio nella società la risposta è semplice, trasversale, globale: il lavoro che è stato, è e resta valore morale essenziale che dà senso, misura e stabilità al singolo e alla collettività. E ci piace immaginare la mostra progettata e vissuta all’insegna di un aforisma di Thomas Carlyle (1795-1881): “Ogni lavoro, anche filare il cotone, è nobile; il lavoro è l’unica cosa nobile”. L’iniziativa s’inserisce nel solco del progetto tra Passato e Presente che, continuando nella ricognizione a largo raggio sulla pittura dell’Ottocento veneto, caratterizza da anni l’offerta espositiva del Museo nazionale di Villa Pisani. Scelta apprezzata e premiata dall’affluenza di un pubblico che si aggira ogni anno intorno ai centomila visitatori. La mostra Nobiltà del Lavoro. Arti e Mestieri nella Pittura Veneta tra 800 e 900, a Stra-Venezia, fino al 4 novembre, è promossa dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Venezia, Belluno, Padova e Treviso, organizzata da Munus e curata da Myriam Zerbi e da Luisa Turchi. Le opere esposte illustrano i diversi aspetti del lavoro attraverso le raffigurazioni dei mestieri svolti a Venezia e nell’entroterra veneziano lungo tutto il secolo che segue la caduta della Serenissima fino ai primi decenni del Novecento. Nella selezione delle settanta opere si sono avvicinati dipinti provenienti da raccolte museali e da Fondazioni (Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma, Musei Civici di Padova, Museo Correr di Venezia, Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro di Venezia, Museo Civico Bailo di Treviso, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Forti di Verona, Museo Civico di Palazzo Te, Pinacoteca Egisto Lancerotto del Comune di Noale, Fondazione Vincenzo Breda di Ponte di Brenta) a lavori conservati in collezioni

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private, da dove escono, eccezionalmente, per la prima volta. Questo, per far dialogare opere famose di maestri conclamati con lavori inediti o sconosciuti ai più, sia di autori celebrati che di pittori considerati minori, la cui arte si vuole portare a conoscenza di un pubblico più vasto perché ne possa apprezzare qualità e forza. Tra gli autori selezionati, sono presenti i maestri che hanno contribuito a fare della storia della “pittura del vero” nel Triveneto un’eccellenza. La rassegna ripercorre la vita lavorativa tra i secoli XIX e XX, attraverso opere celebri e lavori meno noti di artisti che scelgono come soggetto del loro dipingere il popolo, còlto nell’esercizio delle attività quotidiane, tra le pareti domestiche, all’aperto o nei cantieri, nel verde pacifico dei campi o nella baraonda delle città. Si possono ammirare dei quadri che sono dei veri e propri affreschi su mondi, settori, epoche. È il caso di La scuola dei merletti a Burano, magnetico olio su tela dipinto nel 1905 da Pieretto (Pietro Bortoluzzi, Trieste 1875-Bologna 1937). Pare d’ascoltare l’operoso silenzio delle ricamatrici, nei loro ampi abiti chiari, impegnate nel lavoro paziente, in un ambiente che pure dichiara lindore, artigianato e arte al contempo. Dagli anni Sessanta dell’Ottocento sono diversi i maestri che hanno sentito il dovere di farsi interpreti

della vita contemporanea, fissando l’iconografia ottocentesca delle “Arti che vanno per via”, inventario di mestieri di strada codificati graficamente nelle acqueforti di Gaetano Zompini nel 1753, repertorio di attività che, accanto alla marineria e alle tradizionali risorse dell’industria vetraria muranese e della pesca lagunare, riflettono del tempo gli usi e i costumi. F&B IL RISTORANTE

Specialità padovane al Ristorante Boccadoro Il Ristorante Boccadoro, a Noventa Padovana (Pd) vanta una storia consolidata che risale al 1974. Guidato da Renato Piovan, con la moglie Loretta e la sorella Bruna, offre una cucina legata ai piatti della tradizione contaminata dall’estro creativo dell’innovazione. Le nuove e innovative tecniche di cottura permettono allo chef di rivisitare con fantasia le specialità padovane. Qui, in un ambiente curato e raffinato, i sapori della tradizione ci sono tutti, a cominciare dal baccalà mantecato con polenta alla brace. Da provare il piatto del Buon ricordo: galina inbriaga co’ e tajedele. La cantina, ideata con sapiente scelta, conta oltre cinquecento etichette che spaziano dai vini regionali e nazionali a quelli internazionali. Ristorante Boccadoro, via della Resistenza 49, Noventa Padovana (Pd), tel. 049.625029 www.boccadoro.it

l’albergo

Il fascino del 700 all’Hotel Barchessa Gritti Dall’attento restauro di una barchessa del XVIII secolo, edificio rurale tipico dell’architettura veneta, nasce l’Hotel Barchessa Gritti, nel cuore della Riviera del Brenta, a metà strada tra Padova e Venezia. Un luogo incantato che conserva il fascino inalterato dei rustici di fine Settecento. Una costruzione sobria e raffinata di pertinenza della Villa Gritti. Camere e suite spaziose dotate di ogni comfort -aria condizionata, televisione satellitare, radio, frigobar, telefono- arredate con uno stile moderno ed essenziale, in tonalità di colore diverse a seconda del piano. Facilmente raggiungibile dall’autostrada, l’Hotel Barchessa Gritti accoglie turisti, ma anche uomini d’affari. Hotel Barchessa Gritti, via Trieste 3, Fiesso d’Artico (Ve), tel. 041.5161934, www.hotelbarchessagritti.it

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BUONALETTURA a cura di Simona Percivalle

Biodiversità Gli orti di montagna Molti sono i testi dedicati al paesaggio e alla cultura locale del Sudtirolo, ma ben poco si sa dei tipici orti domestici che ancora oggi sopravvivono in questa regione. Michela Pasquali, curatrice del volume Sudtiroler Paradies. Orti di montagna, intende colmare questo vuoto, documentando la storia dell’orto alpino, l’evoluzione delle piante e l’importante ruolo delle contadine sudtirolesi nella conservazione della biodiversità. Grazie al contributo di autorevoli botanici, geografi e accademici austriaci e tedeschi, vengono descritte le principali essenze presenti negli orti e viene delineato un vero e proprio inventario delle piante coltivate e selvatiche in relazione al loro uso alimentare. Senza voler essere esaustiva, questa raccolta è parte di una tematica più ampia che riguarda la conservazione e il recupero di un prezioso patrimonio culturale e geografico. Edito da Linaria, costa 28 euro.

Territorio Le bollicine del Trentino

Cuochi La passione di Ferrari

Quando la montagna diventa perlage, il sottotitolo al Trentodoc di Nereo Perderzolli e Francesco Spagnolli, evoca come la montagna sia appunto una grande risorsa dello spumante del Trentino. Pare infatti che la vite dia il meglio di sé proprio in condizioni di sofferenza. E la montagna trentina, con la sua altitudine, la grande variabilità climatica e la diversità dei suoi terreni, favorisce l’habitat ottimale per l’ottenimento di un grande vino. Ben si comprende allora come in questa regione siano attualmente oltre una ventina i vitigni coltivati con apprezzabili risultati, raccontati nel libro. Si possono così conoscere le storie dei principali produttori del Trentodoc, che ci offrono spumanti eccellenti. Di Valentini Trentini Editore (www.trentodoc.it).

Fabrizio Ferrari, cuoco pavese alla guida del ristorante stellato Roof Garden a Bergamo, ha pubblicato Passione Pura (un nome che diventa anche un marchio di Ferrari e dei suoi futuri progetti gastronomici) e ha come sottotitolo L’arte della cucina nell’era del sottovuoto. Un volume interessante per il crescente interesse che la tecnica del sottovuoto, dai fratelli Roca in avanti, ha suscitato nel mondo dell’alta ristorazione. Consigli, ricette, abbinamenti con i vini, igiene, strumenti da utilizzare e molto altro in 200 pagine ricche di informazioni e curiosità. Il libro si può acquistare al ristorante (www.roofgardenrestaurant.it). Edito da Valko, costa 70 euro.

Gastronomia Raccontare la Romagna

Guide Maremma, viaggio dai mille volti

Affrontare il tema della gastronomia romagnola attraverso la storia della sua ristorazione: è questo l’obiettivo di Bianchi & Neri, cuochi e camerieri…patron e sommelier, a cura di Franco Chiarini. In 38 schede i personaggi più rappresentativi dal 1960 fino ai giorni nostri, sono raccontati attraverso la scuola, i maestri, gli allievi, la filosofia, le ricette, i menu, le iniziative, i riconoscimenti, i clienti affezionati, le pubblicazioni, oltre alle recensioni dei loro archivi. La chicca: la cartina geografica della Romagna con l’elenco di 40 ristoranti e trattorie, consigliati dalle guide, dalle pubblicazioni e dalle associazioni dell’epoca. Edito dall’Accademia Italiana della Cucina, costa 50 euro.

Tra gli itinerari proposti dalla nuova collana di guide dedicate al turismo enogastronomico, Maremma e Costa degli Etruschi vi immerge, come recita il sottotitolo, nelle terre dei butteri e dei grandi vini tra mare e natura incontaminata. Una costa che offre sterminate distese di pinete, paludi, dune, spiagge bianchissime e mare limpido. E un entroterra imprevedibile con monti verdissimi, dolci radure, lembi primordiali di memorie etrusche. Il taglio editoriale è enogastronomico e molti sono gli indirizzi per assaporare piatti tipici e genuini, espressione del carattere maremmano, forte e rude e per degustare una produzione enologica di tutto rilievo con alcuni dei più famosi Supertuscans. Di Touring Editore e Slow Food Editore, costa 14 euro.

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pillolediSTORIA

Nel vino resina, mirra e miele Nicoletta Negri

‘‘E

voi dove vi piace andate, acque turbamento del vino, andate pure dagli astemi: qui c’è il fuoco di Bacco”. Gaio Valerio Catullo Tutte le grandi civiltà mediterranee si arrogano la scoperta del vino, legandola a uno dei loro dèi o eroi, e già da questo si può intuire quale sia sempre stata l’importanza di questa bevanda per l’uomo. Giudicata seconda solo all’acqua, a questa è associata, tanto che in molte civiltà la nascita del vino si fa risalire al grande evento: il diluvio. I Greci diluivano con l’acqua il loro vino, troppo denso e cremoso, per renderlo più bevibile e meno forte. Le proporzioni dei due liquidi erano stabilite dai magister bibendi, che di volta in volta regolavano

l’intensità della gradazione e il sapore, sia per renderlo più gradevole, sia per adattarlo allo scopo del simposio a cui era destinato. Il taglio del vino era sicuramente un’arte da cui dipendeva il risultato finale. Spesso, per migliorare il gusto venivano aggiunte erbe aromatiche e miele. Il miele veniva unito al vino anche durante la fase di cottura necessaria per la conservazione, processo indispensabile per I Greci lo diluivano con bloccarne la trasformazione e mantenerlo al giusto grado di fermentazione. In l’acqua per renderlo meno pratica, era una pastorizzazione che consentiva di salvarlo poi nelle altissime giare di cotto, precedentemente impermeabilizzate con uno strato di pece che peraltro forte, ma erano maestri al vino il sapore della resina di cui era composta. Questo aroma è ancora nel correggerne il sapore rilasciava oggi apprezzato dai Greci, che nell’arte della vinificazione erano grandi esperti. Una con erbe aromatiche, delle tecniche più utilizzate era quella di correggere con il gesso o tagliare con acqua ma anche gesso e acqua di mare il succo d’uva appena spremuto e solo leggermente fermentato. Eccellevano di mare. I Romani nell’arte del taglio dei vini, che mischiavano sia a quelli nazionali che ad altri provenienti da vari Paesi, offrendo così una gamma veramente ampia, tanto da far dire preferivano il pepe, a Virgilio: ”... sono così innumerevoli come i granelli di sabbia sulla riva del mare” . petali rosa e di viola I Romani amavano il mulsum, cioè il vino unito al miele, e Apicio ricorda un vino mielato condito con pepe e numerosi altri ingredienti. Tra gli aromi assegnati al vino, ricordiamo la resinata vina, la pece e la mirra: quest’ultima era considerata un ottimo condimento da Marziale. Apicio dà una interessante ricetta di rosatum, vino arricchito da un infuso di petali di rosa e condito con miele. Sulla stessa ricetta, sostituendo i petali di rosa con quelli di viola, si realizzava il violacium. L’uso di aromatizzare i vini era apprezzato dai vari imperatoF&B ri e dai loro ospiti.

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allospecchio

Expo 2015 eppur si muove…

l’enogastronomia a portata di click

Adriano Baffelli

D www.foodandbev.it è un marchio F&B Editoriale - Photo and layout: Ezio Zigliani

www.

FOOD AND BEV .it

www.foodandbev.it

obbiamo confidare che un sospetto, non tanto vago, s’affaccia con frequenti pulsioni alla nostra mente. Di che si tratta? Siamo “allo specchio”, non possiamo nasconderci: temiamo che in troppi parlino di Expo 2015 senza davvero aver capito, senza sapere di cosa si tratti. Non aiutano le istituzioni a farlo comprendere, impegnate come sono a litigare fra loro, facendo a tratti persino presagire che l’intera organizzazione,

o buona parte di essa, possa essere a rischio. Certo, l’atmosfera di quella fine inverno 2008, quando l’assegnazione a Milano e all’Italia fu accolta con entusiasmo, illudendoci potesse essere un segnale di una più generale riscossa del Paese, è svanita anche per i morsi di una crisi pesante e profonda. La sensazione è che la nave Expo navighi ancor più a vista e con ulteriori difficoltà rispetto al sistema Italia, di suo già alquanto incerottato. Anche per questo per molti operatori risulta difficile In troppi sperano di capire quel che l’Expo 2015 potreblucrare soldi pubblici, be, dovrebbe essere. Soprattutto nelle altre città lomma l’occasione barde, tra amministratori, categorie è da cogliere per economiche, improvvisatori vari, promuovere territori sembra prevalere l’effetto Mone prodotti, grazie a diali di calcio o Colombiadi. Che progetti coerenti e significa, vi chiederete? Significa coraggiosi. Che stiamo che prevale il pensiero, neanche troppo retrò, di approfittare in aspettando… qualche modo di un’occasione per drenare soldi pubblici. È utile e urgente, invece, comprendere che di soldi da buttare non ve ne sono, che al netto delle “necessità milanesi” poco o nulla resterà per gli altri territori. Questo non significa che non si possa fare nulla. Anzi. L’Expo può rappresentare lo stimolo e il trampolino per una promozione intelligente ed efficace delle produzioni agroalimentari e dei loro territori. Punto d’incontro per favorire l’immensa potenzialità del nostro Paese. Senza aspettare che Regione, Stato, Unione Europea, garantiscano fondi, ma lavorando con convinzione per rendere attuale per le imprese il titolo-messaggio dell’Expo: Nutrire il pianeta. Energia per la vita. F&B



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