Signori in carrozza

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In questa dialettica treno/paesaggio è anche profondamente immersa, come morbidamente e pienamente con un colorismo quasi fauve, la visione di Maria Rosa Bertola, Piove, Brescia, 1960; un paesaggio grondante colore,…ma nel quale ridono le lucciole dei finestrini del treno, notturno, con le sue calde lucine.

lo rende volumetrico e drammatico con quell’accenno di sbuffi nuvolosi che lo arrotondano un po’. I binari sono anche, però, una frontiera, un confine che segna un al di qua e un al di là rispetto al suo tracciato; dire: “al di là della stazione”, “dietro la stazione” è sempre allontanante e un po’ avventuroso.

Più curiosamente vicine, come fatte di un persistente stupore bambino, timido per certi aspetti, ma trasognato e insieme precisamente svagato e arruffato, gentilmente prossimo all’oggetto della visione, eppure lievemente distanziati fra timore, riverenza e un primo osare minuto e catturato, sembrano le visioni recuperabili in tre opere. In quella di Marco Barale, Il trenino, 1984, Pavia il nero deciso del locomotore porta giù il treno nel suo andare che è sempre anche un po’ un cadere; ma ancora come non rimirare il conduttore che è lì a fare il suo lavoro di avvertimenti e divieti con una ben precisata paletta? Anche lui è un po’ in bilico; come le ruote del vagoncino per merci; saldi stanno i tre viaggiatori curiosi e protetti dalla scia nera del fumo, memoria di una caduta cometa che cerca di raggiungere il sole. E questo parallelismo, questa sorpresa di linee e spessori, questo andare “verso e/o contro”; questa lieve sbavatura che dà al mondo la presenza del treno e del percepirlo andare nel paesaggio, si ritrova anche nell’opera di Luigi Zinno, Il trenino, 1962, Napoli: sui binari ben piantati a terra, segnati da un’alternanza cromatica costruttivamente armoniosa si appoggia, quasi tangenziale, un treno fatto di e a casette, quasi! E come le casette, sì quelle più lontane, fuma e disegna il cielo. È questo che meraviglia del fumo: disegna il cielo, e disegnandolo ne fa almeno due, lo divide, lo restringe ma lo amplifica allo stesso tempo,

Più chiaro si fa il sogno della percezione dell’andare con Assunta Cammarota, Trenino in campagna, 1985, Napoli che ci regala un’ardita curva celeste del treno, quasi da trapezista di un circo equestre; di un treno che se va, va verso l’orizzonte, lo buca, lo attraversa e si arrotola, con il suo fumo, nell’aere; l’andare è come un po’ volare, rompere con le geografie lineari e rettilinee, ortogonali; è diventare leggeri e quindi un po’ piumati; e se piumati, anche morbidamente amplificanti le geografie. Siamo in cielo e in terra? O siamo in una terra che si dilata e si arrotonda per l’andare del treno? O siamo verso un cielo che pare cadere e incontrare la macchina? Certo la geografia non è più la stessa da quando ci sono i treni, ma non solo. Abbiamo detto che i binari sono una frontiera, un segno nel paesaggio che ha mutato il paesaggio; come ogni via di comunicazione segmenta, articola, confina e segna il paesaggio con nuovi orizzonti che lo dilatano, lo approfondiscono, lo rimpiccioliscono, lo sdoppiano in piani e livelli che rendono il vedere mobile, sconnesso, più ardito, con tutto quello che ne consegue in termini di rappresentazione. Allora viene da chiedersi: il paese di Maurizia Pedrana di Rezzato è attraversato dal treno o è guardato dal treno che va su un lungo, leggero ponte di binari scavalcando campi, case e inizi di colline? Certo è che il paese è

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