Marco Occhigrossi
JU PAESE MEJO SocietĂ - Costume - Ambiente - Storia
Ju paese mejo Marco Occhigrossi
Società - Costume - Ambiente - Storia Sommario
pag. 2
Introduzione
pag. 4
L’abbraccio della poesia
pag. 17
Notiziario
pag. 3 pag. 5
Ju tempo de “ju paese mejo”
Ju paese mejo
pag. 21
La cucina de mamma
pag. 26
Curiosità, leggende e stranezze di Marano
pag. 23 pag. 30 pag. 33
Breve storia agricola di Marano
Orchidee selvatiche dei Monti Ruffi La flora del territorio dei Ruffi
Con il Patrocinio dell’Associazione Amici dei Monti Ruffi e del Centro Anziani di Marano Equo Testi: Marco Occhigrossi - Filippo Gentile - Barbara Occhigrossi - Tommaso Occhigrossi - Paolo Gigli - Luigi Tilia Referenze fotografiche: Filippo Gentile - Massimo Toppi Grafica e Impaginazione: Filippo e Francesco Gentile Stampa: Grafica Di Marcotullio - Roma
Edizioni: Contatto Comunicazione e Marketing - Roma Finito di stampare Febbraio 2016
Introduzione
Trovo intrigante il fatto che ci siano persone che cercano di riflettere sulla vita, sulle emozioni, sulla speranza; che hanno anche il coraggio di scrivere ciò che attraversa il loro cuore. L’amico Marco, ancora una volta, ha preso in mano la penna ed ha raccolto, a suo modo, con il suo stile personale, i suoi pensieri più intimi fatti di ricordi e di sensazioni per consegnarci un pezzo della sua anima perché, attraverso le sue riflessioni, il ricordo possa riecheggiare in ciascuno di noi destando simpatia e rispetto per quel piccolo pezzo di mondo che ogni giorno che passa si trasforma e un po’ alla volta scompare per sempre. Siamo compagni di viaggio in questa splendida e misteriosa avventura che è la vita ed è bello fermarsi ad ascoltare chi, come ha fatto Marco, si racconta e ci racconta la “sua” Marano. Una lunga poesia in dialetto maranese che narra fatti storici ma anche la bellezza della natura con i suoi splendidi colori, profumi e sapori che continuano ad inebriare il cuore di Marco e sicuramente di tutti coloro che hanno a cuore questo nostro piccolo pezzo di mondo. Risulta molto interessante la breve storia della tradizione agricola maranese, l’evoluzione che partendo dalla coltivazione e lavorazione della canapa, passando per le cospicue piantagioni di cipolla, porta alla più recente coltivazione del fagiolo Regina maranese che negli anni sessanta e settanta ha dato notevole contributo allo sviluppo economico e sociale delle famiglie di Marano. Non poteva mancare una poesia più intimistica, oserei dire “alla Marco”. La bella opera in vernacolo maranese scritta di recente dal nostro poeta, dedicata alla figura della mamma regina della cucina. La cucina fatta di cose semplici e genuine, descritta con una tale vividezza che leggendola ti sembra di vedere i colori dei variopinti piatti e di sentirne il gusto che, uso le parole di Marco, “sarrà pe’ nostargia o pe’ amore, a stu’ momento me st’a ppassà ‘nganna”... Il volumetto è completato dall’affettuoso ma puntuale intervento di Tommaso Occhigrossi, dall’amorevole presentazione di Barbara Occhigrossi, dal contributo del biologo Paolo Gigli che evidenzia e descrive l’ampia varietà della orchidee selvatiche presenti sul nostro territorio e, dal competente intervento di Luigi Tilia che introduce brevemente alla varietà della vegetazione tipica dei monti Ruffi. Un ricco apparato fotografico insegue e completa le descrizioni di Marco ed è volto a dare sembianze, colori e luce a sentimenti profondi e veri. Ritengo che la scelta delle immagini e la loro collocazione all’interno della pubblicazione possa rappresentare una ulteriore contributo alla lettura delle parole dell’autore. Un percorso parallelo che guida il lettore offrendogli una visione immaginaria che lo riporti in una Marano che giorno dopo giorno scompare restando però ben impressa di tutte le persone che come me amano profondamente questa “cacatella ‘e mosca” posizionata sul mappamondo. Il volume è patrocinato dall’associazione Amici dei Monti Ruffi a cui Marco appartiene fin dalla sua fondazione e dal Centro Anziani di Marano Equo, associazione spesso impegnata a difendere e a valorizzare la cultura e le tradizioni del nostro piccolo ma grande Paese. Filippo Gentile
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Ju tempo de“ ju paese mejo”
Mi piace pensare la bella scrittura come ad una piacevole serie di incontri quasi sempre non previsti. È innanzitutto un incontro con il tempo e proprio di questo vorrei parlare nelle poche righe che seguono. La scrittura che diventa pagina da leggere e ci tira a sé, reca un dono: vive nel Tempo a cui rimandano le sensazioni di chi legge. Per questo “ju Paese mejo” è la bella pagina che percorre il tempo della Storia e il tempo di chi legge, nutrito dal soffio di ricordi, emozioni improvvise, sensazioni di meraviglia. Questo intreccio si stringe intorno ad un luogo che rimane “ascisu a ‘n cugliceglio co’ Monte Rofo che gliu varda reto”: un inizio asciutto e delicato che chiama in causa immediatamente il piccolo e grande Kronos. Per il lettore che già conosce e frequenta gli spazi angusti costruiti dall’uomo in cima a quella collina e gli spazi intorno plasmati dalla natura, il piccolo Kronos richiama nel ricordo, il dolce piacere del ritorno. Infatti è fisicamente inizio del ritorno, ogni volta che si scorge, “de sotto la pianura dell’Aniene, addò ju fiume scorre lentamènte”, il campanile della chiesa parrocchiale che comanda la parte antica del paese. Per il lettore che non conosce, il piccolo Kronos indicherà grazie all’incipit sopra ricordato, un viaggio nelle forme dell’immaginazione, apparenza di reale sussurrata dalle parole lette e da ciò che si conosce per aver vissuto altri luoghi. Si tratta di un viaggio nel tempo - persona tra “i viculitti remasi ‘ntatti” e la pianura, madre severa ma giusta, oggi purtroppo dimenticata. Proprio in quegli angusti spazi di pietra e le ampie distese tagliate dall’Aniene, avviene la conoscenza con l’altro grande protagonista del nostro racconto: il grande Kronos. Sono le storie individuali che si incontrano e segnano il tempo con il nome di civiltà. Nel racconto diventano quindi epopea quando assumono le fattezze di figure storiche come Filippo signore di Marano che fa sobbalzare nei miei pensieri, la storia dannata di Guido da Montefeltro o come Livio Mariani, uomo di pensiero e azione, animo romantico acceso dagli ideali di libertà repubblicana. Queste considerazioni suscitate dalla lettura di “Ju paese mejo” si saldano con il piacere del verso in dialetto senza il quale la suggestione non può nascere. Infatti creiamo immagini dentro di noi a contatto con le opere dell’ingegno, quando riceviamo bellezza. La bellezza del verso di Marco risiede nella sua semplicità naturale e per questo pura espressione di quel mondo contadino che mi sembra essere l’ultima grande civiltà sviluppatasi nella valle dell’Aniene. Non sembra a questo punto fuori luogo ritornare al tempo della scrittura e della Vita allorché si presti attenzione al carattere diacronico che presenta la lingua dialettale: unisce le generazioni e permette la conservazione dei valori e delle opere di una società che in essa si specchia, a condizione che non si perda la sua forza significante. Per questo il libro di Marco potrebbe essere un piacevole svago e nel contempo un momento di riflessione sull’appartenenza ad una comunità. Tommaso Occhigrossi
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L’ abbraccio della Poesia
La lingua delle nostre origini è come la musica della nostra giovinezza: suscita emozioni perché evoca ricordi, i più belli, ravvivandoli e rinnovandoli con una carezza che non invita al rimpianto, solo ad una tenera malinconia; ci inchioda al passato con la forza e con l'incanto delle parole e, se le parole sono ritmo e melodia, ci tranquillizza in un’antica ninna nanna. Quando il passato è già più ampio del futuro e quando i ricordi, incalzati dal presente, s’affastellano nell’angolo più recondito della nostra mente, capita che un suono, così potente da richiamare un’immagine dimenticata, conforti in modo inaspettato. E per un attimo, quando l’immagine torna viva e reale, il nostro cuore sobbalza di meraviglia e di gratitudine: un fiore, un utensile, una creatura, un paesaggio riaffiorano dalle nebbie e tornano a noi, e noi torniamo a casa. La lingua delle nostre origini è un albero dalle radici profonde, dal fusto robusto e dalla chioma larga e densa, e saggio è colui che lo protegge, lo difende e lo valorizza. Mio padre scrive poesie da sempre e da sempre scrive nella lingua della sua gente; usa le parole come componesse musica, scegliendo, nella trama delle rime, quelle che meglio s’addicono al verso, non solo per l'immagine che richiamano, ma anche per il suono che emettono: onomatopee, allitterazioni, paronomasie, omotelèuti e assonanze per dare spessore sonoro e ritmo, ma anche metafore, similitudini e metonimie per dare al messaggio più efficacia ed espressività; le sue poesie sono testo ritmato nel quale trovano amabilmente posto descrizioni di oggetti (ortaggi, fiori, utensili, strumenti) e di luoghi (chiese, cantine, case), in un susseguirsi di immagini così variopinte e nitide che sembra di vederle. Quando ero bambina, mi piaceva tanto il suono di parole come conocchia, spitarojo o baramosci, quasi fossero fantastiche creature abbarbicate ai muri delle cantine e delle cucine, pronte a saltar giù e a danzare nel buio della notte e credevo che quei nomi buffi e melodiosi usati per indicare fiori, rovi e alberi fossero, in realtà, i nomi delle fate e dei folletti di quei boschi a lui tanto cari: tarratufoli, farfaracci, rafani e falaschi non sembrano i personaggi di una fiaba da leggere alla luce della luna? Da adulta, ho invece scoperto il mondo prospero, incontaminato e laborioso nascosto dietro ad un dialetto così musicale e variopinto, intuendo di quel mondo lontano anche la bellezza e l’armonia: lo ranu, la restoppia, i manocchi, i pumidori in fila begli rusci, una piccola Arcadia in cui Uomo e Natura erano perfettamente fusi in un abbraccio solidale. Mio padre ha mantenuto un legame profondo con la sua Terra, amandone le tradizioni, gli abitanti, la natura, la storia, oltre al dialetto, e questo suo amore è evidente quando racconta in versi; solo una lieve malinconia s'avverte qua e là, tra un aneddoto e una descrizione, quando s'attarda nel ricordo di quel che la sua terra era - pareja tuttu beglio e naturale, perché era ju solo munnu che ce steja - e può succedere a quanti hanno vissuto tutta la vita altrove, mentre, forse, avrebbero voluto non andarsene mai. Ma credo proprio che, nei lunghi anni trascorsi lontano, papà abbia cantato, sognato e perfino pensato nel dialetto di Marano e che la Poesia lo abbia aiutato a sentirsi sempre ed ancora a casa sua.
Barbara Occhigrossi
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Ju paese mejo
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Saccomm’è beglio ju paese mejo, commodamènte ascisu a ‘n cugliceglio co’ Monte Rofo che gliu varda reto, denanzi ce tè, ‘nvece, Ciuccianeglio.
Una memoria storica ‘mportante che duvirria dà lustru a questa terra e ‘nvece comm’è metudu costante finisce tuttu quantu ‘n sicutèra.
De sotto, la pianura dell’Aniene, addò ju fiume, scorre lentamènte a fiancu alle condotte de Nerone che Roma dissetaru anticamènte.
Eppuru ha scrittu paggine de storia co’ la specialità degli fasori cunsiderati vera pojesia, da tutti, gente semprice e dottori.
De sopre, tra lo verde della macchia, un vecchio santuariu francescanu co’ trento la Madonna della Cerqua, Patrona e protettrice de Maranu.
Oggi è rilitta e tutta abbandonata, degna degliu più vile disonore, pe’ chi l’ha sempr’amata e lavorata e ci ha lassatu l’anema e gliu core.
La catena dei Monti Ruffi 6
Senza negà ju meritu, de certo, alla cipolla tipica nostrana che, col “regal fagiolo” di concerto, figge la gran ricchezza paesana.
E, allora tuttu se cagnà de botto, perché ju contadinu maranese, non se nne curà più degliu prodotto, né figge più alla terra la majese.
E gliu distinu se cagnà parecchio; la rustica proggenia paesana de ‘n munnu deventatu troppo vecchio, se trasformà in civirtà urbana.
Ma comm’ un fresce de fotografia, me so’ remase tante cos’a mènte la scena, co’ ‘na certa nostargia, spesso, me sse presenta propotente.
Infatti nascì subbitu un mercatu ddò circolea benessere e quatrini, famusu ‘n tuttu quantu ju circondatu, capace de cagnà tanti distini.
Siccomme “sic transit gloria mundi”, passà de moda puru la pianura, e comme figge ju prete al de prufundi, fu sotterrata e messa ‘n sepordura.
La maggese
Scorcio di Marano 7
Io me recordo e mm’è remasu ‘n capu lo ranu, la restoppia, i manocchi, la melaca e gliu scetto remonnatu, i fochi de robaccia e de stammucchi,
Pareja tuttu beglio e naturale, perché er’ ju solo munnu che ce steja, ju munnu ch’era ju tejo, personale, j’ unicu munnu che t’apparteneja.
Eppò, tutta la gente che ce steja, ammond’ e abballe comme le furmiche, ognun se curea la terra seja senza penzà agli stenti e alle fatiche.
Ma gli è remasa ‘mpressa la pianura. J’addore della terra lavorata, e la firtilità e la natura comme la mamma seja tant’amata.
i mucchi ‘e raiturcu appena coti, i pumidori in fila begli rusci, i zicchi, i canistrigli, i sacchi vòti le soleca de cavul’ e cappucci.
E, pe’ furtuna, ju munnu s’è allargatu e gli varzitti se so’ fatti rossi, se nne so’ jti, hau studiatu sicuri de trattà novi discursi.
La Vendemmia
Campo di grano 8
Mò, ‘n quistu ambiente bruttu e snaturatu, dimora de cornacchie e de cignali, pe’ bbona sorte e pe’ gli anticu fatu, ce stau ancora l’acque minerali. So’ acque diggistive naturali, famose già agli tempi ‘egli Romani, le cita Pubblio Tacito agli Annali, le chiama Plinio il Vecchio arzenicali.
Ne esce ‘n quantità industriale m’ancora ju cunzumu è personale e spero tantu che remane tale e che ‘n deventa un centro commerciale.
Cannelle acqua diuretica
Stabilimento acque minerali 9
Ju nome se gliu porta da lontanu. Se chiama senza enfasi Maranu, nome commune che non pare stranu se pinzi alle marrane dello pianu.
Eppo’ è sempr’alegra e festarola, sta meglio ‘n compagnia che da sòla e balla e canta e fa cunfusione pe’ ‘gni festeggiamento e accasione.
La gente che ce abbit’è contenta, nisunu, a me me pare, se lamènta: j’ambiente è bbono e retenutu sanu pe’ l’ospitalità e gli’aspett’umanu.
Sempre fedele alle pricissiuni che fa co’ dignità e divuzziuni. Respetta i Santi e le tradizziuni e le fistività degli “Patruni”.
E quantu agli Equi, ju nome che st’appresso, si gli ha portatu ju tirritoriu stesso ché gli Equi, da guerreri pecorari eranu de ‘ste terre proprietari.
Ma sente ‘n petto l’anzia e gliu dolore quanno ce sta cacunu che se more. È triste, puru, se se romp’ ju racciu, ca’ beglio giovenotto o poveracciu.
Il busto scultoreo di San Biagio (in argento e oro)
L’alzata del pallone 10
So’ quasi tutti bravi letterati in maggioranza pubbrici ‘mpiegati, tanti prufissionisti e diriggenti co’ ‘na damanta ponta de studenti.
J’ambiente urbanu s’è mudificatu, ju nucliu abbitativu s’è allargatu, ma pe’ furtuna so’ remasi ‘ntatti, j’anticu borgo co’ gli viculitti:
Ma n’se po’ dì che non ce manca gnente esiste puru tanta pora gente, se vede ‘n giru ju disuccupatu, e cacunaru ch’è precariatu.
la scalinata delle scaj ‘e l’oglio, ju busciu de Marpenza mbruscu-mbroglio, la sacra Famigliola Nazzarena raffigurata sotto quella cona.
È ‘na cummunità ben’ affiatata da seculi de vita travagliata; vive serena, senza passiuni: litica solo pe’ le lizziuni.
ju vecchio Furnijojo e la Torretta, ju Riju, ju Cursu e gli’ arcu della porta, la Piazza, la Puntica Mascarcìa, i viculitti della sacristia,
Scale dell’oglio
Chiesa San Biagio - particolare facciata 11
Eppo,’ tra tutte l’are belle cose ce stau le quattro vecchie e sacre chiese, segno de gran curtura della fede, de ‘n popolo sincero che ce crede:
’N mezzo ce stau frassini e ornegli, colonnie de ginestre e de cispugli, aceri, lecci e gruppi de sammuchi. carpini bianchi e niri, sorie, nuci;
J’ambiente panuramicu è gagliardu, se vidi, appaga j anim’e gliu sguardu, so’ macchie de cerqueta e de castagne che vestanu de verde le montagne.
Piante che me reportanu lontanu quanno se maceneja agli montanu la ja còta e, ce ficeja l’oglio, co’ l’arte degli fisculi, ju facioglio.
l’antica chiesa degliu Santuariu, la cappelletta degliu cimiteriu, la chiesa de San Biasciu protettore e la Pietà degliu nostro Signore.
se vedanu ‘ntramezzo alla boscaglia, sfumate tra lo verde e la streppaglia, ciuffi de foglie grigge sparpagliate de piante della ja trascurate.
Biancospino in fiore
Biancospino - ramo con frutti (Drupe) 12
È nteressante pur’ ju sottobbosco, addò se po’ trovà, rovo e verbasco, co’ gliu crugnale, ju cardu, ju biancospinu, ju rafanu giallastru, ju ciclaminu,
Verde abbondante che ce starrà sempre comme ju tarratufulu a settembre, e comm’ ju farfaracciu agliu fossatu o la falasca che recopr’ ju pratu.
Non mancanu, de certo, l’orchidee, co’ l’erba lepirina e l’achillee, ju gigliu fattu a forma de trombone, ju fiordalisu co’ gliu ginestrone.
Fobbe cuscì che la localitate da senza gnente deventà Castéglio; ma quello che stranisce e ch’è più beglio, che ci abbetaru nobbili casate.
e la mintuccia, fiuci e viole, lo ruschiu che te prongeca e te dole, i lampasciuni co’ gli cappellacci, i muscari narcisi e i cipollacci.
La storia della vita cittadina le raiche l’affonna al medioevo quanno Brunone, giovenotto svevo, bollà la terra co’ la papalina.
Palazzo Comunale - scalinata d’ingresso
La Conca - scultura in travertino - Piazza Dante 13
I primi a stacce furu i Subbiacciani, i preti e i frati de San Benedetto guidati dagli’ abbate pridiletto Giuvanni de’ Crescenzi Ottaviani.
Filippu da Maranu ju chiamaru, cuscì la stori’ antica ju reporta, figge marvaggità de ogni sorta, più de ‘na vota ju scummunicaru.
Figge murì de fame Rainaldo da issu stesso numintu abbate, cunquistà Jenne e terre smisurate. Murì pintitu, pover’ e vegliardo.
Fobbe cuscì che appresso agli Colonna ce vinniru i Borghese e i Barberini, principi de curtura e sopraffini, ma de fa bbé nisunu se nne sonna.
Ma po’, ve furu lotte famigliari; Filippu che fu perfidu guerrero, piglià ju Casteglio e ammazzà Rainero, scunfisse Oddone e tutti quanti j’ari.
Po’ ju pajese passerrà più vote, da ‘n signorotto baronale’ agli’aru. J’ dalla Curia agliu commendatariu, finchè non venne ju principe nepote.
Antica porta
Antico portone (fine ‘700) 14
Po’ venne ju papa despot’e monarca che se credea de fa gran binificiu de governà ju statu puntificiu comme se fosse semprice comarca.
‘Na vota fattu, ju Risorgimento, j’anticu tirritoriu papalinu devenne patrimoniu italianu, doppo subbìtu tantu patimento.
Ma propiu in quigliu traggicu momento, Maranu figge ‘n pizzicu de storia co’ gli affigliati alla carboneria e Livio Mariani ‘n Parlamento.
Lassà, perciò, ju Statu puntificiu, doppo mill’anni e più, se non più doppo, vissuti ‘n povertà e sottosviluppo, senza nisun progrésso e binificiu.
Un papa spruvvidutu e pocaccorto, ché non s’accorse degliu gran momento ch’er’arriatu ju Risorgimento, che, anzi, ste’ a scoppià ju Quarantotto.
Cuscì che, co’ ca’ dubbiu lettorale Maranu, che al Cenobio era fedele dagliu lontanu tempo medievale, sardà agliu carrozzone nazionale.
Torrione medievale (Mastio)
Targa commemorativa di Livio Mariani 15
Ma ju trasloco non gli ha itu meglio, perché suffrì le guerre e le battaglie, cruenti ginucidi e rappresaglie, prima che se rapresse ca’ spiraglio.
E….., ce starria tant’ara robb’appresso p’aprì ‘n aru capitulu de storia, ma è storia nostra che se sa a memoria, che se relegge e se repete spesso. Dunca, me fèrmo senza nuglia gloria. Acqua passata non macena mola, perché già se riscrije, e me consola, un’ara bella paggina de storia.
Via della Torretta
Ju cautu 16
Notiziario Condotte di Nerone Sono le condotte in laterizio che fiancheggiano l’Aniene e che costituiscono l’acquedotto neroniano. Ne rimangono ancora consistenti ruderi sotterranei. In località Casal degli Arci (sotto Anticoli) affiorano ruderi arcuati che potrebbero essere riferiti a un Ninfeo. L’acquedotto neroniano fu iniziato da Nerone e terminato da Galba (68-69). Nerone, come narra Tacito, fu l’imperatore romano che, forse, più degli altri si interessò del nostro territorio e, soprattutto, del problema delle acque. Ne sono testimoni oltre le condotte anche gli imponenti lavori per la costruzione dei laghi sotto i monasteri di Subiaco. Per la loro costruzione furono impiegati più di 65.000 schiavi (stando sempre a Tacito).
Saccomme Saccomme, saqquanno, saqquantu (sai come, sai quando, sai quanto) sono espressioni, per lo più di meraviglia, usate nel dialetto maranese e in alcuni paesi vicini: saccomme è bono, saqquanno revè, saqquanta gente. Mamma seja È una espressione tipicamente locale (oggi quasi in disuso) che racchiude sentimenti particolari di affetto, di amore, di amorevolezza, di protezione, di bontà, di comprensione e, persino, di compassione della mamma: vé a mamma teja! Pora mamma seja! Santuariu francescanu Il Santuario della Madonna della Quercia costruito dai benedettini di Subiaco prima del XV secolo. Il Santuario con l’annessa chiesa fu retta dai francescani del III ordine per molti anni. Sotto il pontificato di papa Innocenzo X (1644-1653) passò all’Abbazia di Subiaco che lo dette in custodia di rettorato a preti o laici di Marano. Il primo rettore fu Tommaso Tosi. All’interno del Santuario, oggi convento per religiosi, nella parete d’ingresso compaiono pitture a fresco dei secoli XV e XVI. Le opere pittoriche presenti, oltre a testimoniare la vetustà del complesso, denotano un interesse artistico da non sottovalutare. Tra gli affreschi interessanti vi è un Sant’Antonio da Padova di fine ‘400 riconducibile alla scuola umbra del Perugino.
Regal fagiolo Si riferisce al “fagiolo Regina” che si produceva nella piana di Marano. Si tratta di una varietà di fagiolo con semi ovali color rosso variegato. È un fagiolo borlotto ma più piccolo e più tenero. Nell’immediato dopoguerra e, fino agli anni ’70, la ricca produzione conquistò i mercati nazionali e stranieri. Si pensò persino di proporlo al ministero dell’Agricoltura per il riconoscimento del marchio di origine protetta (DOP). Del problema si interessò anche l’Enea. Le sue peculiari qualità erano attribuite al terreno ricco di minerali. 17
Nelle festività in onore di San Biagio ai fedeli viene unta la gola con l’olio benedetto a protezione di “ogni male”. È, inoltre tipico, durante i festeggiamenti civili di mandare per aria un “pallone” di carta velina di proporzioni rilevanti. Si tratta di una specie di aerostato costruito con criteri scientifici sospinto in aria da una fiamma alimentata da combustibile liquido posta all’imboccatura del pallone. Il fuoco bruciando l’ossigeno rende l’aria all’interno simile all’elio degli aerostati e ne permette il sollevamento. È una tradizione che risale agli inizi del secolo scorso e che si ripete ogni anno con grande interesse dei turisti.
Tacito agli Annali Publio Cornelio Tacito (55-120 circa) storico romano di alto livello, visse a Roma per oltre 60 anni sotto vari imperatori (da Vespasiano a Traiano). Negli Annali, la sua opera storica più importante, ha narrato che l’imperatore Nerone conoscesse perfettamente tutto il bacino poliidrico della Valle e che ne apprezzasse la bontà e la freschezza delle acque. Ha raccontato anche di un bagno estivo dell’imperatore nelle gelide acque del lago di Santa Lucia (Casotto rosso). Plinio il Vecchio Grande naturalista, perito nella eruzione del Vesuvio nell’anno 79, catalogò le acque di Marano come acque arsenicali, evidenziandone le molteplici virtù terapeutiche. Equi È un’antica popolazione preromana forse di stirpe OscoSabellica. Occupò tutto il territorio alle spalle di Tivoli e di Palestrina, fino al lago del Fucino. Popolo di guerrieri e di pastori si oppose energicamente ai Romani. Fu sconfitto da Furio Camillo nel 389 a.C. Patruni I Santi Patroni di Marano sono San Biagio e la Madonna della Quercia. San Biagio, protettore della gola, molto venerato, si festeggia nei giorni 3 e 4 febbraio. La Madonna della Quercia la cui immagine, molto amata e venerata, è custodita nell’omonimo santuario, si festeggia il giorno 5 agosto con grande solennità. 18
Pùntica mascarcia La Pùntica mascalcia è il titolo di una graziosa piazzetta che si trova in cima alla scalinata cosiddetta “Dell’oglio” all’incrocio di via Rapella. La mascalcia è l’arte di ferrare i cavalli e, più propriamente, è la bottega del maniscalco. La pùntica era una malattia che colpiva la punta degli zoccoli dei cavalli che camminavano senza ferri. Si conosceva già nel secolo XIV. Era compito del maniscalco porvi rimedio. La piazzetta è stata così titolata subito dopo l’ultima guerra perché vi era la bottega di fabbroferraio - maniscalco dei fratelli Giovanni, Giacomo e Pietro Pichezzi, la cui famiglia è distinta ancora oggi con il nomignolo di “Ferraru”.
Famigliola Nazzarena È l’icona della Sacra Famiglia nell’edicola di inizio via 3 Novembre. Trattasi di affresco seicentesco, recentemente restaurato, di buona fattura. Rappresenta la famiglia di Gesù Nazareno. La cona è in effetti la icona cioè l’immagine e non l’edicola come spesso si intende nel gergo maranese. L’affresco raffigura la Madonna con il Bambino in braccio circondata da Angeli e, inginocchiato San Giuseppe. Compaiono nel sottarco motivi floreali insignificanti di epoca moderna. La testa in marmo murata sull’edicola è un reperto mutilo di origini ignote.
Rafanu È il comune ramolaccio, una pianta arbacea annuale che fiorisce da aprile a giugno. È commestibile e molto conosciuta e usata In tutta Europa (raphanus raphanistrum). Il termine era, una volta, usato anche per dare del rozzo ad una persona. Il rafano è una buona fonte di vitamina C oltre che di minerali quali il fosforo e il magnesio. Ha buone capacità diuretiche e depurative per il fegato e la bile. Ruschiu È il comune pungitopo. Pianta tipica della macchia mediterranea (ruscus aculeatus). La pianta ha le foglie ricoperte di peli per difendersi dagli animali e dal freddo. Cresce, generalmente, nei luoghi incolti, lungo le strade campestri e nei pascoli. Compare isolata o in piccoli gruppi. Per gli amanti di tisane a settembre si raccolgono le foglie che, essiccate, vengono impiegate anche per decotti, hanno proprietà emollienti e diuretiche.
Verbasco È il tassobarbasso detto verbasco (verbascum thapsus). Trattasi di una pianta erbacea biennale con larghe foglie pelose. È una pianta officinale conosciuta fin dai tempi di Plinio il Vecchio che la indicava per curare le malattie polmonari. La pianta ha le foglie ricoperte di peli per difendersi dagli animali e dal freddo. Cresce, generalmente, nei luoghi incolti, lungo le strade campestri e nei pascoli. Compare isolata o in piccoli gruppi. Per gli amanti di tisane a settembre si raccolgono le foglie che, essiccate, vengono impiegate anche per decotti. Hanno proprietà emollienti e diuretiche.
Tarratufulu È un pianta erbacea infestante che fiorisce a settembre, è conosciuta con il nome di settembrini (helianthus tuberosus). Ha splendidi fiori di colore giallo acceso. Le radici tuberose sono commestibili. Anticamente si coltivava come le patate. I tuberi acquistano la forma di pera. Si può tranquillamente mangiare. 19
Brunone Bruno di Carinzia, giovane sacerdote detto Brunone per la sua grossa corporatura, era cugino di Ottone III imperatore di Germania, venuto a Roma su invito di Papa Giovanni XV per ristabilire la caotica situazione romana. Tra i numerosi accompagnatori dell’imperatore vi era anche il giovane prete. Ma durante il loro soggiorno romano (con alloggio sull’Aventino), il Papa morì improvvisamente. Era la Pasqua dell’anno 996. La nobiltà romana pregò l’imperatore di nominare il nuovo Papa. L’imperatore prese la palla a balzo e nominò Bruno di Carinzia con il nome di Gregorio V. Fu il primo papa tedesco e il primo papa nominato dall’imperatore. Il 28 giugno 997 il nuovo papa, in visita all’abbazia benedettina di Subiaco proclamò, con propria bolla, le località di Anticoli, Marano e Roviano “Castra”, ossia castelli.
Livio Mariani Fu un grande risorgimentalista dimenticato, come altri, dalla storia. Affiliato alla carboneria partecipò con i fratelli Prospero e Cesare ai moti rivoluzionari del 1821 (nella sua casa di Marano si nascosero, per molto tempo i ben noti carbonari Montanari e Targhini, ricercati e poi giustiziati a Roma). Fu più volte arrestato e condannato (scontò lunghi periodi di detenzione nel carcere di Castel Sant’Angelo e altrove). Giovane laureato entrò nella vita pubblica con successo. Deputato nel primo parlamento fu ministro, prefetto, presidente di Comarca. Fu tra i più attivi fautori della Repubblica Romana del 1848 nella quale fu eletto Triumviro con Saliceti e Calandrelli. Fu esiliato da Pio IX e mandato in Grecia dove mori nel 1855. Ha lasciato molti scritti e un archivio storico di grande interesse nella sua casa di Marano dove è cresciuto e vissuto con la sua famiglia. Fu amico di grandi personalità del tempo che ospitò nella casa di Marano come Carlo Fea archeologo e scienziato che studiò le proprietà terapeutiche ed organolettiche delle acque minerali. Anche Antonio Nibby noto professore di archeologia all’università di Roma e Giulio Perticari, letterato, genero del poeta Vincenzo Monti, furono tra i suoi più stretti amici. Politico introverso, fu considerato, malgrado tutto, un moderato apprezzato e stimato da tutti, anche dai suoi nemici.
Giuvanni È Giovanni V, abate sublacense, appartenente alla famiglia Crescenzi-Ottaviani. Fu un abate molto operativo, tanto da essere ricordato come l’abate costruttore. Resse l’abbazia di Subiaco per oltre 50 anni (10691121). Costruì molti castelli tra i quali quello di Marano (alcune fonti ne attribuiscono la costruzione a suo fratello Rainero). Filippu Filippo da Marano o Filippo I di Jenne, era uno dei signorotti locali. Era nipote dell’abate Giovanni e di Rainero, cugino di Oddone e di Rainaldo, tutti appartenenti alla nobile famiglia Crescenzi-Ottaviani e zio di papa Alessandro IV. Gli storici (Morgen) lo definirono crudele e ambizioso, uomo senza scrupoli e senza fede. Fu più volte scomunicato. Rimase sulla scena locale, dominandone gli eventi per molti anni (1145-1176).
Dubbiu lettorale Risulta che nel plebiscito del 1870 indetto per l’annessione del territorio pontificio al nuovo stato italiano, la comunità di Marano fu l’unica, fra quelle della comarca sublacense a votare no. 20
La cucina de mamma
“La cucina de mamma” è una mia poesia in vernacolo già presentata in un incontro di poeti dialettali tenutosi a Roma il 25 aprile 2015 ed intitolato “Parla come magni”. Lo scopo che mi ha spinto a riproporla è quello di colmare il vuoto che ho lasciato nella poesia “Ju paese mejo” nella quale ho trascurato completamente la trattazione di un elemento tanto caratterizzante delle tradizioni e dei costumi locali come la cucina. La cucina di oggi non ha più nulla a che fare con la cucina di una volta. I piatti tradizionali non ci sono più. Hanno fatto spazio ai prodotti alimentari imposti dalle grandi filiere industriali e che sono lontani anni luce dai piatti che un tempo erano presenti sulle nostre tavole. I sagnozzi alla spinatora con il sugo di pecora, una volta eccellenza maranese della domenica, sono scomparsi dal menù della cucina moderna e con essi altri piatti tradizionali con grave danno per la cultura locale e per il suo costume. Un afflato dell’antica cucina il lettore può, quindi, ritrovarlo nella poesia riproposta.
Allo magnane ce penzea mamma che s’arrizzea la matina presto. Pe’ primo puliscea la cucina, la razzeleja, la remette’ a pposto.
Eja ‘ppiglià l’acqua, rappiccea ju foco co’ gliu tizzone della sera prima che stej’ appicciatu ancora sotto loco; po’ preparea ju sucu alla tiana: ficea lo battutu co’ lo lardu, co’ pepe, sale, sellaru, erbetta, unu spicchijttu d’agliu remonnatu, ‘n chiov ‘e garofanu, ‘na cipolletta.
Po’ ce taglieja tre-quattro pummidori, e d ‘ecco ch’era fatta la tiana sopr’agliu foco, accantu agli fasori che stean’ a buglì dalla matina. ‘Gni tantu ej’ a ggirà co’ la cucchiara e ce mettea un po’ de acqua calla. Eppò se nne reej’ a lla spinatora pe’ ffa la pasta ‘n casa co’ la sfoglia.
Crituri
Lavorazione della pasta sfoglia 21
Taglieja co’ sguerdezze e majestria, le sagne, le sagnette, i tagliurini, la pasta micca de misura varia, i sagnuzzitti, i sopraccapillini.
Spess’alla rascia de ‘na cerqua vecchia e, sopr’a ‘na raticola che gira, putij vedé du’ cacchj de zazicchia già prunti pe’ la cena della sera.
La sera ce magnemmo, pe’ la cena, du’ erbe o du’ patane alla padella, ‘na bella spinatora de pulenna, o pizz ‘e raiturcu alla ratella.
Cumunque ce ficea la cucina, io me recordo ch’era bbono tuttu, qualunque cosa fatta de farina…. perfinu la frittura co’ lo struttu.
A pranzu stemmo tutti a tuvulinu, ‘ntorn’ a ‘na spinatora de sagnozzi; magnemmo propriu ‘nnanz’agliu camminu alegramente, senza fa stravizzi.
E non mancheanu, certo, du’ fasori, du’ fette de priciuttu e la ‘nzalata oppuru un beglio piatt ‘e pummidori o puramènte, ‘na bella frittata.
Ca’vota, pe’ levà ‘na svogliatura, co’ la farina ‘e ranu o quella ‘e farru ficea i crituli alla spinatora che se magneanu be’ co’ gliu cucchiaru.
Io me penzea che, quann’era vecchio, me nne scordeja degli’addor’ anticu, ‘nvece me so’ sbagliatu de parecchio perché n’ te po’ scordà de quigliu sucu.
Anzi, ve pozzo dì che gliu sapore de quello che ce stej’alla tiana, sarrà pe’ nostargia o pe’ amore, a stu’ momento me st’a ppassà ‘n ganna.
Fettuccine
Polenta con spuntature e salsicce 22
Breve storia agricola di Marano
Marano è il paese della provincia di Roma che è dotato di un territrio molto ristretto, poco più di 700 ettari. Solo Canterano e Casape hanno un territorio di poco inferiore. Il paese é disposto sulla sommità meridionale di una collina che culmina, a nord, con i quasi 500 metri di altitudine della chiesina del cimitero, anticamente intitolata a Santa Maria dei Morti. Ad ovest il territorio si estende sulle pendici boschive dei monti Ruffi, ad est decliva rapidamente nella vallata del fiume Aniene chiusa dall’ampio versante occidentale dei Monti Simbruini (nelle località di Ciuccianeglio: “Toccianellum”). Le due catene montuose chiudendo quasi ad anfiteatro il territorio, creano un ameno bacino di valle ricco di acque sorgive, molte delle quali minerali, che favoriranno lo sviluppo agricolo di Marano e che la renderanno famosa per la
dovizia e la bontà delle stesse. Non va sottovalutato a tale proposito l’importanza che Roma riservò a tutto il bacino poliidrico di Marano sfruttandone le acque già in epoca repubblicana e cantandone le qualità terapeutiche. Se pensiamo che personaggi come Plinio il Vecchio, Strabone, Vitruvio, Frontino, Columella, il divino Nerone ed altri si interessarono ad esse e ne tessero grandi elogi, dobbiamo ritenere, ancora oggi e, forse più che ieri, che esse sono state per loro, ed anche per noi, un vero miracolo della natura. “In oppido Marani” trovarono, infatti, materiale prezioso per i loro scritti imperituri. Più tardi in un articolo del 1914 si legge: “conosciute fin dall’età primigenia degli Equi, utilizzate sovranamente fin dagli scorci della Repubblica Romana, crebbero ad una rinomanza insuperabile sotto i Cesari, che nella
Furniojo
Via Trento 23
valle dell’Anio ritrovavano, e specialmente in Maranum, il vigore del corpo e della mente”. In un territorio sia pure scarso ma così bene attrezzato, gli abitanti di Marano si dedicarono naturalmente all’agricoltura lasciando alla pastorizia un ruolo di mero supporto. Qualcuno penserà anche allo sfruttamento delle acque minerali in epoche successive ma con scarso successo. Alcuni scrittori, storici del periodo pontificio, tra i quali principalmente Abbate, Nibby, Palmieri e Marocco, sono concordi nel ritenere il popolo di Marano una comunità agricola di alto livello non solo per la loro capacità lavorativa ma anche per la qualità dei loro prodotti. Giuseppe Marocco (1846) dice a proposito di Marano: “Questa educata terra è popolata da 1000 abitanti zelantemente dediti all’agricoltura”. Antonio Palmieri storico e statistico dello Stato pontificio, in una cronaca del 1857
parla con dovizie di particolari, di abbondanti raccolte di cipolle nella piana di Marano e della loro commercializzazione non solo nei paesi del circondario sublacense ma anche in quelli tiburtini e della Sabina. Il trasporto avveniva a dorso d’asino o di mulo. Oltre alle cipolle si producevano grano, granturco, vino, olio, ortaggi vari ma soprattutto canapa, tanta canapa! Una produzione importante che veniva da molto lontano. Molti appezzamenti del territorio già nel catasto pontificio del secolo XVII venivano riportati con il vocabolo di canapine. Pare che la produzione della canapa fosse molto redditizia, tanto da far dire agli statistici pontifici che le condizioni socio economiche di Marano si presentavano migliori di quelle dei paesi limitrofi, ossessionati da fame, alluvioni e mancanza di strade (sic!). La coltivazione della canapa affonda le radici in epoca remota, la coltivavano gli Sciti già nel V secolo
Botte con doghe in legno e mazzulle (mizzuru)
L’Arco di Tisichella 24
a.C. e sia Columella che Strabone ne fanno un’ampia trattazione. Nel “De agricoltura”, Columella dice:”di legumi esistono tantissimi generi ma i migliori e più antichi sono: la fava, la lenticchia, il fagiolo, il cece, la canapa, il sesamo e il lupino”. La lavorazione della canapa occupava principalmente le donne. Dopo la macerazione del fusto della pianta contenente le fibre tessili, nei famosi “scetti” (piccoli fossi di acqua intagliati nel terreno), le donne procedevano alla gramolazione delle fibre le quali, ripulite e pettinate, venivano raccolte in piccoli mazzi di candida stoppa detti “malluni”, successivamente filati con fuso e conocchia. Il filato veniva raccolto in matasse e inviate nei telai di Subiaco per essere tessuti in tela o panno (Picciu). Pare che la produzione di Marano soddisfacesse quasi tutta l’attività dei telai di Subiaco (circa 400 nel 1850). La fiorente attività si interruppe alla prima metà del XX secolo
per l’introduzione di fibre sintetiche dall’America. Tuttavia nel primo dopoguerra la coltivazione del fagiolo della Regina impegna tutta la forza lavoro degli agricoltori di Marano. Inizia un’attività agricola nuova che porterà ricchezza e benessere. Il fiorente commercio del legume si apre prima verso Roma e poi verso altre metropoli anche all’estero. Negli anni ’60 la produzione registra il massimo splendore. Poi stranamente la produzione si interrompe improvvisamente e, diremmo, inaspettatamente alla fine degli anni ’60. Un fenomeno strano che nessuno ha saputo mai spiegare.
Via Ospedale
Coltivazioni di Mais 25
Curiosità, leggende e stranezze di Marano
Non si meraviglino gli amici dell’Associazione dei Monti Ruffi se diciamo che la collina di Marano, dal punto di vista geologico, non ha proprio nulla a che vedere con i Ruffi. Essa, infatti, è l’unico lembo di calcare compatto presente alla sinistra dell’Aniene, formatosi in un’età compresa tra 136 e 65 milioni di anni fà .... anno più, anno meno e che ha le stesse caratteristiche litologiche dei monti Simbruini. I monti Ruffi costituiti di calcari detritici, argille e arenarie sono, per nostra fortuna, compositi e hanno una età di gran lunga inferiore ai colleghi dirimpettai (età compresa tra i 26 e 7 milioni di anni). La collina di Marano è una costola dei Simbruini staccatasi per erosione molti milioni di anni fà. D’altronde ba-
sterebbe ricacciarla oltre il fiume per vederla perfettamente ricomposta nel suo alveo naturale. Giuseppe Marocco, storico dello stato pontificio sostiene, in un suo scritto del 1836, che il primo gruppo etnico insediatosi a Marano agli albori del secondo millenio è di origine francese, anzi provenzale. Nativi della Provenza sarebbero stati importati a Marano, dai Conti di Poli che detenevano il possesso del castello. Nessun documento storico conferma l’autenticità dell’affermazione. Né abbiamo forme dialettali della loro lingua d’Oc né dei canti che li hanno resi storicamente immortali. L’unico elemento in comune è l’amore che la nostra gente ha sempre avuto per il canto e per la musica. È sufficiente?
Il fiume Aniene e la strada provinciale Sublacense pedemontana a monte Ciuccianeglio 26
In uno scritto del 1894 lo storico Abbate deriva il nome di Marano da Mario l’antagonista di Silla nel periodo romano della guerra civile. Si afferma nello scritto che i superstiti di una colonia di Mario, sconfitta pesantemente dai miliziani di Silla in una località del vicino Abruzzo fossero venuti a rifugiarsi nel nostro territorio, dandogli il nome del loro generale. Lo storico aggiunge che i soldati, a corto di donne, fossero andati a rubarle a Trevi nel Lazio (allora Trebula). Considerando la distanza tra le due località, i rischi del viaggio e della sua complessità, ci pare poco credibile, anzi impossibile. A meno che l’Abbate non avesse fatto riferimento a Trebula dei Suffenati, l’attuale Ciciliano, una località poco al di là della collina maranese, molto più facile da raggiungere.
Nella toponomastica di Marano vi sono nomi di qualche interesse storico ed altri di strano e dubbio significato. La parola Frainile, località molto familiare, deriva la sua origine dal latino e vuol dire assemblea di anziani. Il vocabolo ricorre di frequente anche nei paesi vicini. I vecchi saggi del villagio trovavano al “forum senile” un luogo di incontro per discutere, lontano dalla gente, importanti problemi riguardanti la comunità. L’uso di tali riunioni appartate era ancora frequente sotto il governo pontificio. Il vocabolo del catasto rustico Matignano in effetti è “matenanum” e ci riporta ai tempi dell’alto medioevo per ricordare la tenuta benedettina di Santa Vittoria in Matenanum, figura storica del martirologio romano, molto venerata in zona e molto amata dai benedettini che ne conservano alcune spoglie. La Santa fu martorizzata dall’imperatore Decio nell’anno 256 a Monteleone Sabino (Trebula Mutuesca) dove si era nascosta per sfuggire alle persecuzioni. Nell’anno 934 il suo corpo fu trasportato sul Monte Matenanum nel Piceno ( a 30 km dal Monte Vettore). Nella zona del sublacense vi sono molti terreni che ricordano le sante martiri ( Felicita, Anatolia, Audace, Perpetua ecc.). Più problematico è il significato del vocabolo Maina con il quale da sempre, si individua la piazza principale di Marano. La tesi più accreditata è che esso derivi dall’inglese e che significa, appunto, piazza principale. Ma non vediamo proprio come c‘entrino gli inglesi nel contesto storico di Marano. Il dubbio cresce se scopriamo che in alcuni paesi vicini (Anticoli, Roviano) la mainuccia o la maina è una piccola edicola di campagna nella quale c’è l’immagine della Madonna. E se fosse uno spagnolismo? Nessuna targa stradale è più appropriata di quella imposta alla piccola e splendida piazzetta della “Puntica Mascalcia”. Il titolo apparentemente strano ricorda l’attività di maniscalco e di veterinario svolta, per molti lustri, dalla famiglia Pi-
Casa Fasoro - scalinata e porta d’ingresso 27
chezzi, proprio nelle botteghe prospicienti la minuscola piazza. Le cronache riportano la presenza della famiglia artigiana nella zona, sin dal 1769. I nomi che ricorrono fino a noi sono Camillo, Pietro, Giacomo, Giovanni e Vittorio. I cognomi delle famiglie di Marano sono, generalmente di origine patronimica, come del resto la maggior parte dei cognomi italiani: basta tradurre al genitivo latino il nome o il nomignolo del capostipite. Così il figlio di Sebastiano diventa Sebastiani il figlio del tozzo diventa Tozzi ecc. oppure vi sono famiglie gentilizie che mantengono il “de”come De Sanctis ecc. Tutti i cognomi di Marano hanno una lettura abbastanza semplice nel senso che anche quelli apparentemente più strani hanno un qualche significato lessicale. Solo due di essi, peraltro molto antichi per-
ché presenti fin dal 1570 a Marano, sfuggono alla regola: sono i cognomi delle famiglie Chesti e Tilia: si tratta di due cognomi rarissimi, dei quali non si conosce la provenienza.
Vicolo con archetto
Scorcio pittoresco (casa Tilia - Levante) 28
Natura e Ambiente dei Monti Ruffi
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Orchidee selvatiche dei Monti Ruffi
Da attento osservatore, Marco Occhigrossi, dimostra di conoscere molto bene l'ambiente naturale del suo territorio. Ricca è, infatti, l'enunciazione di specie botaniche, floreali e arboree richiamate nella sua poesia e che appartengono endemicamente al territorio dei Monti Ruffi tanto da poter coniugare i "rafani" con i fiordalisi, i ciclamini con i "lampascioni", i cipollacci con le orchidee.
nica delle Orchidacee, che a sua volta trae origine dal genere Orchis, il più conosciuto e ricco di specie, cosiddetto poiché nella parte ipogea della pianta presenta due rizotuberi che ricordano la forma dei testicoli. Una specie, l’Orchis Testiculum Canis, ne esplicita il significato addirittura in latino. Orchis Militaris Nelle nostre zone oltre alle comunissime Orchis morio e Dactylorhiza maculata sono presenti l’Orchis piramidalis, l’Orchis mascula, l’Orchis militaris, l’Orchis purpurea, l’Orchis papilionacea; l’Himantoglossum ircinum, ma anche l’Ophrys apifera, l’Ophrys sphegodes, l’Ophrys fuciflora, il Limodorum abortivum, la Platantera bifolia, la Serapias vomeracea; ma anche l’orchidea saprofita.
Orchis Testiculum Canis
Le orchidee sono una specie floreale presente nel nostro territorio della cui esistenza, vorrei parlare per dare un contributo per una migliore conoscenza della specie, approfittando dell'opportunità che mi si offre. Le orchidee delle nostre zone, così come in tutto il territorio italiano, sono piccole e perfino piccolissime. Fa eccezione la bellissima “scarpetta di Venere”, specie rarissima, presente nei boschi del vicino Abruzzo. Orchidee è il nome coOrchis Piramidalis mune della famiglia bota-
Orchis Ophrys Fuciflora 30
sarelli si possono osservare l’Orchis militaris e Purpurea. Sui prati della zona della Pianata sotto campo santo, prima dello sfalcio o del pascolo degli animali, a gruppi di sette o otto piante si fanno notare le belle Orchis papilionacea. Mentre occorre notevole attenzione e anche Dactylorhiza Maculata fortuna per vedere, sempre in zone buie all’interno di tronchi morti o mascercenti, la specie saprofita Neottia nidus avis. Considerazione: Il cosmopolitismo delle orchidee, dovuto all’alta e efficace evoluzione della famiglia, potrebbe dare la falsa impressione che queste piante
Orchis Papillionacea
Le varie specie però possono essere rinvenute ciascuna con maggior facilità in zone diverse del territorio, ma sempre nel periodo che va tra la fine di maggio e i primi di luglio. Nell’epoca della fioritura possiamo ritrovare nella zona della Croce dei Casali o sotto il Cimitero guardando il Santuario della Madonna della Quercia stupendi prati di Orchis morio dal colore viola scuro facili da riconoscere anche per la loro abbondanza, così come le piccole e piccolissime Ophrys apifera, Sphegodes e Fuciflora. Anche la Dactylorhiza maculata è una specie comune e facile da vedere su tutto il territorio di Marano in particolare in zone d’ombra e all’interno di boschi di castagno dove si aprono piccoli sprazzi di luce, sopra al Santuario, ai Minorelli o alla Pezza Ampedone. Stupende sono le fioriture dell’Orchis piramidalis nella zona sopra al Vagno e lungo tutta la strada, bordo bordo, che dalle acque minerali porta alla Croce dei Casali. Nella stessa zona seppur con maggior difficoltà si osserva l’Himantoglossum ircinum. Sui terreni già da molto tempo incolti della zona dei PasOrchis Porpurea
Orchis Morio abbiano un prospero e luminoso avvenire. Niente di tutto questo. Tra le piante in pericolo di estinzione le orchidee sono spesso in prima fila. Prima di tutto, come del resto avviene per tutta la vita selvaggia, perché anche le orchidee subiscono in modo drammatico la riduzione, o addirittura la totale distruzione, dei loro ambienti naturali. In secondo luogo, ed è quasi un paradosso, perché il loro alto grado di evoluzione costituisce un handicap. In realtà, tutto ciò che minaccia la vita degli organismi da cui dipendono e a cui si associano (cioè funghi e insetti) colpisce anche indirettamente le orchidee. Paolo Gigli 31
La flora del territorio dei Ruffi
l'Aniene, unitamente alla direzione dell'asse orografico (N.NO-S.SE) e alle numerose polle sorgive del versante orientale, hanno dato origine ad una vasta gamma ricca di biocenosi comprendendo anche quelle riparie o planiziali. Il notevole valore naturalistico dei Ruffi è dovuto soprattutto alla grande varietà e ricchezza di comunità vegetali caratterizzata dalla presenza di specie regionali che si agCarpino Nero giungono a quelle endemiche nazionali e cosmopolite. L'insieme degli ambienti vegetazionali formano un vero mosaico di tessere con piante che preferiscono il caldo e l'aridità e quelle adatte a climi freddi con maggior apporto idrico. Il paesaggio vegetale dei Ruffi si riferisce nello specifico al versante Aniene, ed è suddiviso per semplicità alle fasce altitudinali:
Maggiociondolo Quando ero ragazzo, fu Filiberto con le sue annuali escursioni e i suoi fantasiosi racconti a suscitarmi il desiderio di conoscere i Ruffi, ma ad accendere la passione per la storia e l'ambiente di questa montagna è stato l'amico Marco Occhigrossi. Lo ringrazio anche oggi per avermi dato l'opportunità di scrivere su questo affascinante mondo. Dai miei studi e le mie letture ho scoperto che il particolare aspetto geomorfologico dei Monti Ruffi, il clima e l'allentamento della pressione antropica dovuta all'abbandono progressivo dei centri abitati e quindi dei terreni, hanno contribuito notevolmente alla formazione di una interessante biodiversità. Le comunità vegetali, un tempo coltivate, si intrecciano con quelle spontanee tipiche della foresta caducifoglia della regione temperata tirrenica. La posizione geografica delle nostre montagne, poste a cavallo tra l'Agro Romano e la grande catena Appenninica, ospitano numerose specie botaniche provenienti dal Mediterraneo, dalle aree continentali e persino dai Balcani. I piani altitudinali che da m. 1253 (Monte Costasole) scendono sino a m. 330 s.l.m. della piana in cui scorre
Acero Montano 32
• Cacuminali, • Alta e media collina, • Fondo valle o piana. Il grande dominatore della vetta, costituita da rocce calcaree-marnose, con apporti detritici, è il Carpino nero. Ad esso si associano le specie della foresta caducifoglia mesofila: Sorbo montano, dai bei frutti rossi Orniello e foglie argentate nella pagina inferiore, l'Acero d'Ungheria, l'Acero napoletano, il Nocciolo, il Tiglio nostrano. Raro è il Faggio (Monte Costasole) che invece prevale alle stesse quote nei dirimpettai Simbruini. Da segnalare la presenza di specie arboree non appenniniche di rimboschimento presso monte Macchia composte da Pino nero, Pino silvestre, Cipresso sempreverde piramidale. Alla formazione dello strato arbustivo di mantello contribuiscono soprattutto i Biancospini (comune e selvatico), la Fusaggine europea, la Dafne laurella, il Pero selvatico, il Caprifoglio, il Pungitopo, la Rosa cavallina e canina, il Grugnale e più raramente il Pruno e il Ciliegio canino (Prunus Mahaleb).
Rosa Canina
Fusaggine Europea 33
Lo strato erbaceo è composto, in gran parte, da specie di ambiente di faggeta, a dimostrazione che l'invadente Carpino nero tende ad occupare, dopo tagli irrazionali, ambiti non suoi. In zona di vetta troviamo i Bucaneve, l'Erba trinità o Epatica nobile, l'Aglio pendulo, l'Anemone appenninica e quella gialla, la Sassifraga a foglie rotonde, il Giglio rosso (Lilium bulbiferum croceum) la Silene italiana, la Dentaria greca. Nella piccola vallatella di vetta (1037 m.) sorprendono due volubri perenni uno dei quali forma un minuscolo specchio d'acqua nel quale vegeta il particolare Ranuncolo d'acqua e il Centocchio acquatico. Esso è habitat di piccoli pesci, anfibi (Raganella appenninica, Salamandra dagli occhiali) rettili e rapaci (Falco pellegrino e Poiana). Nelle vicinanze si incontrano le erbe della prateria, soprattutto graminacee e leguminose insieme all'Ecrinio, l'Ononide e Carlina. A quote più basse e più fresche (900-800 m.), oltre al citato Carpino nero vegetano boschi misti mesofili costituiti da: Acero campestre, Acero minore, Carpino bianco e orientale, l'Orniello, il Cerro e la Roverella, il Ciavardello, il Maggiociondolo, l'Olmo campestre. Lo strato arbustivo è composto in prevalenza: dal Corniolo maschio e quello sanguigno, dalla Ginestra (Spartum Juncum), dal Citiso a foglie sessili, dal Rovo, dal Caprifoglio.
In questi areali si segnalano anche molte erbe di provenienza euro-asiatica e in primavera i prati possono essere adornati dal Narciso poetico, specie protetta nel Lazio e quasi rara nei Ruffi, dal Cipollaccio di Boemia con graziosi fiori gialli, noto soltanto in alcune zone del reatino. Nella fascia altitudinale compresa tra i 700-500 m., ove la natura del suolo varia dal calcare-marnoso all'arenaria-siliceo, si accavallano e si intrecciano le piante coltivate e in abbandono, (Ciliegio, Pero, Melo, Ulivo, Vite) con quelle spontanee, pronte a rioccupare lo spazio sottratto dall’uomo.
Lungo i fossi che hanno eroso marcatamente i fianchi dei monti, vegetano i noccioli, i Pioppi (bianco, nero e tremulo), Salici (delle capre, viminali e bianchi), a ridosso dell'alveo dei torrenti il Farfaraccio maggiore “Cartoccio”, un tempo surrogato della carta, il primordiale EquiAgrifoglio seto, la Tussilaco e l'elegante Felce sempreverde licopodio (Phjllitis scolopendrium) unitamente ai rampicanti: Vitalba, Luppolo e Tamaro “Ciarro”. Nei settori più caldi e più esposti, raro e localizzato, vi è il profumato Storace (Stjrax officianalis) dalle foglie vellutate e fiori bianchi melliferi, la cui presenza è diffusa negli attigui Lucretili tanto da divenire il simbolo del parco. Ove la vegetazione lascia il passo a una maggiore luminosità, estese colonie di Anemone nemorosa, Ciclamino e Vinca colorano il sottobosco. In questi ambienti si ri-
Rovo con More Dominano i Castagni e la Roverella ma sono anche presenti i Noccioli, l'Olmo, il Ciavardello, l'Acero palmato e campestre, talvolta l'Acero minore e persino una straordinaria biocenosi di nicchia arbustiva (Arca rotta - Case del colle) costituita dall'Agrifoglio, residuale dell'ultima era glaciale insieme al Corbezzolo e all'Erica scoparia, piante tipiche della macchia Mediterranea, segnale forse di cambiamenti climatici recenti. A queste altitudini, preservati da secoli di saggezza contadina, si incontrano sovente Sorbi domestici, Nespoli germanici, e Cornioli maschi (Grugnali) che con i Castagni hanno sfamato e curato intere generazioni della nostra valle.
Ciarro 34
trovano piante preziose e rare tra le quali si annoverano: l'Aquilegia, l'Arisario codato, l'Euforbia della faggeta, l'Euforbia bitorsoluta di limitata diffusione nel Lazio, e la Mazza d'oro punteggiata (Ljsimachia punctata) che, nella nostra regione si riteneva estinta. Un inedito bosco misto è presente nel settore occidentale dei piedi dei Monti Ruffi tra quota 500-350 m., in esso con Roverelle, Carpini bianchi e neri convivono piante che appartengono alla Macchia Mediterranea. Qui Lecci maturi si uniscono ad Alberi di Giuda (Cercis siliquastrum), Ligustri, Terebinti, Bosso, Cisti, Stracciabraghe, Elecrisio, Asparago ed infine alla Fillerea, presente in pochissimi esemplari.
Ciclamino
Sorbo nostrano 35
Dagli anni '70-80 del secolo scorso, a seguito di un inesorabile abbandono delle terre coltivate, si è sviluppata soprattutto nella riva destra dell'Aniene una ormai vetusta foresta planiziale nella quale prevalgono i Salici con limitate presenze di Ontani e Pioppi, Cornioli sanguigni, Fusaggine, Frassino, Noccioli. Nelle zone più paludose domina la Canna palustre e, in misura minore, la Thjpha “Cartica” (Thjpha angustifolia), il Cipero “Quadregli”, il Giungo d'acqua “Vinciarella”. Lungo i corsi d'acqua perenni si trova ancora il Crescione d'acqua “Lafani”(Nasturtium officinalis), la bellissima Morella rampicante (Solanum Dulcamara) e il raro Giglio d'acqua giallo (Iris Pseudocorus), l'Equiseto “Coetta”, la Canapa d'acqua. Significativa è la presenza dell'endemico Topinambur “Tarratufolo” residuale di antiche coltivazioni. Se talvolta ci accadrà di riflettere sull’importanza vitale che hanno avuto i Ruffi nell'economia e nell'utilizzo delle risorse ambientali delle comunità ubicate in essi, ci dovremmo indignare per i tagli dissennati dei boschi con alberi secolari, per l'apertura di tracciati di esbosco senza criterio, per il continuo dissesto idrogeologico e l'incuria dei corsi d'acqua e, non ultimo, l'abbandono rilevante di rifiuti di ogni genere lungo le strade campestri. Luigi Tilia
Quercia con Vischio
Mentuccia 36
“Pareja tuttu beglio e naturale perchĂŠ er' ju solo munnu che ce steja, ju munnu ch'era ju tejo personale, j'unicu munnu che t'apparteneja...â€?