Fashion Magazine N 3 2025

Page 1


Vendi Vintage Vinci

Sul sempre più affollato campo di battaglia del second hand si sfidano a distanza giganti come Vinted e Vestiaire Collective, ma altri contendenti avanzano in cerca di piccole e grandi vittorie

IL BERALDO-PENSIERO

Passato, presente e futuro: il ceo del Gruppo Ovs racconta 20 anni vissuti intensamente

IL CLIENTE FA DA SÉ

Abiti, calzature e persino la couture: la personalizzazione piace sempre più e fa anche bene ai ricavi dei marchi

FOCUS ACCESSORI

Uno speciale di oltre 15 pagine tutto da sfogliare: mercato, vendite, protagonisti e nuovi brand

In copertina

Da un lato la V di Vinted, dall’altro la V di Vestiaire Collective: sono loro i simboli del grande match che i player della distribuzione moda stanno giocando per conquistare posizioni nel settore più dinamico del momento, il second hand. Illustrazione di Carsten Lüdemann

Sommario

PROTAGONISTI

STEFANO BERALDO

In occasione dei 20 anni alla guida del Gruppo Ovs, il manager-imprenditore racconta il suo percorso, i passi falsi, le sfide vinte e quelle da vincere

Pagina 6

CHARAF TAJER

I manager al suo fianco, gli amici e i buyer più appasionati: un viaggio fatto di testimonianze inedite sullo stilista per entrare nel mondo di Casablanca

Pagina 10

ROCCO IANNONE

Da sei anni crea la moda Ferrari. Ora lo stilista dice la sua su lusso e velocità (che però non vanno a braccetto)

Pagina 14

CRISTINA FOGAZZI

Dalla fondatrice di Veralab c’è sempre da imparare. «La moda snobba il beauty? Forse. Ma amo Piccioli e Michele e le sfilate le seguo sui social»

Pagina 16

COVER STORY

IL BOOM DEL SECOND HAND

È il nuovo Eldorado del fashion?

Pagina 20

VINTED

Adam Jay: «Con noi l’usato diventerà la prima scelta, non solo nella moda»

Pagina 22

VESTIAIRE COLLECTIVE

«Siamo un modello che funziona anche in tempi di crisi»

Pagina 28

I MARKETPLACE

L’usato meglio del nuovo?

La vera sfida è essere multiproposta

Pagina 30

BIVIO

Quando il second hand è sotto casa

Pagina 34

MENABÒH

Il futuro è «Love what you have»

Pagina 36

I PROVIDER

Resale B2B? Siamo solo all’inizio

Pagina 38

IL POLSO DEL MERCATO

BUYERS’ SURVEY DONNA SS25

Autenticità e trasparenza non sono parole vuote, ma una richiesta del mercato

Pagina 44

CUSTOMER ORIENTED

L’arte di agganciare il cliente

Pagina 50

PREVIEW SS2026

Nuovi equilibri

Pagina 55

ITALIAN STORIES

Plan C apre Frame: «La nostra ricerca sconfina in altri brand»

Pagina 62

SMART REPLENISHMENT

Chainbalance: «Eseguiamo un miliardo di calcoli al giorno» Pagina 68

CLIENTELING

La personalizzazione piace sempre di più e lo scontrino ringrazia Pagina 70

HOW-TO

Sfilare con un budget limitato: i consigli di chi se ne intende Pagina 72

SPECIALE ACCESSORI

MICAM E MIPEL

Scarpe e borse: vincere la sfida è possibile Pagina 76

VISTI IN FIERA

Cinque storie da scoprire Pagina 78

ALEVÌ MILANO

«È il momento dei brand belli, ben fatti e che si fanno notare» Pagina 80

MEPHISTO

Il boom delle sneaker è finito: questo è il vero lusso Pagina 82

BUYERS’ SURVEY ACCESSORI SS25

It bag ancora alla prova dei prezzi. Le scarpe? Pochi tacchi 12, meglio la praticità Pagina 84

PREVIEW SS2026

La regola è riscrivere le regole Pagina 87

FOCUS GIOIELLI

POMELLATO

Sabina Belli: «Tramandiamo il valore del saper fare»

Pagina 92

CHOPARD

Simona Zito: «Investiamo sull’Italia. La nostra forza? L’unicità »

Pagina 94

RUBRICHE

L’EDITORIALE

Second chance

Pagina 5

LEX & LUX

Upcycling: una nuova frontiera per i designer, ma anche per gli avvocati

Pagina 41

BRAND TO WATCH

Pagina 64

NEWCOMERS

Federico Barengo e il suo Garment Workshop, il Netflix del made in Italy

Pagina 66

CONTROCORRENTE

Riccardo Adamo: «Ciò che conta oggi è il mix tra i senior e gli junior»

Pagina 96

LOCAL HERO

Pizzolato fashion management: «Altro che agenti, siamo soci temporanei dei brand»

Pagina 98

OLTRE IL SOFFITTO

DI CRISTALLO

Silvana Pezzoli: «Il cambiamento è la linfa dell’imprenditoria. Se vuoi crescere devi uscire del guscio»

Pagina 100

LIFESTYLE

Violante Avogadro: «Da Romanengo, come in Gucci, parlo sempre la stessa lingua: quella dell’eccellenza»

Pagina 102

Second chance

Parlando con gli amici e i loro figli, spesso mi sento dire: «Compro quasi esclusivamente abiti di seconda mano».

Subito dopo vengono citati nomi come “Vinted” e “Vestiaire Collective”. Per molte persone il second hand è diventato la prima scelta.

Per i marchi e i rivenditori questo è sembrato a lungo una minaccia, poiché temevano che i clienti avrebbero acquistato meno da loro o che avrebbero smesso di frequentare i loro negozi.

Ma è arrivata l’ora di ricredersi. Il second hand può anche essere un'opportunità.

Non solo per le grandi piattaforme come Vinted o Vestiaire Collective, ma anche per le piccole e medie imprese e i negozi multimarca.

Chi riesce a offrire un servizio di rivendita semplice e intuitivo fidelizza i clienti e li incoraggia a spendere di più per acquistare prodotti nuovi con buoni sconto. Nella nostra storia di copertina spieghiamo, con numerosi esempi, come il second hand possa diventare un efficace programma di fidelizzazione per marchi e rivenditori.

“Second chance” è il leitmotiv di questo numero. In un momento difficile per la moda, è consigliabile mettere in discussione l'intero modello di business esistente e, in alcune circostanze, riconsiderare idee che fino a poco tempo fa erano state scartate perché ritenute non economiche o, addirittura, irrealistiche.

Tutti sanno che la personalizzazione è complessa e si limitano a offrire soltanto poche opzioni. Tuttavia, marchi come Golden Goose dimostrano che comunque vale la pena di provarci. Grazie alla sua filosofia di co-creazione, il marchio ha trasformato i suoi clienti in fan.

La start-up NextCouture ha adattato la haute couture all'era digitale e offre modelli di alta gamma customizzabili in termini di tessuti, colori e dettagli in un atelier virtuale. «Ci rivolgiamo al consumatore, stanco dell’e-commerce che permette la personalizzazione solo nell’industrializzato», dice Marco Fiandesio, oggi alla guida della società.

Anche la collaborazione tra marchio e rivenditore sta iniziando a cambiare.

In passato, quest’ultimo acquistava la merce e la esponeva nei negozi mesi dopo. Ora sempre più rivenditori insistono sulla possibilità di effettuare riordini o sostituire la merce durante la stagione, al fine di ridurre il rischio finanziario e poter reagire rapidamente alle mutevoli esigenze dei clienti.

Nella nostra inchiesta “L’arte di agganciare il cliente”, diversi brand sottolineano quanto sia importante garantire ai clienti multimarca non solo un buon prodotto, ma anche un servizio eccellente. «Offriamo un supporto continuo anche dopo la consegna», dice Pino Lerario, direttore creativo di Tagliatore.

Fornitori di software come Chainbalance, che utilizzano tecnologie di intelligenza artificiale per analizzare enormi quantità di dati, aiutano marchi e retailer a scambiare dati e informazioni, diventando così veri partner.

Uno dei nostri protagonisti è Stefano Beraldo. Il ceo di Ovs festeggia nel 2025 il suo 20esimo anniversario al vertice del gruppo. In una lunga intervista ripercorre la sua carriera e racconta i punti di svolta e le decisioni strategiche più importanti. Dopo aver risanato Coin e Ovs, ha acquisito marchi storici come

Les Copains: «Aveva perso la sua strada e io ci ho visto un grande potenziale», racconta. Grazie a lui, Les Copains ha avuto una second chance.

Stefano Beraldo

Nel 2025 il manager-imprenditore ha tagliato il traguardo dei suoi primi 20 anni alla guida del Gruppo Ovs. A Fashion racconta il suo percorso, i passi falsi, le sfide vinte e quelle ancora da vincere

Stefano Beraldo e il Gruppo Ovs sono un tutt’uno. Non solo perché nell’azienda veneta il manager-imprenditore ha investito capitali in prima persona, ma anche perché la guida ininterrottamente da due decenni, «divertendomi ancora per quello che faccio - raccontae gestendola come se fosse mia, pur ben sapendo che ne posseggo solo una piccola quota». Beraldo si presenta all’intervista per i suoi primi 20 anni da ceo di Ovs con una maglietta nera, ancora nel mood un po’ rock della sera prima, quando - ci confida - è andato a un concerto dei Simple Minds. Rompiamo il ghiaccio parlando della canicola estiva e subito manifesta un approccio non scontato, controcorrente: «Non temo il caldo afoso - dice -. Anzi, amo le escursioni termiche estreme, l’inverno gelido e l’estate torrida. Mi piace confrontarmi con gli estremi».

Anche nel business?

Mica tanto. Amo progettare, immaginare nuovi scenari, creare qualcosa che prima non c’era. Ma non voglio, né ho mai voluto, prendere rischi eccessivi, mettendo in difficoltà l’azienda, le sue persone e i miei azionisti. Come amministratore delegato devi trovare nuovi confini da esplorare. Però devono essere confini di cui hai valutato bene la conformazione e il rischio.

Quando ha preso in mano l’azienda, 20 anni fa, un bel rischio però se l’è preso: ha scommesso su Ovs, all’epoca l’insegna con meno appeal. Dire con meno appeal è un eufemismo. Ovs era acronimo di Organizzazione Vendite Speciali. La famiglia fondatrice riteneva fosse Coin la parte “nobile” dell’azienda, mentre Ovs era una specie di outlet. Le mie figlie, che a quel tempo erano piccole

Stefano Beraldo, ceo e socio del Gruppo Ovs, quotato all’Euronext Milan dal 2015. Il singolo maggior azionista è la Tip di Giovanni Tamburi con oltre il 32,4%. Con base a Mestre, l’azienda conta oltre 2.200 negozi, insegne come Ovs e Upim e brand quali Piombo, Stefanel, Les Copains e Croff. Recentemente ha acquisito la catena Goldenpoint

«Ovs è oggi un bel contenitore di marchi. Abbiamo riposizionato verso l’alto l’assortimento, senza dimenticarci i primi prezzi, per tenerci stretta anche la clientela di lungo corso» Stefano Beraldo

ma già in grado di giudicare, mi dicevano: “Papà, ma cosa vai a fare con quella roba lì?”. Anch’io avevo molti dubbi, ma ho deciso di investirci, anche personalmente. Solo che i primi anni ero impegnato a ribaltare le perdite enormi di Coin. Cosa che siamo riusciti a fare, perché l’abbiamo portata a fare 20 milioni di ebitda. Ricordo ancora le lunghe code fuori dal negozio di piazza Cinque Giornate a Milano, in occasione di alcune collaborazioni con brand importanti, come quella chiamata “Democratic”, perché caratterizzata da prodotti di marca fatti appositamente per Coin e venduti a prezzi incredibilmente bassi.

Che leve ha usato per la trasformazione di Ovs?

Mentre mi occupavo del rilancio di Coin, ho solo pensato a mantenere il ritmo delle nuove aperture di Ovs, in modo da assicurare al gruppo una certa redditività. Ricordiamoci che in quel periodo stavano entrando in Italia i signori di Zara e H&M, non potevo perdere quote di mercato. Una volta messa a posto Coin, mi sono dedicato maggiormente a Ovs: la dovevo cambiare dal basso e con una certa progressione, senza creare una virata troppo brusca, per non disorientare i clienti più affezionati e creare il vuoto. In questo mi sono fatto aiutare da alcune persone molto brave: due sono state Davide De Giglio (co-founder di Ngg-New Guards Group, ndr) ed Elio Fiorucci. All’epoca Ovs era forte per il bambino e per i clienti di una certa età. Di giovani neanche l’ombra.

Il percepito non è facile da cambiare. Infatti è stato un percorso graduale. Con Elio creammo Baby Angel (oggi B. Angel, ndr), che ci permise di attirare nei punti vendita le ragazze più giovani, mentre con De Giglio il brand Grand & Hills, per i loro coetanei. Un importante passo avanti venne anche dalla trasformazione dell’insegna in Ovs Industry. Volevamo far capire che noi non eravamo solo un rivenditore, ma un retailer verticalmente integrato, che non si limita a vendere i prodotti ma che se li crea e se li produce. Cambiammo l’im-

magine dei negozi rivestendoli di mattoni, come un opificio industriale. L’esperienza andò avanti per circa sei anni. Poi l’esigenza fondamentale diventò quella di riuscire a dialogare non solo con le giovanissime, ma anche con il pubblico femminile un po’ più grande d’età, che a noi mancava. Venivano le mamme sì, ma a comprare per i loro bambini, non per sé stesse.

Quindi?

Cercammo di portare all’interno dell’azienda più talenti creativi e l’architetto Vincenzo De Cotiis ci aiutò a migliorare il layout dei negozi in chiave più femminile. Le cose cominciarono a funzionare, ma la vera svolta arrivò con Massimo Piombo. Lui mi chiamò su suggerimento di Franca Sozzani: lei gli aveva detto che sarei stato l’unico a capirlo. Cominciò con l’uomo. Aveva grande talento e disciplina. Dopo tre anni gli affidai la direzione creativa e con il suo marchio Piombo, che rilevammo da Kiton, siamo davvero riusciti a creare una marca, con un’identità riconoscibile nei contenuti e nella narrazione e il valore aggiunto del prezzo democratico, oggi espressa in shop-inshop e negozi stand alone.

Come proseguirà la collaborazione?

Nel complesso oggi il marchio Piombo genera 150 milioni di ricavi, ma ha ancora un grande potenziale. In futuro si svilupperà su due assi, con la linea Piombo per uomo e donna, dall’impronta più casual, e Piombo Contemporary, collezione dal posizionamento più alto in termini di materiali e dal gusto sofisticato, attiva da tre stagioni ma che abbiamo intenzione di ampliare. Ci sono però altre idee in campo: in primis quella di una brand extension nel tessile casa con lenzuola, coperte, cuscini. Perché non dovremmo vendere i plaid in cashmere? I marchi del lusso li propongono a 3mila euro, noi potremmo offrirli magari a 300, assicurando grande qualità e intercettando così i consumatori più esigenti che non vogliono spendere un capitale.

Come evolverà la filosofia dei negozi Ovs?

Negli ultimi 4-5 anni, grazie al lavoro svolto assieme alla mia squadra, credo siamo riusciti a cambiare radicalmente il percepito e oggi Ovs è diventato un bel contenitore di marchi. Abbiamo riposizionato verso l’alto l’assortimento, senza dimenticarci i primi prezzi, perché vogliamo tenerci stretta anche la clientela di lungo corso. Va detto che, complice la diminuzione del potere d’acquisto delle persone, qualche habitué è andato da catene più low cost. Però pazienza. In compenso stiamo acquisendo clienti più esigenti, che vogliono tenere parte del loro spending power per altre categorie di spesa e che da noi trovano anche marchi di un certo livello come Les Copains.

Se guardiamo quello che sta facendo con Les Copains, acquisito dal gruppo nel 2022, potremmo dire che gli estremi non le dispiacciono nemmeno nel business...

In parte le do ragione. Les Copains era un brand di fascia medio-alta che aveva perso la sua strada e io, pur non avendo niente a che fare col lusso, ci ho visto un grande potenziale, soprattutto per le consumatrici over 45. Quello che avevo in mente però non era il Les Copains delle origini, ma il

Lo stile Piombo per la Fall-Winter 2025

Les Copains di Ovs, con un look fresco, gentile, contemporaneo, facile da portare. E ovviamente dal prezzo accessibile. E sì, ha funzionato. Ha funzionato perché nella mia squadra ho trovato la persona giusta per il rilancio. Le vendite della primavera-estate stanno andando benissimo. La resa al metro quadro è, assieme a Piombo, la più alta dell’abbigliamento e con la linea credo potremmo arrivare, su base annua, a generare 40 milioni di fatturato. Ci crediamo molto, tanto che Les Copains è ora in tutti i 600 negozi Ovs. Per il momento è presente con degli hard corner solo in 150 di questi, ma entro la SS2026 il format degli shop-in-shop verrà esteso a tutta la rete.

Stefanel, che avete rilevato nel 2021, resterà invece autonomo da Ovs?

L’abbiamo mantenuto indipendente, perché ci siamo resi conto che per molti Paesi europei era un brand molto connotato e ci sembrava un peccato “diluirlo” dentro un contenitore ampio come Ovs. Abbiamo fatto dei passi falsi a livello stilistico il primo anno, ma adesso funziona. Sono stati aperti corner in department store esteri come Peek & Cloppenburg e Galeria e nel primo semestre di quest’anno abbiamo registrato un +10%. Andrà ancora meglio nella seconda parte dell’anno, con l’autunno-inverno, visto che la maglieria è il pezzo forte di Stefanel. Oggi fattura intorno ai 40 milioni e credo nel prossimo triennio avremo grandi soddisfazioni: è vero che il segmento intermedio soffre, ma noi abbiamo il vantaggio di poter contare sull’efficienza produttiva di un grande gruppo e dunque, rispetto a brand competitor, per gli standard qualitativi che offriamo riusciamo a mantenere un pricing concorrenziale.

Nel processo di acquisizione di Goldenpoint ha accorciato i tempi: perché la scelta di rilevare il 100% del capitale prima del 2029? Perché abbiamo riscontrato una reattività molto positiva ad alcune idee da noi introdotte. Questa azienda era forte nella moda mare, ma poco esposta alla corsetteria e alla pigiameria. La stagione primaverile e quella invernale restavano deboli, espresse solo da alcune categorie come i legging, che però nella versione in cui erano proposti non andavano più. In alcuni negozi abbiamo allora provato a incrementare la presenza di intimo e pigiami: la risposta è stata eccellente. Quindi abbiamo pensato: anticipiamo tutto, prendiamo in mano la gestione e diamo una bella virata, nell’assortimento e nei negozi. A una decina di questi abbiamo anche rifatto il look: la spinta del fatturato è stata di oltre il 10%. E questo ci ha convinto del tutto.

Che obiettivi ha con Goldenpoint?

Sta lanciando il guanto di sfida a Oniverse di Sandro Veronesi?

No, loro sono troppo grandi e troppo bravi. Il nostro gruppo, con oltre 380 punti vendita stand alone a insegna Goldenpoint e con i reparti intimo all’interno dei grandi negozi Ovs e Upim, è però il secondo player del mercato dell’intimo in Italia e penso che nel giro di tre anni, dagli attuali quasi 100 milioni di euro di fatturato, con la sola Goldenpoint potremmo arrivare a 200. Stiamo aprendo nuove location in franchising, ma punteremo anche su una maggiore resa al metro quadro e sull’ampliamento dei negozi esistenti, grazie a una maggiore potenza di fuoco.

Il beauty è un’altra vostra freccia all’arco: al concept Shaka, presente negli store Ovs, è stato dedicato un format distributivo ad hoc. Non è troppo inflazionato il settore?

Oltre all’allargamento della superficie dedicata al beauty da Ovs, abbiamo aperto tre negozi stand alone a Ferrara, Pavia e Napoli ed entro fine anno vorremmo arrivare a contarne una decina. Quindi valuteremo la solidità di questo progetto retail, perché se funziona non ci fermeremo a dieci spazi. Vedremo come andrà. Posso dire che oggi il beauty, con circa 100

milioni di ricavi, rappresenta oltre il 5% del giro d’affari totale e credo che Shaka abbia un grande potenziale dentro e fuori Ovs, oltre a rappresentare una leva di cross-selling, grazie all’interesse generato nel pubblico femminile. Possiamo contare su contenuti credibili, ossia prodotti dalla qualità vera, non basati sulla comunicazione fine a sé stessa, e prezzo accessibile, in linea con la nostra filosofia.

Riguardo ai rumor su un presunto interesse di Ovs per la catena di casalinghi Kasanova cosa dice?

Abbiamo sul tavolo molti dossier. Certo, i prodotti per la casa ci interessano. Sul mercato siamo già presenti con l’insegna di home decoration Croff. Kasanova ha una bella distribuzione con molti negozi...ma mi fermo qui.

Altre acquisizioni in vista?

Abbiamo da integrare Goldenpoint. Prima dobbiamo lavorare su quello che abbiamo e digerirlo bene. Il 2026 sarà dedicato soprattutto a quello.

Avete archiviato il 2024 con ricavi pari a 1,63 miliardi, in aumento del 6%, e un ebitda di 195 milioni. Il 2025 come si chiuderà?

Il mercato non brilla, ma stiamo crescendo (354 milioni di ricavi, +1%, nel primo trimestre, ndr) e mi aspetto di crescere ancora, sebbene con un tasso lievemente inferiore a quello dell’anno scorso. Sarà più interessante il 2026, perché avremo il vento in poppa. I dazi non ci daranno noia, visto che non esportiamo negli Stati Uniti. Anzi, il dollaro debole ci aiuterà.

È a.d. di questa azienda da 20 anni. Ha festeggiato?

No, perché? Cosa c’è da festeggiare? Mi dia altri 20 anni. Poi dopo 40 si vedrà se c’è da festeggiare.

Il momento più bello?

Forse quando abbiamo aperto, ad aprile 2024, il negozio Ovs a Venezia. Lo spazio, di quattro piani, era rimasto sfitto per sette-otto anni. Noi l’abbiamo preso e restituito ai veneziani, che ci hanno ringraziato. Ha già superato il suo budget di fatturato ed è l’espressione più riuscita della nostra strategia: trasformare Ovs in un leader non solo nei volumi e nel prezzo ma anche in bellezza. Mi viene in mente questo perché è stata una grande iniezione di fiducia. A meno che (ride) non sia perché, anche se sto invecchiando, prevale ancora la memoria a breve termine. ■

Sopra, due proposte Les Copains, brand acquisto dal gruppo nel 2022. Sotto, un look Stefanel, marchio rilevato nel 2021

Charaf Tajer

I manager al suo fianco, gli amici di vecchia data e i buyer innamorati del suo stile. Dagli esordi ai nuovi progetti: un viaggio fatto di testimonianze e notizie su Charaf Tajer, per entrare nel colorato mondo

di Casablanca

Il multi-imprenditore ha già portato al successo molte aziende insieme ad altri. Con Casablanca, Charaf Tajer sta seguendo la sua strada e modernizzando il mercato del lusso tradizionale. Ma lo stilista francese è difficile da raggiungere. Le richieste di interviste al carismatico fondatore del marchio Casablanca vengono solitamente respinte con la motivazione che “è in viaggio”. A conferma di ciò, l’ufficio stampa invia un elenco delle sue attuali attività, davvero notevole. Solo durante le vacanze, Tajer ha aperto pop-up store in quattro angoli del mondo. Tutti si trovano in località turistiche frequentate dal jet set, come Saint Tropez in Francia, Montauk negli Stati Uniti, Comporta in Portogallo e M’diq in Marocco. In occasione del Gran Premio di Monaco ha invitato clienti e influencer a una serata sotto il cielo stellato del Mediterraneo; prima ancora ha collaborato con il Coachella Festival vicino a Los Angeles e a luglio ha organizzato per i suoi amici una “cena intima” a Ibiza, seguita da una festa nella discoteca cult CD-10. Attivo, intraprendente e con un’ottima rete di contatti: così viene solitamente descritto il 41enne dalla testa rasata e dalla barba ben curata. «Charaf Tajer combina creatività e spiccato senso degli affari», affermava già nel 2020 Sophie Brocart, allora ceo di Patou, quando il nome del giovane stilista parigino compariva nell’elenco dei finalisti dell’Lvmh Prize. Anche Sarah Andelman, ex direttrice del celebre concept store Colette (oggi chiuso) e ora consulente, è una estimatrice della prima ora del marchio e del suo fondatore come ha dichiarato a Vogue Business: «Quando Charaf Tajer ha lanciato il suo brand, ha immediatamente convinto con una visio-

Charaf Tajer ha fondato Casablanca nel 2018, attualmente il brand francese fattura 55 milioni di euro

«Casablanca offre una visione positiva del mondo: è come uno champagne frizzante da gustare al tramonto sulla terrazza di un country club privato» Frederick Lukoff

ne chiara, un look accattivante e stampe fantastiche». Le stampe dai colori vivaci, che mescolano templi greci con unicorni, Ufo e arcobaleni, sono ancora oggi tra i prodotti più richiesti. Soprattutto nell’abbigliamento maschile, con cui Casablanca ha debuttato sul mercato, i motivi stravaganti hanno attirato molta attenzione sul marchio. Oggi decorano anche miniabiti attillati, micro-magliette, costumi da bagno femminili, tavole da surf, portachiavi e molto altro. Charaf Tajer non ha mai nascosto le sue ambizioni: «Ho intenzione di trasformare Casablanca in un marchio lifestyle completo». Il designer autodidatta è già sulla buona strada per realizzare il suo obiettivo. Casablanca è ora presente nei migliori grandi magazzini del mondo, distribuito in 350 negozi a livello globale, e a giugno ha aperto il suo primo flagship store nel lussuoso quartiere parigino di Faubourg Saint-Honoré. In soli sette anni di attività, il brand ha raggiunto una notorietà che altre start-up di moda possono solo sognare: 600mila follower su Instagram, 16 mila su LinkedIn, l’80% dei clienti appartiene alla Generazione Z e ai Millennial, e secondo l’azienda il fatturato cresce da anni a doppia cifra.

Per i grandi magazzini Printemps, Casablanca è ormai tra i marchi con i più alti volumi di vendita. La direttrice degli acquisti, Julie Ehrmann, ne elogia l’alto valore di riconoscibilità: «Fin dall’inizio ci è piaciuto lo stile giocoso, colorato e grafico. Look di questo tipo, con numerosi richiami alla cultura classica, ai manga, all’architettura e allo sport, sono rari nel segmento del lusso. Attraggono molto i giovani». Il brand getta un ponte tra maison come Prada, marchi di streetwear

tradizionale come Stone Island e label di super tendenza come Jacquemus. «Da noi, Casablanca ha preso il posto di Off-White o Palm Angels, che nelle ultime stagioni non hanno curato a sufficienza il loro universo».

In un periodo turbolento, caratterizzato da crisi continue, Casablanca è sinonimo di divertimento e ottimismo. «Il marchio ha un’energia giovanile e offre una visione positiva del mondo», dice di lui il ceo Frederick Lukoff in carica dal 2023. È come «uno champagne frizzante da gustare al tramonto sulla terrazza di un country club privato».

Eppure Charaf Tajer è cresciuto lontano anni luce da questo mondo. Francese di origini marocchine, è nato nel 10° arrondissement di Parigi, un crogiolo di culture diverse. Secondo la leggenda, i suoi genitori si conobbero in un atelier di sartoria a Casablanca, da cui il nome del marchio. «Sono cresciuto con due culture e una macchina da cucire», racconta Tajer in uno dei tanti podcast a lui dedicato. Sebbene si sentisse escluso dal mondo della moda, questa ha fatto parte della sua vita fin dall’inizio. Uno dei suoi migliori amici d’infanzia è Stéphane Ashpool, la cui madre Doushka gestiva una società di produzione di sfilate. Fu lei a prendere Charaf sotto la sua ala come stagista e a portarlo nel backstage di Rick Owens. Insieme ad Ashpool e altri nove amici del quartiere, poco dopo la scuola fondò Pain O Chokolat, un’agenzia creativa per eventi, concerti e sfilate. Quando Ashpool lanciò il marchio di streetwear Pigalle nel 2008, Tajer era al suo fianco. Nel 2010 aprì insieme all’esperto pubblicitario britannico John Whelan un nightclub in Rue des Petites-Écuries, nel

Due look della FW25 firmati Casablanca

centro di Parigi. Le Pompon divenne in tempo record il “place to be”. «È stato pazzesco. Kim Jones di Louis Vuitton è venuto la prima sera e ha portato con sé tutta la folla della Fashion Week». Per sette anni Le Pompon si è rilevato un vero e proprio laboratorio di connessioni: «In questo periodo ho conosciuto mille persone e mi sono costruito una fitta rete di contatti».

A 30 anni Tajer è stanco della vita notturna, la sua relazione finisce e cerca nuovi orizzonti. Un amico gli consiglia di provare con una linea di moda. Detto, fatto. «Da Pigalle ero sempre il numero due. Ora volevo essere io il numero uno e creare la mia moda». Nel suo progetto confluiscono le esperienze delle precedenti iniziative: l’allegria e la joie de vivre di Pigalle, l’apertura culturale vissuta con Le Pompon, il talento per le apparizioni glamour maturato con Pain O Chokolat e la voglia di fare le cose in modo diverso. La sua idea: creare look che da giovane non poteva permettersi. «Nel mio gruppo di amici volevamo sempre sembrare persone che giocano a tennis la domenica. Classici, ma molto più moderni». Mentre la moda post-pandemica si orientava verso il quiet luxury, Tajer preferisce di gran lunga disegnare camicie di seta dai colori vivaci nello stile dei selvaggi anni ’80 di Gianni Versace. Con alcune camicie e T-shirt, foto scattate da lui stesso e un account Instagram aperto in fretta e furia, allestisce il suo primo showroom nel negozio di alimentari della madre. Per gli acquirenti giapponesi l’ambientazione marocchina e insolita è super “cool”, e le vecchie reti di contatti del periodo del nightclub iniziano a dare i loro frutti. La collezione di debutto fa subito il botto, lanciata in dieci

famosissimi department store e multimarca, tra cui Browns, Selfridges e Isetan I protagonisti della scena musicale californiana sono tra i primi finanziatori, come rivelò Tajer al podcast TheBoldWay. Con quell’investimento organizza la prima sfilata e trasferì atelier e uffici a Londra, «perché là è più facile trovare persone valide». Il marchio inizia così a crescere e Tajer si rivela da subito abbastanza accorto da circondarsi di esperti.

Nell’estate del 2023 arriva il ceo Frederick Lukoff, un peso massimo del settore lusso con esperienze presso Stella McCartney, Courrèges, Paco Ra-

banne, Lanvin e, più di recente, Scotch & Soda. Appena arrivato, il nuovo manager ha messo mano alla squadra, creando «strutture professionali e costituire un team di gestione». Ed è così che il personale nel giro di poco tempo è più che raddoppiato e le posizioni chiave sono state ricoperte da ex colleghi di Lukoff. Nel consiglio di sorveglianza della società madre, la Whitehouse Holdings B.V. basata ad Amsterdam siedono attualmente i rappresentanti di fondi di private equity come Volt e Felix Capital. Passo dopo passo, Tajer continua a espandere il mondo di Casablanca. Ha collaborato con Globetrotter per valigie, con i grandi magazzini Nordstrom per una linea tennis, con MAD Paris K7 per le racchette, con New Balance per le sneaker, con Caviar Kaspia per il caviale e con Bulgari per una collezione di borse. Ci sono in corso anche progetti legati al beauty, ai profumi, all’arredamento e agli hotel.

Il fatturato ha raggiunto 55 milioni di euro e l’obiettivo per i prossimi due anni è quello di arrivare a quota 70 milioni. È imminente anche l’apertura del secondo flagship store, in programma a Beverly Hills, seguita a ruota da quelle di New York, Miami, Londra, Milano e Dubai. Charaf Tajer, quindi, continua ad avere molti progetti, rimane un creativo poliedrico e instancabile e, probabilmente, continuerà ad avere ancora poco tempo per le interviste: «Il successo è lavoro e visione. Bisogna rimanere rilevanti, saper raccontare sempre nuove storie. Per questo non mi concedo tempo libero: sono sempre in viaggio per capire come funziona il mondo». ■

Sopra e sotto, due immagini dello store di Casablana a Parigi
Lo stilista francese ha organizzato uno special dinner a Ibiza con gli amici
BARBARA MARKERT

Rocco Iannone

Il briefing arrivato da Maranello, quasi sei anni fa, era di ispirarsi alle sport car per creare la moda Ferrari. Il direttore creativo racconta la propria avventura e dice la sua su lusso e velocità (che però non vanno a braccetto)

Rocco Iannone ci accoglie nella showroom milanese di via Broletto in un venerdì pomeriggio. Gli abbiamo preparato una lunga serie di domande, prevedendo - visto il weekend in arrivo - di spaziare a ruota libera tra ricordi, pensieri e progetti senza limiti di tempo. E invece, in poco più di mezz’ora, ogni nostra curiosità trova una risposta - precisa, efficace, argomentata -, svelando dalla scioltezza dell’eloquio molto di chi abbiamo di fronte e dei suoi maestri. In primis Giorgio Armani, che gli ha insegnato «l’approccio coscienzioso e rispettoso al lavoro», ma anche il «valore della concretezza», soprattutto quando il proprio compito è maneggiare e trasformare quella materia intangibile che sono desideri, aspirazioni ed emozioni.

Da Catanzaro è arrivato a Milano per frequentare l’Istituto Marangoni e a soli 23 anni si è trovato a lavorare con i grandi: prima Dolce&Gabbana, poi Giorgio Armani.

Due esperienze fondamentali. All’epoca ero veramente una “spugna”. Nonostante la mia esperienza da Dolce&Gabbana sia durata solo qualche mese, il fatto di essere arrivato proprio a ridosso della fashion week ha avuto l’effetto di un tornado. Quando sono entrato da Armani, del “sistema” avevo già assorbito tantissimo. Certo, lì è avvenuta la mia vera formazione perché sono rimasto dieci anni e mezzo e ho avuto la possibilità di crescere, sia come uomo che come professionista.

È però da Pal Zileri, nel 2017, che si mette alla prova come direttore creativo. Un ruolo al quale oggi si attribuisce quasi in toto l’andamento positivo o negativo di un brand. Lei come la vede?

Rocco Iannone, classe 1984, da fine 2019 è direttore creativo della moda Ferrari (credit Mattia Guolo)

«Negli ultimi anni ho iniziato a emancipare le collezioni da una traduzione “letterale” dei codici automotive a un design capace di emanare le emozioni legate al brand» Rocco Iannone

Per avere successo credo che il direttore creativo debba essere un “curatore”, una figura di mediazione al servizio del marchio. Capace di dare una sua interpretazione personale sì, ma muovendosi nel perimetro valoriale della community che in quel brand si identifica e riconosce. Penso dietro il fallimento di tanti progetti ci sia un’eccessiva “personificazione”, che si traduce spesso in un mero esercizio di narcisismo creativo a scapito del dialogo e dell’aderenza con la propria audience di riferimento. Questo non significa che lo stilista debba spersonalizzarsi, ma è per lui doveroso partire dal mondo che quella determinata maison rappresenta e che spesso è stato costruito in decenni e decenni di storia. Se lo si tradisce, si perde già in partenza.

Guarda caso, ultimamente si è assistito a un valzer vorticoso di stilisti. Lei invece è in Ferrari da quasi sei anni.

Il mio è stato un percorso di costruzione a fasi che ha richiesto grande studio, come un marmo grezzo che si definisce stagione dopo stagione. All’inizio è stato necessario traslare l’immaginario di Ferrari in un linguaggio luxury fashion, parafrasando forme, sinuosità e volumi. Poi, conoscendo piano piano la community del Cavallino, ho iniziato a emancipare le collezioni da una traduzione “letterale” dei codici automotive a un design capace di emanare le emozioni legate al brand. E per fare questo non si poteva improvvisare. Il fattore tempo è essenziale.

Quanto ci vuole perché un creativo possa esprimere il suo potenziale?

Minimo tre anni. Invece spesso la sostituzione arriva dopo due collezioni. Cambiamenti così continui e repentini non fanno bene alla moda. Non basta uno schiocco di dita per far fiorire le idee. La verità è che si dovrebbero prendere decisioni con maggiore serietà quando si nominano i vertici creativi, concedendo loro il tempo necessario per sviluppare

un progetto ed evitando di scegliere figure non corrispondenti alla sensibilità del marchio. Oltre al tempo, l’industria del lusso richiede conoscenza, comprensione. Non si può pretendere che generi i profitti con le modalità della grande distribuzione.

Chi compra oggi la moda Ferrari?

I clienti delle sport car e gli appassionati di racing? Non solo. Stiamo creando un intero ecosistema di esperienze intorno al brand, con il progetto moda sì, ma anche il ristorante Cavallino, i musei di Maranello e Modena, i parchi tematici di Abu Dhabi e Tarragona. Oggi oltre il 50% della clientela è nuova acquisita.

E le donne che ruolo rivestono?

Si dice “la” Ferrari, ma al volante c’è quasi sempre un uomo.

Sin dall’inizio le donne hanno fatto parte della narrazione Ferrari, anche se la Formula Uno è sempre stata considerata di appannaggio maschile. Fino a che non è arrivata la serie Netflix “Drive to survive”: oggi contiamo tantissime estimatrici, anche giovanissime. E sì, per me la Ferrari è donna. Emblema di forza ed energia.

Oggi cosa si vende di più?

Da tre anni a questa parte c’è stata una significativa migrazione: prima la top 3 era fatta nell’ordine da cappellini, T-shirt e felpe. Ora i nostri best seller sono borse, outerwear in pelle e felpe. Siamo molto orgogliosi riguardo alle bag, una categoria molto competitiva e difficile da posizionare. Con prezzi per la FW25 a partire dai 990 euro, hanno funzionato sin da subito.

Progetti?

In cantiere ci sono importanti iniziative nel retail, l’unico canale in cui è presente la moda Ferrari. A Roma ci siamo appena spostati in uno spazio in piazza di Spagna e ci stiamo preparando all’opening di Londra il prossimo gennaio e a New York a giugno 2026: location che andranno ad aggiungersi a quelle attive di Maranello, Milano, Miami e nel New Jersey. Si tratta di investimenti significativi, con spazi dalle ampie metrature, ma mirati: puntiamo a espanderci solo quando riteniamo il nostro progetto possa trovare terreno fertile e una community pronta ad accoglierlo.

Anche lei è un cultore della Rossa? Il brand l’ho sempre amato, perché l’ho vissuto attraverso il cinema, la musica, l’arte e...i videogame. L’auto l’ho anche provata, certo, per poter vivere ed esprimere le emozioni legate al mito Ferrari. Dopo di che, io preferisco spostarmi a piedi (ride). Fa meglio alla salute. ■

L’adv FW25 di Ferrari nello scatto di Robin Galiegue
Una borsa per la FW 2025 (courtesy Ferrari)
ANGELA TOVAZZI

Cristina Fogazzi

Dall’imprenditrice che ha trasformato Veralab in un power brand, c’è da imparare. «Diventare lifestyle? Non so se mi interessa. La moda snobba il beauty? Forse.

Ma amo Piccioli e Michele e le sfilate le seguo sui social»

«Paura? No. Emozione tanta, quello sì. Non abbiamo mai puntato sulle vie del lusso: siamo partiti da via Solari, mica da Montenapoleone. Ma Cordusio è un bel salto, una sfida…e anche una soddisfazione». Cristina Fogazzi, alias l’Estetista Cinica, non gira intorno alle parole quando parla del nuovo store di Veralab che sta per aprire al civico 4 di via San Prospero, una delle zone più glamour di Milano. Prima il debutto con un pop-up durante la Milano Beauty Week di settembre, che anticipa di pochi giorni la Fashion Week poi - entro Natale - l’apertura ufficiale. Una nuova tappa per l’imprenditrice che, in dieci anni, ha trasformato il suo progetto indie e influencer-driven in un vero power brand del beauty italiano (ma ben presto anche internazionale).

Una location come Cordusio significa confrontarsi con i big brand, compresi quelli della moda. Come ci arrivate?

Con entusiasmo, ma anche un po’ di ansia: lì i negozi sono bellissimi e devi essere all’altezza. Sarà il nostro decimo store e seguirà il nostro concept, ma con elementi esclusivi. Da sempre ci diciamo: i punti vendita devono essere luoghi belli, dove ha senso andare. Io compro tantissimo online, quindi se devo uscire di casa per entrare in una boutique, deve darmi qualcosa in più. L’esperienza è tutto: toccare, provare, parlare con qualcuno, restituire i flaconi e ricevere un gift. Anche lo spazio conta: dev’essere figo, luminoso, diverso. I nostri negozi sono nati con questo spirito. Dal punto di vista retail mi sento un po’ figlia di Elio Fiorucci: quella sensazione di allegria e sorpresa che provavi entrando

Cristina Fogazzi, fondatrice di VeraLab, durante la Fashion Weekdi Milano presenterà il nuovo store di Cordusio

«Mi sento figlia di Elio Fiorucci: la sensazione di allegria e sorpresa che provavi nello store di San Babila è ciò che vorremmo dare in Cordusio» Cristina Fogazzi

nello store di San Babila è ciò che cerchiamo di dare anche noi.

Quindi VeraLab è destinato a diventare un marchio lifestyle?

Non so, e non so nemmeno se voglio prendermi quell’etichetta. Di certo siamo un brand che sta portando avanti un’espansione coerente, che include sia il retail fisico, sia l’apertura di nuovi mercati.

Nati online e con una community fortissima: con i negozi fisici cambierà il rapporto con i clienti?

No, perché è tutto omnicanale. Chi compra online avrà gli stessi vantaggi in store. Dal vivo, però, la relazione si rafforza: vedi una persona, non solo un’e-mail.

Allora non è vero, come dicono certi report, che l’era del digitale e degli influencer è finita...

Non credo a questi report. Nel beauty, su TikTok, i prodotti virali portano vendite reali. Forse nella moda è diverso, ma nel nostro settore la viralità funziona eccome.

Per VeraLab e Cristina Fogazzi è tempo di spingersi oltre confine: come state sviluppando l’estero?

Abbiamo iniziato un percorso di internazionalizzazione, che solo a pronunciare la parola mi sale l’ansia: c’è un accordo con El Corte Inglés e stiamo valutando altri department store. Ma niente fretta. Non abbiamo un piano super-rigido: testiamo e poi aggiustiamo. Non ci illudiamo che “funziona qui = funziona ovunque”. Serve osservare, adattare, cambiare.

Con tutti questi progetti, l’etichetta di brand pop le piace o le sta stretta?

Che dicano che Veralab è un brand pop mi fa piacere: è un complimento. Certo, facciamo negozi più belli, grandi, curati, ma senza snaturarci. Siamo pop, lo siamo sempre stati, e va bene così.

Eppure i vostri prodotti ormai competono con i marchi del lusso… Oggi siamo tutti un po’ competitor di

tutti. Nel beauty case convivono luxury, supermarket e brand indie. Non c’è la fedeltà assoluta a una fascia di prezzo. I nostri clienti spesso hanno sia un prodotto Chanel, sia uno da supermercato. È tutto molto ibrido.

Che rapporto ha con il mondo della moda? È un settore che le piace, lo vive, lo osserva da vicino?

Mi piace, la seguo, ma non ci vivo dentro. Adoro Pierpaolo Piccioli, Alessandro Michele e JW Anderson, seguo le sfilate in diretta su Instagram. No, non mi invitano: il beauty è ancora considerato altro. C’è un po’ di snobismo? Forse. Ma capisco la necessità di difendere un certo heritage. Il beauty ha ritmi e dinamiche diversi, un pubblico trasversale.

Ai brand moda che entrano nel beauty: che consiglio darebbe?

Di affidarsi a chi il beauty lo sa fare. Armani funziona perché c’è L’Oréal dietro, idem YSL. Non basta mettere un nome famoso su un pack. Serve competenza. Io ho dieci fornitori diversi e sono una cliente difficile: se un prodotto non mi convince, glielo tiro dietro (metaforicamente!). Serve chi sappia davvero fare questo mestiere.

Da imprenditrice e consumatrice: come vive l’aumento dei prezzi nella moda, che sembra destinato a interessare anche il beauty?

Nella moda è diventato tutto inavvicinabile. 4mila euro per una borsa è una cifra folle: prima era il regalo di laurea, ora un lusso per pochi. Il beauty offre un accesso più democratico a un brand. Però anche nel nostro settore i prezzi iniziano a salire.

Li avete ritoccati anche voi?

Solo un piccolo aumento, per la prima volta quest’anno. Capisco chi, dopo un’espansione, debba alzare i prezzi, ma non è il nostro approccio. Abbiamo ancora margini per rimanere accessibili e restare ciò che siamo: pop, orgogliosamente pop. ■

Il percorso di crescita di Veralab passa anche dalla manageralizzazione: da inizio 2025 l’ex Estée Lauder Paolo De Ponti è il ceo della società
Per Cristina Fogazzi la bellezza non ha genere: i prodotti Veralab funzionano per tuttə, senza etichette di genere
Il marchio festeggia dieci anni di attività con altrettante aperture retail, compresa quella di Roma
ANDREA BIGOZZI

CHROMA FW25: ODE AL CARATTERE

Artigianali, esclusivi, numerati: i cinque nuovi modelli di occhiali da vista della collezione invernale di Etnia Barcelona elevano il design geometrico e una tavolozza vibrante a dimensione artistica, sinonimo di unicità.

lcolore è celebrato nella sua forma più pura e trasferito in una dimensione emozionale. I design sono audaci, con silhouette decise e dettagli raffinati. Il mood è una dichiarazione di stile che invita all’unicità, nell’equilibrio tra classico e contemporaneo.

Va letta così Chroma FW25, la nuova collezione premium di occhiali da vista dedicata all’Autunno-Inverno 2025 di Etnia Barcelona – brand indipendente di eyewear fondato nel 2001 nell’omonima città spagnola – con la quale l’azienda decide di elevare il design ottico, combinando marcate forme geometriche con materiali innovativi e finiture di pregio.

Il risultato sono pezzi unici, numerati, che trascendono le montature tradizionali e invitano a scoprire e vivere il colore come espressione artistica.

Alla tavolozza vibrante, si aggiungono texture come marmo, pietra e havana che donano profondità e carattere a ogni pezzo. Una vera e propria testimonianza di come il colore possa trasformare, sublimare e ridefinire la percezione del mondo circostante.

Ogni collezione Etnia Barcelona è sviluppata da zero dal team di design del brand, che supervisiona l’intero processo creativo. Segno distintivo è l’ampiezza di riferimenti cromatici per ogni modello, realizzato con materiali naturali e di alta qualità, come l’acetato naturale di Mazzucchelli e le lenti di vetro minerale HD. L’azienda è attualmente presente in oltre cinquanta Paesi, con più di quindicimila punti vendita ottici nei mercati di tutto il mondo, grazie anche alle filiali di Miami, Vancouver e Hong Kong.

Illustrazione di Carsten Lüdemann

IL BOOM DEL SECOND HAND È IL NUOVO ELDORADO DEL FASHION?

Da un lato la V diVinted, dall'altra la VdiVestiaire Collective: sono loro i simboli del grande match che gli attori della moda stanno giocando per conquistare posizioni in un settore dinamico e in progress come quello dell'usato. Un mercato che fa gola a tanti, dove stanno investendo i brand del lusso e quelli del fast fashion, i retailer navigati e le startup, con tecnologie sviluppate in house o il supporto di provider. Ma che richiede visione, competenze e know how, oltre a una spiccata sensibilità verso le nuove logiche di consumo. Attraverso la lente dei protagonisti, mettiamo a fuoco best practice, opportunità e criticità.

In comune Vinted e Vestiaire Collective non hanno solo l'iniziale del logo. Perché i due giganti del re-commerce sono avversari sì, ma al medesimo tempo alleati per la stessa causa: trasformare il resale da semplice opzione di shopping in modello di consumo prioritario, per invertire la rotta dell'over production e della moda usa e getta. Si sono fatti spazio nel mercato quando ancora i capi di seconda mano venivano guardati con sospetto e nel corso degli anni sono diventati gli attori di primo piano nell'emergente second hand economy, capaci di convogliare sulle loro piattaforme una fiumana sempre più folta di consumatori, di diversa età, estrazione e potere di spesa, sottraendo

quote ai player tradizionali. Oggi si trovano a operare in un settore che cresce in maniera esponenziale, grazie a un humus che dopo la pandemia è diventato ancora più fertile e ricettivo: la mentalità è cambiata, l'usato si è trasformato in pre-loved e a spostare l'ago della bilancia non è più solo il peso del prezzo. I numeri sono eloquenti: il report 2025 di ThredUp parla di un mercato candidato a raggiungere entro il 2029 un valore pari a 367 miliardi di dollari, che si stima crescerà di circa un 10% all'anno e, dato ancora più emblematico, a un ritmo 2,7 volte superiore a quello globale dell'abbigliamento di prima mano. Il fenomeno non è più di nicchia, ma trasversale: nel 2024 ben il 58% di

consumatori si è lasciato tentare almeno una volta dall'acquisto di capi used e di questi il 68% appartiene alle nuove generazioni, le quali dichiarano che quando pensano di fare shopping il primo pensiero va proprio al second hand. Sarà il nuovo Eldorado? È ancora presto per decretarlo. Intanto, per chi intende salire su questo treno in corsa è imprescindibile comprenderne a fondo logiche e meccanismi, prendere spunto dai format collaudati e vincenti ed esplorare nuove frontiere. Noi di Fashion l'abbiamo fatto insieme agli specialisti, partendo proprio da Vinted e Vestiaire Collective. ■

«Con Vinted l'usato sta diventando la prima scelta, non solo nella moda»

Il resale corre veloce, ma Vinted ancor di più. L'unicorno lituano è partito 17 anni fa come outsider e oggi incarna il mainstream dell'abbigliamento used. Ma, come ci racconta Adam Jay, non ha intenzione di fermarsi qui

La lampadina si accese 17 anni fa, ma senza alcuna consapevolezza della sua energia innovativa. Siamo a Vilnius, Lituania, e durante una festa universitaria una certa Milda Mitkute confida a un amico nerd, Justas Janauskas, del suo imminente trasloco e dell'urgenza di svuotare l'armadio. Da un'esigenza concreta nasce così l'idea di un sito web di resale, all'inizio artigianale e amatoriale, ma che qualche anno più tardi, con l'intervento lungimirante dell'uomo d'affari Mantas Mikuckas in veste di angel investor, si sarebbe trasformato nella prima versione del Vinted che conosciamo. Dopo otto anni di crescita ed espansione il meccanismo però si inceppa e nel 2016, annus horribilis della piattaforma, per raddrizzare i conti arriva l'attuale ceo del gruppo Thomas Plantenga, che somministra all'azienda una terapia d'urto e prende decisioni drastiche ma vincenti: elimina le commissioni per i venditori e sviluppa la funzionalità di spedizione integrata nell'app È l'inizio dell'ascesa. Nel 2019 Vinted è la prima azienda lituana a diventare un unicorno, con una valutazione di 1,1 miliardi di euro, e nel 2023 varca per la prima volta la soglia del profitto (17,8 milioni), in controtendenza rispetto a pionieri del second hand come gli americani The RealReal e Poshmark, zavorrati da perdite di redditività e di smalto. Nel 2024 un ulteriore salto di qualità: il fatturato della società raggiunge gli 813,4 milioni di euro, +36%, e l'utile netto esplode con un +330%, grazie soprattutto all'espansione nel lusso, in nuove categorie merceologiche e al rafforzamento della rete logistica. Oggi Vinted, valutata 5 miliardi, è una certezza del resa-

«Stiamo applicando ad altre categorie ciò che abbiamo imparato nel fashion. Siamo solo all'inizio: il potenziale è enorme»

Adam Jay, ceo Vinted Markeplace

813 mln

Il fatturato del 2024, +36% rispetto all'esercizio precedente, grazie anche all'espansione in nuove categorie

100 mln

Il numero totale di utenti stimati su Vinted. Solo in Italia sarebbero oltre 4 milioni

23

I mercati dove è presente la piattaforma, per lo più in Europa. Next step Estonia e Lettonia

le: con oltre 100 milioni di utenti stimati, di cui oltre 4 in Italia (l'azienda non diffonde cifre precise) è uno dei markeplace peerto-peer di riferimento a livello europeo per lo shopping di moda usata, insieme a pure player come Vestiaire Collective, Depop e Wallapop. Ma davanti a sé ha obiettivi ancora più ambiziosi. Intervistato dal nostro giornale, Adam Jay, ceo di Vinted markeplace, usa tre termini per spiegare il successo della piattaforma: «È semplice, sicura e conveniente». Oltre alle funzionalità user friendly che permettono di caricare, mettere in vendita o acquistare articoli in modo intuitivo e veloce, uno dei plus di Vinted è indubbiamente l'assenza di commissioni per i venditori. Un piccolo onere è sborsato solo dagli acquirenti, che «pagano

ThredUp: il mercato globale della moda second hand arriverà a 367 mld entro il

2029

una commissione per la protezione degli acquisti molto bassa, solo 0,70 euro più il 5% del prezzo dell'articolo», come spiega Jay. Un incentivo, questo, a scegliere la piattaforma lituana per fare decluttering e a spendere risparmiando. Anche quando si tratta di lusso. Vinted ha approcciato questo segmento nel 2023. Un'avanzata fatta insieme a Rebelle, reseller specialista nel fashion griffato acquisito nel 2022: «L'unione con la piattaforma tedesca - spiega Jay - ci ha portato competenze preziose che non avevamo internamente e ci ha permesso di lanciare il nostro servizio di verifica dell'autenticità di capi e accessori con un team qualificato di esperti». Il manager non fornisce dati di vendita, ma parla di una «forte crescita» e di «un forte coinvolgimento» per gli articoli più blasonati: «Le ricerche di moda di lusso maschile, per esempio - informa - sono aumentate del 32% nel maggio 2025, un chiaro segnale della crescente domanda di second hand di lusso». Puntando sull'assenza di commissioni per i venditori e mettendo a disposizione per gli acquirenti un servizio a pagamento (ma su base volontaria) per l'autenticazione, Vinted costituisce di fatto un'alternativa a Vestiaire Collective, da sempre focalizzata sulla fascia luxury. I vertici non parlano però dei cugini francesi in termini di rivali o diretti competitor, perché il lusso rappresenta per Vinted solo uno dei pilastri, seppur progressivamente più saldo, su cui poggia la piattaforma. Che anzi, d'ora in avanti, abbraccerà molteplici categorie merceologiche, con alto e basso di gamma, diversi posizionamenti e fasce di prezzo.

Resale online: vince il marketplace peer-to-peer

Il salto di prospettiva è avvenuto l'anno scorso, quando il palinsesto di Vinted è stato ampliato con elettronica, libri e articoli per la casa, attraendo nuovi utenti e aumentando i volumi di prodotto che transitano sul sito. «Il nostro obiettivoosserva Adam Jay - è rendere l'usato la prima scelta d'acquisto per tutti. Abbiamo iniziato con la moda e conquistato la fiducia dei nostri clienti grazie a una piattaforma semplice e affidabile. Ora stiamo applicando ciò che abbiamo imparato ad altre categorie, perché l'usato non riguarda solo il nostro guardaroba, ma fa parte della vita quotidiana. C'è un grande potenziale e noi siamo solo all'inizio». Anche per il futuro Vinted sembra voler puntare su uno sviluppo più orizzontale che verticale, amplian-

do la sua sfera d'azione in un'ottica democratica, senza ancorarsi a uno specifico settore, target o filone. «Vinted - tiene a sottolineare il ceo - è stata progettata per essere una piattaforma di articoli di seconda mano per tutti. Mentre altri siti si concentrano su segmenti più di nicchia, come il lusso o le ultime tendenze, noi offriamo una vasta gamma di prodotti, dalle borse griffate ai videogiochi vintage. Quello che apprezzano i nostri utenti è proprio la comodità di poter fare acquisti in categorie diverse in un unico posto, a prezzi accessibili».

Osservando la traiettoria dell'unicorno lituano appare chiaro che non sta semplicemente aumentando la propria potenza di fuoco attraverso una universalizzazione dell'assortimento, dalla moda low cost a quella di lusso, dai libri al tech, dai prodotti per la casa a quelli per gli hobby e il collezionismo. Sta invece progressivamente costruendo un vero e proprio ecosistema dell'usato, sviluppando in house tutte le infrastrutture logistiche e le commodity necessarie a rendere questa piattaforma autosufficiente, fruibile, economica, sicura, comoda e veloce, oltre che esempio virtuoso di circolarità.

La conferma viene dall'introduzione strategica di Vinted Go per le spedizioni e Vinted Pay per i pagamenti, servizi che il gruppo sta cercando di implementare internamente, oltre che dal recente debutto di Vinted Ventures. Sul fronte delle spedizioni Adam Jay è consapevole che, in un'ottica di sostenibilità, l'inquinamento generato dalle consegne resta ancora un nodo da sciogliere nel mercato del resale online. «Le nostre ricerche dimostrano che acquistare moda di seconda mano su

Fonte: ThredUp Resale Report 2025
Fonte: ThredUp Resale Report 2025

Vinted è un bene per l'ambiente rispetto allo shopping di capi nuovi, anche quando c'è la spedizione di mezzo». «Tuttavia - aggiunge - i trasporti rappresentano il 98% della nostra carbon print, una percentuale che abbiamo intenzione di azzerare entro il 2050, anche attraverso la riduzione delle emissioni derivanti dalla circolazione dei pacchi». Vinted Go vuole proprio essere una risposta concreta sul fronte della tutela ambientale, dell'efficienza e del contenimento dei costi per l'azienda e gli utenti, con un miglioramento della loro esperienza d'acquisto: si tratta di un sistema capillare di punti di ritiro, per ora disponibile in Francia, Paesi Bassi, Belgio, Spagna e Portogallo. «Abbiamo in programma di espanderci in altri mercati, ma non siamo ancora in grado di indicare una data di lancio per l'Italia», informa il manager. Anche Vinted Pay, con soluzioni per migliorare e rendere più sicuro il modo in cui i membri effettuano transazioni sul sito, e il lancio di Venture Ventures, un veicolo di investimento dedicato alle nuove generazioni di start-up del re-commerce, vanno nella stessa direzione: nutrire l'identità di Vinted come benchmark globale del second hand, intercettando anche possibili nuovi partner e modelli scalabili, per continuare a evangelizzare e incidere con autorevolezza nella rivoluzione green dello shopping. «Abbiamo visto aziende interessanti fare un ottimo lavoro nel mondo dell'usato - commenta Jay -. In più siamo redditizi e convinti che sostenere i nuovi innovatori possa contribuire ad accelerare il passaggio a modelli di consumo più circolari». Del resto, fin dall'inizio l'obiettivo dell’azienda è stato quello di rendere il resale la prima scelta. Il bersaglio non è ancora stato centrato, ma «siamo sulla buona strada - dice Adam Jay -. Fino a poco tempo fa l'acquisto di usato era stigmatizzato, mentre con l'arrivo di Vinted non è più così. Stiamo cambiando il modo in cui le persone consumano». Soprattutto dopo la pandemia, il pre-owned è stato socialmente sdoganato e ha perso la sua connotazione di ripiego e di scelta cheap. Anche se il prezzo resta il principale driver dell'acquisto, non è più solo l'idea di risparmiare che sposta le persone dal first al second hand. Il professore ordinario di marketing all’Università Luiss

Sopra, un'immagine di Vinted Go, il sistema

capillare di punti di ritiro, in arrivo presto anche in Italia. Sotto, alcuni pezzi griffati in vendita

«Mentre altri siti si concentrano su segmenti di nicchia come il lusso, noi offriamo una vasta gamma di prodotti, dalle borse griffate ai videogiochi vintage»

Adam Jay, ceo Vinted Markeplace

di Roma Matteo De Angelis chiarisce questo punto: «Certo, il basso costo resta la leva principale, ma oggi ci sono altri importanti fattori che entrano in gioco a favore di player come Vinted - spiega -. Oltre alla motivazione “ecologica” contro l’over production, sentita soprattutto dalle nuove generazioni, c’è anche la volontà di allontanarsi dal paradigma dominante che induce a spendere in maniera sfrenata. Una parte di consumatori è stanca di dover avere a tutti i costi i capi dell’ultima collezione delle maison e preferisce andare controcorrente, scegliendo da sé cosa indossare». A volte, come evidenzia l'esperto, si tratta di semplice nostalgia: si rovista negli armadi virtuali del second hand per cercare pezzi storici che ricordano dei

momenti passati legati a precise occasioni o emozioni. «Ancora più determinante è il fatto - aggiunge - che sulle piattaforme

C2C come Vinted il processo d’acquisto è disintermediato dai brand e la trattativa avviene tra pari. Non ci sono pressioni esterne e il processo di compravendita risulta più credibile». Di fronte al rischio, sull’onda dei prezzi spesso irrisori, che il re-commerce finisca per replicare le logiche dell’iperconsumo tipiche del fast fashion, Matteo De Angelis minimizza: «Gli stimoli allo shopping sono una costante sia per l’usato che per il nuovo, per il basso come per l’alto di gamma. Vedo più lati positivi che negativi nel resale: alla fine riesce comunque ad allungare la vita dei prodotti». Non manca il fattore ludico, quasi da caccia al tesoro, ad attirare aficionados e nuovi potenziali utenti su piattaforme come Vinted: «Le persone amano l’emozione dell’affare e la possibilità di guadagnare, contribuendo all’economia circolare - evidenzia Jay -. Guarda caso, la domanda di second hand è in crescita in tutta Europa. Noi di Vinted siamo ormai presenti in 23 Paesi e milioni di persone scelgono con orgoglio l’usato ogni giorno».

L’espansione territoriale europea della piattaforma va avanti a spron battuto: nel 2024 sono state aperte le porte a Croazia, Grecia e Irlanda e a breve, come anticipa il ceo, toccherà a Estonia e Lettonia. La Francia (nazione in cui la piattaforma è arrivata nel 2013) e il Regno Unito rimangono le piazze più dinamiche, ma anche l’Italia, dove Vinted è sbarcato nel 2020, sta diventando un hub per il business del gruppo. Per policy Jay non fornisce dati finanziari parziali, ma riguardo al nostro Paese esterna «grande soddisfazione per i progressi e della crescita registrata». «Gli utenti italiani - specifica - sono molto attenti alla moda e al lusso. Nel 2024 Dolce&Gabbana e Versace si sono classificati tra i primi dieci luxury brand più apprezzati. Tra gli articoli di lusso, quello più gettonato è stata una baguette vintage di Fendi con dettagli rosa». All’orizzonte di Vinted c'è anche la possibilità di una futura quotazione, anche se Adam Jay non la dà per certa: «La nostra priorità - precisa - è quella di costruire e far crescere una piattaforma di successo e redditizia per i nostri clienti, sia di oggi

che di domani. Riguardo alla liquidità futura, l’Ipo è solo una delle numerose opzioni per mantenere questo progresso». Il manager preferisce parlare delle sfide che attendono l'azienda per centrare l’obiettivo di diventare un attore globale: «Se vogliamo realizzare le nostre ambizioni, dobbiamo continuare a metterci alla prova e spingerci oltre quello che abbiamo fatto finora. Man mano che si cresce è facile perdere concentrazione, slancio ed energia. Ecco perché lavoriamo sodo e puntiamo a mantenere vive ambizione e disciplina, oltre che l'orientamento al risultato. Abbiamo attraversato molti periodi difficili e quelle esperienze hanno plasmato la nostra cultura».

Le idee sono chiare e improntate alla concretezza: «Continueremo a investire per rendere Vinted il più semplice e fluido possibile, in modo che si adatti alla vita di tutti i giorni, grazie anche all’ampliamento dei nostri servizi sviluppati internamente, in un’ottica improntata al valore e all’efficienza dei costi». «Questo approccio - conclude Adam Jay - affonda le sue radici nelle nostre origini in Lituania, un Paese noto per la sua mentalità analitica e la sua spinta a costruire soluzioni pratiche e che funzionano». ■

Michele Casucci CERTILOGO

«Usato sicuro e trasparente con il prodotto connesso»

La vendita di prodotti second hand è in crescita costante, sia come categoria di prodotto, sia come canale distributivo. Certilogo, azienda tech italiana specializzata in servizi per la protezione dei marchi e verifica dell’autenticità dei prodotti, crede nell’importanza del “prodotto connesso”, offrendo servizi come autenticazione digitale, Digital Products Passport, Smart Circularity e funzioni ad hoc per il resale. Secondo stime recenti della tech company nata a Milano nel 2006 e acquisita da eBay nel 2023, il mercato del second hand ha un valore di circa 26 miliardi di dollari ed è destinato a crescere ulteriormente. «Il second hand è un’opportunità enorme se il brand può contribuire a garantire sicurezza, autenticità e trasparenza. Certilogo supporta i marchi nell’approcciare il second hand, fornendo soluzioni di secure product authentication che permettono di verificare l’autenticità di un capo in ogni fase di vita - spiega Michele Casucci, founder e ceo di Certilogo -. Oggi la sfida principale, oltre a offrire la qualità, è garantire autenticità, tracciabilità e fiducia lungo l’intera filiera». Secondo l’imprenditore il prodotto connesso non è solo una tecnologia: «È una leva - precisa - per costruire una nuova relazione tra brand, consumatore e prodotto, estendendo la relazione ben oltre il momento dell’acquisto e mettendo le basi per una filiera trasparente». Certilogo, per esempio, offre Secure by Design, funzione che permette all’utente finale di verificare se un capo è originale prima di rivenderlo, semplicemente scansionando un QR code o un NFC integrato nel prodotto. Grazie a questi strumenti il consumatore è protetto, il marchio può rafforzare la sua brand equity e ostacolare la circolazione di prodotti contraffatti. Inoltre, i brand che integrano Certilogo possono costruire un ecosistema in fase di

rivendita con programmi di take-back, voucher dedicati e campagne di lead generation. «Ogni nuova transazione - sottolinea Casucci - diventa un’opportunità di contatto diretto e qualificato con il cliente». Se il capo è nato con una identità digitale Certilogo, può essere autenticato anche a distanza di anni, poiché ogni prodotto dotato di tag Certilogo consente di essere verificato anche molto tempo dopo la prima vendita. Alcune aziende hanno già attivato il servizio di resale attraverso Certilogo

«Ogni nuova transazione diventa un’opportunità di contatto diretto e qualificato con il cliente»

Michele Casucci

come, ad esempio, Save The Duck Poiché Certilogo fa parte del gruppo eBay, è possibile attivare integrazioni con la piattaforma: «I brand che utilizzano i nostri strumenti possono attivare il resale sia su eBay sia su altri marketplace o canali proprietari - spiega Casucci -. Il nostro obiettivo è abilitare un resale verificato, sicuro e trasparente, indipendentemente dalla piattaforma scelta, permettendo al brand di decidere come e dove costruire la relazione con il cliente finale». (m.c.p.)

Sopra, gli uffici a Vilnius. Sotto, uno scatto del primo evento, a Londra, che ha portato alcuni capi presenti su Vinted dal virtuale al reale
ANGELA TOVAZZI

«Siamo un modello che funziona anche in tempi di crisi»

Vestiaire Collective da start-up si è trasformata in un'azienda globale da miliardi di fatturato. La co-founder Sophie Hersan parla della mission della piattaforma, di clienti sensibili al prezzo, del boom del vintage e delle proiezioni per il mercato italiano

Vestiaire Collective è considerata leader mondiale nel settore del commercio digitale di moda di seconda mano di alta gamma. Fondata nel 2009 da un gruppo di amici, l’azienda ha alle spalle una storia di successo impressionante: da piccola start-up parigina a unicorno con oltre 1 miliardo di euro di fatturato e 600 dipendenti in tutto il mondo, su cui nel 2021 ha investito anche Kering con una quota del 5%. La piattaforma peer-to-peer è attualmente attiva in oltre 70 Paesi e riceve ogni giorno 30mila nuovi articoli di seconda mano. Del team fondatore sono rimasti solo due membri: Fanny Moizant e Sophie Hersan. Entrambe sono diventate modelli di riferimento per la loro stessa azienda. Presentano regolarmente i loro acquisti personali di articoli di seconda mano sui social media e sono impegnate politicamente nella lotta contro il fast fashion. Abbiamo incontrato su Zoom Sophie Hersan, convinta consumatrice ed esperta di second hand, per fare il punto sulla situazione sul mercato dell’usato.

In qualità di co-fondatrice di Vestiaire Collective, lei lavora da oltre 15 anni con la moda di seconda mano. Come si è evoluto il mercato e a che punto siamo oggi?

Il mercato dell’usato cresce complessivamente del 15-20% all’anno. È un dato enorme. Attualmente è stimato in 200 miliardi di dollari. Quando oggi parliamo di mercato second hand, spesso pensiamo solo a quello digitale. Ma non bisogna dimenticare i piccoli negozi fisici di moda usata. Esistono ancora, alcuni si sono reinventati. Ci sono state anche molte nuove aperture di questi punti vendita, ma va detto che in ambito digitale il settore è semplicemente esploso.

Perché questo segmento sta registrando una tale crescita?

L’abbigliamento di seconda mano è ormai saldamente radicato nelle abitudini di consumo. Quando abbiamo iniziato 15 anni

«Stiamo conquistando i clienti che, pur potendosi permettere articoli nuovi, non sono più disposti a spendere così tanto per prodotti di lusso»

Sophie Hersan

fa non era ancora così. Abbiamo dovuto fare un grande lavoro di sensibilizzazione, soprattutto presso le case di moda. La pandemia ha contribuito a un cambiamento di mentalità. A partire dal 2021 i marchi e anche i rivenditori hanno voluto impegnarsi maggiormente nell’economia circolare. Molti però non sapevano come entrare in questo mercato e come mettere in circolazione i prodotti.

A questo scopo Vestiaire Collective offre oggi delle collaborazioni. Esatto. Nel 2021 abbiamo iniziato a stringere partnership con i marchi per consentire ai loro clienti di rivendere i loro

articoli. Nel frattempo, più di una dozzina di marchi - come Burberry, Chloé, Courrèges, Isabel Marant - e fornitori di e-commerce, tra cui Mytheresa o LuisaViaRoma, si sono uniti a noi. La rivendita viene gestita come un servizio: acquistiamo i prodotti e li rivendiamo sulla nostra piattaforma.

L’atteggiamento nei confronti della moda usata è simile in tutto il mondo o ci sono Paesi più inclini al second hand rispetto ad altri? Sappiamo che i Paesi anglosassoni, ovvero in primis Stati Uniti e Inghilterra, sono molto più aperti al second hand. Lo notiamo anche noi. Il mercato americano è diventato per Vestiaire uno dei più grandi e importanti, soprattutto dopo l’acquisizione del concorrente statunitense Tradesy. In Europa, la Germania rappresenta lo sbocco più importante. La Spagna, l’Italia e il nostro mercato interno, la Francia, sono molto equilibrati in termini di rapporto tra acquirenti e venditori. La Germania, invece, è piuttosto un grande mercato di consumo.

Quando Vestiaire si è espansa in Europa, l’Italia era un mercato forte per la vendita. È ancora così?

Quando abbiamo aperto il mercato italiano nel 2014, era vero che gli italiani vendevano molto. Come in Francia, anche lì ci sono molti marchi di alta moda. Inoltre, in Italia ci sono numerosi outlet. Le italiane avevano quindi facile accesso a prodotti nuovi a prezzi accessibili. Ma ora il rapporto tra venditori e acquirenti è equilibrato anche in questo Paese.

I consumatori sono restii a comprare prodotti nuovi. Ne traete vantaggio? È vero, il nostro è un modello che funziona in tempi di crisi. Non appena si verifica una crisi economica, la liquidità diventa importante. Le persone vendono perché hanno bisogno di denaro. Mentre i prezzi dei prodotti usati restavano stabili, quelli

dei prodotti nuovi continuavano a salire. Pertanto, sia dal lato dei venditori che da quello degli acquirenti, traiamo vantaggio da coloro che non vogliono più spendere tanto o hanno bisogno di soldi.

I marchi di lusso stanno attraversando un periodo difficile perché hanno aumentato notevolmente i prezzi. Cosa significa questo per Vestiaire Collective?

A mio parere oggi c’è una vera e propria sensibilità ai prezzi. E questo in tutti i generi e in tutte le categorie. Inoltre il lusso ha raggiunto una dimensione critica. Molti consumatori non sono riusciti a stare al passo con i forti aumenti dei listini di Prada, Chanel, Louis Vuitton e altri negli ultimi anni. Stiamo riconquistando una parte dei clienti che in passato puntavano sui prodotti nuovi, ma che ora, pur potendoselo permettere, non sono più disposti a spendere così tanto per i prodotti di lusso. Si può parlare di un effetto valanga.

Nel settore dell'usato Vestiaire è considerata una piattaforma di fascia alta. Anche le sue commissioni sono però più elevate rispetto a certi competitor. Che effetto ha questo su una clientela sensibile al prezzo? Non direi che abbiamo un’immagine di lusso. Vestiaire Collective ha soprattutto un’offerta molto alla moda e si distingue per la sua affidabilità: nessun prodotto viene messo online senza aver prima superato tutte le fasi di verifica. Esaminiamo tutti gli utenti che desiderano registrarsi sulla piattaforma. La nostra autenticazione digitale e fisica e il nostro controllo di qualità sono unici. Quasi nessun’altra piattaforma peer-to-peer ha controlli così severi.

Già alcuni anni fa avete bandito il fast fashion dalla vostra offerta. Anche per questo motivo i prezzi medi dei prodotti usati da voi sono generalmente più alti rispetto ad altre piattaforme.

Ciononostante, attiriamo molti acquirenti grazie alla convenienza. Da noi si trova qualità a un prezzo equo: il 50% delle transazioni ha un valore medio del carrello di 180 euro. Fin dall’inizio cerchiamo di convincere i nostri clienti a consumare meno, ma meglio. Penso che questo corrisponda

alle aspettative odierne dei consumatori: cercano un capo di abbigliamento con un nome o un marchio a un prezzo accessibile, che possa essere indossato a lungo e che mantenga il suo valore nel tempo.

Ci sono capi che possono essere venduti a un prezzo superiore a quello di origine?

C’è una clientela interessata a pezzi unici. Si tratta per lo più di capi di collezioni precedenti. Il vintage è una categoria che va molto, molto bene da noi. Attualmente abbiamo il 220% in più di offerte nel settore vintage e cinque volte più ricerche di capi che hanno oltre 15 anni. La categoria è in forte espansione.

Il second hand è arrivato anche nelle serie TV: Vestiaire Collective è apparso persino in un episodio di “Emily in Paris”.

Tutto ciò che ha a che fare con la cultura pop è un ottimo mezzo per attirare l’attenzione della grande maggioranza delle persone sul second hand. I social network, le serie TV, le piattaforme come Netflix, Amazon Prime o Disney Plus riescono a trasmettere nuovi messaggi sulla moda. Nel caso di “Emily in Paris” è stata la serie a venire da noi.

I marketplace come Vestiaire sono grandi aziende tecnologiche. In che misura l’intelligenza artificiale è già presente sulla vostra piattaforma? È presente nei nostri algoritmi. Se si cerca qualcosa di specifico, la ricerca è molto più precisa rispetto al passato. Il cliente trova molto più rapidamente i prodotti che gli interessano. Oggi abbiamo cinque milioni di prodotti sulla piattaforma. È più di quanto offra un grande magazzino. Grazie all’AI analizziamo la cronologia dell’utente. Dove vive? Cosa ha guardato in precedenza? In questo modo ci assicuriamo che la selezione rimanga stimolante. Sup-

poniamo che un cliente stia cercando una borsa Chanel. La ricerca mostrerà naturalmente le borse Chanel, ma non solo quelle. Ampliamo leggermente il raggio di ricerca per migliorare l’esperienza dell'utente.

Vestiaire Collective offre anche abbigliamento maschile.

Gli uomini sono già entrati nel mondo dell’usato?

Abbiamo una community maschile, ma è piccola. Chi ha già acquistato da noi una volta, torna sempre. Per il pubblico maschile vanno bene le categorie scarpe, gioielli e orologi. L’offerta di prêt-àporter, accessori, borse e orologi c’è, ma abbiamo bisogno di una scelta molto più ampia e dobbiamo rivolgerci in modo molto più chiaro al target maschile. Finora non l’abbiamo fatto e ci siamo concentrati molto sulle donne.

All’inizio del 2024 Vestiaire Collective ha lanciato una campagna di crowdfunding. Era una preparazione per una possibile quotazione di cui si vocifera da tempo?

Sì, molti pensavano che fosse una preparazione all’Ipo. Ma per noi era qualcosa di diverso. Questa azienda non sarebbe mai arrivata così lontano senza la nostra fedele community. La mission originale era, e rimane, quella di cambiare il settore della moda verso la sostenibilità. La community ci aiuta a promuovere questo cambiamento. Il crowdfunding era inteso come ringraziamento e ricompensa per i nostri clienti. A proposito, ha funzionato davvero molto bene. Abbiamo ottenuto molto più di quanto previsto e raccolto oltre 3 milioni di euro. Il 68% di questi investitori sono donne. Un dato che mi ha fatto piacere. Perché noi promuoviamo molto le donne all’interno dell’azienda.

E il tanto atteso sbarco in Borsa?

È qualcosa che teniamo presente, ma non è ancora il momento giusto. Attualmente stiamo cercando di mantenere la nostra crescita in un periodo nuovamente difficile. Molti marchi stanno soffrendo. La crisi continua e oggi colpisce l'industria, il commercio al dettaglio e persino il settore del lusso. ■

MARKERT

BARBARA

L'usato

meglio del nuovo?

La vera sfida dei marketplace è essere multiproposta

Pur non puntando esplicitamente a sottrarre quote di mercato ai player specializzati - anche a causa dei margini di business ridotti - i grandi attori dell’e-commerce nati per la vendita del nuovo stanno investendo sempre di più nell’usato, ottenendo risultati incoraggianti. Tra acquisizioni e business unit ad hoc, il futuro di Zalando, Farfetch, Miinto, Giglio.com e LuisaViaRoma sarà sempre più nel segno della co-esistenza tra prima e seconda mano

Le prospettive di crescita del mercato second hand sono tali che anche i grandi player dell’e-commerce moda - nati originariamente per vendere esclusivamente capi nuovi - stanno potenziando sempre più la loro offerta di usato, sottraendo così quote di mercato agli operatori specializzati. Segnali concreti arrivano dai leader di settore: negli ultimi anni, la velocità di vendita dell’inventario pre-owned di Zalando è raddoppiata, mentre Miinto ha rafforzato la propria proposta grazie all’integrazione di The Vintage Bar Farfetch, oggi nel pieno di un processo di razionalizzazione postacquisizione da parte di Coupang, ha individuato tra i pochi asset strategici da mantenere proprio Luxclusif, la piattaforma di resale acquisita nel 2021. A questo fermento si aggiungono le mosse degli e-tailer multimarca, come  Giglio.com e LuisaViaRoma, che pur non entrando direttamente nel business della rivendita, adottano un approccio ibrido: raccolgono articoli second hand dai clienti, ma li reindirizzano su piattaforme specializzate come Vestiaire Collective, restituendo valore sotto forma di voucher. Un'espansione così rapida trova spiegazione anche nel cambiamento delle abitudini di consumo. Come osserva Vincenzo Troia, deputy ceo di Giglio.com, l’interesse per il second hand è esploso: «Lo dimostrano i dati. Mentre il lusso nuovo rallenta, il pre-loved cresce. Il consumatore cerca oggi un’esperienza diversa, fatta di gratificazione, unicità e - perché no -

anche di risparmio. Ma il prezzo non è la leva principale: il vero stimolo è la possibilità di trovare pezzi unici, gemme rare, a prezzi più accessibili Un effetto diretto dell’impennata dei listini nel retail tradizionale. Paradossalmente, è stato proprio il sistema moda a generare un trend che ora lo mette in discussione». È uno scenario in forte accelerazione, tanto che abbiamo chiesto a databoutique. com di tracciare uno spaccato esclusivo del fenomeno. Dai dati raccolti emerge un dettaglio cruciale: pur non essendo marketplace verticali sul resale, piattaforme come Zalando, Miinto e Farfetch presentano una quota media di articoli second hand ormai considerevole, stabilmente al di sopra del 10%, con picchi oltre il 20% (vedi infofrafiche nella pagina accanto). Una soglia che legittima la nascita di un

«È un mercato in fermento, ma anche rischioso: margini bassi, logistica complessa. Noi ci stiamo investendo, ma non sarà mai core»

Laura Alsoni, Miinto

nuovo modello: quello della piattaforma multi-proposta, dove prodotti nuovi e usati convivono in un unico carrello. «Il mercato del second hand è un settore che osserviamo con attenzione, ma che per noi rimane comunque secondario rispetto al core business», racconta Laura Alsoni, partner growth director di Miinto, ricordando che i primi esperimenti sul vintage da parte del marketplace norvegese risalgono già al 2019. «Il test ha dato buoni risultati, per cui il vintage è diventato un naturale “add-on”. Circa tre anni fa abbiamo acquisito The Vintage Bar, un’azienda danese molto forte nel settore del resell, e da lì abbiamo iniziato a integrarne l’offerta nel nostro ecosistema. Oggi i loro prodotti sono visibili sia sul sito The Vintage Bar, che continua a operare, sia sulla piattaforma Miinto». La domanda per l’usato c’è e funziona, ma i margini restano limitati, soprattutto quando si adotta un modello B2B2C: «Se acquisti un prodotto con uno sconto del 20% e lo rivendi con un margine del 10%, già solo i costi di marketing rischiano di portarti in perdita», fa notare Alsoni. Miinto lavora con una decina di partner selezionati - aziende specializzate nella gestione del second hand - e non con i clienti finali: «Queste realtà si occupano di reperire, validare e fornirci la merce. È un modello più semplice da gestire e più coerente con la nostra struttura». Il focus è chiaro: alta gamma, margini contenuti e una clientela distinta da quella del nuovo, più interessa-

Vendere il pre-owned su piattaforme

Un’analisi di DataBoutique.com confronta la presenza di articoli nuovi e usati su Zalando, Farfetch e Miinto. A maggio 2025, il 21,1% dell’offerta di Zalando era composto da articoli pre-owned, grazie a una divisione dedicata. Anche per Farfetch e Miinto il second hand conserva percentuali importanti, seppur inferiori. Tuttavia, il posizionamento varia: su Zalando c’è sovrapposizione di brand tra nuovo e usato, segnalando un pubblico attento a prezzo e sostenibilità. Su Farfetch e Miinto il cliente second hand è un top spender, interessato a lusso e accessori come borse, orologi e gioielli.

MIINTO

FARFETCH

ta a pezzi da collezione e introvabili, come una borsa Chanel vintage o un orologio Cartier fuori produzione.

Diverso il modello di Zalando, che ha iniziato a investire nel second hand già nel 2020, creando una business unit ad hoc, guidata da Alice Marshall, e basata su un modello C2B2C. È stata la prima piattaforma europea a offrire articoli nuovi e usati in un unico carrello. Ovviamente, prima della messa in vendita, ogni capo pre-loved viene valutato da un team interno. L’integrazione fluida tra i due mondi e la semplicità d’uso hanno conquistato i consumatori. Il servizio “Sell to Zalando” permette agli utenti di rivendere direttamente i propri capi alla piattaforma, ricevendo in cambio una gift card oppure donando il valore a un’organizzazione benefica.

I numeri testimoniano la centralità del pre-owned per Zalando: oltre il 40% degli ordini del 2025 include articoli misti (nuovi e usati), mentre il numero di articoli usati processati nel 2024 è raddoppiato rispetto all’anno precedente. Anche la velocità di vendita è aumentata: oggi il 50% degli articoli pre-owned viene venduto lo stesso giorno, con picchi del 90% per i brand premium.

«Se credi in questo segmento, devi investire in modo consistente, proprio come stanno facendo player come Zalando», conferma Alsoni. Anche Miinto, pur mantenendo un approccio prudente al resell, prevede ulteriori investimenti, soprattutto sul fronte tecnologico, con l’obiettivo di migliorare la velocità di vendita: «Stiamo investendo molto nell’intelligenza artificiale, per automatizzare e velocizzare la pubblicazione online dei prodotti. Abbiamo osservato che, quando aumentiamo lo stock disponibile e riduciamo il time-to-market, le vendite crescono in modo significativo».

La volontà di rafforzare il business del resale - considerato strategico per la brand awareness e per il contatto con la clientela di fascia alta - sembra essere una delle poche certezze anche per Farfetch. Dopo l’acquisizione da parte del gruppo sudcoreano Coupang nel 2024, ottenere informazioni sui piani della piattaforma è diventato più difficile. Farfetch sta concentrandosi nuovamente sul proprio

50 %

la percentuale di articoli pre-owned venduti da Zalando il giorno stesso in cui vengono caricati sullo shop

marketplace, dismettendo le attività considerate collateriali. Tra queste non sembra rientrare il business del resale, rappresentato dal programma “SecondLife”, ancora attivo sulla piattaforma. Proprio come Miinto, anche per Farfetch il second hand non è una leva di volume, ma una scelta qualitativa. A confermarlo sono le dichiarazioni rilasciate da Stephen Eggleston, chief commercial officer di Farfetch, in recenti interviste a media internazionali, in cui ha sottolineato la rilevanza crescente del pre-owned all’interno della strategia: «Il servizio di rivendita rimane parte importante del nostro business, promuove la circolarità e ci aiuta ad accedere a prodotti straordinari. La categoria ha re-

gistrato ottimi risultati nell’ultimo anno e ci stiamo assicurando che questa attività continui a prosperare». Il trend ha coinvolto anche i player italiani. Due nomi su tutti - LuisaViaRoma e Giglio.com - raccontano una traiettoria condivisa: quella di retailer multimarca digitali di fascia alta che, anziché ignorare il fenomeno del pre-owned, scelgono di guidarlo, integrandolo nei propri ecosistemi attraverso formule ibride e partnership strategiche. A fare da catalizzatore è Vestiaire Collective, leader internazionale nel resale di moda di lusso, con cui entrambi collaborano attivamente. «Non siamo un pure player del second hand - racconta Troia di Giglio.com - ma offriamo un servizio che rafforza la relazione con il cliente e promuove un’economia più circolare. È un modello ibrido, certo, ed è win-win-win: il cliente è soddisfatto, noi aumentiamo la retention e Vestiaire arricchisce il proprio catalogo. Il progetto funziona bene e pensiamo costantemente a come evolverlo».

Anche LuisaViaRoma si muove lungo binari simili, con una soluzione che semplifica al massimo l’esperienza del cliente. «Abbiamo deciso di attivare la collaborazione con Vestiaire Collective nel 2022 - racconta Francesca Capucci, global brand marketing & sustainable projects manager - per offrire ai nostri clienti un’opportunità concreta di avvicinarsi al tema della moda circolare, senza però stravolgere il nostro core business. Il cliente carica le immagini del prodotto che desidera rivendere e riceve una valutazione. Se accettata, riceve una gift card LuisaViaRoma pari al valore offerto, con un bonus del 15%».

Un modello semplice ed efficace, che evita la complessità della vendita diretta e offre un incentivo tangibile all’utente. I risultati? Convincenti e in crescita. «Registriamo una media di 150-180 submission mensili - continua Capucci - con picchi rilevanti durante le campagne dedicate. I prodotti più conferiti sono abbigliamento, scarpe e borse, ma sono quest’ultime che generano il maggior valore: da sole rappresentano il 43% del riacquisto. I brand più presenti? Gucci, Jacquemus, MaxMara, Saint Laurent, Balenciaga, Prada, Valentino, ma anche Zimmermann e Louis Vuitton».

Zalando seleziona e controlla internamente tutti gli articoli pre-owned prima della messa online
Nello store LuisaViaRoma a New York sono presenti capi pre-owned selezionati con Vestiaire Collective

Pur riconoscendo le potenzialità, Troia invita alla prudenza. Il resale, soprattutto se gestito in house, presenta molte complessità operative e strategiche: «Oggi non abbiamo ancora una sezione di second hand sul nostro sito - precisa - ma è un’ipotesi che stiamo valutando. Tuttavia, entrare direttamente in questo segmento richiede grande preparazione: servono competenze verticali, processi di autenticazione, una logistica dedicata. Il rischio di incorrere in prodotti fake è altissimo e non possiamo compromettere la customer experience dei nostri 150mila clienti attivi. Per questo ci limitiamo a un modello collaborativo, dove la parte operativa è in outsourcing».

Troia cita anche i recenti movimenti del settore, come l’acquisizione di The Vintage Bar da parte di Miinto, o di Luxclusif da parte di Farfetch, come esempi di come i big player stiano cercando di internalizzare il know-how attraverso operazioni straordinarie.

Una dinamica confermata anche da Alsoni di Miinto, che sottolinea: «È vero anche che molti dei pure player del resell sono fragili, molto piccoli, e credo che nei prossimi mesi vedremo diverse acquisizioni. Tanti fondi si stanno muovendo su questo fronte, perché oggi molte di queste realtà costano poco, ma è anche un modello rischioso. I margini sono bassi, le operazioni logistiche complesse, le certificazioni obbligatorie. Quindi è un mercato che può anche essere una bolla. Noi continueremo ad osservare, valutare e cogliere le opportunità che si allineano con la nostra strategia e identità, senza però spostarci dal nostro core». «È l’unico modo realistico per entrare in modo serio in questo business. In un contesto come l'attuale, dove gli investitori chiedono gestione prudente più che espansione, bisogna essere cauti - conclude Vincenzo Troia -. Quando sarà il momento, valuteremo se creare uno spazio resale separato, ben distinto dall’offerta di prodotto nuovo. Il rischio di entropia nell’esperienza utente è concreto, e va gestito con grande attenzione». Nonostante i margini siano ancora bassi e il modello economico fragile, il resale è destinato a crescere, anche grazie all’evoluzione delle

E-commerce e Iva: cosa cambia tra beni nuovi e usati

C’è chi sostiene che la vendita online di beni nuovi e quella di beni pre-owned siano due mestieri distinti. Le differenze non riguardano solo il buying e il marketing, ma anche l’aspetto fiscale: le regole cambiano sensibilmente a seconda che si tratti di prodotti di prima o di seconda mano, e variano ulteriormente in base alla natura del venditore e alla tipologia del bene. Roberta De Pirro, managing associate di Morri Rossetti & Franzosi, chiarisce i punti principali da conoscere.

Le vendite tra privati sono soggette a IVA?

No. Se il venditore è un privato e non svolge attività d’impresa o professionale, la vendita non è soggetta a IVA, anche se avviene tramite piattaforme. È il caso di chi vende occasionalmente un oggetto usato. Cosa cambia se a vendere è un soggetto con partita IVA?

Un venditore con partita IVA applica l’IVA ordinaria per beni nuovi. Per i beni usati può scegliere il regime del margine, che consente di calcolare l’IVA solo sulla differenza tra prezzo di vendita e acquisto.

43 %

il valore generato dalle borse nel resale di LuisaViaRoma.

I brand top? Gucci, Jacquemus, Saint Laurant

tecnologie e dei comportamenti dei consumatori. Per Capucci il futuro sarà fatto di modelli ibridi, dove il digitale si fonde con esperienze fisiche ad alto contenuto narrativo. «Durante la nostra sfilata a Firenze nel 2023 - racconta la manager di LuisaViaRoma - abbiamo ospitato un evento con Vestiaire Collective dedicato ai nostri VIC, con workshop sul quality check e incontri dedicati al valore dei pezzi d’archivio. È stato un modo per promuovere una nuova cultura del possesso nella moda. Il second hand può essere un'opportunità ma solo se ben incanalato, ben distinto e ben gestito». ■

Le piattaforme online diventano “fornitori” per il cliente?

In certi casi sì. Se la piattaforma facilita alcune vendite, la legge può considerarla fornitore “fittizio”, con una doppia transazione: tra venditore e piattaforma, poi tra piattaforma e cliente. Ma non vale sempre. Quando la piattaforma è considerata “fornitore presunto”?

Succede per beni importati da fuori UE con un valore fino a 150 euro, oppure se il venditore è extra-UE. In questi casi, la piattaforma assume responsabilità IVA come se rivendesse il bene.

E se il venditore è italiano e vende in Italia o in Europa?

Se i beni partono da un magazzino in Italia, la piattaforma non è considerata fornitore. L’IVA e gli obblighi fiscali restano a carico del venditore.

Come si trattano fiscalmente queste vendite online in Italia?

Per i beni nuovi si applica l’IVA ordinaria, con obbligo di fattura. Per l’usato con regime del margine, l’IVA si calcola sul guadagno e la fattura non è obbligatoria, salvo richiesta del cliente.

Che succede con clienti in altri Stati UE?

Se il venditore è in Italia e la merce parte dall’Italia, l’operazione resta fiscalmente rilevante in Italia. Si applica IVA ordinaria per beni nuovi o regime del margine per l’usato.■

ANDREA BIGOZZI
Miinto ha acquisito The Vintage Bar tre anni fa e da allora integra il second hand nella sua offerta
Dal 2023 è attiva la partnership tra Giglio.com e Vestiaire Collective, che collabora anche con Mytheresa e LuisaViaRoma

Il bello di Bivio: quando il second hand è sotto casa

È il 2013 quando Hilary Belle Walker, americana trapiantata a Milano, apre il primo negozio fisico sotto la Madonnina. Dopo 12 anni i punti vendita sono quattro, nei quali transitano oltre 25mila capi l'anno. Merito del modello di business, ma non solo, come racconta il retail manager Marco Nicolini Profumo

Nell'epoca della leadership esercitata dalle grandi piattaforme di resale online, a Milano prosegue con successo l'esperienza offline di Bivio, insegna oggi sinonimo di quattro negozi, nata su iniziativa dell'americana Hilary

Belle Walker, che a partire dal 2013 decide di scommettere su una formula di vendita collaudata negli Stati Uniti, ma innovativa per l'Italia. Ce ne parla il retail manager Marco Nicolini Profumo

Una decina di anni fa nel nostro Paese si usava solo il conto vendita... Esatto. Tu portavi i capi usati e ti veniva pagato solo ciò che veniva venduto, che non era detto venisse venduto. Hilary ha introdotto invece un sistema che negli Stati Uniti, pionieri nel second hand, utilizzavano sin dagli anni Settanta. Anche oggi, quando un cliente ci porta i suoi capi used, ci sono due opzioni: una volta prezzato, di quell'articolo può ricevere immediatamente un terzo del suo valore in cash, oppure un buono acquisto pari a metà del prezzo, da spendere nei nostri negozi entro un anno. Se sceglie la prima opzione, la trattativa finisce lì. Il fatto che il capo venga o non venga rivenduto a quel punto diventa solo affar nostro. Quando avete iniziato nel 2013 in Italia non c'erano ancora Vinted e Vestiaire Collective. Sentite il peso della concorrenza?

Quella di Bivio è un'esperienza completamente diversa. Anche noi nel post Covid abbiamo lanciato lo shop online, ma alla fine è più che altro una vetrina per portare gli utenti nei nostri negozi, dove il cliente non si muove da solo ma è assistito dai nostri buyer, che selezionano con cura i prodotti, suggeriscono cosa comprare e consigliano, ma a volte anche sconsigliano, cosa vendere. Magari il cliente non è ancora pronto a separarsi da quella borsa firmata o da quel vestito che ha indossato in occasioni speciali. E quindi a volte lo indirizziamo verso la scelta giusta, anche se a nostro sfavore.

A MILANO BIVIO SI FA IN QUATTRO

2013 via Mora 4

2016 via Lambro 12

2017 via Mora 14

2024 corso Lodi 18

Per il pubblico non è più vantaggioso comprare e vendere online?

Indubbiamente su alcuni siti resale i prezzi possono essere più allettanti, ma noi offriamo il valore aggiunto di un'esperienza e di una relazione che spesso va oltre la semplice transazione economica, perché i capi raccontano una storia e un vissuto. E poi caricare gli articoli sulle piattaforme online è un "lavoro": scattare le foto, descrivere i prodotti, rispondere alle domande, condurre una trattativa. Le nuove generazioni fanno tutto con scioltezza, ma la stessa cosa non vale per un pubblico più grande d'età. Ci differenzia inoltre un aspetto "green": nell'80% dei casi non ci sono spedizioni. Le persone vengono in negozio a piedi, in bicicletta, in metropolitana. So che andate anche a casa loro... A volte succede che i clienti debbano disfarsi di un intero guardaroba a causa di un trasloco, di un cambio di lavoro, di un

Hilary Belle Walker «L'usato?

Sarà la norma»

«Il second hand diventerà la norma e non solo nel settore dell'abbigliamento. Che si tratti di E-Bay, Subito o Facebook Markeplace, per i consumatori sarà sempre più naturale comprare articoli di seconda mano. Quanto a noi, nessuna competizione con le grandi piattaforme: Bivio è una piccola catena di quattro negozi fisici e l'obiettivo del nostro e-shop non è generare clic, ma portare persone nei nostri spazi. Anche online mettiamo comunque la stessa cura che abbiamo offline: ogni articolo è stato scelto e prezzato da noi, possiamo garantire le sue misure, le sue condizioni e la sua autenticità, sappiamo da dove proviene e da quanto tempo lo abbiamo».

cambio taglia. E allora offriamo un servizio a domicilio per ritirare importanti quantitativi di articoli. Ma, anche in questo caso, non è un mero servizio di trasporto. Spesso di fronte a un armadio zeppo le persone si sentono sopraffatte: come consulenti, facciamo chiarezza sulle nuove priorità, su ciò che vale la pena tenere o lasciare andare. Si tratta di un'operazione delicata, nella quale ci vuole molto tatto: in ballo ci sono ricordi, valori, emozioni. A volte non è facile, ma è proprio questo il cuore del nostro lavoro. ■

ANGELA TOVAZZI
Hilary Belle Walker e Marco Nicolini Profumo

Per Menabòh il futuro è «Love what you have»

Nulla si distrugge, tutto si trasforma grazie a Menabòh, start-up tech che opera online e trasforma capi pre-loved in nuovi pezzi unici

Comprare abbigliamento vintage è un trend indiscusso ormai per chi acquista moda, ma fare upcycling per trasformare vecchi capi in pezzi più attuali o grintosi è il prossimo must. Ci hanno creduto Gaia Rialti e Alessia Cerbone, fondatrici di Menabòh, start-up che trasforma abiti usati in capi nuovi dal 2021

La società nasce per sconfiggere la noia in tempi di Covid, a Montevarchi, vicino ad Arezzo, quando Gaia Rialti comincia a provare vecchi abiti dimenticati nei bauli in soffitta della casa di sua madre. L’imprenditrice, dopo aver conseguito un master in Fashion Brand Management presso il Polimoda Fashion Institute e maturato oltre cinque anni d’esperienza nel lusso e nel beauty lavorando per Ferragamo e L’Oréal, inizia a coinvolgere alcuni amici designer a trasformare capi di ottima fattura, ma non più attuali. Alessia Cerbone, invece, contribuisce portando la sua esperienza in ambito di venture capital e start-up digitali.

Da quel passatempo nascerà una società che segue un business model creato nel 2023 e che coinvolge 25 designer, conta 130 clienti e ha già concluso oltre 300 progetti.

Spiegano le fondatrici: «Il nostro motto è "Love what you have". Per noi una fashion house di nuova generazione non produce, ma trasforma capi d’abbigliamento. Non realizziamo nuovi vestiti, ma valorizziamo quelli che esistono già», sottolineano pensando a un futuro in cui i capi di moda non si accumulano, ma evolvono. Sono tempi in cui si compra meno, ma grazie a Menabòh si possono trasformare i propri acquisti più volte.

La società segue un modello che si basa esclusivamente sulla trasformazione di capi pre-loved secondo criteri come il direct-to-consumer e il made-to-measure. Opera tramite una tech company online che non dimentica il rapporto umano. La start-up segue un processo semplice, ma curato in ogni fase e basato su criteri a basso impatto. La cliente contat-

ta la società attraverso una piattaforma online o un canale whatsapp dedicati raccontando la storia del capo e come vorrebbe trasformarlo. Entro tre giorni il team creativo realizza uno sketch. Se viene approvato, il proprietario del capo lo spedisce al designer, che lo ridisegnerà secondo le esigenze del cliente. Infine, l'indumento viene e rispedito a casa del proprietario pronto per essere indossato. L’esperienza è completamente digitale e a distanza perché il consumatore non prova il capo in corso d’opera, benché ci sia sempre un rapporto diretto con chi lo sta reinterpretando. Il fitting, infatti,

PRIMA...

«In tempi in cui si compra meno, noi possiamo dare

nuova vita ai capi vintage più e più volte»

Gaia Rialti, co-founder di Menabòh

viene gestito dialogando con il team per tradurre i desideri dei clienti costruendo passo dopo passo la soluzione migliore. Il modello di business è snello perché non usa né stock né magazzini e opera attraverso una piattaforma tecnologica attiva da inizio 2024. Inoltre, è a basso impatto perché il capo viene spedito e lavorato da uno stilista vicino al cliente.

Dal 2026 Menabòh svilupperà anche un modello di predizione del fit basato sull’AI secondo variabili come postura, misure del corpo, tessuto e vestibilità, mentre per il momento, nel caso il capo non calzasse in modo corretto, viene rispedito e rilavorato.

Tra gli stilisti coinvolti nel progetto ci sono Faren Tami, stilista di Toronto, ma la maggior parte sono professionisti italiani e toscani. Tra gli altri ci sono Sofia Caponi, Andrea Marchi, Bianca Sànnolo, ricamatrice per Gucci e Vuitton, e Benedetta Cresta, che ha realizzato abiti per un matrimonio tutti secondo il principio del riciclo.

I prezzi? Partono da 70 euro, a seconda della complessità delle richieste, benché dare nuove chance a un capo valga sempre la pena, al di là del costo. ■

MARIA CRISTINA PAVARINI
...E DOPO

NUOVE APERTURE E UN CALENDARIO SPECIALE PER FESTEGGIARE I 30 ANNI

DI FOXTOWN FACTORY STORES

È previsto per tutto il mese di novembre un programma di festeggiamenti per celebrare l’importante anniversario del Mall di Mendrisio con attività, animazioni e iniziative per adulti e bambini.

Con il 2025, si chiudono le prime tre decadi di storia del format distributivo fondato nel 1995 a Mendrisio da Silvio Tarchini, un modello in quegli anni già affermato nel Regno Unito e negli Stati Uniti che in Italia inaugura il primo tempio del lusso a prezzi competitivi.

Per festeggiare questo significativo traguardo, FoxTown Factory Stores –il primo Outlet Center del Sud Europa con prezzi ridotti dal 30% al 70% tutto l’anno dove vivere un’esperienza d’acquisto unica, passeggiando tra negozi, bar, ristoranti, divertendosi al Casinò o visitando The Sense Gallery, museo 3.0 – ha in calendario un folto programma di festeggiamenti per coinvolgere adulti e bambini in eventi esclusivi per l’intero mese di novembre.

In tema di nuove aperture, gli ultimi acquisti sono l’abbigliamento tecnico outdoor di Vaude, il prêt-à-porter femminile firmato Vero Moda, Caroll e Morgan, le proposte moda per lei e per lui di Gaudì, tutte insegne già aperte al pubblico. Mentre il brand Jack & Jones accoglie i fan del marchio in una superficie di vendita ampliata. È prevista per ottobre, infine, l’inaugurazione dello spazio Icebreaker, insegna di activewear uomo, donna e bambino. Risultati incoraggianti per il mall di Mendrisio, che con la propria superficie di vendita di 37mila metri quadrati ha attirato tra il 1995 e il 2024 quasi 63 milioni di visitatori, grazie a una proposta fashion, home decor, sport e lifestyle articolata in 160 negozi, per un totale di oltre 250 marchi.

Nel tempo, l’espansione è passata per ampliamenti successivi della struttura architettonica, la progressiva digitalizzazione della shopping experience, il programma loyalty e molteplici servizi dedicati come la consulenza d’immagine e molto altro. Strategie, queste, accompagnate da un costante percorso di crescita a tutela dell’ambiente e della comunità, attraverso investimenti a favore di energie rinnovabili, l’efficientamento dei consumi e tecnologie per ridurre l’impatto ambientale nonché l’utilizzo di materiali di riciclo. Grazie a queste misure, per esempio, il centro è in grado di produrre autonomamente, a impatto zero, il 98,91% dell’energia elettrica necessaria all’intera struttura e a evitare 1’348’138 kg di emissioni di CO2 all’anno.

Resale B2B?

Siamo

solo all'inizio

I provider, le competenze e le tecnologie per vendere l'usato del proprio brand non mancano. Si spera che nella moda premium e nel lusso ci sia un cambio di passo, approfittando del favore dei consumatori e dei legislatori

Èstato quasi per caso - e per l'intuito di un ceo - che una maison iconica come Balenciaga, a un certo punto della sua storia, ha deciso di gestire direttamente la rivendita di capi usati del suo marchio. La controllata del Gruppo Kering si è mossa già nel 2022, dando fiducia a Reflaunt, startup che ha fatto parte del programma di accelerazione La Maison des Startups (in capo a Lvmh) e che, attualmente, ha raggiunto i 10 milioni di euro circa di ricavi ed è quasi al break even. Intanto il Balenciaga Re-Sell Program ha raggiunto US, UK, Francia, Singapore e Italia e, al motto «Riduci, ricicla, rivendi», promuove online la vendita dell'usato, invitando i clienti a far parte della «rivoluzione della moda circolare». Reflaunt, che ha sede a Lisbona, è cresciuta così come la schiera di provider di soluzioni B2B per la vendita di moda second hand, che offrono formule innovative. «Lavoriamo con realtà tra cui Harvey Nichols UK, Chalhoub e, dallo scorso luglio, con Gilt, che vende online proposte off-price - dice la chief commercial officer Sofia Gazzotti -. Ci sta premiando la focalizzazione, fin da subito, sul lusso, oltre al fatto di esserci organizzati con le capacità necessarie per l’autenticazione e per l’applicazione del prezzo giusto di rivendita, grazie agli algoritmi», spiega la manager di Reflaunt. «Non creiamo solo siti di rivendita brandizzati - specifica -. Se alcuni marchi, come spesso accade, non vogliono essere coinvolti direttamente ce ne occupiamo noi, che si tratti del recupero dei prodotti

dal negozio o del ritiro a casa del cliente, del magazzino, della verifica dell’autenticità, delle foto o delle descrizioni per la messa in vendita. Mettiamo sul mercato l’articolo usato con account anonimo, in contemporanea sui maggiori marketplace». «Abbiamo le tecnologie - aggiunge Gazzotti - per permettere queste dinamiche su scala globale, mentre la maggior parte degli operatori del settore si focalizza solo su alcuni mercati». Reflaunt gestisce magazzini negli Usa, in Regno Unito, Europa (Polonia), Dubai, Riyhad, Singapore e Hong Kong. Su Net-a-porter, ad esempio, elenca 250 brand accettati. Per un confronto, Selfridges vende l’usato di 15 marchi e di sole borse, mentre LuisaViaRoma su Vestiaire Collective ha solamente 40 articoli». L’autenticazione è un servizio con un peso importante in termini di costi, ma viene ottimizzata grazie alle tecnologie e ai corposi cataloghi a disposizione, frutto di migliaia di dati processati negli anni. Meno del 5% dei capi che tratta Reflaunt, in realtà, risulta invendibile perché falso o in condizioni non idonee alla rivendita. «Nei pochi casi di fake, capita che il venditore non ne sia nemmeno consapevole - precisa la chief commercial officer -. Questo è legato al nostro modello: il cliente è registrato dal retailer e deve lasciare i propri dati: ciò responsabilizza e tiene lontani i truffatori di professione». A differenza degli operatori B2C, inoltre, la startup non ha spese di marketing per acquisire clienti (altra voce onerosa nel resell): «Vendiamo

«Le vendite di moda second hand non vanno viste come un fattore isolato ma come parte di una strategia di crescita»

Sofia Gazzotti, REFLAUNT

attraverso una rete di marketplace che, nel complesso, può contare su un numero stabile di shopper: più di 350 milioni in totale», precisa Gazzotti. Di certo c'è stato un cambio drastico, dall’avvio del business a oggi: «Nel 2019 era praticamente impossibile parlare con una maison di vendite di capi usati. Quasi per caso siamo partiti con Balenciaga, grazie alla lungimiranza del ceo del tempo (Cédric Charbit, ora al vertice di Saint Laurent, ndr), che ha intuito il potenziale del business ed è stato anche nostro angel investor. Ma è stata un’eccezione. Oggi il mercato del second hand sta crescendo tanto ed è impossibile ignorarlo, inoltre è favorito dal fatto che diversi modelli delle nuove collezioni si rifanno a quelli d’archivio». Tuttavia, i big del lusso sembrano muoversi con più cautela, rispetto a chi si colloca nella fascia sottostante. «Il problema non è tanto convincerli ma come fare il

resale al meglio, focalizzandosi sulla profittabilità - nota Gazzotti -. Questo è possibile se vedono le vendite di seconda mano non come fattore isolato, ma come parte di una strategia di crescita. Per esempio, al cliente che consegna un articolo usato viene spesso data una gift card e questo va a rafforzare la loyalty, creando valore. Un nostro case study fa emergere che il cliente, quando usa la card, spende quattro volte di più della somma indicata e le sue visite al sito di e-commerce del marchio accelerano di quattro-cinque volte».

I brand ottengono anche delle statistiche da tutte le piattaforme di rivendita che collaborano con Reflaunt, tra cui quelle sulle evoluzioni dei prezzi dei loro capi usati, come pure le fasce e le categorie che vanno per la maggiore, utili anche per lo sviluppo di strategie future. Da analisi interne risulta, per esempio, che meno del 2% degli utenti ritiene il prezzo non corretto. Inoltre emerge che, tra le proposte più difficili da vendere c'è tutto ciò che dipende molto dalla taglia o che ha un fitting complesso. L’abbigliamento maxi, ora di tendenza, crea meno problemi. Sulle possibili evoluzioni del resale B2B Gazzotti risponde così: «Nei prossimi anni vogliamo studiare come anticipare le dinamiche del resale nel funnel del cliente. Tra le ipotesi, quella di trasmettergli informazioni periodiche sull’evoluzione del prezzo di ciò che ha acquistato, così può capire quando è ottimale rivenderlo. Questo dovrebbe anche ridurre il fenomeno dei resi. Alcuni prodotti, tra l'altro, sono molto "liquidi" e si potrebbe ingaggiare il consumatore all’inizio dell’acquisto. In quest'ottica saranno favoriti i brand che investono nella durabilità».

«Nelle nostre stime, il 20% del mercato di un brand lo fa il business

Enrico Pietrelli. Dresso attinge al Crm delle aziende della moda: «Vediamo chi ha comprato online un articolo nei più recenti 24 mesi e gli chiediamo se vuole venderlo, inoltre mettiamo a disposizione della community del brand i resi in magazzino». «La nostra piattaforma è a rischio zero - tiene a precisare -. Tutto il generato è a favore del marchio. Variabile, invece, è il numero di offerte che procuriamo. Ogni cliente è libero di fare una proposta. L’ingaggio avviene in modo più performante rispetto alle vendite online tradizionali». Pietrelli spiega che, nel caso delle soluzioni tradizionali, il brand apre la piattaforma resale con prodotti restituiti dai clienti, il più delle volte in cambio di buoni. «Ma il gioco spesso non vale la candela, perché il capo reso deve essere lavato, stirato, immagazzinato, con investimenti onerosi e senza la certezza della vendita». Per quanto riguarda Dresso, l’11% delle

la quota di second hand sul totale degli acquisti di moda online nel 2024, stando a uno studio di Thred Up

Anche l’Italia ha qualcosa da dire in tema di fashion pre-loved (come spesso si preferisce definire l'usato tra addetti ai lavori). Dresso ha esordito con un modello B2C per la vendita di moda di seconda mano fornita dai negozianti, ma ora sta puntando sulle soluzioni B2B. «Generiamo un feed di prodotti che sono venduti sulla nostra app e i clienti possono fare un’offerta. Una giacca Monnalisa venduta a 200 euro da nuova si può trovare in offerta a 120-130 euro», esemplifica il ceo e co-fondatore 56 %

persone che entrano nella piattaforma fa un’offerta, perché ha già un interesse a comprare il prodotto. «Noi ci occupiamo di creare la domanda e ogni 100 offerte generate chiediamo un fee in più». I marchi possono vendere direttamente tramite la piattaforma resi, rimanenze di magazzino e capi di sfilata. «La transazione tra venditore e prenditore è nascosta - specifica il ceo -. Nella maggior parte dei casi però si tratta di resale». La realtà fiorentina si occupa anche dell’autenticazione: «Fin dalla partenza della nostra attività ci siamo preoccupati della tracciabilità, brevettando un sistema basato su blockchain e tag Rfid o Nfc. Ora siamo in trattative con un potenziale partner per la realizzazione di un passaporto digitale con le nostre soluzioni». Negli ultimi sei mesi del 2024 in azienda si sono occupati dell'adattamento del software base a più clienti e alla fine del 2025 prevedono di raggiungere i 250mila euro di fatturato, tre volte quello del 2024 (nel 2021 erano 10mila euro). Il break even è atteso per il 2027. Mentre scriviamo Dresso è in attesa di chiudere un round di finanziamenti (in precedenza è stata incubata da Invitalia e accelerata da Unicredit), che serviranno a sviluppare il commerciale, il prodotto e la gestione clienti. In più è in fase di definizione un accordo con una società di web service. «La maggiore difficoltà per noi - ammette Pietrelli - è arrivare ai clienti super-top, come le grandi maison italiane. Sono interessate e sanno che dovranno prima o

«Il second-hand sta diventando il nuovo discount. Presto rappresenterà una quota significativa dell'e-commerce»
Jocelyn

Kerbouc'h, Lucas Patricot, Aymeric Déchin, Nicolas Viant, FAUME

poi gestire il mercato del second hand. A nostro parere potrebbero arrivare anche al 10% del loro fatturato». Secondo il co-fondatore di Dresso, il più grande competitor di un brand è il brand stesso: «Nelle nostre analisi il 20% del mercato di un marchio lo fa il business dell’usato. Nei fatti le griffe non vogliono gestirlo allo scoperto, in modo evidente: non piace perché lo associano all’outlet. Preferiscono una piattaforma esterna ma esternalizzare non permette la scalabilità. Se un marchio gestisce il suo usato può vivere a lungo nella sua community. Inoltre, se affida la gestione a terzi, rischia di vedere i suoi capi svalutati» «Le nostre offerte - prosegue Pietrelli - prevedono uno sconto tra il 50% e il 70% del prezzo retail nuovo. A volte capita persino che le offerte sulla piattaforma siano a prezzi più alti dello stesso prodotto messo in saldo dal marchio: un paradosso ma succede» In Francia la moda premium e di lusso può gestire il proprio business dell'usato con Faume, innovativa piattaforma che in aprile ha raccolto 8 milioni di euro da parte del fondo Amundi Private Equity Transition Juste e dai suoi storici investitori, Daphni e Bpifrance, attraverso il fondo Digital Venture. «Forniamo una soluzione completamente integrata che comprende logistica, determinazione dei prezzi, tecnologia ed esperienza del clientespiega il co-fondatore Lucas Patricot -. A differenza dei marketplace, consentiamo ai marchi di mantenere il

controllo della loro immagine, dei dati e dei ricavi, costruendo al contempo un'attività sostenibile e redditizia». Anche in Faume, che è nata nel 2020, notano un progressivo cambio di atteggiamento da parte dei brand nei confronti del resale. «Sono passati dalla curiosità all'impegno - dice Patricot -. Dalla sperimentazione sono arrivati a vedere il second hand come un canale strategico, in risposta alle pressioni sul fronte normativo, alle crescenti richieste di sostenibilità e alle sfide inerenti la fidelizzazione dei clienti Sembra che la rivendita stia diventando un'arma di marketing più economica, per riattivare e acquisire clienti». Faume oggi lavora con oltre 40 marchi, tra cui Isabel Marant, Aigle, Balzac Paris, Ba&sh, Lacoste, Ami Paris e Sandro. Recentemente ha acquisito anche le sue prime label italiane (saranno annunciate a fine anno), e altre sono in di-

il valore in dollari del mercato mondiale della moda usata entro il 2029, come ipotizzato da Thred Up

scussione. «I marchi vedono nella rivendita un modo efficace per coinvolgere il pubblico più giovane, generare nuovi ricavi, ridurre l'impatto ambientale e differenziarsi attraverso l'innovazionespecifica il co-fondatore -. L'usato aiuta anche a riprendere il controllo di un mercato storicamente perso dalle piattaforme peer-to-peer». Quali sono oggi le maggiori difficoltà nello sviluppo di una piattaforma di moda di seconda mano? «Costruire un'esperienza scalabile e senza soluzione di continuità, che sia all'altezza della qualità del nuovo retail - risponde Patricot -. Questo include la logistica, l'autenticazione, la determinazione dei prezzi e l'integrazione, garantendo in parallelo la redditività dei marchi». Team interni e partner si occupano del controllo qualità e dell'autenticazione.Un processo, quest'ultimo, a cui il marchio ha accesso diretto. Quanto al pricing, Faume ha sviluppato un motore proprietario che utilizza milioni di data point, per ottimizzare dinamicamente i margini e le vendite. L'obiettivo è offrire il miglior assortimento sul sito web del brand, con la migliore qualità e il miglior prezzo. «Il second-hand sta diventando il nuovo discount - conclude Patricot -. Presto rappresenterà una quota significativa dell'e-commerce dei marchi della moda, trainato dalla domanda dei consumatori, dalle normative e dall'urgenza ambientale. Siamo solo all'inizio». ■

ELISABETTA FABBRI

lex & lux

specializzata in proprietà intellettuale, ha lavorato per anni nell’ufficio legale di Richemont e ci spiega perché lex e lux, legge e lusso, sono inseparabili

Lux (lusso) e Lex (legge) sono protagonisti di un dialogo immaginario sull'upcycling scritto da Olivia Dhordain. L'avvocata specializzata in proprietà intellettuale è l'autrice di una mini-sceneggiatura che, sul filo dell’ironia, si rivela molto utile per saperne di più su copyright, diritti esclusivi (vecchi e nuovi) e pubblico dominio. Nulla può essere dato per scontato.

Lux: Non sono contento... non sono di buon umore.

Lex: Mi dispiace. Cosa succede?

Lux: No! Io sono di ottimo umore, è il presidente di Hermès che non lo è. E la notizia è finita sui titoli dei giornali economici!

Lex: Qual è la causa? Troppi prodotti contraffatti? Troppi falsi?

Lux: Niente affatto. Troppi prodotti autentici in vendita e nessuna delle vendite porta denaro a Hermès.

Lex: Aahhh... il mercato secondario, giusto? È chiaramente in forte espansione e sta scuotendo le fondamenta del lusso tradizionale.

Lux: È quello che dice lui ed è per questo che sono venuto da te: puoi spiegarmi meglio?

Lex: Certamente. Quando il titolare di un marchio immette il suo articolo sul mercato, il suo controllo sul prodotto cessa: è il principio dell’esaurimento dei diritti di marchio. L’idea alla base è quella di garantire la libera circolazione delle merci e anche il fatto che il proprietario del prodotto non possa vedere il suo diritto di proprietà influenzato dal titolare del marchio.

Lux: Ha senso... più o meno. Quindi, una volta che il prodotto è sul mercato, possiamo farne ciò che vogliamo. Perfetto! Avevo un’idea per la mia prossima collezione. Dato che la sostenibilità è di gran moda, ho pensato di raccogliere vecchi abiti firmati e di assemblarli per creare i miei modelli. Una sorta di omaggio ai grandi nomi della moda.

Lex: Temo che ci sia un’eccezione...

Lux: Uff, c’è sempre un’eccezione.

Lex: Quello che descrivi si chiama upcycling e comporta una modifica del prodotto originale. Le leggi sull’esaurimento dei diritti consentono il ripristino dei diritti del proprietario del marchio se il prodotto è stato modificato o alterato.

Upcycling: una nuova frontiera per i designer, ma anche per gli avvocati

Trasformare vecchi prodotti in nuovi è un pilastro dell’economia circolare. Ma attenzione! Chi fa upcycling deve essere cauto, per non violare i diritti di proprietà intellettuale

Lux: Ma questo significa che l’upcycling è fuori discussione?

Lex: Onestamente, al momento è un obiettivo in evoluzione. Il fenomeno non è nuovo[1], ma i titolari dei brand stanno ora aprendo gli occhi e diventando più aggressivi perché si rendono conto che non scomparirà. Recentemente ci sono stati diversi casi, in particolare negli Stati Uniti, in Francia e in Svizzera. La Francia e gli Stati Uniti sembrano schierarsi dalla parte dei titolari dei marchi e hanno stabilito che una modifica del prodotto viola il diritto del titolare del brand, poiché il prodotto è ancora etichettato con il marchio e viene effettivamente rimesso sul mercato. Forse la sentenza svizzera è la più equilibrata. Come i giudici statunitensi e francesi, anche la Corte federale ha deciso che il fatto di acquistare un orologio, modificarlo e rimetterlo sul mercato costituisce una violazione dei diritti del proprietario del marchio. Tuttavia, sembra convalidare l’idea dell’upcycling come servizio.[2]

Lux: Cosa vuol dire in parole povere?

Lex: Se il cliente ha acquistato un orologio (o un articolo di moda) e desidera personalizzarlo, è una sua prerogativa. Pertanto, un’azienda che offre il servizio di personalizzazione dell’articolo originale su richiesta del cliente avrebbe il diritto di farlo. L’unica restrizione sarebbe quella di garantire che il "personalizzatore" si impegni a evitare qualsiasi falsa associazione o induca il cliente a pensare che sia sponsorizzato da un marchio in particolare. Lux: Mi hai appena dato un’idea. Lex: Hmmm?

Lux: Per la collezione non mi preoccupo, troverò altre ispirazioni. Ma immagina se offrissimo un servizio nuovo ed esclusivo ai nostri clienti. Hai comprato un vestito molti anni fa e non lo indossi da anni, ma il materiale è favoloso e ha il potenziale per essere rinnovato. Non si tratta di una semplice prova, bensì di offrire alla cliente un’esperienza unica. Mi siederò con lei, che mi racconterà del capo, cosa significa per lei, e io lavorerò con lei per ricreare il vestito con un nuovo design. Immagina! Sempre più celebrità indossano gli stessi abiti sul tappeto rosso, facendoli modificare o ridisegnare. Cate Blanchett lo ha fatto in diverse occasioni con i suoi abiti Armani[3]. Ma io sto parlando di qualcosa di completamente ridisegnato. «My luxury by Lux» potrebbe essere un’opzione... e poi potremmo comunicare le storie dei nostri clienti con titoli come «My Chanel by Lux» o «My Christian Dior by Lux». Lex: Senti, non posso dirti che sia completamente privo di rischi, dato che i tribunali sono ancora in fermento. Ma penso che sia un’ottima idea... sarebbe un peccato non provarci. Dovremo solo prendere alcune precauzioni con dichiarazioni di non responsabilità chiare in termini di approvazione da parte dei marchi degli articoli utilizzati e una perfetta trasparenza sull’origine dell’articolo e sulle modifiche apportate. C’è poi la questione della confusione postvendita che dobbiamo affrontare. Forse potresti cucire un’etichetta visibile o un ricamo con il logo del tuo servizio. Questo potrebbe effettivamente diventare un argomento di discussione, dato che tutti vorrebbero utilizzare questa possibilità. L’aspetto più rischioso del tuo progetto sarà legato al modo in cui ti riferisci ai marchi originali... ma stiamo entrando in un mondo in cui il rischio non può essere evitato.

Lux: Questa sfida del mercato circolare sta iniziando a piacermi. Ci sta davvero facendo pensare in modo diverso... Lex: Fuori dagli schemi, per così dire? ■

[1] https://www.voguebusiness.com/companies/customised-luxury-watches-upcycling-mad-paris-browns-alyx-casablanca [2] Articolo molto completo sui casi statunitensi: https://fashionlawjournal.com/trademark-hurdles-in-upcycling-legal-red-flags-in-green-solutions/ Decisione francese: https://www.thefashionlaw.com/ court-sides-with-rolex-in-skeleton-concept-case/ Decisione svizzera; https://www.lexology.com/library/detail.aspx?g=b0cd4122-4628-49ce-8ccf-adcf82060d7a [3] https://www.hellomagazine.com/fashion/852721/cate-blanchett-venice-film-festival-rewear-designer-gown/

Autenticità e trasparenza non sono parole vuote, ma una richiesta precisa del mercato

Mentre si discute ancora di prezzi, lotta per la marginalità, rapporto con i brand che deve essere collaborativo e non «dittatoriale», serpeggia la domanda «La moda è ancora di moda?». La risposta è sì, ma solo a certe condizioni

Cresce il numero dei retailer che partecipano al nostro sondaggio sulle vendite, in questo caso di moda donna della primavera-estate 2025. Siamo arrivati a 60, segno che c'è più che mai voglia di riflettere, esprimere il proprio parere ed esserci. Le vendite sono state stabili per quasi la metà degli intervistati e non va sottovalutato quel 23% che ha riportato una crescita. Ma non sfugge il fatto che circa un terzo del campione accusi un calo. Entrando nel dettaglio, quando si parla di crescita la maggior parte del campione la indica a cifra singola, mentre il calo è spesso a cifra doppia. Un

altro dato significativo riguarda le vendite online, che per il 30% non sono state soddisfacenti e per il 28% si sono rivelate stabili. Solo il 16% sta vivendo una fase positiva su questo canale. A tale proposito, fa pensare la scelta di Uberta Zambeletti, titolare di Wait and See a Milano, che celebra i 15 anni della sua insegna ed è protagonista di una delle interviste in queste pagine: «Ho deciso di chiudere il canale e-commerce - dice - perché non era più sostenibile. Se lo scenario cambierà, lo riattiverò». Una scelta isolata o la punta di un iceberg, visto che comunque nel nostro campione è tuttora del 26% la percentuale

L'area donna all'interno del concept store milanese 10 Corso Como

COSA HA VENDUTO DI PIÙ NELL’ABBIGLIAMENTO DONNA? * 26%

14%

ABITI ELEGANTI E CERIMONIA 12%

CARLA CEREDA

Head of Buying di Biffi Boutiques

%

9% TAILLEUR

9% CAMICIE

9%

ABITI SPORTIVI

4% GONNE

4% PANTALONI ELEGANTI

3% GIUBBOTTI

2% TRENCH

2% BEACHWEAR

* Risposte multiple

di chi investe solo ed esclusivamente sul fisico? La risposta per ora non c'è, ma il rallentamento di alcuni mercati esteri, che un tempo erano la mecca per la vendita online dei nostri retailer, ha innescato un meccanismo per cui l'invenduto ha dovuto confluire sui punti vendita fisici, che si sono trovati con più merce da smaltire. C'è poi l'annoso problema dei ribassi selvaggi via web, su cui torna per esempio Marco Inzerillo di Michele Inzerillo a Palermo: «La situazione - dice - è resa più complessa dal fatto che molti online store iniziano a scontare già da gennaio le collezioni della SS25, ben prima che nei

Il mercato è complesso: come lo state affrontando?

Cercando di valorizzare le radici e il dna, anche attraverso la multicanalità. L'attenzione e la vicinanza al cliente sono prioritarie per noi e ora ancora di più. Questo sia tramite la ricerca sul prodotto e sui brand, sia con iniziative come il pop-up "Voyage to Japan" nella boutique di corso Genova: un'installazione che ci ha permesso di condividere con i clienti la nostra passione per creatività e cultura giapponesi.

A proposito di corso Genova: negli anni Sessanta avete aperto in questa zona, un po' fuori dalle solite rotte della moda a Milano. Una scelta che vi ha ripagato?

Sì, ieri come oggi. È un punto vendita che rappresenta le nostre radici e ci fa piacere che intorno a questo negozio si sia sviluppata una community. La zona è ancora autentica: qui abitano milanesi doc e ci sono università, musei, tanti giovani, a un passo dai Navigli e dal centro. Un'area che, proprio per la sua autenticità, è particolarmente amata anche dalla clientela internazionale. Siamo in pieno work in progress per valorizzarne la milanesità: il progetto, ideato intorno al nostro dna, coinvolgerà le vetrine e si aprirà al lifestyle, con nuovi oggetti e proposte. Come detto, si "rifletterà" nella città di Milano. Il tutto in un ampio contesto narrativo.

negozi fisici si entri realmente nella stagione. Uno squilibrio che mina non solo la marginalità dei retailer, ma mette anche in discussione il senso stesso della stagionalità e del valore percepito di un brand». La parola "valore" è ricorsa spesso negli ultimi tempi, anche alla luce delle recenti indagini sui subfornitori di Loro Piana, che hanno avuto una fortissima eco mediatica anche perché non si trattava del primo caso nel mondo del lusso. «Attraversiamo un momento delicato e fragile - osserva Ludovica Giordano di Giordano Boutique a Pompei - continuamente scosso dagli scandali e

Due anni fa c'è stato il restyling a Bergamo: come è stato accolto? Molto bene. Gli spazi sono diventati ancora più accoglienti, garantendo la giusta visibilità alla nostra selezione. Intanto Banner è chiuso per lavori... Con un importante studio di ingegneria è in atto un piano di ampliamento per valorizzare questo immobile, progettato da Gae Aulenti. Stimiamo di completare il progetto entro la metà del 2026. Cosa si aspetta dalla fashion week? Novità non urlate, lasciando che le nuove direzioni creative prendano forma. Bisogna che i marchi ritrovino la libertà di pensiero, magari con meno pressione da parte della finanza.

Biffi Boutiques - Bergamo
Nugnes - Trani (Bt)

dalla questione prezzi». Secondo la retailer campana, «il consumatore finale finisce per percepire poca trasparenza, mancanza di valori aziendali e di professionalità da parte di alcune aziende, alimentando una sensazione di incertezza e confusione». «Sicuramente c'è bisogno di un maggiore controllo della supply chain - afferma Gino Cuccuini di Cuccuini -. Ciò detto, in questo periodo va di moda la lotta al lusso. Mi vengono in mente, per esempio, il blitz di Ultima Generazione nel ristorante di Carlo Cracco a Milano oppure le Tesla bruciate. Questo non è certo d'aiuto, anche se noto che si tratta di scandali che hanno una maggiore eco tra la clientela italiana rispetto a quella estera». Sul primo numero di Fashion Insight, il nostro speciale in formato digitale sfogliabile su fashionmagazine.it, Giuseppe Nugnes di Nugnes a Trani osserva che, in fin dei conti, «non è il prezzo in sé l'elemento centrale ma il valore percepito del brand e, per quanto rìguarda la boutique (Nugnes tra l'altro ha appena acquisito la storica insegna barese Mimma Ninni, ndr), la sua capacità di porsi come luogo che evoca emozioni». Sull'argomento parla di nuovo Cuccuini: «Le grandi griffe corteggiano i clienti altospendenti cocco-

COSA CERCA LA DONNA?

20%

PIÙ CHE IL BRAND, IL PRODOTTO

18%

MARCHI DI NICCHIA

18%

MARCHI EMERGENTI E NUOVI

15%

MADE IN ITALY

12%

GRIFFE FAMOSE

8%

GRIFFE MENO FAMOSE

5%

PRIVATE LABEL DEL NEGOZIO

4%

MARCHI AZIENDALI

QUAL È IL SUO STILE PREFERITO? 46%

COME SONO ANDATI I SALDI DONNA?

58% STABILI

23% MALE

12% BENE

7% NON FACCIAMO SALDI

QUANTO AVETE SCONTATO NELLA DONNA?

landoli in ogni modo e coinvolgendoli in experience "uniche", ma può accadere che questi stessi clienti cerchino qualcosa di diverso, che li incuriosisca. È successo a noi con un evento organizzato dal brand made in Italy Federica Tosi, che ha registrato un successo oltre le aspettative. In sintesi, noi dettaglianti ci stiamo liberando dal ruolo di "porgitori" dei brand e, seppure in una fase non facile, torniamo anche a divertirci». Ad attrarre la consumatrice, come si evince dal sondaggio, è soprattutto il prodotto più del mar-

chio. Ma dalla Buyers' Survey emerge anche che è il marchio stesso che, nel caso delle griffe, risulta trainante, al di là delle nuove direzioni creative Non è una contraddizione. «Semplicemente cresce l'attenzione verso ciò che il prodotto rappresenta - precisa Nugnes -. Il cliente premia la riconoscibilità stilistica, la qualità concreta e una cultura autentica». Da non sottovalutare il fatto che dal sondaggio emerge una percentuale relativamente alta di retailer che alla domanda «Cosa cerca la donna?» risponde «Marchi

Clan Upstairs - Milano
Vela Shop - Cagliari
Tiziana Fausti - Bergamo

di nicchia» o «Emergenti». «Noi ci crediamo da sempre», spiega Luca Lazzaro di Civiconove a Milano, citando fra gli altri i brand etici e sostenibili Rita Row e Bottega Chilometri Zero. Un modo per risvegliare l'attenzione di una cliente che Simona Pessina di Laura Pessina descrive come «disaffezionata alla moda, a causa della sovraesposizione del prodotto, che toglie esclusività» e che per un portavoce di Olivari Moda «non è fidelizzabile, perché ha troppi input e frammenta gli acquisti in più realtà e target diversi». Fra le criticità più sentite, in generale, la perdita del segmento medio («Con i prezzi alti si avvicinano al negozio solo i top spender») e, nel “back office", temi caldi come i pagamenti troppo anticipati e le garanzie troppo rigide richiesti dai brand («Non siamo le loro banche»). Anche alla luce dell'annoso problema dei saldi in anticipo sulle piattaforme dei marchi, Didi Corbetta di Valtellini non ha dubbi su come agire: «Premieremo le aziende che non diventano nostre competitor. E davanti alle 1.000 proposte per nuovi inserimenti valuteremo solo chi segue una linea rispettosa verso di noi». ■

ALESSANDRA BIGOTTA

Wait and See - Milano

UN PARERE SUL TURNOVER DI DIRETTORI CREATIVI…

47%

L’IMPORTANTE È IL MARCHIO IN SÉ

37%

DISORIENTERÀ LA CLIENTELA

16%

PORTERÀ NUOVA LINFA

QUAL È STATO IL MARCHIO BEST SELLER DELLA SS25?

ZIMMERMANN, MM6 MAISON MARGIELA, ELISABETTA FRANCHI 1 2 3 4

MAX MARA

TAGLIATORE, RALPH LAUREN

MIU MIU, BRUNELLO CUCINELLI, MISSONI

UBERTA ZAMBELETTI

Titolare di Wait and See a Milano

Wait and See celebra i primi 15 anni: come è nato?

Volevo uno spazio pieno di gioia e colore. Ragioni che valgono ancora oggi, con nuove sfide e progetti. Come festeggerete?

«Con una collaborazione con A.N.G.E.L.O. dedicata a Romeo Gigli: 90 gilet unisex e 80 paia di scarpe anni ’80 e ’90, mai indossati. Per me questo ha anche un valore affettivo: mi sono innamorata della moda grazie a un cappotto di Gigli.

Il negozio è stato rinnovato…

Per la prima volta ho fatto un restyling con Microstudio. Abbiamo rivestito i camerini di moquette, realizzato un’opera site-specific con Marta Biazi e Paolo Proserpio e introdotto un pavimento in resina con coriandoli inglobati. Il tutto in coerenza con la nostra identità.

E l’offerta?

Compro solo ciò che può piacere e servire alle clienti. Così abbiamo un sell-through medio dell’85-90%. Lavoriamo con 90-100 marchi (60% italiani), con prezzi tra i 200 e i 700 euro.

Le Cinque Vie, dove si trova il negozio, sono molto cambiate… Quando aprii dicevano fossi pazza. Oggi questo è un polo creativo e Wait and See ne è stato tra i pionieri. Progetti futuri?

Amplieremo l’offerta uomo, magari già dalla prossima Men’s Fashion Week. Mi piacerebbe anche aprire a Parigi, Londra o Madrid. Intanto cresce Wait for See, la linea interna, già tra i brand più venduti.

...E IL MARCHIO CHE HA VENDUTO MEGLIO ONLINE?

Per quale ragione avete chiuso l’e-commerce?

GOLDEN GOOSE 1 2 3

MC2 SAINT BARTH

SAINT LAURENT

Non era più sostenibile. Lo store fisico cresce da 15 anni ed è la nostra forza. Abbiamo spento l’online, partendo da una posizione solida: se lo scenario cambierà, potremo riattivarlo.

Come vede oggi la moda?

Troppa offerta e prezzi eccessivi. Ma cresce il bisogno di autenticità. Wait and See vuole restare un’esperienza di gioia, colore e inclusione. (an.bi.)

Michele Inzerillo - Palermo

Agnetti Macerata

Andriani Taranto

Anna Matera

Bell Fioro Milano

Bernardelli Mantova

Biffi Boutiques Milano, Bergamo

Bonvicini Fashion Gallery & Stores

Montecatini Terme (Pt)

Chirico Messina

Civiconove Milano

Clan Upstairs - Milano

Colognese 1882 - Montebelluna (Tv)

Cortecci Siena

Creative 99 Altopascio (Lu)

Csei Fluid Corner Soave (Vr)

Cuccuini Livorno, Forte dei Marmi (Lu), Massa Carrara, Punta Ala (Gr), Porto Cervo (Ss), Madrid

Deflorio dal 1948 Noicattaro (Ba)

Delpinto L’Aquila

10 Corso Como Milano

Ditta Guenzati Milano

COM’È IL VOSTRO BUDGET PER IL WOMENSWEAR SS26?

57% STABILE

32% IN CALO 11% IN CRESCITA

Ringraziamo per la collaborazione

Divo Boutique Santa Maria a Monte (Pi) e Pontedera (Pi)

Donne Vincenti Alba (Cn)

Eraldo Ceggia (Ve), Jesolo (Ve)

Felloni Donna Ferrara

Fiacchini Forte dei Marmi (Lu), Viareggio (Lu) e Portovenere (Sp)

Filippo Marchesani Cupello (Ch)

Freeport Clusone (Bg)

Galiano Napoli

Gaudenzi Boutique Riccione (Rn), Cattolica (Rn), Ravenna

Ghelfi Boutique Brescia

Giglio Palermo

Gino Baudino Torino

Giordano Boutique Pompei (Na)

I Love Josephine Varazze (Sv)

Incontri Milano

Isoardi Cuneo

La Boutique di Adani Modena

Laura Pessina Monza

La Volpe Rossa Ponte a Egola (Pi)

Leam Roma

Marcos - Mondovì (Cn)

Limon Concept Store Bergamo

L’Incontro Modena

Mantovani San Giovanni Valdarno (Ar), Castiglione della Pescaia (Gr), Greve in Chianti (Fi)

Marcos Mondovì (Cn)

Marinotti Cortina d’Ampezzo (Bn)

Michele Inzerillo Palermo

Mode Mignon Lucca

Moras Boutique Intimiano (Co)

Noha Brindisi

Nugnes Trani (Bt)

Olivari Moda Bagnolo Mella (Bs)

Papillon Corigliano Calabro (Cs)

Progetto Moda Tavagnacco (Ud)

Sacchi 1958 Firenze

Tiziana Fausti Bergamo

13metriquadri Bellaria-Igea Marina (Rn)

Tufano Moda Pompei (Na) e Scafati (Sa)

Universal Shop Martinsicuro (Te)

Valtellini Rovato in Franciacorta (Bs)

Vitale Boutique Crotone (Kr)

Vela Shop Cagliari e Sassari

Agnetti - Macerata
Valtellini - Rovato in Franciacorta (Bs)
Laura Pessina - Monza
Moras - Intimiano (Co)

L’arte di agganciare il cliente

Gli investimenti delle aziende spaziano

dal prodotto al marketing, dall’esperienza d’acquisto ai servizi post vendita. Con il consumatore al

centro

DI ELISABETTA FABBRI

Lusso: i fattori che influenzano le scelte d’acquisto

Tagliatore

Itessuti

Qualitàdei

SostenibilitàPersonalizzazione

Prezzo Perfetta vestibilità Craftsmanship Endorsementdi celebrity einfluencer

Valorenellungopotenzialeperiodo(es.resale) Assenzadilogo Heritagedel marchio Presenzadellogo Esclusivitào rarità Innovazione (materiali, design) Produzione locale

Abbiamo chiesto a imprenditori italiani di noti marchi della moda e degli accessori come si stanno muovendo per letteralmente “agganciare” il consumatore, in un momento di mercato interlocutorio e che - a sentire alcuni addetti ai lavori - soffre anche di un eccesso di offerta e di una scarsa differenziazione. Come vi muovete sul fronte dell’innovazione di prodotto? Quali strategie commerciali e di marketing state adottando? Mentre si parla di prezzi alle stelle, state inserendo prodotti entry price? State ampliando i target di riferimento o pensate

di razionalizzare l’offerta? Sono alcune delle domande rivolte per indagare sulle loro strategie, che si sono rivelate molto diversificate. In più abbiamo interpellato una nota società della consulenza strategica globale, che ci ha elencato quattro mosse chiave, mentre sembra opportuno non solo fidelizzare, ma anche ricucire la fiducia, nel caso del lusso, di un cliente che fa sempre più fatica a percepire il valore di ciò che acquista. Ecco la prima dell’elenco: focalizzarsi su creatività distintiva e qualità del prodotto, unita all’artigianalità. Rigorosamente made in Italy. ■

l consumatore cerca in noi un’estetica sartoriale evoluta, grazie alla nostra visione contemporanea e noi restiamo fedeli a ciò che proponiamo. La showroom di Milano rimane l’epicentro dell’attività ed è anche in quest’ottica che è stata ampliata, includendo la collezione donna. In un mercato sempre più complesso e in evoluzione, puntiamo inoltre su una comunicazione coerente con la nostra identità. Gli investimenti in advertising, su magazine e out-of-home, ci permettono di presidiare i touch point strategici per il target Tagliatore, mantenendo alta la riconoscibilità. Al tempo stesso rafforziamo la narrazione attraverso contenuti che valorizzano l’autenticità, la qualità dei materiali e il savoir-faire sartoriale, con l’obiettivo di creare un legame più empatico e diretto con il consumatore. Non abbiamo previsto di inserire proposte entry price, perché la nostra attenzione è rivolta a mantenere una coerenza con l’identità del brand, fondata sulla qualità delle materie prime, sulle lavorazioni particolari e su un posizionamento ben definito. Sul fronte dell’offerta c’è stato un rafforzamento: la collezione donna FW 25-26 ha ampliato la proposta di pantaloni e incluso gonne, maglieria, camicie, nonché piccoli accessori come cinture e foulard. Per andare in sintonia con i buyer lavoriamo a pre-collezioni che consegniamo con largo anticipo, specie nelle località turistiche. Già in luglio abbiamo consegnato circa l’80% delle collezioni e molti clienti stanno richiedendo riassortimenti in stagione: un servizio che ci rende particolarmente competitivi. Offriamo un supporto continuo anche dopo la consegna, con soluzioni flessibili che permettono di ottimizzare l’assortimento in funzione delle performance di vendita. In più, non avendo un canale di vendita online diretto, non entriamo in concorrenza con i dettaglianti durante il periodo dei saldi, lasciando piena libertà di massimizzare il loro business. ■

Fonte: EY Parthenon, Luxury Client Index

Da sempre la filosofia della nostra azienda pone il cliente al centro di ogni decisione e strategia. Una shopping experience sempre più appagante è uno dei main asset sul fronte commerciale. Questo si riflette sia a livello retail, nelle nostre boutique, dove la personalizzazione passa attraverso il momento dell’acquisto con un’estrema versatilità, ma anche nel post-vendita, grazie al confronto con il servizio clienti e il supporto logistico che, con l’innovazione dei processi, rende le interazioni più semplici, veloci e coerenti. A proposito di e-commerce, abbiamo recentemente investito in un polo logistico negli Usa - uno dei nostri mercati più importanti - per ottimizzare il customer journey. Per quanto riguarda il canale wholesale, da sempre siamo estremamente flessibili e attenti alle esigenze dei vari mercati con capsule dedicate, cambio merce, consegne anticipate e riassortimenti rapidissimi. Iniziative che ci hanno sempre premiati e che ci stanno aiutando in questa fase di mercato challenging. Nel marketing stiamo investendo in una narrazione più coinvolgente, promuovendo la nostra forte identità per renderla sempre più riconoscibile, anche grazie ad ambassador trasversali e vicini al consumatore. A livello di sviluppo prodotto, che resta orgogliosamente Made in Italy e sostenibile, riusciamo ad offrire un ottimo rapporto qualità/ prezzo. L’offerta è più ampia e segmentata, grazie all’inserimento di nuovi tessuti e categorie di prodotto. La nostra proposta è comunque trasversale e permette di agganciare un target differente mentre le performance che garantiscono certi tessuti (come il nostro jersey iconico) permettono molteplici utilizzi (il classico desk to dinner) e un’estrema semplicità nel ricondizionamento, un valore aggiunto per il consumatore moderno. ■

Co-titolare

Per mantenere alta l’attenzione del consumatore, ci stiamo muovendo su più fronti. A livello di prodotto abbiamo ampliato e diversificato le nostre collezioni, puntando su capispalla versatili, sostenibili e dal design distintivo, che rispondono alle esigenze di un consumatore sempre più attento alla qualità, all’etica e alla funzionalità. La ricerca di tessuti innovativi e i dettagli curati ci consentono di coniugare al meglio stile e comfort. Inoltre, la collezione è di default molto articolata, in termini di fasce di prezzo: dalle pellicce ecologiche, dal costo contenuto, fino ai nostri esclusivi piumini, cappotti e montoni di lusso. Dal lato dei servizi stiamo valutando nuove modalità, con l’obiettivo di costruire relazioni di lungo periodo con il consumatore, basate sulla fiducia e sulla personalizzazione. Ciò include iniziative di customer care e assistenza post-vendita. Sul fronte marketing e commerciale, crediamo che non basti offrire un prodotto d’eccellenza, ma sia fondamentale comunicarne il valore. Per questo negli ultimi anni abbiamo diversificato: oltre ai canali tradizionali, stiamo investendo in nuovi mezzi, come la comunicazione negli aeroporti e la collaborazione con influencer. Anche il nostro e-commerce sta diventando un veicolo sempre più rilevante, dove raccontare direttamente il brand e da cui raggiungere in maniera più efficace i mercati in cui operiamo. Parte integrante della strategia è anche andare incontro ai buyer, che consideriamo il nostro “tesoro” In tal senso, sollecitiamo i negozianti a utilizzare il cambio merce, fondamentale, per mantenere viva l’offerta in negozio. Da alcuni anni abbiamo deciso di programmare quattro uscite l’anno, per garantire consegne anticipate: più rapidamente la merce arriva nei negozi, più rapidamente si vende. Inoltre aggiorniamo costantemente le disponibilità di magazzino, in modo da rispondere con rapidità alle richieste dei buyer. ■

Paolo Xoccato

Amministratore delegato

Xacus

Una leva strategica per Xacus è da sempre il servizio: permette di rafforzare il legame con i nostri partner storici e, allo stesso tempo, di entrare nei negozi che ci piacciono davvero, quelli capaci di valorizzare il prodotto e offrire un’esperienza di qualità al cliente finale. Di recente abbiamo potenziato il progetto del “su misura”, rendendolo più veloce e flessibile. Oggi consegniamo una camicia personalizzata in 8-10 giorni, sia attraverso il canale online che nei multimarca: non più solo camicie in cotone e lino, ma anche quelle in jersey e tessuti tecnici. Parallelamente continuiamo a investire sui riassortimenti, che restano un asset fondamentale per noi. In 24 ore riusciamo a consegnare capi aggiornati in numero e varianti, aiutando i negozi a lavorare meglio, con meno stock e più rotazione. Il servizio non è un’aggiunta, ma il nostro modo di fare impresa: concreto, su misura e pensato per crescere insieme ai partner giusti. Sul fronte prodotto ci stiamo orientando alla circolarità con collaborazioni come quella con Alisea, da cui è nata una capsule realizzata con la tecnologia G-Pwdr, che utilizza polvere di grafite rigenerata da scarti industriali, per tingere capi in cotone e lino, consumando meno acqua ed energia. Non si tratta di un’operazione spot, ma di un progetto di lungo termine: stiamo già lavorando alla prossima collezione invernale e abbiamo in cantiere altre iniziative. È una collaborazione vera, profonda, che unisce la nostra artigianalità a una tecnologia sostenibile di grande impatto. I benefici non sono solo ambientali: i capi tinti con questa tecnica acquisiscono proprietà funzionali come la protezione dai raggi UV e una maggiore capacità di disperdere il calore. ■

Vera Drossopulo Bogdano e Antonello Benati

Fondatori

Manebì

Manebí è nata con un prodotto iconico - le espadrillas - e il nostro obiettivo rimane creare pezzi capaci di diventare rilevanti e memorabili. Ogni modello nasce con con la volontà di renderlo un capo importante nel guardaroba. La qualità è imprescindibile, ottenuta con materiali selezionati e manifatture d’eccellenza. Sul fronte commerciale, pur essendo digital native, consideriamo il wholesale un pilastro. Con la showroom Massimo Bonini abbiamo costruito una distribuzione selettiva e di alto livello, che rafforza il posizionamento internazionale. Boutique in location iconiche come Portofino, Saint-Tropez e Capri consolidano la percezione di esclusività. Ai nostri clienti offriamo una customer care attenta, spedizioni rapide ed esperienze digitali fluide. Ogni touchpoint trasmette qualità e attenzione. Il Crm risulta centrale: coltiviamo relazioni personalizzate online e in store, attraverso esperienze dedicate e comunicazioni su misura, puntando alla fidelizzazione. Inoltre lavoriamo su uno storytelling autentico e aspirazionale, con focus sull’artigianalità e i momenti d’uso. Le campagne uniscono collaborazioni con talent e designer (come Alex Rivière e Luca Rubinacci) a contenuti editoriali di rilievo. Non puntiamo sull’entry price come leva strategica, ma costruiamo valore attraverso qualità e desiderabilità. Le espadrillas restano un entry point naturale, accessibile e coerente con il brand. Inoltre non ridimensioniamo né segmentiamo per target diversi. Partiamo da un concetto chiaro di consumatore: il moderno viaggiatore globale, che insegue il sole tutto l’anno, come racconta il nostro claim “For those chasing the sun all year round”. Lavoriamo per mantenere l’offerta coerente e riconoscibile, con capsule che rispondono a diversi momenti d’uso, dal dailywear agli eventi estivi. Con i retailer adottiamo un approccio di partnership fatto di riassortimenti rapidi, consegne anticipate e product swap, per affrontare la stagionalità insieme. ■

Angelica Fagioli

Brand director

Sebastian Milano

In Sebastian Milano lavoriamo principalmente su due fronti: prodotto e comunicazione. In merito al primo, il nostro team di design investe nella ricerca di materiali innovativi, sempre italiani e lavorati nella nostra fabbrica di Parma. Ogni collezione nasce da numerosi test per garantire qualità e coerenza con la nostra tradizione. Nel marketing puntiamo sull’immagine e sul racconto del brand: shooting costanti e differenziati mostrano il prodotto indossato e ne valorizzano lo stile. Con il supporto dell’ufficio stampa presidiamo tutti i canali, dai social agli influencer fino a LinkedIn, creando contenuti che raccontano artigianalità, italianità e la nostra idea di made in Italy. Abbiamo inoltre una visione chiara del nostro target: facciamo scarpe femminili per tutti, affinché chi le indossa possa sentirsi libero, elegante e raffinato. Tra le nostre strategie c’è anche quella di introdurre proposte entry price, senza però rinunciare alla qualità La decisione di lasciare i canali retail fisici e di concentrarci sul nostro e-commerce ci permette di offrire lo stesso prodotto - interamente fatto in Italia - a prezzi più competitivi. La produzione rimane interna, con fornitori italiani, per garantire un lusso accessibile senza alterare sostanza e identità. Non pensiamo di ridimensionare l’offerta, ma di renderla più diretta, valorizzando il legame con il consumatore. Internalizzando i processi rinunciamo al contatto tradizionale con il buyer, ma rafforziamo la relazione con chi sceglie le nostre scarpe. ■

Partner e Director Fashion & Luxury & Beauty

EY Parthenon Italia

Il 2025 è sicuramente un anno con trimestri in chiaroscuro, una domanda polarizzata, un turismo che vacilla tra valute e geografie e prezzi che non possono più salire all’infinito senza un chiaro valore percepito. In questo contesto, fidelizzare il cliente significa investire per ricucire la fiducia con la base larga della piramide del lusso: i clienti aspirazionali. Come emerge nell’EY Luxury Client Index, nel corso dell’anno un terzo dei consumatori ha rinunciato a un acquisto pianificato di moda di lusso. In Italia va un po’ meglio, con circa un consumatore su cinque che ha rinunciato, a causa del prezzo elevato. Quindi nel nostro Paese il prezzo non è più l’ostacolo primario alle intenzioni di acquisto. Tuttavia, il rapporto di fiducia tra cliente dell’alto di gamma e marchio è diventato più fragile negli ultimi 24 mesi. Per ricostruirlo bisogna puntare su quattro leve chiave. Una è la creatività distintiva unita alla qualità del prodotto, che significano coerenza con l’heritage e interpretazione del suo dna al passo con i tempi, ma anche eccellenza a livello di manifattura e materie prime, rigorosamente made in Italy. Quest’ultimo è un elemento fondamentale per salvaguardare e alimentare desiderabilità, pricing power e margini. Qualità dei materiali, artigianalità e creatività risultano anche tra i principali fattori che influenzano le scelte di acquisto, stando all’EY Luxury Client Index. Un’altra leva è l’omnicanalità senza attriti, attraverso tutti i touch point, ma con il negozio come hub esperienziale e di servizio. Seguono la personalizzazione 1:1 ed esperienze memorabili che, con l’aiuto della Gen AI, sono potenti driver per aumentare il life time value e consolidare la relazione di lungo periodo con il cliente. Quarta leva, i servizi circolari e la sostenibilità (repair, resale, rental selettivo), per parlare alle nuove generazioni e ai clienti del lusso il cui potere d’acquisto è stato eroso. Oltretutto la sostenibilità sta diventando sempre più importante per i clienti italiani del fashion luxury ■

IL NUOVO VOLTO DI TUTTIFRUTTI INTERNATIONAL

Radicata nel valore della relazione, l’attività della fashion agency milanese attraversa una fase evolutiva, grazie a una fisionomia ridisegnata all’insegna del multiculturalismo e della digitalizzazione.

Mettere in connessione brand e clienti in modo diretto, allontanando l’idea tradizionale di showroom: questo fin dagli esordi – nel 2004 – l’obiettivo di Tuttifrutti

International, fashion agency specializzata nella distribuzione di marchi italiani e americani di fascia lusso all’interno del mercato dell’Europa centro-orientale.

Con sede a Palazzo Serbelloni, in corso Venezia a Milano, l’agenzia – che oggi gestisce un paniere di circa trenta griffe, potendo contare su una clientela che si estende in otto diversi Paesi – ha raggiunto il termine di un percorso evolutivo per ridefinire la propria identità. Una fase fatta di innovazione, crescita e consolidamento in cui il ruolo di ponte tra i brand rappresentati e i mercati emergenti dell’eastern Europe è assicurato da una fisionomia più digitale, internazionale, strategica di Tuttifrutti International, che continua a fondarsi sulla relazione umana come presupposto imprescindibile.

«Dopo il successo iniziale nel mercato polacco – racconta Stefano Tiso

www.tuttifruttiinternational.com

– le aziende stesse ci hanno chiesto di operare anche in altri territori, che oggi gestiamo ciascuno con un area manager dedicato». Proprio le persone che compongono lo staff costituiscono il punto di forza principale di un team che può a tutti gli effetti dirsi multiculturale, unendo professionalità di madrelingua polacca, bulgara, slo-

vena e italiana in grado di interpretare le sensibilità dei diversi mercati di riferimento.

Culture, competenze e prospettive differenti: da questo insieme, origina il valore che l’agenzia milanese mette a disposizione dei brand e dei retailer con i quali collabora, grazie a un approccio che punta ad andare oltre la semplice strategia commerciale. Insieme alla facilitazione dell’aspetto distributivo, è una visione strategica basata sulla capacità di costruire relazioni durature al centro dell’offerta di servizio. «Da sempre – prosegue Stefano Tiso – ci caratterizzano relazioni all’insegna della trasparenza con i nostri clienti, a cui proponiamo, senza peraltro spingere, marchi frutto di minuziose analisi di mercato, con sicure potenzialità; clienti che accompagniamo durante l’intero percorso, dal buying al post vendita». Se, come affermava Darwin, la specie che sopravvive è quella che più si adatta al cambiamento, è facile intuire come la flessibilità sia la prima qualità per restare al passo con un mercato in costante e veloce mutazione.

NUOVI EQUILIBRI

Le immagini nelle pagine seguenti sono la conferma di quanto, già a luglio, prospettavamo all’interno della nostra nuova pubblicazione digitale Fashion Insight, sfogliabile su fashionmagazine.it: la moda dice bye bye allo stile studentessa e vira verso un’immagine più matura e consapevole. E, come anticipato da Livetrend tramite l’AI, si lascia conquistare da cromatismi «tattili e poetici», riscoprendo il piacere delle stampe.

La giacca femminile vista non come uniforme costrittiva, ma come emblema di indipendenza; il pantalone ampio e morbido; il colore studiato nelle minime sfumature. In questo insieme di Giorgio Armani, presentato alla sfilata di giugno cui il grande designer scomparso non aveva presenziato, i fondamentali di uno stile apparentemente spontaneo, in realtà frutto di una meticolosa ricerca su ogni singolo dettaglio

A CURA DI ALESSANDRA BIGOTTA

Il capospalla Essenzialità contemporanea

GENNARO DARGENIO

CEO E FOUNDER

CIRCOLO 1901

«La Easy Jacket: una piccola rivoluzione nel 2008, oggi più attuale che mai»

Correva il 2008, il mondo era in subbuglio per la crisi globale ma Gennaro Dargenio, allora 38enne, anziché farsi prendere dal panico decise che era il momento di investire. Nasceva così, dalla sua esperienza maturata nel tessile da quando aveva appena 17 anni, il marchio Circolo 1901, con al centro un capo distintivo: la “Easy Jacket”. Ma cosa aveva e ha di così particolare questa giacca, che ancora oggi rappresenta il fulcro della collezione? «Il fatto di utilizzare per un capo dal taglio classico e formale, quale è la giacca, un materiale inusuale come il jersey, sdoganando in questo ambito concetti come lo stretch, che veniva considerato quasi una “bestemmia” dagli addetti ai lavori - risponde Dargenio -. Ho voluto fondere il modello e il taglio ripresi dal mondo classico con la comodità e la performance tipiche dello streetwear». Il momento, seppur difficile, era quello giusto: «Iniziava a imporsi l’esigenza di uno stile di vita in movimento e di una comodità senza compromessi», sottolinea Dargenio, che ha ideato il nome Circolo 1901 pensando a un concept inclusivo, destinato a persone libere di interpretare attraverso l’abbigliamento uno stile di vita: «A noi piace definirle “Proudly People”». Una community ante litteram «di cui possono fare parte i Millennial come i Boomer, purché vogliano dimostrare la propria attitude in modo originale e non convenzionale. Credo che Circolo non sia mai stata più attuale di quanto lo sia ora: oggi la gente vuole qualità, personalità, comfort, durevolezza e stile, tutti insieme».

Dalla giacca la collezione si è estesa, diventando un total look con circa 120 pezzi per l’uomo e circa 140 per la donna, in una fascia prezzi dai 400 ai 600 euro. A giugno il brand, presente in 1.200 multimarca in oltre 25 Paesi con una quota export del 51% dei ricavi, ha aperto una showroom direzionale a Milano, in viale Cassala 25. Non un ambiente asettico, ma una vecchia officina Moto Guzzi ristrutturata, di gusto vintage rivisitato, dove presentare le proposte del brand, ma anche organizzare eventi culturali, proprio come in un Circolo: «Per l’inaugurazione - ricorda Dargenio - abbiamo ospitato il pianista Charlemagne Palestine, che ha utilizzato uno strumento musicale tradizionale per creare una musica contemporanea...un po’ come abbiamo fatto noi con Circolo 1901». ■

TAGLIATORE
L.B.M. 1911
CIRCOLO 1901
DIEGO M
MALLONI
PARAJUMPERS
LARDINI
SOLOTRE BLAUER

L’abito Eclettismo da mattina a sera

PATRIZIA BOSCHERINI

DIRETTRICE CREATIVA

DOUUOD

«Piacciono i modelli esenti da formalismi»

L’abito, uno dei capisaldi della moda donna: quali i best seller tra le proposte Douuod? I modelli più apprezzati sono stati quelli dalle linee morbide, con volumi ariosi e realizzati in tessuti naturali, in particolare cotone e lino. Arretra tutto ciò che è troppo rigido o formale.

Qual è il bilancio della SS25?

Abbiamo ottenuto performance stabili, seppure in un contesto complesso, e alcuni mercati sono cresciuti. Siamo consapevoli che la consumatrice oggi è ancora più selettiva e investe in capi durevoli, destinati a più momenti della giornata. Come andate incontro alle sue esigenze, anche con la collezione SS26?

Prestiamo attenzione ai dettagli, ai volumi confortevoli e ai tessuti leggeri, naturali e che fanno stare bene. Tra i nuovi abiti, in particolare, spiccano gli chemisier destrutturati, le tuniche in cotone leggero e i modelli in taffetà madras.

Non è un momento facile per le griffe: questo vi può avvantaggiare?

Sì, in quanto offriamo qualità, ricerca e stile autentico a un prezzo più accessibile. La nostra forza risiede nella coerenza e riconoscibilità delle collezioni, lontane dal fast fashion e dalle derive hype. Qualche esempio di prezzi medi sell in?

Indicativamente andiamo da 90 a 200 euro per gli abiti, dai 100 ai 130 per top e camicie, dai 70 ai 110 per pantaloni e gonne e dai 160 ai 250 per i capispalla leggeri.

Progetti realizzati di recente o in cantiere?

Abbiamo ampliato i partner multibrand, con ingressi in Paesi come Giappone e Corea del Sud. E stiamo rafforzando l’e-commerce, con una nuova piattaforma digitale in arrivo. Inoltre, senza snaturare il dna, sviluppiamo linee e formati anche per un pubblico più giovane. Prosegue poi l’impegno nel sociale con progetti charity come Step Up-Un salto verso la libertà, un’iniziativa che unisce arte, moda e impegno sociale, in sinergia con il Centro di Salute Mentale di Faenza, l’associazione Si Stare Insieme e altre realtà territoriali. Parole chiave dell’azienda e prospettive. Una produzione 100% in Italia con una filiera corta e tracciabile, circa 100 multimarca (più i due monomarca diretti di Milano Marittima e Bologna), l’e-commerce che incide per il 15% sui ricavi (e che appunto sarà potenziato) e un obiettivo: crescere tra il 5% e il 10% nel 2025, con un export oggi al 10% ma in forte espansione, soprattutto verso i mercati europei e asiatici. ■

MANTERO 1902
GENNY
GIADA CURTI
DOUUOD
HARMONT & BLAINE
SUNS SKILLS MILANO
GRIFONI
ANTONIO RIVA

La camicia Un classico che gioca con la creatività

MICHELA

«Ecco come decliniamo un evergreen che non passa mai di moda»

La camicia: quanto piace alla donna Momonì?

Moltissimo: per noi la vendita di camicie sta sorpassando quella di altre categorie, come l’abito. Con un budget più contenuto si può ottenere un look elegante in materiali preziosi, abbinando per esempio la camicia a un un pantalone informale o ai jeans. In particolare la camicia in seta, sia unita che stampata, è perfetta per qualsiasi situazione. Anche il top, sempre in seta o in un tessuto di qualità, a volte aiuta a trovare un’alternativa meno costosa, ottenendo un’immagine molto alta. Come sarà la camicia Momonì per la SS26?

All’insegna del colore, richiamando antiche geometrie e rileggendo simboli ancestrali, in sintonia con i temi della collezione, ispirata al New Mexico. Parlando più in generale del marchio, come sono andate le vendite della SS25?

Siamo molto contenti. Abbiamo chiuso la prima parte della campagna vendite con un 15% in più rispetto alla contro stagione. Sono piaciuti i colori e le stampe ma anche i materiali preziosi, che rendono ogni capo speciale. La nostra cliente finale, avendo già l’indispensabile, ha bisogno di emozionarsi e di investire in qualcosa che la faccia sentire speciale. In quest’ottica credo che possiamo lavorare ancora meglio su modelli e colori della parte accessori. Intendiamo anche ampliare la proposta di borse e scarpe. Qualche esempio di vostri prezzi sell in?

Circa 110 euro per camicie e pantaloni, mentre per il capospalla, a seconda della tipologia, oscilla tra i 180 e i 194 euro e per gli abiti si parla di 157 euro. Il focus è sempre raggiungere un rapporto ideale qualità-prezzo. Il costo delle materie prime negli ultimi anni è aumentato, ma così non è stato per il potere d’acquisto. Le aziende devono saper accendere il desiderio nella cliente finale. Un focus sul mercato e i vostri obiettivi. Il lusso è in parte in crisi e per la fascia premium possono aprirsi delle chance. La richiesta è di un prodotto di qualità a un prezzo democratico e questo è il nostro focus. Vogliamo rafforzare la presenza nei multimarca internazionali e rendere il nostro marchio sempre più di tendenza. Oggi abbiamo circa 500 clienti wholesale, mentre i monomarca sono 33 in tre Paesi (Italia, Francia e Spagna). La suddivisione a livello di fatturato è per i monomarca 64% estero e 36% Italia, mentre il wholesale è al 54% estero e al 46% Italia. ■

CONTE OF FLORENCE
FRACOMINA
XACUS
MOMONÌ
COLMAR ORIGINALS
1972 DESA

Il denim Variazioni sul tema autenticità

JAMES LONG DIRETTORE CREATIVO ICEBERG JEANS

«Il denim si fa linguaggio e riscopre gli anni ’90»

Iceberg - noto brand italiano di pret-à-porter parte di Gilmar, che ha da poco festeggiato il 50esimo - rilancia Iceberg Jeans, collezione jeans e streetwear nata nel 1986. La linea è tornata in scena dalla FW 2025/2026 sotto la guida del direttore creativo James Long, puntando su un’attitude divertente, inclusiva, contemporanea e accessibile. Non offre solo denim, ma presenta un guardaroba completo composto da capispalla, maglieria, pezzi sartoriali, capi casual e accessori. «Ho sempre desiderato dare una nuova vita a Iceberg Jeans - dice Long -. Il marchio ha un’energia unica e, come tutto l’universo Iceberg, guarda sempre con ottimismo al futuro. Questi sono i pezzi che amo e spero che diventino parte della vita quotidiana di molti». Il marchio ha portato orgogliosamente il design italiano nel mondo, con il suo mix di divertimento e vestibilità. Il suo successo è stato alimentato dal passaparola e da campagne diventate icone della cultura pop, grazie a protagoniste come Lil’ Kim e Paris Hilton. Il denim è il cuore pulsante della collezione, che per la SS26 mantiene vivo il legame con l’heritage anni ’90. «Ho voluto catturare l’energia spensierata dell’estate con volumi oversize, denim slavato, grafiche ispirate alla cultura pop e dettagli che giocano tra irriverenza e nostalgia», spiega il direttore creativo, che sottolinea come il logo “IJ”, scelto per il nuovo corso, sia protagonista di patch, rivetti e applicazioni a contrasto.

Pezzi chiave sono camicie leggere e maxi pant in denim chiaro dal fit rilassato, oltre a canotte a rete, cropped hoodie e top cut-out che coniugano sport e sensualità. Non mancano giacche trucker lavate con effetti vintage e pantaloni cargo dalle stampe all-over. Le minigonne destrutturate, gli short a vita bassa e i jeans patchwork oversize completano la collezione insieme a total look in toni neutri, denim delavé e tocchi fluo. Le grafiche spaziano dal fumetto a stampe effetto-poster, mentre le texture giocano con trasparenze, stratificazioni e contrasti fra tessuti tecnici e jersey, in sintonia con il dna del brand, in costante evoluzione. Accessori come baseball caps, borse in denim e mini bag con catene metalliche completano l’offerta. «Iceberg Jeans SS 2026 - conclude James Long - è una dichiarazione di stile, diretto e autentico. È un denim che non si limita al jeans, ma si trasforma in linguaggio». (m.c.p.)

CYCLE JEANS
AERONAUTICA MILITARE
ROY ROGER’S
JACOB COHËN
GAS JEANS
ICEBERG JEANS

La maglieria Tutto, fuorché basic

ERMANNO SCERVINO

FERRANTE

DIRETTAMENTE DA PARIGI UNA COLLEZIONE IN CRESCITA NOTSHY

Gusto parigino e attenzione al rapporto qualità-prezzo: un mondo a tutto tricot

Con il cashmere come materiale d’elezione insieme ad altre fibre nobili, il marchio francese Notshy fa del tricot un total look, giocando con pesi e punti diversi, ispirati al settore della confezione. Pur collocandosi in una fascia premium, ha prezzi wholesale interessanti: i modelli iconici in cashmere finezza 12 vanno da 70 a 100 euro, con un mark-up a 2,7, mentre i capi in jersey di lino, cotone e seta, così come quelli in tessuto di viscosa e cotone, da 30 a 70 euro, con lo stesso mark-up.

Oltre 200 i clienti in Italia, su 1.300 nel mondo, tra cui Vinicio a Legnano, Spazio C a Napoli, Dop a Roma, New Galles a Brescia, Hermanas a Noci. Da cinque anni le pre-collezioni soddisfano le esigenze dei retailer nelle località turistiche o che chiedono consegne anticipate. Esistono inoltre 20 monomarca in Francia e cinque in Svizzera. Tra i modelli iconici il maglione finezza 12, squadrato e boxy, sviluppato per molteplici utilizzi: camicia, cardigan, pull o maxi abito. Tra le ambassador una delle più rappresentative è Alex Rivière, famosa influencer digitale da oltre 1 milione di follower, consulente di moda e designer.

Un punto fermo dei fondatori, Olivier Criq e Jean-Pascal Candau (tuttora ai vertici, coadiuvati dalla direttrice del brand Mercédéh Vafaï), è il controllo di una filiera che parte da lontano - il cashmere proviene dalla Mongolia cinese - basandosi su partner produttivi locali selezionati e controllati. Oltre al Parisian style e ai materiali naturali, un terzo cardine di Notshy è il colore, sviluppato su 30 tonalità di cashmere d’inverno e jersey di lino in estate.

Oltre al cashmere, non mancano capi particolari in lana/cashmere, con ricami e applicazioni, per chi vuole andare oltre la tinta unita. Ogni tema della collezione si sviluppa in almeno quattro declinazioni cromatiche e così accade anche nella SS26, dove l’attenzione si concentra, per la precollezione, sui cashmere finezza 12/14 e la garza di cashmere, mentre nella main line la scelta cade su jersey e maglie in lino, insieme a cotone, seta e viscosa. Circa il 70% dell’estivo è composto da materiali leggeri, integrati da alcuni capi in tessuto ■

BARBA NAPOLI
AKEP
GRAN SASSO
NOTSHY

TEMERA, DAL PRODOTTO AL SERVIZIO: I SERVIZI POST-VENDITA

CHE RIVOLUZIONANO

IL DIGITAL PRODUCT PASSPORT

Competere significa poter contare su un partner strategico capace di unire tecnologia, trasparenza e nuove forme di valore lungo l’intero ciclo di vita del prodotto.

Temera - leader mondiale nella tracciabilità e serializzazione dei prodotti per moda e lusso, fondata in Italia nel 2009 e parte di Beontag dal 2022 - sfrutta tecnologie IoT e blockchain per tracciare informazioni e dati relativi all’intero ciclo di vita del prodotto, fino a inventario, vendite, post-vendita e persino processi di upcycling o fine vita. In questo scenario, l’azienda si conferma partner strategico dei grandi brand internazionali per trasformare la tracciabilità in valore. Ne abbiamo parlato con Davide Giunta, Sales Director di Temera.

Davide, perché oggi la tracciabilità è diventata un tema centrale per i brand di moda e lusso? La tracciabilità è ormai un vero fattore competitivo, non più solo un requisito normativo. I consumatori vogliono conoscere l’origine dei prodotti, i materiali impiegati, l’impatto ambientale e sociale delle filiere. La trasparenza diventa quindi un valore strategico: rafforza la fiducia, protegge il brand e crea un legame autentico con il cliente, consentendo maggiore controllo dei processi, ottimizzazione della supply chain e riduzione degli sprechi.

Il Digital Product Passport è al centro delle strategie europee e dei vostri progetti. Quali opportunità concrete abilita per i brand?

Il DPP è un vero punto di svolta. Oltre a raccogliere informazioni e metterle a disposizione dei clienti in conformità con le nuove normative, abilita servizi e nuove esperienze come garanzia digitale, servizi di riparazione certificata, second-hand controllato: strumenti che estendono la vita del prodotto e rafforzano la relazione con il cliente. Inoltre, il DPP diventa un mezzo di fidelizzazione, consentendo di mantenere

vivo il legame dopo l’acquisto e di costruire un ecosistema di servizi a valore aggiunto che trasforma il prodotto in un’esperienza continua.

Temera è già molto presente nel settore lusso. Quali sono i prossimi traguardi?

Abbiamo consolidato la nostra presenza in Francia e Regno Unito, mercati strategici con ampi margini di crescita. Stiamo ricevendo grande attenzione anche da Nord Europa, Spagna e Stati Uniti, che rappresentano uno sviluppo naturale del nostro percorso internazionale. Accanto al lusso, stiamo ampliando la nostra presenza in nuovi verticali: dallo sportswear agli orologi e gioielli, dalla moda premium al beauty. Settori che vedono nella tracciabilità e nei servizi digitali un’opportunità concreta di innovazione e differenziazione. L’ampia esperienza maturata con i brand del lusso ci permette di trasferire best practice e soluzioni anche in questi ambiti, con l’obiettivo di accompagnare le aziende in una trasformazione sostenibile e competitiva.

Grazie alla forza del gruppo Beontag e all’esperienza maturata con i più importanti player mondiali, Temera continua a posizionarsi come attore.

Plan C apre Frame: «La nostra ricerca sconfina in altri brand»

L'idea di Carolina Castiglioni di trasformare un marchio in un vero e proprio universo prende forma con l’inaugurazione del nuovo concept store a Milano. Uno spazio che unisce dimensione commerciale, culturale e ricreativa, andando oltre la semplice proposta delle collezioni del brand, oggi in crescita a doppia cifra. «Vendere prodotti non basta: uno store deve lanciare idee»

Un look della collezione SS26, in crescita a doppia cifra rispetto alla contro stagione SS25
«L’

idea del concept store ce l’avevo prima ancora di lanciare Plan C. Immaginavo di girare l’India, trovare oggetti, borse, biciclette…portarli a Milano e creare un negozio. Poi, invece, è nato il marchio, ma la voglia di costruire qualcosa di più ampio è sempre stata lì». Con queste parole Carolina Castiglioni racconta il suo “sogno retail”, rimasto sospeso per anni. Un’intuizione nata prima di fondare nel 2018 Plan C, brand che porta avanti con il fratello Giovanni e il padre Gianni (fondatore e proprietario di Marni fino al 2016 insieme alla moglie Consuelo), ma che solo oggi si concretizza in un nuovo spazio nel cuore di Milano. Plan C Frame - questo il nome del concept - apre a settembre in via Manzoni con inaugurazione durante la fashion week e non sarà un semplice monomarca. È, piuttosto, la concretizzazione dell’idea creativae commerciale - da sempre alla base di Plan C: un marchio che vive al confine tra moda, arte, design e fotografia. «Volevamo costruire un ambiente vivo, attivo, dove succedono cose. Avere una location a Milano per farne uno luogo autoriferito, dedicato alla mera vendita, non ci interessava» spiega Carolina. Anche il nome “Frame” (cornice) non è casuale: «Il nostro logo è già incorniciato e l’idea è proprio quella: uno spazio-cornice, capace di integrare Plan C con altri mondi ed esperienze». Il concept store ospiterà tutte le collezioni del brand (inclusa la linea uomo lanciata lo scorso anno), ma anche una selezione di prodotti che riflettono l’universo estetico e culturale di Castiglioni. A partire dalla gioielleria con Aliita - il marchio guidato dalla cognata Cynthia Vilchez Castiglioni - che avrà un popup permanente, fino a Reading Room, realtà milanese specializzata in editoria indipendente, che curerà lo spazio libreria con magazine internazionali di arte, moda, fotografia, musica e illustrazione. Nei suoi quasi 400 metri quadrati il negozio - concepito come un contenitore - prevede anche diversi angoli da attivare con collaborazioni commerciali e culturali. Prevista la presenza di oggetti per la casa (vasi e candele) frutto della collaborazione con Serax, specialista belga dell'arredo casa, ma anche dei cioccolatini artistici di Le Chocolat des Français. «L’idea è avere anche oggetti "curiosi", quelli che potresti trovare nello shop di un museo: giochi, dolcetti, gadget, tutti scelti con cura», racconta Carolina, che seguirà in prima persona il brand mix e la

«Il nome Frame non è casuale: l'idea è creare uno spazio-cornice capace di integrare il nostro marchio con altri mondi»

Carolina Castiglioni

programmazione del negozio, data la presenza di uno spazio dedicato a eventi e workshop. Non si esclude la presenza di altri marchi di moda: «Perché no, specie se si tratta di progetti che raccontano una storia diversa da Plan C, capaci di creare connessioni con nuove community. Fare retail oggi non è più vendere i propri prodotti, è lanciare idee».

E di idee e progetti, Carolina Castiglioni con Plan C ne sta portando avanti molti. in un momento di forte espansione per

l'azienda, sostenuta da risultati commerciali positivi. La campagna vendita SS26 chiuderà a +20% rispetto alla contro stagione SS25: «Per ora siamo a quota +16,5% - spiega - ma a settembre, con la riapertura della showroom, ci aspettiamo un’ulteriore crescita. Ottime le performance in Cina, dove abbiamo raddoppiato il fatturato, mentre Europa Francia, Spagna e Italia hanno segnato incrementi importanti».

Oggi Plan C è presente in 195 door multibrand in 32 Paesi. Gli Stati Uniti sono diventati il secondo mercato più importante, con partner come Bergdorf Goodman e Saks, oltre a selezionati multimarca come La Garçonne a New York, Forty Five Ten a Dallas e Capitol a Charlotte. Il Giappone, il primo mercato, vive una fase di riorganizzazione: dopo anni di collaborazione con Blue Bell, la distribuzione passerà a Sanki Shoji, realtà che lavora già con JW Anderson e Alexander Wang. «Volevamo costruire una distribuzione più coerente con l’evoluzione del brand, in una piazza complessa ma per noi fondamentale». Ed è proprio nel Sol Levante, dove Plan C è presente con vetrine monomarca da tempo, che Castiglioni punta a replicare il format del concept store di Milano. «Anche il Medio Oriente potrebbe essere una meta indicata - dice -. Quel che è certo è che il format è il primo passo di un capitolo nuovo nello sviluppo di Plan C». Un capitolo che mette al centro il prodotto, ma non più solo l’abbigliamento. «Abbiamo ampliato la presenza di borse e scarpe nelle collezioni, e lanciato una vera linea di bijoux con la Spring 26. È un lavoro iniziato da qualche stagione, ma che adesso ha preso una forma più matura - spiega Carolina -. Abbiamo trovato il giusto partner per le calzature, Mosaicon: finalmente i risultati ci sono, in termini sia qualitativi che commerciali». Accanto al prodotto, la politica dei prezzi resta cruciale: «Non vogliamo snaturare qualità o estetica, ma offrire un prezzo accessibile, “giusto”. Abbiamo introdotto entry price in tutte le categorie: non significa proporre articoli economici, ma permettere a più clienti di entrare nel mondo Plan C. Lo abbiamo fatto con lo stesso spirito che ci ha portato a creare il format Frame. Tutto sta un po’ cambiando, anche l’obiettivo che ci eravamo dati all’inizio si è evoluto. Ma è bello così, perché ci sono nuove opportunità», conclude Carolina Castiglioni. ■

Un rendering del concept store Plan C Frame
ANDREA BIGOZZI
Ph. Bex Gunther

BRAND to WATCH

Founder Emma Rowen Rose

Distribuzione

Diretta rowenrose.com

ROWEN ROSE

Lanciato a fine 2018, Rowen Rose si sta affermando come uno dei brand più interessanti firmati dalla nuova generazione di stilisti. Il suo punto di forza è la commistione di diverse sensibilità, frutto del background multiculturale della fondatrice Emma Rowen Rose Nata a Parigi e cresciuta in una famiglia mezza spagnola e mezza polacca, ha studiato all'Istituto Marangoni di Milano e all'Esmod e al Beaux Art de Paris, assimilando diverse influenze di stile che l'hanno portata a sperimentare un'estetica fatta di contrasti, tra maschile e femminile, tagli severi e colori brillanti, strutture scultoree e texture dalla morbida fluidità. L'ultimo progetto del marchio, prodotto in Italia e presente in marketplace come Harrods, Printemps, Yoox, Fwrd e Ounass, è il debutto della linea maschile. I prezzi retail di Rowen Rose vanno dai 500 euro fino ai 2.000 euro per i capi più importanti.

Founder Charlotte Knowles e Alexandre Arsenault

Distribuzione

Diretta knwls.com

KNWLS

Il brand nasce dopo l'incontro alla Central Saint Martins di Londra dei designer Charlotte Knowles e Alexandre Arsenault. Nel 2021 assume l'identità e il nome attuali, esplorando una visione di femminilità potente e sovversiva, con soluzioni stilistiche audaci e sensuali. Finalista nel 2022 al Premio Lvmh, a partire dal 2023 Knwls ha iniziato un percorso di affermazione wholesale, conquistando la fiducia di una 50ina di retailer, tra cui Selfridges nel Regno Unito, Voo Store in Germania, Antonioli, Penelope e Boysloft in Italia. Con la SS26 un altro importante step: il debutto alla fashion week milanese, con un appuntamento nel calendario ufficiale il 24 settembre. Con una showroom di riferimento in Great Portland street a Londra, il brand vende la propria collezione con prezzi medi retail interono ai 640 euro.

Founder Annachiara Bernardi

Distribuzione Diretta bottegabernard.com

BOTTEGA BERNARD

Anche se solo ventenne, quattro anni fa Annachiara Bernardi aveva già le idee chiare. Con in tasca una specializzazione in Luxury, Fashion & Made in Italy alla Luiss e una certificazione di "Tecnico stilista green", nel 2021 sposa la causa sostenibile con Bottega Bernard. Come racconta l'imprenditrice, il marchio vuole essere espressione di una visione eco grazie alla scelta di fibre naturali, biologiche, riciclate ed endcycle e al tempo stesso portavoce di una creatività senza schemi, in grado di valorizzare la personalità di ciascuno, al di là del genere. I capi si muovono tra influssi streetwear e sartoriali, con lavorazioni tipiche della tradizione toscana. Oggi il brand si trova in concept store come Next in Fashion (Milano), The Green Life Store (Olbia), Naseej (Dubai) e The Original Pattern (Londra), con prezzi medi intorno ai 180 euro.

Founder Filippo e Ana Zeverino

Distribuzione The Parlor Showroom

rallegrati.it

RALLEGRATI

Nato durante la pandemia, il marchio di womenswear

Rallegrati è frutto dell'esperienza e della sensibilità di Filippo e Ana Zeverino, fondatori di una storica realtà pugliese, Linea Zeta, specializzata in maglieria di alta gamma. I capi - pensati «con le persone per le persone» - scommettono su un'estetica decisa, dalle linee minimali e senza fronzoli, con materie prime e filati certificati, fatti per durare. Realizzata internamente, dalla prototipia alla confezione, e nella giusta quantità per evitare gli sprechi di una sovraproduzione, la collezione è disponibile su rallegrati.it e rappresentata da The Parlor Showroom a Milano, con cui sta iniziando un percorso wholesale. I prezzi retail partono dai 400 euro per le maglie, fino ad arrivare ai 1.400 euro per gli abiti.

PALERA MILANO

Founder Patrick Touma e Valeriia Khrapko

Distribuzione Diretta

paleramilano.com

Pelle italiana, cristalli, perle e dettagli in legno e ottone: sono questi gli ingredienti della creatività di Palera Milano, un marchio di raffinate borsette e pochette, nato nel 2021 su iniziativa del ceo Patrick Touma, con 17 anni di esperienze in griffe del lusso come Bottega Veneta, Saint Laurent, Emilio Pucci, Kering e Al Tayer Group, e della direttrice creativa Valeriia Khrapko

Partito con una distribuzione diretta attraverso il website paleramilano.com, lo scorso giugno ha inaugurato il suo primo pop up alla Rinascente di Milano e con la collezione SS26 è presente al salone White, con l'obiettivo di sviluppare nuove partnership commerciali. Le creazioni di Palera Milano, realizzate totalmente in Italia, sono vendute al pubblico a un prezzo medio intorno ai 750 euro.

ZVELLE

«Il volo è da sempre una mia fascinazione profonda. Spiccare il volo e decidere la rotta richiede forza, libertà e la rinuncia a ogni dettaglio superfluo»: è questa visione che nel 2023 ha fatto da ispirazione al debutto di Elle AyoubZadeh nel mondo delle calzature. Il segno che più contraddistingue il suo marchio Zvelle è infatti il "meno", inteso come sottrazione di tutto ciò che non è necessario, dal logo alle cuciture, per far risaltare al massimo la qualità intrinseca, la purezza artigianale e la maestria del fatto a mano di scarpe maschili di lusso. Distribuito inizialmente attraverso l'e-shop Zvelle.com, a due anni dalla fondazione il brand «ha iniziato a dialogare - dice l'imprenditrice di origini iraniane - con rivenditori che conoscono e apprezzano il mondo Zvelle e che si allineano ai nostri valori». Con una produzione totalmente made in Italy, dalla fase di sviluppo di prodotto fino al packaging, le calzature sono vendute con un prezzo medio di circa 500 euro.

Founder Elle AyoubZadeh

Distribuzione Diretta

zvelle.com

FEDERICO BARENGO

«Garment Workshop è il Netflix del made in Italy»

«Facciamo moda raccontando come viene realizzato un capo e motivandone il prezzo finale». È questo il mantra di Federico Barengo, fashion insider, influencer, imprenditore e fondatore del marchio Garment Workshop

Èsempre più difficile capire come si realizza un capo d’abbigliamento, secondo quali standard di qualità è prodotto e se il prezzo è adeguato al suo valore. Inoltre, non sempre si può appurare se un indumento è stato prodotto in Italia né come sono trattati i lavoratori. Ne sono prova i recenti fatti di noti brand del lusso. Sulla base di queste considerazioni Federico Barengo, giovane imprenditore, insider del settore moda e influencer, ha scelto un percorso alternativo. Nel 2021 ha lanciato il suo marchio di sportswear e jeanswear Garment Workshop Attraverso video-reportage, che diffonde via social e online, mostra il dietro le quinte dei modelli che vende. Inoltre, per quanto possibile, fornisce informazioni che descrivono come le componenti di un capo e i passaggi produttivi incidano sul prezzo finale. Ne ha parlato con Fashion

Da quando si occupa di moda?

Da quasi dieci anni. Lavoravo da Degli Effetti, noto multimarca di Roma, dove poi sono diventato assistant buyer. In seguito mi ha assunto un’azienda di consulenza parte di Tomorrow Ltd, la società di Stefano Martinetto e Giancarlo Simiri. Dopo tre anni ho aperto una mia società di consulenza a supporto dei brand del settore occupandomi di produzione e comunicazione. Dopo è nato il mio marchio. Ha una formazione ampia… Sono esperto di denim e jeans e conosco il settore a 360°. Degli Effetti è stata la prima boutique a portare in Italia negli anni ’80 marchi avant-garde, come Yohji Yamamoto e Comme des Garçons. Fu tra le prime a vendere Rick Owens a inizio anni 2000. Così ho costruito il mio background di cultura e ho conosciuto il percorso produttivo di moltissimi brand. Come è nato Garment Workshop? Ho scelto un nome che può suonare generico, ma non lo è, visto che in inglese significa “laboratorio di produzione di capi di abbigliamento”. Il nostro dna è attento a tutti gli aspetti della produzione. È fondamentale far vedere tutti i passaggi perché fin da quando lavoro in quest’ambito

«Da

quando lavoro nella moda vedo che il consumatore è all'oscuro di come si realizza un capo.

È giusto renderlo noto»

ho visto che il consumatore è totalmente all’oscuro di come si realizza un indumento o un accessorio. E con il fast fashion dilagante si dà sempre meno valore al prodotto. Quindi è giusto rendere trasparente quello che molti non conoscono. In che modo?

Attraverso i nostri canali social mostriamo a fan e clienti come vengono realizzati i capi che vendiamo con foto e filmati. Inoltre, indichiamo quanto materie prime, componenti di ciascun modello e fasi di produzione incidano sul prezzo finale.

Che canali usa e quanti follower ha? Su Instagram sono 219mila, su TikTok 100mila e su YouTube 270mila.

Dove avviene la produzione?

L’80% di quello che vendiamo è fatto in Italia, principalmente tra Pesaro-Urbino e Avellino. Abbiamo anche iniziato una partnership con Acm, un’azienda storica vicina a Bergamo. Grazie alla sua divisione specializzata nella stampa ad alta definizione, Next Printing, possiamo stampare su tessuti di cotone e pelle e creare effetti trompe-l’oeil denim e canvas molto fedeli all’originale su semplici capi in cotone bianco, ma anche borse e cinture. Vi lasciano filmare i vari step?

Acm è tra le poche realtà italiane che ce lo permette, ma spesso è complicato. È anche difficile sapere quanto ogni step incida sul prezzo finale, perché molti non vogliono fornire informazioni. Tuttavia, per capi continuativi come jeans basic e top a tinta unita riusciamo a dare questi dati. Su quali canali vendete?

Attraverso il nostro sito, in circa 20 negozi in Italia, più uno a Parigi e uno in USA. Cosa offrite?

Principalmente sportswear e streetwear da uomo. Sono circa 100 SKU a stagione. Sono capi continuativi, oltre a piccole aggiunte. Vendiamo le nostre magliette a prezzi attorno ai 40-45 euro, le felpe a 90 euro e i jeans intorno ai 150-180 euro. Come sono i vostri jeans?

Il nostro denim è duro e puro: sono jeans cimosati in denim Candiani o Kuroki, oppure Japan Blue e Denim Collect per i pezzi Made in Japan.

Altri progetti?

Vorrei vendere in Asia (Giappone o Corea), per far conoscere la qualità del Made in Italy. Del resto, il mio brand è nato da una considerazione: l’Italia è nota per l’alta qualità della sua cucina, su Netflix e in TV molti programmi ne parlano, ma quanti sono dedicati all’abbigliamento? Nessuno. Ci sono solo reportage su aspetti negativi del settore. Con questa consapevolezza ho fondato il mio brand. ■

MARIA CRISTINA PAVARINI

TECNOLOGIA

ECO-FRIENDLY:

COSÌ LEGOR VALORIZZA IL PRODOTTO

Soluzioni galvaniche e leghe di ultima generazione uniscono prestazioni tecniche, sostenibilità e contenuti estetici, per rispondere alle esigenze specifiche del mercato fashion

Colorazioni innovative ed esclusive, processi nichel e cianuro free, processi galvanici di facile gestione: da sempre Legor investe massicciamente in ricerca e sviluppo, per offrire ai clienti della moda soluzioni galvaniche avanzate, versatili e sostenibili, che coniugano estetica, prestazioni tecniche e rispetto delle normative. Stiamo parlando del rivestimento decorativo-chiave di un gioiello e di un accessorio moda e, a tal proposito, Legor propone una vasta offerta di soluzioni che include pretrattamenti, ausiliari, dorature strike, flash e a spessore, in una vasta gamma di colori, ma anche finiture bianche (a base di palladio, rutenio e argento), nere (a base di oro o rutenio) e non preziose (con rame, nichel, bronzo, stagno e zinco), oltre a vernici e top coat e trattamenti su alluminio. Legor ha anche sviluppato un’ampia linea di leghe madri ah hoc per il fashion. Si tratta dell’essenza di un gioiello o di un accessorio, ottenuta da una miscela bilanciata di metalli non preziosi, che può

essere aggiunta a metalli preziosi come oro e argento (per quanto riguarda i gioielli). La lega madre determina le caratteristiche estetiche e tecniche, come il colore, la durezza, la fluidità, la lavorabilità e le prestazioni meccaniche, contribuendo a migliorare la qualità percepita e a garantire performance superiori nei processi produttivi.

Da oltre 45 anni cuore pulsante dell’attività Legor, nel tempo le leghe sono evolute, per rispondere a una moda sempre più dinamica e attenta a temi come la sostenibilità, le normative internazionali, la qualità e la riproducibilità nei processi. La gamma delle leghe non preziose per il settore fashion è composta da Ottoni (dall’ottima durezza, fluidità e resa estetica), Bronzi (perfetti per pezzi dalle finiture calde) provenienti da fonti di riciclo e Alpache (leghe bianche, performanti sia a livello estetico che normativo). Ottoni e bronzi sono formulati senza piombo, cadmio e nichel, in conformità con la normativa REACH, mentre l’alpaca non contiene

piombo e cadmio. Soluzioni galvaniche e leghe sono progettate partendo da una conoscenza quarantennale della produzione nel settore moda, che tiene conto della microfusione e di lavorazioni meccaniche intense, di richieste di spessore minimo e di brillantezza, fino alla compliance riguardo i test richiesti dai brand dell’accessorio moda.

Con i marchi nascono, inoltre, collaborazioni per sviluppare anche leghe e finiture esclusive, trattamenti ad hoc e processi certificati. Tutte le formulazioni sono studiate per massimizzare l’estetica e ridurre gli scarti, facilitando il processo produttivo. Le soluzioni Legor sono pensate per supportare i brand nel rispettare i principali standard di sostenibilità, grazie all’uso efficiente del metallo, la lunga durata del rivestimento e l’impiego di metalli preziosi al 100% da fonti di riciclo e anche non preziosi (per i prodotti certificati ISO 14021). L’approccio al cliente è full service, con un supporto tecnico completo e la possibilità di sviluppare soluzioni tailor made.

«Eseguiamo un miliardo di calcoli al giorno»

I marchi e i negozianti lamentano grandi eccedenze di merce, margini ridotti e la forte concorrenza di Zara e Shein. Il fornitore di software Chainbalance li aiuta a collaborare più strettamente e a rispondere più rapidamente alle richieste dei clienti - grazie a una moltitudine di dati e all'intelligenza artificiale

Èil modello standard nel settore della moda. Il marchio presenta la collezione, il rivenditore effettua l'ordine, alcuni mesi dopo la merce viene consegnata e venduta al cliente finale. Il marchio guarda al sell in, il rivenditore al sell out. Fine.

Ma questo meccanismo non funziona più come una volta. Innanzitutto, i clienti finali acquistano meno e si sono abituati ad aspettare i saldi. Di conseguenza, il rivenditore rimane con la merce invenduta e ottiene margini molto più bassi. In secondo luogo, grazie a TikTok & Co., le tendenze sono sempre più effimere. I fornitori di fast fashion

come Zara, Shein e Temu reagiscono più rapidamente e sono avvantaggiati. Cosa fare? Mauricio Warchaftig, chief commercial officer di Chainbalance, è convinto che in futuro i marchi e i rivenditori dovranno collaborare molto più strettamente di quanto non abbiano fatto finora per essere sufficientemente redditizi e poter rispondere rapidamente alle richieste dei clienti. Parla di «verticalizzazione» e intende dire che il marchio e il rivenditore diventano partner. In parole povere, il marchio aiuta il rivenditore nella pianificazione dell'assortimento e durante la stagione fornisce i prodotti che sono at-

tualmente richiesti. Viceversa, il rivenditore accetta di condividere i dati relativi alle vendite e alle scorte di magazzino. Questo scambio è coordinato da una realtà come Chainbalance. L'azienda con sedi a Breda, in Olanda, e a Berlino, ha sviluppato un software di rifornimento intelligente. Altri fornitori alternativi sono Fashion Cloud, Mobi Media e l'azienda Wair, il cui fondatore Mitch van Deursen gestisce insieme alla sorella il marchio olandese D2C Shoeby. Con l'aiuto delle più recenti tecnologie come l'intelligenza artificiale, gli algoritmi evolutivi, il cloud computing e i big data, la soluzione Chainbalance valu-

ta i dati del marchio e del rivenditore, nonché le informazioni esterne relative alla posizione, alle condizioni meteorologiche e all'entità degli sconti, e calcola quale prodotto è necessario, in quale quantità, in quale negozio e in quale momento. «Presto eseguiremo un miliardo di calcoli al giorno», annuncia Warchaftig. Mentre nei tradizionali programmi Never-out-of-Stock il rivenditore deve effettuare manualmente i riordini, con Chainbalance tutto avviene automaticamente

La soluzione Chainbalance non è una scatola nera. «La trasparenza è molto importante per noi. Il marchio ha sempre il controllo su tutto ciò che accade», chiarisce Warchaftig. Nei report, il fornitore di software elenca indicatori chiave come “Prevented Overstock”, individua i bestseller e fornisce suggerimenti su cosa può essere migliorato. Chainbalance è stata fondata nel 2005 da Ben Vermin. L'idea gli è stata suggerita da Adidas, per il quale lavorava come consulente nel 2004. Il gruppo sportivo aveva commissionato a Vermin lo sviluppo di una soluzione che consentisse al grande magazzino Breuninger di riordinare le ciabatte Adiletten Vermin ha creato un algoritmo in SAP, gettando le basi per l'attuale soluzione Chainbalance.

L'azienda impiega 38 dipendenti e serve circa 40 marchi di moda e sportivi, oltre a produttori di calzature in tutto il mondo, basati soprattutto in Emea, Benelux e Asia. Il fondatore Vermin e Mauricio Warchaftig ed Erik de Wit, con lui ai vertici della società, hanno conquistato marchi come Hugo Boss, Drykorn, Lacoste ed Hechter Paris

Un mercato futuro è l'Italia. «Nonostante non sia ancora pronto per lo Smart Replenishment - osserva Warchaftig -

«Smart Replenishment arriverà anche in Italia, perché la pressione sui marchi e sui rivenditori diventerà sempre più forte»
Mauricio Warchaftig

riponiamo grandi speranze nel mercato italiano. Sono convinto che nei prossimi anni ci saranno dei cambiamenti, perché la pressione sui marchi e sui rivenditori diventerà sempre più forte».

L'esempio di Petrol Industries illustra come Chainbalance venga utilizzato nella pratica. Il marchio di abbigliamento casual con sede nei Paesi Bassi, specializzato in denim, utilizza la soluzione da poco più di cinque anni. Il motivo è stato l'apertura di un proprio negozio online e di outlet, con la constatazione che i rivenditori ordinavano sempre meno merce in anticipo e sempre più merce durante la stagione.

«In passato producevamo ciò che i nostri clienti wholesale ordinavano. Ma lo scenario è cambiato e dovevamo improvvisamente stimare la domanda - dice Daniel Gonzalez Docal, chief sales officer di Petrol Industries - per ogni articolo, in ogni taglia, in ogni punto vendita». All'inizio Docal e il suo team hanno utilizzato fogli di calcolo Excel. Ma i problemi sono diventati presto evidenti: «Si commettono errori. Inoltre non è possibile scalare, perché servono sempre più dipendenti per i calcoli Excel».

Petrol Industries ha dunque scelto Chainbalance. Sul fronte tecnico l'installazione è semplice. Si tratta di una soluzione basata sul web la cui interfaccia è intuitiva, grazie a immagini e diagrammi. È necessaria un'interfaccia EDI con il sistema di gestione delle merci. Ci vogliono 30 giorni per avviare il progetto pilota, seguiti da una fase di test di due mesi. Dopo un pagamento una tantum, è prevista una tariffa mensile.

La vera sfida consiste nello spiegare ai dipendenti e ai rivenditori i vantaggi di una soluzione di rifornimento intelligente come Chainbalance. «È necessario un story champion all'interno dell'azienda», spiega Gonzalez Docal, che ha assunto questo ruolo presso Petrol Industries. Nelle presentazioni di vendita del marchio, lo Smart Replenishment viene indicato come un'opzione. Inoltre, vengono distribuiti volantini che il team di vendita e gli agenti possono utilizzare per avvicinare i rivenditori.

Per dissipare i timori dei rivenditori verso lo Smart Replenishment, Petrol viene incontro ai commercianti nelle prime stagioni e si assume parte del rischio. «Offriamo di ritirare o sostituire i prodotti NOS che non hanno le prestazioni previste. Proprio come in una vera partnership», precisa Gonzalez Docal. Ed ecco il risultato: non solo crescono i rivenditori che utilizzano la soluzione Chainbalance insieme a Petrol Industries, ma anche il volume degli ordini. Coloro che partecipano allo Smart Replenishment ordinano dal 30% al 40% in più rispetto a un anno fa, conclude Gonzalez Docal: “È una situazione vantaggiosa sia per il marchio che per il rivenditore. Nessuno ci perde». ■

TOBIAS BAYER

Il team di Chainbalance: Mauricio Warchaftig, Erik de Wit e Ben Vermin

La personalizzazione piace sempre di più e lo scontrino ringrazia

Sono in aumento i clienti che vogliono compartecipare alla creazione di abiti o accessori - per renderli unici fra tanti - e i brand fanno di tutto per accontentarli. Così creano una relazione speciale, con benefici anche alla voce ricavi

La Co-Creation di Golden Goose vede, tra le opzioni, il cambio della stella e dell'etichetta, disegni tattoo e l'applicazione di preziosi charm

Èanche grazie ai servizi di personalizzazione «in continua espansione» che Golden Goose ha realizzato una crescita dei ricavi del 13%, nel primo semestre 2024. Lo ha detto di recente il ceo Silvio Campara, commentando i risultati. In azienda la chiamano “Co-Creation”, perché coinvolge i clienti nell'ideazione di pezzi unici. Nel caso delle sneaker include la realizzazione di disegni, frasi, speciali trattamenti vissuti e l’applicazione di ornamenti come patch, borchie, charm e cristalli. Il costo del servizio è variabile, a partire da 100 euro, ma non è un problema per i fan dell'Oca d'oro. «Lavoro in questo store da cinque anni e il trend della personalizzazione è in crescita costanteconferma un’addetta alle vendite nel monomarca Golden Goose di via Cusani, a Milano -. Se parliamo di sneaker, vanno per la maggiore scritte e disegni, oltre al cambio della stella (elemento distintivo del brand, ndr), ma si possono sostituire anche le linguette e l’etichetta». «La clientela orientata a personalizzare - aggiungeè molto sfaccettata, ma in questo negozio si tratta per lo più di donne. Agli stranieri talvolta piace un disegno che ricordi Mila-

no, per esempio il Duomo oppure la skyline». Il target va dai 15 ai 35 anni, mentre dai 45 in su alle scritte tendono a preferire Skin, i kit di lacci speciali con charm da applicare: non rendono unica una sneaker, ma di certo le danno un originale tocco glam, mentre lo scontrino sale, anche fino a 350 euro in più.

Per Santoni la personalizzazione è un trend costante ma anche un'opzione radicata nel suo dna. «Da sempre - raccontano dall'azienda marchigiana di calzature - valorizziamo l’unicità e l’artigianalità, offrendo ai clienti la possibilità di esprimere il loro stile con prodotti su misura e dettagli esclusivi». Tra i servizi più richiesti c’è il Made to Order, che parte in boutique, «o nel luogo più comodo al cliente», con la scelta del modello. Guidati da esperti interni si può scegliere tra pelli sofisticate, morbide scamosciate, rarità pregiate ed esotiche, in una vasta palette di colori. In più è possibile incidere le iniziali. La produzione viene poi affidata al quartier generale di Corridonia. Con il servizio Buckle Monogram, invece, gli shopper online possono customizzare l’iconico modello maschile Doppia Fibbia: a dispo-

sizione 11 tonalità e la possibilità di includere le iniziali nelle fibbie. «Chi accede ai servizi di personalizzazione è un intenditore raffinato, esigente e profondamente consapevole del valore dell'eccellenza artigianale - notano dal brand -. Si tratta di una clientela internazionale, eterogenea per provenienza ma omogenea per sensibilità estetica e cultura del prodotto: uomini e donne che non cercano semplicemente un accessorio, ma un’estensione autentica del proprio stile». Sul mercato europeo il Made to Order di Santoni porta a un incremento del 50% del prezzo, rispetto al modello base. Il servizio Bespoke, che porta alla realizzazione di un paio di scarpe partendo dalle misurazioni e dalla forma, ha un entry price di 5mila euro per il primo paio, che scendono a 3.500 euro per le paia successive (se realizzate con pellami tradizionali).

Nella boutique Umit Benan di via Bigli - nel Quadrilatero, inaugurata in giugno - c’è un’area speciale dedicata alla personalizzazione dei capi in assortimento, tutti made in Italy, in tessuti italiani ma dall’attitudine rilessata che arriva dagli Usa. Vi si accede su appuntamento ed è nella zona

bar che, di solito, tutto comincia, come già avveniva nella casa del designer di origine turca con i clienti speciali, prima dell’apertura del nuovo monomarca. Qui inizia un dialogo con chi chiede il made to measure o il made to order. «Non è finalizzato alla vendita ma a conoscere meglio il cliente, prima di passare alle collezioniraccontano gli addetti ai lavori in store -. Il nostro è un bespoke prêt-à-porter e di solito non diciamo mai di no alle molteplici richieste, purché in linea con il nostro dna: il fitting, per esempio, non può essere stravolto da “rilassato” a “slim”». Per differenziarsi dai competitor, Umit Benan ha puntato sul velocizzare il lead time: per un abito customizzato bastano sei-otto settimane, «a volte anche meno»; per una maglia in cashmere meno di un mese. Il valore di questo servizio? Nel caso di una maglia in cashmere made to order il prezzo può passare da circa 1.500 a circa 2.000 euro. «C’è anche chi chiede un capo creato ex-novo. Se l’idea ci piace lo realizziamo, anche se non fa parte della collezione», dicono gli esperti in boutique, anticipando che nuovi servizi sono in valutazione, dal monogramma per la camicia a un packaging speciale. Per la donna sono inclusi gli stessi servizi. Partito dai blazer, speculari alle proposte maschili, il progetto womenswear sta prendendo corpo, puntando a espandere il target di riferimento, con proposte dedicate non solo alla donna sofisticata, ma anche a quella più sparkling. L’olandese Suitsupply ha esordito in Italia online, con il suo menswear di impronta sartoriale e servizio al cliente personalizzato. Poi si è affermata anche nel retail tradizionale. «Il più richiesto è il servizio di sartoria interna per il ready-to-wear: entro una settimana realizziamo le modifiche», spiega un’assistente alle vendite dello store di Milano, in corso Monforte dal 2018. Il prezzo varia ma è contenuto: 12 euro per l’orlo, 22 per rivedere il punto vita. Qualcuno chiede la customizzazione da zero: partendo dal campione può scegliere taglio, tessuto e colore. «Nel tempo di una-quattro settimane è tutto pronto - precisano in store -. Il prodotto è al 100% industriale, mentre le personalizzazioni più piccole possono essere eseguite dalla sartoria in negozio. Il prezzo medio di un abito da 600 euro può salire fino a 2.800 euro con il sartoriale. Le richieste

maggiori di customizzazione, in questo caso, riguardano il taglio della giacca, per esempio da mono a doppiopetto». La sales assistant conferma una domanda di personalizzazione molto dinamica e osserva: «Il cliente italiano è speciale. La sua attenzione è rivolta al taglio, più che a un trend. In un certo senso è più tradizionale di altri clienti: chiede più giacche doppio petto, più modelli gessati. Di certo è un esperto della materia, è più “educato” di altri al prodotto. A Milano abbiamo anche clienti stranieri, attratti dalla consegna in breve tempo, che in certi casi può avvenire anche presso altri negozi Suitsupply». Nel caso di NextCouture, realtà digitale nata nel 2021 da un’idea di Chiara Torino e Carolina Poggioli, la co-creazione include la complicità degli avatar. Alla guida oggi c’è Marco Fiandesio, ex manager Kering, che racconta: «Ci rivolgiamo al consumatore stanco dell’e-commerce che permette la personalizzazione solo nell’industrializzato, non nel su misura. Il sito nextcouture.it è stato aperto pochi mesi fa, dopo che mi sono assicurato fornitori di materie prime che possono produrre anche pezzi unici. Ho seguito anche la confezione, la logistica e il geopricing. Per la comunicazione ho pensato a influencer di livello come Aliia Roza, che ha indossato una proposta custom

made del brand di proprietà Ava allo scorso Festival di Cannes». La piattaforma ospita marchi, di cui uno proprietario, che mettono a disposizione modelli di alta gamma customizzabili in termini di tessuti, colori e dettagli. «Nuovi brand si stanno affacciando tra cui uno di borse, uno di cappelli e uno di cravatte - anticipa il ceo, che stima di arrivare al break even a fine 2025 -. Non abbiamo limiti, ma diciamo no a chi non ha la capacità di produrre un pezzo singolo: quello di NextCouture può solo essere un mondo artigianale, fatto da chi ha la struttura per il su misura. Noi diamo la tecnologia e ci occupiamo della comunicazione sulla piattaforma, che a breve includerà una showroom virtuale». «Il costo per il marchio - aggiunge - è sostanzialmente quello per la presenza sul cloud, l’affitto dello spazio. C’è poi un costo per modello da caricare e per la personalizzazione. Noi riceviamo una percentuale sul transato, non sul venduto. Il prezzo finale è molto inferiore a quello di mercato, perché non c’è il negozio e non si sostengono le spese di marketing. Uno dei nostri tubini costa circa 1.000 euro, dai 3.500 di uno a marchio Gucci». La produzione avviene nel raggio di 300 km (coinvolgendo, tra le altre, realtà come la sartoria sociale Colori Vivi) e anche il packaging è made in Italy, oltre che no waste. All’80% i fornitori di tessuti sono italiani. Dal Giappone, noto per lo stock service, arriva la seta georgette. Far parte della vetrina di NextCouture, però, non è immediato: il capo deve essere digitalizzato e caricato nel sistema, affinché possa essere indossato dagli avatar. Anche i tessuti sono digitalizzati e messi su cartamodello. La piattaforma prevede tre tipi di utenti. Al primo livello (al costo di 4,99 euro) possono navigare il sito, acquistare capi personalizzati e accedere ad alcuni contenuti editoriali. Al terzo livello (spendendo 199 euro) aumentano le possibilità di customizzazione fino ai capi esclusivi, oltre ai contenuti e all'opportunità di partecipare a eventi speciali. Allo studio c'è l'introduzione di un chatbot-commesso, che informa sulla taglia più adatta. «Ci sarà sempre più interazione e la piattaforma diventerà più user friendly», conclude Fiandesio, prevedendo che «si andrà sempre di più verso il negozio virtuale». ■

ELISABETTA FABBRI

Dall'alto, la doppia fibbia di Santoni, personalizzabile online e l'influencer Aliia Roza vestita dal marchio Ava di NextCouture

SFILARE CON BUDGET LIMITATO: I CONSIGLI DI CHI SE NE INTENDE

La produzione di uno show può costare cifre a cinque zeri e oltre, senza ritorni immediati se non in visibilità. Come fanno allora i brand emergenti a entrare in Fashion Week senza restare al verde? (nella foto, il set dell'ultima sfilata di Prada)

È possibile organizzare una sfilata con meno di 50mila euro? E dove si può risparmiare senza compromettere il risultato finale? Ecco una guida pratica per orientarsi tra costi, scelte strategiche e soluzioni intelligenti. A scriverla sono i protagonisti dietro le quinte della Milano Fashion Week: da chi coordina la produzione a chi cura la fotografia, da chi gestisce location e catering, fino - ovviamente - agli stilisti

GIUSEPPE DI MORABITO

Fashion designer

«Dividi la location e non scegliere di lavorare sempre coi soliti noti»

Giuseppe di Morabito: per un brand indie come il suo sfilare è un lusso?

Sì, ma ci sono modi per renderlo accessibile. Ho sempre evitato la passerella classica. Il problema? L’alternativa costa di più: più è inedito il concept, più la situazione si complica (e il budget sale).

Quindi come si risparmia davvero?

Facendo rete. Per l’ultimo show abbiamo condiviso la location con un altro brand.

Tutto è nato per caso, ma ha tagliato tanti costi. Servirebbero più sinergie come questa tra brand, anche piccoli.

Operazioni analoghe sono frequenti?

Le produzioni suggeriscono di condividere spazi e risorse, ma poi bisogna fare i

conti con il calendario, con i tempi e con la disponibilità delle location.

E le grandi maison?

Potrebbero aiutare. Anche solo offrendo spazi o supporto tecnico.

Partnership: quanto contano?

Molto. Con Snapchat abbiamo ottenuto visibilità e sostegno economico. Ma serve coerenza con l’identità del brand: non è solo sponsorship, è allineamento. Budget ridotto ma risultato ad alto livello: come?

Il nostro show ha fatto 9 milioni di view. Per questo meglio investire su una regia curata, tante videocamere, che sul set design in sé.

Altri risparmi smart?

La musica! Invece del solito sound designer da sfilate, abbiamo lavorato con un professionista del teatro: per lui era un’opportunità, per noi un taglio netto ai costi. Quando c’è scambio, funziona. ■

DI ANDREA BIGOZZI

UMBERTA GNUTTI BERETTA

Supporter di designer indipendenti

«Condividere non significa perdere identità: vuol dire esserci senza svenarsi»

Qual è il problema più ricorrente per chi vuole organizzare un evento?

La location. I giovani brand faticano a trovare perfino un laboratorio, figuriamoci uno spazio per eventi o sfilate. A Milano, sotto certi budget, non trovi nulla. Ma per emergere serve visibilità. E quella costa.

Quindi come si fa?

Condividere è la strada: spazi, contatti, servizi. Molti temono che tolga unicità, ma è il modo per esistere senza svenarsi. È per questo che è nata l’idea di Maison Fashion Trust?

Durante la Fashion Week di settembre, il Fashion Trust, che guido con Warly

Tomei, apre una “casa” temporanea per quattro designer. Un giorno a testa, in un appartamento in centro, che cambia identità: mini-sfilate, installazioni, performance. Visibilità su misura, a costi sostenibili.

Quindi la regola è fare massa?

Da soli non si va lontano. Un mini team non basta. Ma se la richiesta arriva da un progetto solido, con contenuti, le porte si aprono: location, materiali, produzione. È il sistema che crea credibilità.

A quali mondi dovrebbe guardare un giovane designer per farsi spazio e ottenere supporto concreto?

All’arte. Le residenze d’artista sono spazi dove si vive, si lavora e si viene visti. Servirebbe lo stesso nella moda: non castelli, ma luoghi attrezzati per presentarsi, comunicare, farsi notare. Con format che siano in grado di esaltare le differenze, non che le annullino. ■

Fashion show producer «Fare in house è l'opzione, ma senza idee le carenze tecniche si notano di più»

Con Without Production ha prodotto più di 1.000 tra sfilate o eventi: cosa funziona meglio?

Dipende, ma se vuoi raccontare in profondità il tuo brand, punta sul fashion show. È un terreno che può ancora essere esplorato con intelligenza.

Si può fare una sfilata low budget? È complicato. Puoi risparmiare sulla location e trovare sponsor, ma la voce “professionisti” è la più costosa e difficile da ridurre. Streaming, sicurezza, tecnica… tutto pesa. Però qualcosa si può tagliare. Tipo?

Condividere. All’ultima fashion week, un brand affermato ha condiviso il set con un new designer che sfilava il giorno suc-

cessivo: stesso allestimento, costi tecnici divisi, solo cambio di sitting. La location fa la differenza?

Moltissimo. Milano non è economica, ma scegliere con cura può salvarti. L’outdoor costa meno, ma il meteo resta un rischio. Si risparmia di sicuro se...

Se fai tutto in casa, con creatività. I giovani brand che si organizzano da sé riescono a stare sotto i 50K. Sunnei compensa con le idee le mancanze tecniche. Meglio allora fare un evento?

Anche qui lìmitare il budget è dura. Tutti vogliono location inedite, in centro, menù wow, fiori, staff... A volte l'ideale è un dinner ben pensato al ristorante. Qual è il format low budget ideale?

I pop-up. Permettono di raccontare il brand, agganciare il pubblico, e lo puoi adattare al budget. Breve, ma ben fatto. Certo, non è la formula più adatta per attrarre i buyer. ■

LUCAS POSSIEDE Fotografo-storyteller

«Il fotografo? Serve per eventi unici e irripetibili. L'AI? Roba da lookbook»

Lucas, quanto conta davvero la fotografia in un evento per un brand giovane?

Conta tanto. Se non hai un bravo fotografo e videomaker, è come se l’evento non fosse successo. I contenuti visivi sono ciò che resta, quello che viene condiviso. È un investimento, non un extra. È più indicato organizzare un evento o una sfilata per un brand agli inizi?

Se devi promuoverti, meglio puntare sull’evento. È più flessibile, puoi raccontare meglio il brand. La sfilata funziona se vuoi mostrare la collezione, ma non è detto che faccia parlare del brand e del suo mondo. Dipende dalla strategia.

E se volessi risparmiare?

Se l’evento è banale o poco originale, puoi anche fare a meno del fotografo. Ma se stai creando un’esperienza vera, unica, allora non risparmiare: è lì che le immagini fanno il salto.

L’AI può aiutare a contenere i costi?

Magari per lookbook o social, ma non negli eventi. Gli eventi sono vivi, veri, pieni di gente e emozioni: lì l’AI non può sostituire il reale.

E chi prova a fare tutto in-house? Succede, ma la qualità cambia. Un buon fotografo sa cogliere gli attimi, valorizzare il contesto e le persone. È lì che fai davvero la differenza.

Un consiglio a chi ha poco budget? Puntare sull’originalità. Fare qualcosa di memorabile. E, non ultimo, investire nel racconto: perché se l’evento è bello e ben documentato, il brand farà parlare di sé anche dopo. ■

Scopritrice di talenti

«Per trovare sponsor servono creatività e un pensiero trasversale»

Poco budget, ma tanta voglia di fare. Da dove partire?

Prima cosa: non sentirsi obbligati a sfilare. Una presentazione, un’installazione possono funzionare meglio, anche a livello budget.

La sede della Fondazione Sozzani sta diventando una sorta di hub...

Offriamo il nostro spazio per gli show a costi simbolici, ma serve più impegno da istituzioni e grandi brand. In passato accadeva, oggi quasi mai.

Esempi di collaborazioni virtuose?

Lineapelle supporta giovani designer offrendo materiali e location gratuite. È un esempio concreto di come uno sponsor possa diventare partner.

Come si trova uno sponsor così?

Non si deve cercare solo sponsor per il make-up o l’hairstyling: bisogna pensare trasversale. Food, beverage, tech… brand anche fuori dalla moda ma interessati a un certo pubblico. Con un progetto chiaro puoi attirarli. Crocs ha supportato lo show di Simon Cracker, dando vita a una collaborazione smart.

Come rendere l’evento economicamente più sostenibile?

Unirsi ad altri brand: dividere location, tecnici, luci. Il risultato non è una sfilata collettiva, ma è strategia. E costruire un racconto solido: storytelling, foto, community. È ciò che gli sponsor cercano.

La sua prossima iniziativa "indie" ?

Alla fashion week trasformiano la Fondazione in uno spazio retail temporaneo dedicato alla moda indipendente. Un peogetto pensato per dare visibilità tangibile ■

GIOVANNA RUMOR

Titolare di un catering creativo

«Catering? Ci vuole un concept. Se è solo per sfamare, meglio evitare»

Giovanna, partiamo dal punto chiave: il catering è davvero così strategico per un evento?

Assolutamente sì, ma solo se è parte del racconto. Il catering non dovrebbe limitarsi a dare da mangiare o da bere. Il cibo - o il drink - è un mezzo per esprimere l’identità del brand. È storytelling, è concept. Se manca questo, resta solo l’effetto bar. E oggi non basta più. Come lei e il suo socio Alessandro Pozzi riuscite con Be Barman a offrire un servizio con un senso?

Partiamo sempre da una domanda: che messaggio vuole lasciare il brand? Da lì costruiamo tutto. Anche solo un vassoio o un cocktail possono parlare chiaro. Non serve

un menù infinito, bastano pochi elementi ben pensati. Questo fa anche risparmiare. Quali sono gli errori da evitare? Il primo è improvvisare. Bisogna avere un concept, un obiettivo chiaro, e costruire una squadra coerente. A volte, dopo un’analisi attenta, si capisce che il catering non serve. Meglio allora investire su altro elemento, piuttosto che buttare soldi solo per “riempire lo stomaco”. E sulla gestione dei costi in senso più ampio?

Pianificare fa la differenza. Il problema oggi è la concentrazione degli eventi in una giornata unica della fashion week e del Salone del Mobile. Così i costi di personale, gli spazi e altro finiscono per raddoppiare. Se si spalmasse meglio nel tempo si risparmierebbe tanto. Un consiglio ai brand emergenti? Fare scelte consapevoli. Non si tratta di fare tutto, ma di fare bene. ■

Fashion designer

«Mai spesi più di 3K per uno show. Idee e network contano piu del budget»

Con Lessico Familiare avete mai seguito un format classico?

Mai. Lessico Familiare è nato come progetto, non come brand. Lavoriamo in modo spontaneo, senza casting o stylist. I nostri modelli sono amici, le foto le scatta chi ci conosce. Tutto nasce da relazioni autentiche.

Lei però arriva da grandi aziende. Come mai questa scelta?

Mi sono formato in realtà strutturate come Max Mara e Gcds, so bene come funzionano le sfilate “da manuale”: location affittate, stylist, casting director…Ma per noi non ha senso spendere 50mila euro per 20 minuti. Preferiamo qualcosa che resti.

Quanto avete speso per organizzare le vostre sfilate?

Mai più di 2-3mila euro. La prima, nel 2022, l’abbiamo fatta al Bar dell'Angolo in via Hayez. Quella cifra serviva solo per sistemare la logistica.

Come trovate le location?

Grazie a chi ha creduto in noi. Milano ci ha dato tanto. La Fondazione Sozzani, ad esempio, ci ha ospitati quando nessuno ci conosceva.

Sempre eventi low cost, ma ci sarà una volta che avete esagerato ?

Una volta, con una cena da 5mila euro. Ma cucinava un’amica che fa tutt’altro nella vita. Anche lì: questione di relazioni, non di soldi.

E il formato ideale?

Non la cena rigida, non la sfilata classica. Preferiamo presentazioni fluide, con un piccolo scarto, un’accensione. Esperienze vere, che restano. ■

Riccardo Scaburri insieme ai soci Alice Curti e Alberto Petillo

Calzature e pelletteria: vincere la sfida è possibile

Due settori chiave della nostra economia hanno visto una contrazione negli ultimi sei mesi a causa della congiuntura internazionale e della frenata dei consumi, ma la passione di offrire nuovi prodotti, soddisfare il cliente e crescere all’estero motivano gli imprenditori a superare le difficoltà

La calzatura e la pelletteria italiana vivono situazioni complesse. Le fiere di settore, anticipate per le prossime Olimpiadi invernali, sono state testimoni di tale situazione.

Due conflitti in corso, nuovi dazi per chi esporta negli Usa e il rallentamento dei consumi penalizzano le aziende votate all’export.

L’industria della calzatura ha registrato un calo di fatturato del -5,6% e del -9,5% di produzione nei primi sei mesi dell’anno. Tuttavia, l’export, che si è attestato a 4,89 miliardi di euro, è rimasto positivo con +3,2% nei primi cinque mesi, benché il valore sia calato del -2,7%, soprattutto a causa di Far East e CSI. I mercati comunitari, invece, hanno registrato +1%, oltre a Emirati Arabi (+26,6%) e Turchia (+13,5%).

«Non possiamo esultare, ma come fiera internazionale stiamo facendo molto per favorire l’incontro tra imprenditori e compratori - spiega Giovanna Ceolini, presidente, di Confindustria Accessori Moda, Assocalzaturifici e Micam -. In Cina e Asia è cambiata

la mentalità. Il consumatore non compra più lusso sfrenato. Speriamo che apprezzi i nostri prodotti di qualità a prezzi giusti», aggiunge.

La pelletteria vive una situazione altrettanto seria. Negli ultimi cinque mesi le vendite hanno visto un -7,5% toccando 4,07 miliardi di euro con Francia in calo del -3,8% e +1,1% per Germania. I Paesi extra-EU, più attenti alla qualità che al brand, sono cresciuti: +35,7% per Emirati Arabi, +49,9% per Qatar e +16,7% per Turchia.

«I nostri associati non immaginano di chiudere l’anno in positivo, ma il decremento sarà più contenuto, cioè del 4% circa», commenta Federica Bevilacqua, direttore generale, Assopellettieri e Mipel. Le aziende continuano a lavorare con passione. «I problemi ci sono, ma affrontiamo le difficoltà in modo organizzato offrendo prodotti sostenibili, tecnologicamente validi e di qualità ottima. Questa è la direzione», conclude Ceolini. Le aziende che abbiamo intervistato confermano il loro impegno verso la ripresa e la crescita. ■

I dati del mercato

L’andamento dei settori di calzature e pelletteria mostra luci e ombre. Benché si noti un calo dell’export di entrambi, alcuni mercati stranieri hanno performato molto bene.

4,89mld

di euro è il valore del segmento delle calzature esportate nei primi cinque mesi del 2025, -2,7% rispetto al 2024

4,07mld

di euro è il valore del segmento della pelletteria esportata nei primi cinque mesi del 2025, -7,5% rispetto al 2024

+26,6%

l’export di calzature verso gli Emirati Arabi nei primi cinque mesi del 2025

+

35,7%

l’export di pelletteria verso gli Emirati Arabi nei primi cinque mesi del 2025

«Siamo abbastanza contenti per il buon afflusso in fiera. Partecipiamo a Micam principalmente per incontrare il mercato straniero, che rappresenta il 10% del nostro fatturato, mentre il mercato italiano è seguito in modo capillare dai nostri agenti. Lavoriamo bene con Turchia, Belgio, Paesi Bassi, Austria, Croazia e Slovenia. Il mercato è in difficoltà. Non è una sorpresa. Lo è tutto il settore moda, quindi anche quello delle calzature. Tuttavia, saremmo già soddisfatti di chiudere l’anno mantenendo risultati stabili. Abbiamo due diversi tipi di clienti. Benché quasi tutta la nostra offerta sia made in Italy, la clientela straniera vuole prodotti più femminili, curati, meglio se completati da accessori personalizzati. Gli italiani cercano maggior varietà nei prezzi apprezzando soprattutto la parte più sportiva dei nostri prodotti. Stiamo implementando la parte casual e sportiva, che è pensata per un utilizzo quotidiano e non per lo sport puro. Sono modelli che abbiamo iniziato a offrire all’uomo e poi anche alla donna. Da questa stagione, poi, abbiamo ampliato ancora di più la parte di prodotto sportivo femminile, benché la nostra offerta sia tutta improntata al comfort. È un aspetto che ci riconoscono, che fidelizza e che ci premia - perché il cliente se lo aspetta».

IMAC SPA, DIVISIONE IGI

«La calzatura sta soffrendo, come ogni altro settore. Il nostro gruppo include aziende come Primigi, Imac e Igi&Co e offre marchi per uomo, donna e bambino. Uomo e donna tengono bene, mentre per il bambino l’andamento è più difficile perché il consumatore compra calzature sempre più economiche, spesso fatte in Cina e, nella maggior parte dei casi, usa e getta. Stanno funzionando bene le calzature sportive. Per questo abbiamo lanciato Extr4, marchio di sneaker nato con l’AI 2024 e ora alla terza stagione. Offriamo circa 30 modelli utilizzando una membrana spalmata in Gore-Tex - che garantisce più leggerezza e flessibilità della sneaker che usava il Gore-Tex tradizionale. Benché all’inizio, Extr4 ci sta dando soddisfazione, perché è entrato in circa 600 negozi in tutta Europa. Siamo arrivati a vendere circa 100mila paia l’anno. È un buon risultato, ma per noi è un punto di partenza».

Raffaele Carlino

PRESIDENTE CARLINO GROUP

«Offriamo vari marchi tra borse e calzature come V°73, Biasia, Francesco Biasia e Miriade di proprietà, e Valentino by Mario Valentino, By Byblos e Icon su licenza. La nostra holding, che controlla anche Carpisa e Yamamay, ha un fatturato complessivo di 450 milioni di euro, di cui circa il 70% proviene dall’export. Nasciamo dalle borse, che oggi rappresentano l’80% delle nostre vendite, ma vogliamo crescere anche nella calzatura. Questa crisi è una sfida importante, perché ci sprona a capire dove posizionarci. È giusto vendere, ma bisogna stare attenti a dove lo facciamo e focalizzarci sul prezzo pieno. Sappiamo, infatti, che vendere via e-commerce e social network con prezzi al ribasso rischia di svilire i brand. Abbiamo una nostra catena di 70 negozi con insegna Miriade. Sono multibrand, ma vogliamo che diventino lentamente monobrand. Per questo, nell’arco di un anno, creeremo una società dedicata solo a scarpe e borse Miriade. Produciamo per il 90% all’estero e 10% in Italia, ma credo nell’importanza di tornare a produrre in Italia, dove ho fondato Miriade quasi 30 anni fa. Vogliamo rafforzare V°73: apriremo un corner alla Rinascente di Milano tra pochi giorni, oltre a un monomarca a Venezia in gennaio e quattro altri shop in varie città turistiche italiane. Il prossimo obiettivo è crescere con i nostri marchi di proprietà, Biasia e V°73, in Sud America e Arabia Saudita. Sono i mercati più appetibili per il loro potenziale e perché liberi dai dazi».

DIRETTORE CALZATURIFICIO MARCOS

« Esistiamo da oltre 50 anni. Produciamo Marcos Nalini, nostro marchio di scarpe da donna, e calzzature per private label. Lavoriamo con oltre 25 mercati in tutti i continenti e realizziamo praticamente l’intero fatturato all’estero.

Tra i nostri clienti abbiamo aziende australiane, canadesi e statunitensi. Con queste ultime stiamo stringendo accordi per affrontare il problema dei dazi, trovando accordi sui prezzi. Oltre a essere figlio dei proprietari, ricopro la carica di presidente della Sezione Calzature di Confindustria di Macerata. A breve una delegazione di aziende del territorio, insieme ad altre del nostro Paese, parteciperemo a nuova una fiera che si terrà a Riad, in Arabia Saudita, dal 6 all’8 ottobre, organizzata da vari enti di settore e Confindustria.

Sono fiducioso per questa opportunità, che aprirà nuove prospettive verso un mercato con un alto potenziale di crescita».

PROPRIETARIO

CAMPOMAGGI E CATERINA LUCCHI

«Partecipando a Mipel abbiamo notato un’affluenza contenuta, ma siamo coscienti che si tratta di una situazione temporanea. Questa fiera, anticipata rispetto alle tempistiche solite, si svolge contemporaneamente a un’altra a cui partecipiamo - Who’s Next a Parigi. Inoltre, solitamente, la coincidenza con Lineapelle, sfilate e altre fiere, portava più buyer. Offriamo solo prodotti in pelle e made in Italy. Il brand Gabs si focalizza sulla funzionalità e offre borse che si modificano grazie a bottoncini e a un fondo rigido rimuovibile. Ne compri una ma è come se ne avessi cinque perché, all’occorrenza diventa zaino, portacomputer, shopper, sacca o bauletto. Realizziamo anche Caterina Lucchi, basata su lavorazioni fatte a mano e tinto in capo, e Campomaggi, marchio d’alta qualità che non esponiamo qui. Realizziamo un fatturato di 18 milioni di euro attraverso 1.000 negozi in tutto il mondo. Stiamo investendo su e-commerce e Usa dove apriremo una filiale».

Marco Campomaggi

VISTI IN FIERA

Cinque storie da scoprire a Micam e Mipel

Conosciamo Multitudes, nato come spinoff di un brand di cartoleria e piccola oggettistica, Vestella vegano ed eco-friendly, Apice basato sul valore dell’imperfezione, Le Plagiste al rilancio dopo una lunga pausa e Vionic, al debutto sul nostro mercato

DI CRISTIANA BONZI

Abbiamo selezionato a Fiera Milano Rho alcuni brand di scarpe tra debutti, ripartenze e un esordio sul mercato italiano. Il filo conduttore è l’impegno a non rinnegare le radici, che continuano ad affondare nella lunga storia della calzatura, pur ramificando nel contemporaneo quanto a tendenze, innovazione, attenzione al design e all’estetica. La qualità è al servizio di un’identità forte, che procede di pari passo con la capacità di interpretare l’evoluzione socioculturale: le collezioni interpretano i nuovi stili di vita nel segno della funzionalità, mentre la sostenibilità allarga la propria area semantica arriva a includere l’approccio responsabile verso il benessere sociale. A sua volta, la pelletteria attinge agli archivi del passato, con la libertà di reinventare creativamente i fondamentali e sottolineando il valore delle piccole produzioni familiari con gli occhi puntati sull’ambiente, le persone e l’innovazione all’insegna del riuso. L’esito è uno stile consapevole, con uno sguardo ampio che parla direttamente anche alle giovani generazioni, interpretandone sogni e bisogni. ■

Multitudes

Ci sono i designer Angela Tomasoni e Matteo Carrubba dietro al marchio milanese, nato nel 2024 come spin-off di un brand di cartoleria e piccola oggettistica. «Le nostre borse plissettate erano così identitarie che abbiamo riconosciuto loro una dignità a parte, creando Multitudes». Un nome, una filosofia: la leggerezza con cui gli oggetti, come le persone, possono contenere “moltitudini”, appunto. A partire dal contenuto grafico, disegnato dai due stilisti, docenti in Marangoni: fantasie geometriche, poi riprodotte su poliestere, tradizionale e riciclato. Realizzata grazie a una rete di fornitori del milanese, la collezione è ospitata in circa 900 punti vendita a livello globale tra boutique, department e concept store, shop museali (Moma, Fondazione Louis Vuitton, Poldi Pezzoli, Mudec) e negozi di design. Il prossimo step? Zainetti, microbag e sciarpe, all’insegna del binomio tra plissé e grafica.

Apice

«Authenticity lives in imperfection è il nostro motto». A rivelarlo è Zarina Pistonesi, fondatrice e designer di Apice, brand made in Marche sulla scena dal 2022 e in via di consolidamento da qualche stagione. L’autenticità è quella di una produzione fatta a mano, dove l’imperfezione sta nelle piccole differenze tra una scarpa e l’altra, «anche all’interno dello stesso paio». D’altra parte, obiettivo del marchio è una produzione lontana dalle logiche industriali della realizzazione in serie, un progetto tutto al femminile agli esordi, a cui si è aggiunta qualche proposta per lui e, nell’ultima collezione, una ballerina unisex. L’estetica è, come spiega Pistonesi, «modern punk, grazie a rivetti (non borchie!) nella parte posteriore della scarpa, per dare carattere a qualunque outfit». Attualmente Apice è distribuito nei concept store internazionali «e per il futuro stiamo pensando di estenderci agli accessori, ma è troppo presto per dirlo»

Vestella

Valeria Senatra e Marco Verbigrazia fanno convergere su un progetto moda «familiare» due carriere precedenti in altri settori. Accade nel 2021, quando a nascere è il desiderio di lanciare un messaggio di responsabilità verso il pianeta e gli esseri viventi. L’idea di realizzare borse è di Valeria, oggi creative director di Vestella ethichic italian bags, marchio vegano ed eco-friendly. La collezione, realizzata con cura in laboratori marchigiani che garantiscono condizioni di lavoro etiche ed eque, riutilizza scarti dell’industria alimentare, come mele e arance, sotto forma di materiali innovativi a basso impatto ambientale, prodotti da start-up italiane. Modello di punta è la minibag pensata per la Gen Z, particolarmente sensibile al tema della sostenibilità. Dalla sede di Manziana, fuori Roma, le creazioni Vestella raggiungono i consumatori italiani in prevalenza tramite l’e-commerce diretto, affiancato da una rete B2B che serve selezionati retailer, e arrivano nelle vetrine di Dubai e del Giappone grazie a collaborazioni con realtà locali.

Le Plagiste

Marchio francese fondato originariamente nel 1999, Le Plagiste rinasce nel 2025, dopo una pausa di oltre dieci anni, grazie al rilancio dei cofounder Simon Michel e Rodolphe Stephan, con un passato comune in Repetto. Quella per la primavera-estate 2026 è la terza collezione del nuovo progetto unisex, che li vede coinvolti con l’obiettivo di riportare in auge il brand, ricodificando l’eleganza classica della tradizione artigianale di alta gamma secondo una riscrittura più contemporanea. La collezione - affidata a un atelier spagnolo - ruota intorno al modello The Saint Trop, una derby di pelle d’agnello dalla costruzione a sacchetto, sinonimo di comfort e flessibilità, con la stessa allure décontractée riproposta nelle altre creazioni, omaggio ad altrettanto famose località balneari francesi. L’idea creativa è chiara: «Realizzare pochi modelli iconici continuativi, variando i colori», spiegano i fondatori. La strategia commerciale riparte da 15 boutique in Francia e due tra Germania e Belgio, mentre all’orizzonte si profilano Olanda, Svizzera, Italia e l’area asiatica.

Vionic

Viene dalla California e mira a coniugare moda e benessere, promettendo di migliorare la postura, favorire l’allineamento e restituire energia a ogni passo. Vionic - shoe brand fondato nel 1991 e caratterizzato da un forte know-how ortopedico - va alla conquista del mercato italiano a partire dalla collezione FW25/26, distribuita in esclusiva da Asak. Anima delle proposte del marchio americano donna e uomo è un design ergonomico, realizzato grazie a un sistema brevettato che ottimizza il movimento naturale del corpo, combinando supporto biomeccanico, stabilizzazione del tallone e materiali di alta qualità a ritorno d’energia. Una visione di stile e performance con cui Vionic si propone al consumatore italiano, nell’ambito di un percorso più ampio di internazionalizzazione del brand.

«È il momento dei brand belli, ben fatti e che si fanno notare»

Perla Alessandri e Valentina Micchetti ripercorrono la crescita di Alevì Milano: dalle prime campagne self-made all’accordo con il gruppo Bal (El Palacio de Hierro). Anticipano risultati e strategie del brand di calzature, fondato nel 2019, per cui è atteso il raddoppio del fatturato. «Il cliente non cerca più un prodotto solo perché è riconoscibile, e questo ci avvantaggia», dicono le due imprenditrici. Nel mirino l’ampliamento della gamma, ma la priorità resta il rapporto diretto con il cliente, fonte preziosa per calibrare l’offerta

Valentina Micchetti e Perla Alessandri sono le fondatrici di Alevì Milano, brand di calzature nato dall’unione dei loro nomi (è l’acronimo dalle prime tre lettere del cognome di Perla e dalla “V” di Valentina) e delle rispettive competenze: Perla segue la produzione, forte dell’esperienza maturata nell’azienda di famiglia Grey Mer (oggi acquisita da Chanel), mentre Valentina guida comunicazione e immagine, grazie a una lunga carriera nelle celebrity pr. In

pochi anni sono passate dal fai da te«Ci occupavamo di tutto, dal commerciale all’e-commerce» - a un’espansione internazionale, conquistando un socio di rilievo come il gruppo BAL, che controlla il colosso messicano del retail El Palacio de Hierro, dove si trovano marchi come Hermès e, naturalmente, Alevì. Oggi, in virtù del nuovo assetto societario, possono strutturare il team con figure chiave come cfo, store planner e una direttrice commerciale e av-

viare piani di espansione. «Sogniamo un rapporto più diretto con il cliente finale e, in futuro, nuove collezioni. Un brand non può restare sempre uguale: deve sapersi reinventare».

Come nasce Alevì?

P.A.: Ci conosciamo da sempre. Io ho portato l’esperienza produttiva, Valentina la visione creativa e la competenza nella comunicazione. L’azienda della mia famiglia ci ha supportato tecnica-

mente: libertà creativa, controllo sulla qualità, nessun minimo d’ordine e la possibilità di realizzare ciò che avevamo in mente. Insomma, tutto quello che serve per dar vita a un brand.

V.M.: Fin da subito avevamo chiaro l’obiettivo di trovare un socio che investisse sul brand. Sapevamo che non potevamo fare tutto da sole, ma anche che avevamo le carte in regola per farci notare. E credo proprio che ci siamo riuscite in fretta. Dagli esordi sul mercato eravamo presenti in inditizzi top del retail multimarca: Antonia, Level Shoes, Selfridges… Questo genere di visibilità è stato un passo davvero fondamentale.

Quando arriva la svolta?

V.M.: Quando El Palacio de Hierro (gruppo BAL) ci ha contattate. Prima erano clienti del brand, poi si sono interessati al progetto. Da lì è nata la partnership. Ci hanno scelte per portare Alevì in mercati in forte espansione come l’America Latina. Prima vendevamo solo nel wholesale, senza corner o concession. Oggi, grazie a questa collaborazione, abbiamo una presenza diretta e maggiore visibilità.

P.A.: E senza pagare per l’esposizione. Loro sono veri partner. Questo fa una grande differenza a livello strategico.

Tutto è partito senza agenti. Come avete gestito la distribuzione?

P.A.: Da sole. Abbiamo fissato appuntamenti in autonomia a Milano, Parigi e New York. Per due anni, è stato tutto self-made.

V.M.: Quando a raccontare il prodotto ai buyer è direttamente chi lo ha ideato, l’impatto è diverso rispetto a quando tutto passa per un venditore stagionale. Se sapevo che una scarpa sarebbe finita ai piedi di Kendall Jenner, dicevo al buyer con convinzione: “Comprala”. E si fidava.

P.A.: Io poi aggiungevo i dettagli tecnici: materiali, costruzione, prezzo…Un mix tra storytelling creativo e concretezza commerciale. Ha funzionato.

Com’è strutturata la distribuzione?

V.M.: Abbiamo circa 50 clienti wholesale, tra boutique e department store, soprattutto in Europa. Dubai e Abu Dhabi sono mercati fortissimi. Anche Est Europa e Grecia stanno crescendo bene.

P.A.: Lavoriamo anche online con il nostro e-commerce. All’inizio funzionava in pre-order, con tre settimane di attesa. Oggi abbiamo uno stock dedicato e possiamo finalmente operare in modo più scalabile.

«Un brand non può restare sempre uguale: deve sapersi reinventare»

Valentina Michetti e Perla Alessandri, founder di Alevì Milano

Come cambia il rapporto con Grey Mer ora che è stata acquisita da Chanel?

P.A.: È tutto sotto controllo. Alevì è sempre stato un “cliente speciale” per Grey Mer, e continuerà a esserlo. Chanel oggi detiene il controllo della società, ma non ha posto alcun veto sul fatto che continuiamo a supportare il progetto Alevì. Inoltre, conservo il mio ruolo di ceo di Grey Mer .

Nuovo socio, accordo produttivo confermato. È il vostro momento…

V.M.: Sì, con questa campagna vendita abbiamo raddoppiato il fatturato. Quindi direi che il mercato sta reagendo in modo positivo. Già ora sappiamo che il 2026 sarà in crescita, anche grazie a nuovi clienti importanti e ai partner storici che continuano ad aumentare i budget.

P.A.: E con la nuova direttrice commerciale (in arrivo da Jimmy Choo, ndr) possiamo espanderci davvero. Siamo nel pieno della campagna vendita Spring/ Summer 2026, e le cose stanno andando molto bene.

Come vi spiegate questi numeri, in controtendenza rispetto al mercato?

P.A.: È un buon momento per i brand ben fatti, belli, ma che non si trovano ovunque. Il cliente è stanco del prodotto riconoscibile. Cerca qualcosa di esclusivo, autentico.

V.M.: Sa cosa sta succedendo? A Porto Cervo, dove abbiamo da poco inaugurato il primo flagship store, entrano clienti da tutto il mondo, che comprano perché sanno che quelle scarpe lì non le troveranno né a Saint Tropez né a Ibiza. Oggi chi può permettersi tutto vuole distinguersi in modo più personale. È finita l’era dell’acquisto costoso tanto “per farsi riconoscere”.

Qual è la vostra politica commerciale?

P.A.: Niente minimo d’ordine obbligatorio. Così non abbiamo mai perso un cliente.

E i prezzi?

V.M.: Il nostro prezzo medio è tra i 750 e gli 850 euro, con punte di 1.100–1.200 per i modelli speciali.

Nuovi progetti?

P.A. : L’idea è ampliare la gamma all’interno del segmento calzature e, magari, anche nel mondo degli accessori: borse, bijoux… Tutto però deve partire da un business plan ben definito, con priorità chiare.

V.M.: E la priorità ora non è la diversificazione merceologica, ma il potenziamento del rapporto diretto con il cliente finale. L’apertura di Porto Cervo e lo spazio in Rinascente di Milano ci hanno insegnato molto. Scarpe su cui i buyer non hanno puntato, lì vanno forte. Queste informazioni ci aiutano a calibrare meglio la proposta e ci spingono a considerare nuovi flagship e pop-up store.

Come si fa a far durare questo momento?

P.A.: Reinventarsi, sempre. La vita di un brand attraversa dei cicli. Bisogna saperli gestire al meglio.

V.M.: Esatto. E il mercato da esplorare è enorme: lavoreremo sulle nicchie. ■

Lo store di Porto Cervo, inagurato a maggio 2025
ANDREA BIGOZZI

Scarpe comode, resistenti, intramontabili: «Mephisto rappresenta il vero lusso»

Il marchio Mephisto era considerato antiquato e borghese. Ma ora le scarpe dell’azienda francese, che nel 2025 festeggerà il suo 60esimo anniversario, sono di gran moda. Anche grazie alle collaborazioni con marchi cool come Patta e 18 East

L’eco sulla stampa è enorme. «La calzatura meno cool in assoluto è improvvisamente diventata cool?», si chiede il Wall Street Journal. «Le scarpe del nonno vanno a ruba», scrivono gli esperti di tendenze di Highsnobiety. Si parla di Mephisto. Il marchio di Sarrebourg, in Francia, che nel 2025 festeggerà il suo 60esimo anniversario e che per molto tempo è stato considerato antiquato e fuori moda, è improvvisamente diventato molto popolare tra i fashionisti di tutto il mondo, oltre che un partner ricercato per le collaborazioni. «Non siamo proattivi. Al contrario, sono i partner che vengono da noi perché vogliono associare il loro nome al nostro», afferma Marc Michaeli, figlio del fondatore dell’azienda Martin Michaeli L’elenco delle partnership si allunga sempre più. Mephisto ha recentemente collaborato con il laboratorio creativo Cncpts di Cambridge, nel Massachusetts, il negozio multimarca Oi Polloi di Manchester, il marchio di streetwear Patta di Amsterdam, quello newyorkese 18 East e il brand francese di abbigliamento maschile Fursac

«Una delle domande più importanti che le persone si pongono quando acquistano un prodotto, nella fattispecie una calzatura, è: ‘È comodo? È resistente? È senza tempo?’ - afferma Gauthier Borsarello, direttore creativo di Fursac e co-fondatore della rivista L’étiquette, parlando della partnership con Mephisto -. Per me questo è vero lusso». Il boom delle scarpe sportive è finito. Le scarpe di alta qualità, comode e salutari dal punto di vista ortopedico sono di tendenza. Ne traggono vantaggio marchi come Birkenstock, Paraboot e Scholl e anche Mephisto non è da meno. Nel corso degli anni il marchio ha ampliato la sua offerta di prodotti, per uomo e donna. Oltre alla linea principale Mephisto, l’azienda dispone oggi della gamma ergonomica Mobils, di Allrounder pensata per l’escursionismo e

A consigliare il fondatore

Martin Michaeli, tedesco, a stabilirsi in Francia fu Horst Dassler: «Abitanti bilingui, laboriosi e costo del lavoro competitivo»

Mia e Sway, mentre Allrounder punta sulle sneaker Astera e Nova 84

altre attività all’aria aperta e, non ultima, Sano, pubblicizzata come particolarmente comoda. Per la primavera-estate 2026 il brand punta, tra gli altri, su modelli come i sandali con plantare in sughero Berrie, Dayana, Halbane e Natalya. La linea Mobils, morbidamente imbottita, entra in gara con i modelli Dixie, Fyda, Martin Michaeli

La produzione avviene in Francia e Portogallo. Il fatto che il fondatore di Mephisto, Martin Michaeli, abbia deciso di trasferirsi dalla Germania alla Francia è merito del suo amico Horst Dassler, figlio del fondatore di Adidas, Adolf Dassler, e artefice del marchio Arena È stato Dassler a consigliare a Michaeli, che è tedesco e ha completato la sua formazione alla scuola di calzature di Pirmasens, di stabilirsi in Alsazia-Lorena. L’imprenditore aveva sostenuto la sua tesi con il fatto che gli abitanti di questa regione di confine erano bilingui, cosmopoliti, molto laboriosi e, non ultimo, che i salari erano più bassi che in Germania. Michaeli decise di seguire il suo consiglio. Dopo diversi trasferimenti, Mephisto ha trovato casa a Sarrebourg, a circa 80 chilometri a Est di Nancy. Marc Michaeli, non rivela il fatturato attuale. All’inizio Mephisto esportava il 100% della produzione. Oggi la quota di export è del 20%, poiché il mercato interno francese è diventato un pilastro dei ricavi: «Siamo molto, molto conosciuti in Francia», ribadisce. L’azienda intende sfruttare l’hype intorno a Mephisto per posizionarsi più in alto nella distribuzione. A tal fine ha assunto come consulente Martin Johnston, che ha già lavorato per Salomon, Adidas, Tommy Hilfiger, Crocs e Perry Ellis. Johnston ha messo nel mirino i department store: «Lì puoi rafforzare la narrativa sul brand con un tuo punto vendita - afferma Johnston -. Con i suoi 60 anni, Mephisto può raccontare molte storie». Sui media, del resto, gli elogi si sprecano. Basti pensare alla rivista GQ, che ha inserito le calzature Mephisto nella lista delle sneaker più di tendenza per il 2025. Martin Johnston non può che esserne felice: «Il nostro lavoro - conclude - sta iniziando a dare i suoi frutti». ■

DSV, MOTORE PER LA SUPPLY CHAIN

Visione globale, presenza locale e competenze verticali avanzate: per affiancare i brand del lusso nell’evoluzione dei modelli operativi di trasporto e logistica, DSV combina questi asset, rispondendo con agilità a contesti ed esigenze in continuo cambiamento.

Per essere competitivi in un settore, come quello del fashion di alta gamma, dove il tempo detta i ritmi e il dettaglio fa la differenza, affrontare le sfide globali della supply chain con un partner strategico può risultare decisivo.

Con l’acquisizione di DB Schenker, completata nel maggio 2025, il colosso danese del trasporto e della logistica su scala globale DSV ha dato vita alla più grande azienda logistica al mondo. Una mossa chiave, che consolida la leadership dell’impresa e segna un punto di svolta per l’intero comparto: l’offerta è una piattaforma globale, integrata, flessibile, costruita per sostenere la crescita dei propri clienti, anche nei settori più esigenti come quello del lusso.

Proprio al fashion di alta gamma, DSV dedica soluzioni su misura che uniscono innovazione, sostenibilità e massima attenzione alla brand identity, come DSV Revive, il servizio che trasforma gli invenduti in nuove risorse attraverso un processo di riciclo certificato e tracciabile, senza far ricorso a outlet o vendite private. L’integrità del marchio è quindi pienamente tutelata, mentre si abbraccia

una reale economia circolare, in linea con i più stringenti criteri ESG.

Quando invece è il tempo il fattore critico, DSV Red Carpet consente spedizioni urgenti gestite con precisione chirurgica, grazie a un servizio di hand carry che assicura consegne dirette, tracciate in tempo reale, in piena conformità alle normative internazionali. Un livello di servizio che riflette l’eccellenza e la riservatezza richieste dal mondo del lusso.

Leader nel settore delle spedizioni, DSV si propone anche come regista logistico per store opening e pop-up store. Il servizio include il coordinamento delle consegne, il setup degli spazi e la gestione degli arredi, con team dedicati in grado di garantire puntualità, cura e coerenza con l’immagine del brand.

Per rispondere alle esigenze complesse dell’e-commerce — dalla gestione dei picchi stagionali alla personalizzazione degli ordini — la prima Fulfilment Factory italiana, un hub alle porte di Milano, unisce automazione avanzata, efficienza energetica e scalabilità operativa per supportare le campagne più intense e la costruzione di un’esperienza online all’altezza dei più alti standard del mercato.

BUYERS' SURVEY DONNA SS25

It bag ancora alla prova dei prezzi. Le scarpe? Pochi tacchi 12, meglio la praticità

Al di là delle clienti altospendenti, che possono non curarsi delle impennate dei listini, gli acquisti aspirazionali di borse di lusso sono nel cono d'ombra. Allo stesso modo, si tende a non spendere cifre alte per calzature che magari fanno scena, ma vengono indossate poco

L'andamento delle vendite di accessori donna (borse e scarpe) nella primavera-estate 2025, in base al nostro sondaggio con una sessantina di dettaglianti dei segmenti top e premium, sembra essere stato migliore rispetto a quello dell'abbigliamento: è vero che la percentuale di intervistati che indica una crescita è pressoché uguale (23% per l'abbigliamento e 22% per gli accessori), ma coloro che parlano di una flessione sono il 16%, contro una cifra più che doppia per il womenswear (33%). Solo il 44% del campione chiude la stagione all'insegna della stabilità

COME SONO STATE

LE VENDITE DI ACCESSORI

DONNA DELLA SS25?

62%

STABILI

22% IN CRESCITA

16% IN CALO

nell'abbigliamento, mentre nel caso di borse e calzature si sale al 62%. Tutto apparentemmente bene, dunque, anche se incertezze e segnali di una profonda trasformazione del mercato non mancano. È interessante analizzare le performance delle singole merceologie: partendo dalle borse, al di là del fatto che prevalgono nelle scelte i modelli di dimensioni medie (61%), si nota che la spesa massima che la donna si concede è relativamente bassa (dai 500 ai 1.000 euro secondo il 56% dei protagonisti della nostra Buyers' Survey) e che solo per il 4% si superano i 3mila euro. Percentuali che sono

Colognese 1882 - Montebelluna (Tv)

SCARPE: COSA HA VENDUTO DI PIÙ?*

25%

SNEAKER DA CITTÀ

16% MOCASSINI 14%

CIABATTINE E MODELLI FLAT

12%

SNEAKER STILE RUNNING

12%

SANDALI E CALZATURE ELEGANTI CON TACCO BASSO

9%

SANDALI E CALZATURE SPORTIVI

7%

SANDALI E CALZATURE ELEGANTI CON TACCO MEDIO

6%

SANDALI E CALZATURE ELEGANTI CON TACCO ALTO

2%

SNEAKER STILE VINTAGE

* Risposte multiple

BORSE: COSA VINCE NEL SELL OUT?*

61%

BORSE DI DIMENSIONI MEDIE

19%

BORSE PICCOLE

18%

BORSE GRANDI

2%

PORTAFOGLI E PICCOLA PELLETTERIA

* Risposte multiple

il segno inequivocabile del divario crescente tra le clienti altospendenti e quelle aspirazionali, sempre più caute. Del resto, negli ultimi cinque/sei anni i prezzi di molte borse delle griffe sono letteralmente raddoppiati. Recentemente corriere.it ha pubblicato una comparazione tra il passato e il presente, prendendo in esame alcune it bag delle griffe. È emerso che la "2.55" di Chanel, inconfondibile modello in pelle matelassé con tracolla a catena, che sei anni fa costava già la bellezza di 5.800 euro, è salita a oltre 11mila. Quanto al bauletto in tela Damier di Louis Vuitton, un altro grande classico, è passato da 800 a 1.600 euro, raddoppiando il suo listino. «Sono casi eclatanti, ma l'impennata dei listini non è certo una novità e tiene ancora banco - commenta Gaetano Deflorio di Deflorio a Noicattaro, in provincia di Bari -. Tuttavia, certi modelli di borse non puoi non averli in negozio, perché ti aiutano a fare immagine. Poi è chiaro che la vendita non una tantum si ottiene puntando su altro: noi, per esempio, notiamo un buon interesse verso marchi come l'italiano Zanellato, il francese Lancaster e anche una realtà giovane come Themoiré». In molti sottolineano, se mai ce ne fosse bisogno, che «la clientela disposta a spendere cifre consistenti per una borsa di lusso non è scomparsa, ma il fenomeno si è notevolmente ridotto». Statisticamente, soprattutto nelle località turistiche, si tratta più di acquirenti straniere che italiane, ma per esempio di cinesi o russe ne arrivano tuttora poche e durante questa stagione estiva anche da altre nazioni, come gli Stati Uniti, ci si aspettava una presenza maggiore: il cambio euro-dollaro sfavorevole agli americani è stato uno dei fattori che hanno bloccato le trasferte da oltreoceano. Andrea Bonvicini di Bonvicini Fashion Galleries & Stores a Montecatini Terme, cui è dedicato un approfondimento in queste pagine, ribadisce come «la regola, soprattutto quando si parla di borse, è la discontinuità nell'acquisto. Il caso della cliente che entra e si innamora di una Lady Dior, venduta a poco meno di 6mila euro, c'è ancora, ma diciamo che in generale per una borsa si tende a spendere al massimo 2mila euro».

Serve da parte dei retailer una particolare "sensibilità" sulla scelta dei continuativi, vedi certi modelli di Gucci, «che ti permettono di non svendere e mantenere valore in una stagione e anche in quella successiva», come fa notare nella nostra nuova pubblicazione digital only Fashion Insight su fashionmagazine.it Sabina Zabberoni di Julian Fashion, tra l'altro alle prese con l'apertura di un nuovo store e con lavori in corso per una boutique da inaugurare nel 2026 a Milano Marittima. Passando alle calzature, in vetta alle vendite si piazzano le sneaker da città, seguite da mocassini e ciabattine e modelli flat. Non molto ricercate le calzature eleganti, specie se con tacco alto: queste ultime non vanno oltre il 6% delle segnalazioni. Per un paio di scarpe eleganti la donna tende a non voler spendere più di 500 euro e solo una percentuale esigua (il 4%) si spinge oltre il tetto dei 3mila euro. «Sono poche le clienti che chiedono una calzatura da 800 euro, magari tacco 12, che poi finisce per essere indossata solo poche volte», conferma Marco Cateni di Divo a Pontedera in Toscana. Pare che anche le ciabattine gioiello da 500 euro, comodissime ma care, creino qualche resistenza, benché stilose. Piuttosto, la consumatrice preferisce spendere la stessa cifra per due paia di scarpe (soprattutto sandali) anziché uno solo, oppure riscoprire classici poco impegnativi a livello economico, ma che in estate possono andare senza alleggerire il portafoglio, come le Castañer Per le scarpe sportive il trend è sborsare circa 200-300 euro, secondo quasi la metà degli interpellati. Anche in questo caso si tende a non esagerare e in particolare sulle Golden Goose, che piacciono ancora a un target trasversale di consumatori e consumatrici, emerge qualche remora sul prezzo: a grandi linee si va dai 500 euro in su, ma una Super Star in suede con cristalli e talloncino in pelle va in vendita a quasi 1.800 euro. Infine, qualche segnalazione di nomi non mainstream di accessori, borse in particolare: si va da Naghedi a Salce, fino a Ibeliv, Marghesherwood, Hereu, Yuzefi, Hidesins, Cult Gaia e Aeyde. ■

QUAL È STATO IL MARCHIO

BEST SELLER DI ACCESSORI DONNA DELLA SS25?

MC2

SAINT LAURENT, AUTRY, GOLDEN GOOSE, VIVIENNE WESTWOOD 1 2 3 4

ORCIANI

ZANELLATO, MIU MIU

ANDREA BONVICINI

Titolare di Bonvicini

Fashion Gallery & Stores

Qual è la sua sensazione sul settore borse?

Lo scenario è ancora dominato dai big brand ma i prezzi restano un deterrente per un mercato in stallo, che stenta a riconoscere la congruità tra il prezzo richiesto e il valore percepito dell'oggetto da comprare. Siamo di fronte ad acquisti molto meditati, talvolta legati a compleanni, lauree o altre ricorrenze, ma con un ritmo non certo costante nel corso della stagione. Quali i brand di fascia media o premium con un buon sell out?

NELL’ONLINE CHI HA VINTO?

GOLDEN GOOSE 1 2 3 ALESSANDRA BIGOTTA

MC2 SAINT BARTH

SAINT LAURENT

Ringraziamo i protagonisti della nostra Buyers' Survey

Il nostro sondaggio ha raccolto circa 60 adesioni, permettendoci ancora una volta di fare il punto sul mercato. L'elenco dei negozi che hanno risposto, anche per l'abbigliamento, è pubblicato nel servizio alle pagine 44-49.

Mi vengono in mente Pinko, che ha una scelta di modelli e colori piuttosto ampia, e Kurt Geiger, con proposte divertenti (anche di scarpe, come le ciabattine), da cui scaturiscono acquisti emozionali. E ancora, per la clientela di classe ed età media, Orciani, che presenta un range price sui 600700 euro, in materiali di alto livello e con un'offerta completa. Alle giovani piacciono le borse di Jacquemus, ma non scendono al di sotto degli 800 euro. Bene, nel segmento intorno ai 300 euro, Elisabetta Franchi. Il fenomeno dell'estate? MC2 Saint Barth, con le sue shopping mare e le buste a mano da spiaggia: il brand ha prezzi accessibili e già a luglio ha fatto il tutto esaurito.

Passiamo alle scarpe...

Una sneaker firmata può costare 800 euro e funzionare, ma solo se porta la firma di Dolce&Gabbana o Gucci, per fare due esempi. Scendendo di prezzo, Hogan sta riprendendo quota, mentre i listini di Golden Goose, in salita, mettono qualche freno all'acquisto. Sono in voga anche ciabattine, sandali con il tacco al massimo di cinque centimetri e stivali texani al ginocchio per le ragazze in discoteca. A proposito di stivali, per l'invernale il marchio Guglielmo Rotta li presenta made in Italy e di ottima fattura sotto i 600 euro. Un altro nome da segnalare è Aldo Castagna, con le sue décolleté che non superano i 320 euro.

Bonvicini Fashion Gallery & Stores Montecatini Terme (Pt)
SAINT BARTH

SPRING-SUMMER 2026

La regola è riscrivere le regole

Grandi, piccole, medie, morbide o più strutturate: le nuove borse si sbizzarriscono in declinazioni diverse e inaspettate, con la consapevolezza che il già visto non vende. La consumatrice cerca colori nuovi, dettagli giocosi e, non ultimo, un prezzo giusto: insieme questi tre fattori determinano un acquisto che trova il punto d’incontro fra emozionalità e razionalità. Un discorso analogo vale per le scarpe, che rileggono i classici - la sneaker, il mocassino, la ballerina, il sandalo - in modo creativo, andando oltre i cliché e le barriere generazionali.

AGL

Ph. Thomas Wiedenhofer

La galassia borse è in continua espansione

ALVIERO MARTINI 1A CLASSE
KATE BAG
RUE MADAM PARIS
COCCINELLE
LA CARRIE
NORAE
BIASIA
LA MILANESA
ZANELLATO
VALEXTRA
BRIC’S

EMANUELE MAZZIOTTA

DIRETTORE GENERALE COCCINELLE

«La qualità dell’esperienza cliente vale come il prodotto»

Emanuele Mazziotta, direttore generale di Coccinelle - sinonimo di borse e, da qualche stagione, anche di calzature - non nasconde la soddisfazione citando il fatturato 2024, a quota 104 milioni di euro (+10%). «Una crescita solida e trasversale a tutti i canali e le aree geografiche - sottolinea - con un ebitda molto positivo, che continua anche quest’anno». Il dibattito sui prezzi delle borse griffate può avervi favorito? «Diciamo che da parte della consumatrice è in atto una ricerca diversa dal passato - risponde -. Oggi le persone scelgono in base a valori, autenticità e connessione reale con il brand». «Credo che Coccinelle cresca perché resta se stesso - osserva - con un’offerta di qualità pensata per accompagnare la vita quotidiana delle persone che ci scelgono. È questa coerenza che crea fiducia e continuità». Restando in tema di pricing, Mazziotta precisa: «Per noi è sempre fondamentale, e non da oggi, che il prezzo rispecchi il valore del prodotto».

La SS25 è stata archiviata «con ottimi riscontri», anche grazie all’accoglienza verso la nuova linea Coccinelle C-ME, la cui evoluzione nella SS26 è la gamma Coccinelle C-ME Lock, affiancata dai modelli Coccinelle Shell e Coccinelle Smash. Filo conduttore della collezione è il tema “Her Deepness”: fonti di ispirazione il mare e le Ama, pescatrici subacquee giapponesi. Una delle parole chiave per il futuro del brand è internazionalizzazione: l’Europa resta un mercato core ma si rafforza l’attenzione all’Asia, dove nel primo semestre sono stati attivati quattro pop-up store nelle principali aree di Tokyo, seguiti da due opening da Tokyo Daimaru e Umeda Hankyu di Osaka. A marzo è stato inaugurato un pop-up a Bangkok, presso Siam Paragon, cui si è aggiunta un’apertura a Central Pinklao: «Per la seconda metà dell’anno faremo rotta verso Svizzera, Germania e Dubai», anticipa Emanuele Mazziotta.

In quest’ottica si inserisce anche la scelta di aver associato il marchio quest’estate a una destinazione turistica come Sirocco Volcanic a Milos, nelle Cicladi, mentre l’intesa con il Rifugio Capanna Tondi di Cortina d’Ampezzo durerà fino a fine anno: «Vogliamo portare il mondo Coccinelle oltre il retail tradizionale». Coccinelle è presente in circa 120 monomarca e circa 1.300 multimarca in 45 Paesi, inclusi department store e travel retail. Nel futuro «continueremo a rafforzare l’equilibrio tra distribuzione diretta e wholesale, con un punto fermo: la qualità dell’esperienza cliente ovunque nel mondo». ■

ECOALF
AMATO DANIELE
MC2 SAINT BARTH GABS
BORBONESE
ROSANTICA

Sneaker, sandali, ballerine rispecchiano uno stile multifunzionale

MARIA SOLE RONZONI

CEO

TOSCA BLU

«Felice di essere tornata in Italia: faremo dialogare le radici con il futuro»

Quella di Maria Sole Ronzoni, nuova ceo di Tosca Blu e dell’azienda produttrice Minoronzoni, è una formazione internazionale: «A 16 anni - racconta - mi sono trasferita negli Usa, dove mi sono laureata in Marketing e Pubbliche Relazioni e poi in Film Production & Postproduction». Ma, nel momento in cui la Minoronzoni ha dovuto accelerare il passaggio generazionale, Maria Sole non ha avuto esitazioni a mettersi in gioco. A febbraio è venuto infatti a mancare il papà, Giacomo Ronzoni, che con la moglie Raffaella Condursi, mamma di Maria Sole e della sorella Virginia Tosca Blu, aveva fondato nel 1978 a Bergamo la società e 20 anni dopo, in concomitanza con la nascita di Virgina Tosca Blu, il marchio di calzature e borse. «Erano già tre anni che affiancavo mio padre - racconta Maria Sole Ronzoni - e sono sempre stata vicina al brand: da giovanissima come volto delle campagne, poi collaborando con mia madre nell’art direction e infine occupandomi di marketing e branding. Sono felice di essere tornata in Italia, affiancata da un team di donne forti». L’obiettivo? «Far dialogare le radici con il futuro, portando energia fresca». Accanto a lei la mamma, direttrice creativa, e la sorella, laureata in Filosofia a Londra, che ha curato le ultime campagne del brand: a lei il compito di seguire le scelte stilistiche, il visual e lo shooting. «Il focus è su immagine, prodotto e comunicazione - sottolinea la ceo -. Vogliamo rafforzare il posizionamento premium del marchio, valorizzandone heritage italiano e creatività. E crescere in nuovi mercati, con prodotti di qualità a un prezzo accessibile (in media 150-300 euro sell out, ndr). Sono state avviate collaborazioni in aree come Middle East e India». Un ruolo chiave è giocato dalla nuova showroom nello Palazzo Serbelloni, in corso Venezia: «Un punto di riferimento per partner, agenti, distributori e anche monomarca». Il 2024 si è chiuso con ricavi intorno ai 12 milioni di euro (con l’export al 45%), in crescita sul 2023. Le scarpe sono al 60% del business e le borse al 40%. La distribuzione conta una rete di 15 monomarca e oltre 1.000 wholesaler fra Italia ed estero, con Spagna, Germania, Francia e Portogallo fra i Paesi trainanti. In avanzata l’e-commerce, anche grazaie a una partnership con FiloBlu ■

STOKTON
PITILLOS
CULT
TOSCA BLU
SEBASTIAN
VOILE BLANCHE
THE GIVER
SUPERGA FRAU

STONEFLY

ELLESSE

PRO-KEDS

D.A.T.E.

ILARIA CESTONARO

MARKETING MANAGER

SALOMON ITALIA

«Più donne, giovani e lifestyle, ma tutto parte sempre dal dna»

«Salomon è pioniere dalla nascita e, a distanza di quasi 80 anni, conferma questa vocazione»: così Ilaria Cestonaro, marketing manager Italia del brand, fondato nel 1947 in un villaggio delle Alpi francesi dalla famiglia omonima legata al mondo dello sci, disciplina che ha decretato il successo destinato a durare nel tempo. Ma, non da oggi, Salomon - che fa capo ad Amer Sports - è molto di più. «Pochi sanno che ha inventato i primi attacchi da sci e i pattini in linea - spiega Cestonaro - ed è con lo stesso spirito che negli ultimi anni c’è stata un’accelerazione dell’offerta sportstyle con prodotti più fashion, ma sempre all’insegna di alta tecnologia e innovazione». Trainante il trend gorpcore, che ha sdoganato l’outdoor in città e che si declina per esempio nelle calzature XT, rivisitazioni in chiave urban dello stile trail running: «In particolare - dice la manager - la XT-Whisper, d’impronta unisex, piace molto a donne, ragazze e anche alle celebrity. Quello femminile è un segmento che ora riguarda un terzo circa dell’offerta, ma che vogliamo potenziare». T ra i best seller le XT-Whisper Void, ispirate a un modello storico, e le XT-6, ormai un classico per il marchio. Il volto scelto per la campagna di lancio delle XT-Whisper Void è quello di Cheri, direttamente dalla scena streetstyle di Seoul. «Puntiamo ai giovani partendo dai giovani», precisa Cestonaro. Lo dimostrano collab come quella con il designer coreano Jeong Li e le liaison con il mondo della musica: una per tutte, quella con il cantante colombiano Salomón Villada Hoyos, alias Feid (nominato a sette Grammy Awards). Le due anime del marchio si declinano anche nei nuovi monomarca italiani (i primi store diretti nel nostro Paese e in futuro potrebbe arrivarne un altro), aperti a Milano: «In quello di piazza Gae Aulenti 4 il focus è su running, outdoor e performance. Qui si troverà da ottobre anche la prima capsule ufficiale dei Giochi di Milano Cortina 2026, di cui Salomon è premium partner. Invece il punto vendita di Brera, in corso Garibaldi 12, ha un’anima più fashion». Capillare la distribuzione sul canale multimarca: anche in questo caso, accanto alla presenza in catene e negozi sportivi, Salomon trova una sua collocazione in concept store come 10 Corso Como e department store, in primis Rinascente ■ VALSPORT

EMANUÉLLE VEE
LOTTO LEGGENDA
SALOMON STAR FEET

«In Pomellato tramandiamo il valore del saper fare»

La ceo della maison del Gruppo Kering evidenzia la forte richiesta di artigiani nell’universo lusso e l’importanza della formazione dei giovani, supportata con il progetto Virtuosi, per garantire un futuro al settore orafo. Mentre la crescita estera resta nel mirino, dagli Stati Uniti all’Asia, il brand mira a estendere la mission sostenibile al mondo delle pietre colorate, dopo la scelta di utilizzare oro 100% etico

«Rappresentiamo e realizziamo un mestiere che per secoli è stato tramandato nelle famiglie. Per questo dobbiamo convincere i genitori dei ragazzi che intraprendono questa strada che l’artigianato orafo è un lavoro raro, unico e prezioso. E necessita non solo di un talento personale, ma di una formazione». Il valore del saper fare è imprescindibile per Sabina Belli, ceo di Pomellato

La manager racconta la propria visione e i capisaldi della maison del gruppo Kering in un momento di cambiamento per il marchio dopo il via, dallo scorso luglio, alla fase indipendente di DoDo, che faceva originariamente parte della galassia Pomellato. L’avvio per Dodo di una struttura manageriale propria e autonoma, sotto il controllo diretto di Kering, apre infatti al tempo stesso anche un nuovo capitolo per Pomellato. «Il

gioiello - riflette Belli - è esistito milioni di anni prima di noi, è un elemento fondamentale e intrinseco della cultura umana. Abbraccia un concetto quasi filosofico, dato che l’uomo è stato attratto fin dal passato da ciò che è prezioso. Il colore oro e la pietra simboleggiano da sempre qualcosa di magico. Una fascinazione che non scomparirà di certo domani, siamo dentro una leggenda». E ogni player utilizza una sua leggenda.

Il gioiello non ci apparterrà mai totalmente, si lascia, si tramanda, passa da generazione in generazione, è un elemento di eternità. Una logica che diventa la nostra stessa mission». L’a.d. sottolinea il legame del brand con l’imprenditoria femminile in Italia. «Pomellato - dice - è un marchio ancora giovane, ma è nato in un momento di rottura sociale, politica ed economica importante, dove le donne hanno assunto una nuova dimensione di se stesse, autonomia, indipendenza, una possibilità di realizzazione».

Milano «era il centro assoluto di una forma di cultura intellettuale e industriale, che inglobava il design, l’architettura e un’estetica più austera rispetto all’età barocca e rinascimentale». Il brand (fondato da Pino Rabolini nel 1967, che ha introdotto il prêt-à-porter nel mondo conservatore della gioielleria, ndr) «ha ascoltato la parola più libera di una generazione di donne, una caratteristica di grande contemporaneità e una tematica più che mai attuale».

Oggi oltre l’80% delle clienti di Pomellato sono donne che acquistano per se stesse. Belli prosegue mettendo l’accento sulla crisi del ricambio generazionale e sulla carenza di figure professionali del settore. Secondo le ultime rilevazioni di Fondazione Altagamma e Unioncamere, infatti, sarebbero 75mila i posti vacanti entro il 2028 nell’industria della moda. Una vera emergenza settoriale. «Dobbiamo ricordarci che i mestieri esperti dell’artigianato si convertono per il 90% a una durata indeterminata e che permane una richiesta enorme nel mondo del lusso - continua la manager -. A testimonianza del nostro impegno e grazie al progetto Pomellato Virtuosi abbiamo sviluppato un partenariato con la scuola Galdus per creare un percorso accademico di tre, cinque o sette anni, necessario per imparare le basi della professione ed entrare in una società di gioielleria».

L’azienda fornisce il materiale per le attività, mettendo a disposizione anche masterclass con i propri maestri orafi, in modo da inserire i ragazzi nel mondo del lavoro, in linea con le esigenze di un mercato che si fa sempre più competitivo.

Nel segno della più antica tradizione Made in Italy, i gioielli vengono realizzati a mano da 150 maestri orafi artigiani nell’atelier di Milano, che creano minuziosamente ogni pezzo.

«La storica tecnica della fusione a cera persa unita a macchinari, tecniche avanzate e intelligenza artificiale hanno con-

«Se parliamo di strategia, parliamo di internazionalizzazione. Prioritari tutti i mercati»
Sabina Belli

sentito di mantenere viva la vision del fondatore e il legame con il passato», evidenzia la ceo. Oltre all’Italia, l’estero rimane centrale per il brand, attivo con 68 negozi in proprio principalmente nell’area europea e un ampio network di multimarca: «Se parliamo di strategia, parliamo di internazionalizzazione. L’obiettivo è continuare la crescita in Giappone, Cina, Stati Uniti, Europa. Tutti i mercati sono prioritari». I passi avanti toccano un altro pilastro dell’azienda, quello green: «Siamo una delle eccellenze del gruppo Kering, che ha scelto la sostenibilità come mission. La nostra materia prima viene da industrie controllate e nel 2018 abbiamo raggiunto il 100% di oro responsabile, acquisito da processi di estrazione totalmente etici».

«Stiamo cercando di portare questo impegno nel mondo delle pietre colorate, ad esempio i lapislazzuli: un processo più difficile da monitorare per la lunghezza della supply chain», precisa la ceo. Nel dettaglio, Pomellato ha raggiunto l’obiettivo di garantire un approvvigionamento di oro totalmente sostenibile grazie al programma Responsible gold framework di Kering, esplorando le possibilità di utilizzo di nuovi materiali e soluzioni di riciclo.

Ogni anno, inoltre, l’azienda redige il conto economico ambientale riguardo l’estrazione delle materie prime, le emissioni di Co2, i consumi d’acqua, l’inquinamento idrico, lo sfruttamento del suolo, l’inquinamento atmosferico e la produzione dei rifiuti.

Infine, quanto alle novità prodotto, accanto alle collezioni Iconica (che rende omaggio alla tradizione orafa milanese), Nudo contraddistinta da linee pure ed essenziali e Pomellato together, che celebra i legami, spicca la Collezione 1967, la sesta e l’ultima svelata in ordine di tempo di alta gioielleria. Le 75 creazioni ripercorrono tre decenni cruciali che hanno forgiato l’identità della maison, dall’innovativa arte della catena degli anni Settanta ai design scultorei degli Eighties, fino alla maestria cromatica e alle forme esuberanti dei Novanta. Ogni capolavoro incarna la convinzione di Pomellato che il vero lusso possa essere al tempo stesso prezioso e giocoso, tradizionale e rivoluzionario, timeless e contemporaneo. «L’high jewelry - conclude Sabina Belli - è una palestra di lavoro per il team creativo. Ci ha permesso di entrare in un mondo speciale e dell’extra ordinario». ■

ALICE MERLI
La linea Nudo si basa su forme pure ed essenziali
Gli anelli della collezione Iconica, omaggio alla tradizione orafa milanese

Chopard investe sull’Italia: «La nostra forza? L’unicità»

La storica casa elvetica di gioielleria e orologeria, guidata dalla famiglia Scheufele, studia l’apertura della quarta boutique tricolore a Roma e avanza nell’obiettivo green di utilizzo del 90% di acciaio riciclato entro il 2028. «I nostri plus? Indipendenza del marchio, produzione limitata e in-house, clientela trasversale con i giovani in aumento», spiega Simona Zito, general manager di Chopard Italia

Chopard tiene l’Italia nel mirino, portando avanti la strategia di sviluppo sostenibile e forte di risultati in crescita, anche se l’azienda mantiene il massimo riserbo sui numeri.

La maison elvetica di gioielleria e orologeria, fondata nel 1860 a Sonvilier e di proprietà della famiglia Scheufele (co-presieduta dai fratelli Caroline e Karl Friedrich Scheufele, ndr), è ancora una delle pochissime realtà a mantenere la propria indipendenza, in un panorama costellato da acquisizioni

da parte dei colossi del lusso di moda e gioielli. Accanto al pilastro della produzione in-house, emergono da un lato il percorso per l’utilizzo di oro etico iniziato già nel 2013, dall’altro l’adesione all’iniziativa SteelZero in capo al Climate group, che ha accelerato la transizione verso un acciaio a zero emissioni. In questa intervista Simona Zito, general manager di Chopard Italia, illustra l’impegno green e i progetti di prodotto ed espansione in Europa, facendo anche il punto sul mercato.

Chopard è una delle rare maison rimaste ancora indipendenti. Quanto è strategico per un’azienda avere una conduzione familiare piuttosto che essere sotto le ali di un grande gruppo?

L’azienda rappresenta una realtà unica e internazionale di gioielli e orologi, che è riuscita a restare indipendente nel mondo del lusso. La partecipazione alle attività della famiglia Scheufele è a 360 gradi e questo è sicuramente un valore aggiunto e un segno distintivo. Abbia-

mo la possibilità di fare delle scelte di passione e non strettamente legate alle logiche del mercato. E questo viene percepito dal cliente finale.

Qual è il plus di questo modus operandi?

L’approccio della maison è stato quello di rafforzare e mantenere una produzione in-house grazie ai tre stabilimenti situati a Meyrin, vicino a Ginevra, Fleurier e Pforzheim in Germania e a nuove acquisizioni di realtà locali artigiane per componenti quali lancette e quadranti per orologi. Ciò ci ha permesso di dar vita a pezzi unici e di produzione limitata nell’alta gioielleria.

Cosa cerca oggi il consumatore nel lusso?

L’unicità, il possedere qualcosa che altri non hanno. Noi riusciamo ancora ad accontentarlo, proprio attraverso la scelta di produzioni limitate a un certo numero di pezzi. Vogliamo continuare a fare lusso. Il gioiello è ancora un bene rifugio, che è rimasto resiliente in questi anni di criticità. Una forma di investimento, che si può tramandare. Il mercato dei preziosi è stato preso d’assalto e sono molte le aziende che si buttano a capofitto in questo mondo perché trovano un’opportunità, proprio per la sua caratteristica di resilienza rispetto al comparto lusso. Chi, come noi, ha una storicità è avvantaggiato, soprattutto di fronte a un compratore finale più consapevole, informato, attento nella tipologia di acquisti.

Quanto è importante il mercato italiano per Chopard?

L’Europa è prioritaria per l’azienda e l’Italia è un mercato rilevante, che racchiude i trend e il cuore pulsante del settore. Insieme a Francia e Germania, fa parte dei Paesi più trainanti del continente. La nostra strategia globale è consolidare la distribuzione sia wholesale sia retail, migliorando la visibilità in-store. Nel medio e lungo termine apriremo corner, shop-in-shop e aree customizzate all’interno dei multibrand. Lo stiamo già facendo, non solo in Italia ma anche in Europa. Vogliamo far vivere un’esperienza e un’emozione al cliente, che deve immergersi nel nostro universo. Ogni collezione nasce da un’ispirazione e questo deve essere raccontato, attraverso le vetrine e oltre.

Piani di espansione nel Bel Paese?

In Italia siamo presenti in 40 multibrand e abbiamo tre boutique a Milano, Firen-

«Chi come noi ha una storicità è avvantaggiato di fronte a un consumatore finale più consapevole»

ze e Porto Cervo. Non sarà un opening a medio termine, ma Roma è tra i nostri prossimi obiettivi.

Come sta reagendo l’azienda alla congiuntura economica?

La crescita del prezzo dell’oro ci ha portato a rivedere i listini in maniera contenuta. Registriamo un continuo incremento di fatturato, complice anche il fatto che abbiamo un range di prezzi molto ampio, dai 1.000 euro a milioni per i pezzi unici. Abbracciare una clientela trasversale ci permette di penetrare e di aver successo in più fasce del mercato. Registriamo una crescita consistente anche sull’alta gioielleria, da parte di un consumatore più high-spender. Un aumento che è andato oltre le nostre aspettative.

A che punto siete nella sostenibilità?

Il primo traguardo importante è stato l’utilizzo del 100% di oro etico, raggiunto nel 2018. L’impegno è continuato anche sull’acciaio, legato più agli orologi: nel 2019 siamo arrivati a  una percentuale di acciaio riciclato del 70%, nel 2023 dell’80%, mentre l’obiettivo al 2028 è toccare il 90%, per ridurre ulteriormente le emissioni di carbonio.

Su quali collezioni state puntando e quali le caratteristiche distintive?

Fino a qualche anno fa gli orologi rappresentavano la parte più importante della nostra produzione e vendita, con una quota del 70%, ma oggi abbiamo raggiunto la parità con i gioielli. Le collezioni iconiche spaziano dalla Ice Cube, dal design moderno e geometrico, fino a Happy Hearts, dal dna più romantico con bracciali, collier e anelli con pietre. L’alta gioielleria rimane prioritaria: durante il Festival di Cannes, di cui siamo partner, realizziamo sempre pezzi unici dedicati. Infine, L’Heure du Diamant è una linea di orologi-gioiello ispirati all’Art Déco, caratterizzati da un’incastonatura di diamanti.

Quali trend state riscontrando nell’industria dei gioielli?

Negli ultimi anni abbiamo lavorato molto sul restyling dei nostri prodotti iconici per una maggiore riconoscibilità, cercando anche di andare incontro ai giovani. Già da tempo ci rivolgiamo a loro, ma ultimamente abbiamo assistito a un aumento della loro fetta di acquisti, soprattutto per la collezione Ice Cube, dal cuore più minimal. ■

ALICE MERLI
Bella Hadid protagonista della campagna dedicata alla linea L’Heure du Diamant
La Ice Cube Collection di Chopard punta su un design moderno e geometrico
Simona Zito

Riccardo Adamo

«Conta il mix fra le competenze dei senior e l’energia degli junior»

A una certa età, i lavoratori spesso incontrano difficoltà nel mercato del lavoro.

Riccardo Adamo è invece convinto che il futuro appartenga alla generazione over 50. Per questo motivo il cacciatore di teste ha lanciato il progetto 50yet.

Si tratta di una community di dirigenti senior e creativi, che lui mette in contatto con le aziende attraverso un marketplace digitale

Si dice spesso che il futuro appartiene ai giovani. Ma per quanto riguarda il mercato del lavoro, questa affermazione non è più così attuale. Soprattutto quando si tratta di ricoprire posizioni dirigenziali, sono sempre più spesso necessarie persone dotate di esperienza, che possano fornire orientamento e sostegno ai loro col-

leghi più giovani in un mondo sempre più turbolento. Questa, almeno, è la tesi di Riccardo Adamo

«Ciò che conta oggi è il mix tra i senior e gli junior - afferma -. Le competenze legate a livello di seniority, abbinate all'energia delle nuove generazioni, sono le leve del successo per le aziende» Il cacciatore di teste Adamo, che con

Aerre Partners fornisce consulenza ad aziende del settore del lusso e del lifestyle, ha quindi lanciato l'iniziativa 50yet, il cui obiettivo è mettere in contatto senior executive e designer che possono contare su almeno 20 anni di esperienza professionale.

«Con 50yet vogliamo superare i limiti dei modelli tradizionali. Il nostro

obiettivo è dimostrare che l’esperienza, quando è messa a disposizione della società con fiducia e intelligenza, è il vero motore dell’innovazione».

Competenza ed esperienza: sono queste le parole chiave per Riccardo Adamo, che può vantare una carriera quarantennale nel mondo della moda. È infatti stato top manager nel gruppo Armani, nella tessitura di seta Ratti e da Ungaro-Paris, che all'epoca apparteneva a Ferragamo, prima di mettersi in proprio come head hunter.

Nel mondo della ricerca del personale, 50yet rappresenta un approccio nuovo: è infatti concepito come una community i cui membri possono conoscersi e scambiarsi opinioni. Per le aziende alla ricerca di un top manager, 50yet si presenta come un mercato digitale. Sulla piattaforma 50yet.com inseriscono le loro esigenze tramite un breve questionario e, grazie a un sofisticato algoritmo, vengono visualizzati i tre profili più adatti. «Il tutto avviene in pochi minuti», sottolinea Adamo. Se i candidati accettano, viene fissato un appuntamento. Sono coperti quasi 50 profili professionali, dal ceo al direttore creativo, fino agli specialisti di merchandising, marketing o supply chain, per l'Europa e il Medio Oriente. Poiché Adamo desidera offrire una selezione di circa 50 candidati per ogni singolo profilo, la community dovrebbe crescere fino a circa 2.200 persone. In soli sei mesi ha già conquistate poco più di 600 La selezione è rigorosa. Chi non viene invitato non ha alcuna possibilità di entrare. Riccardo Adamo seleziona personalmente ogni aspirante. Esamina il curriculum, analizza i punti di forza e di debolezza e verifica la reputazione di cui gode una persona nel settore. Chi viene ammesso nella cerchia di 50yet compila un questionario e si presenta in un video-colloquio. Grazie alla selezione rigorosa e alla verifica, 50yet si distingue dai social network come LinkedIn:

Competenza ed esperienza

Con 50yet, Riccardo Adamo mette in contatto senior executive e creativi con almeno 20 anni di esperienza professionale. Ogni candidato idoneo per 50yet viene selezionato personalmente e deve sottoporsi a una procedura di ammissione. Il principio è: «Solo su invito».

Comunità e mercato

50yet non è un semplice database, ma una comunità in cui dirigenti senior e creativi possono scambiarsi idee. Le aziende inseriscono le loro richieste su una piattaforma digitale. Un algoritmo suggerisce loro i candidati idonei in pochi minuti.

Modelli di lavoro flessibili

I top manager e i creativi sono disponibili per incarichi a tempo determinato. 50yet offre servizi come fractional management, consulenza, coaching e mentorship, keynote speaking, ma anche incarichi a progetto.

«Gli obiettivi sono diversi. Piattaforme come LinkedIn offrono a reclutatori e cacciatori di teste l'accesso a un enorme pool di talenti, dal quale devono poi filtrare i candidati più adatti», afferma Adamo. Su 50yet, invece, questa selezione avviene già all'inizio. Esagerare le proprie competenze linguistiche e fingere di parlare correntemente il cinese, anche se in realtà si sa dire solo “buongiorno”? Su 50yet non è possibile. Un progetto come 50yet è la risposta a un mondo che è cambiato radicalmente. In primo luogo, il mercato della moda si è fortemente polarizzato, come sostiene Adamo. Da un lato si collocano le grandi aziende, dai giganti del fast fashion come Inditex ai conglomerati del lusso, a partire da Lvmh o Kering: «Nomi che giocano in un campionato a parte». Dall'altro lato ci sono le piccole e medie imprese. In secondo luogo, l'era della rapida crescita nella moda è finita, almeno per il momento. Riccardo Adamo è convinto che «i tassi di crescita non saranno più a due cifre, ma nettamente inferiori».

In terzo luogo, il cambiamento ha subito un'accelerazione. Le tendenze e

le ondate tecnologiche si susseguono sempre più rapidamente.

Chi vuole affermarsi come piccola o media impresa in questo nuovo mondo deve riflettere su se stesso e sottolineare la propria unicità: «Invece di emulare i colossi, molte piccole e medie imprese stanno riscoprendo la propria identità e il proprio heritage».

La qualità è fondamentale, non solo nel prodotto e nel servizio, ma anche nel top management. «Negli ultimi 15 anni - riflette Riccardo Adamo - le aziende hanno ridotto i costi del personale, scegliendo di rinunciare ai senior manager». Ma ora sta iniziando una fase di ripensamento.

Invece di legare a sé gli executive, il che comporta tra l'altro costi elevati, gli imprenditori farebbero bene a pensare a modelli di lavoro flessibili. La permanenza dei dirigenti in azienda si è ridotta, puntualizza Adamo: «Negli anni Novanta i top manager affiancavano il fondatore in media per almeno sette anni. Oggi, per molti, dopo meno di tre anni è finita».

I senior executive e i creativi riuniti nella comunità 50yet sono disponibili per incarichi a tempo determinato. L'offerta comprende fractional management, consulenza, coaching e mentorship, keynote speaking, ma anche incarichi a progetto. Se richiesto, entrano a far parte del consiglio di amministrazione. In alcuni casi 50yet aiuta anche nella successione aziendale. Se l'imprenditore non ha nessuno in famiglia che voglia o possa seguire le sue orme, la community di Adamo gli offre una chance. Invece di vendere a un fondo di private equity, che magari assume un top manager, può cercare tramite 50yet un executive che trovi un investitore per un management buy-out. «Invertiamo semplicemente il processo», conclude Adamo. Se non si trova uno junior, dovrà intervenire un senior. ■

TOBIAS BAYER

«Altro che agenti: soci temporanei dei brand, con i piedi per terra»

Pizzolato fashion management è il Local Hero di questo numero: più di un'agenzia di rappresentanza, ma vero e proprio partner per brand e store multimarca, in prima linea sul territorio e sempre presente anche fuori dal periodo di campagne vendita. «Vendere collezioni ai negozi è solo parte del lavoro. Dimostriamo il nostro valore in fase di sell through con veri road show», dice Andrea Pizzolato, che guida la società con il padre Fabio

Non è il calendario delle campagne vendita a dettare il ritmo delle sue giornate. Andrea Pizzolato, agente di lunga esperienza, proprio come suo padre Fabio, ha scelto un modello diverso: fatto non solo di appuntamenti nella sua agenzia di Roma - oltre 3mila metri quadrati divisi in due showroom, quella dedicata alla distribuzione e vendita nella regione Lazio e quella che si occupa della macro area centro-sud Italia - ma soprattutto di presenza costante sul territorio, nei negozi, accanto ai titolari dei multimarca che rappresentano il cuore pulsante del retail. Road show, consulenze in store, formazione e supporto operativo fanno parte di una quotidianità che va ben oltre il semplice sell-in. È un lavoro che nasce sul campo, evoluto in un sistema strutturato di gestione dei brand, e che fa della prossimità, della relazione e della lettura del mercato i suoi punti di forza. Con clienti storici

come Stone Island, Woolrich, Autry, Levi’s, Boss, Sun68 e Polo Ralph Lauren, Andrea Pizzolato è oggi uno dei punti di riferimento più solidi e riconosciuti tra le agenzie di rappresentanza italiane. «Oggi vendere collezioni è solo una parte del nostro lavoro - racconta a Fashion - e forse neanche la più importante. Il vero valore si crea quando il prodotto arriva al cliente finale. Ed è lì che vogliamo esserci».

Partiamo dalle presentazioni: come descriverebbe oggi la vostra agenzia?

La nostra è una storia che affonda le radici nel territorio, nel concetto stesso di prossimità. Spesso si pensa che per essere credibili nel mondo della moda serva stare nelle capitali globali, ma la nostra esperienza dimostra il contrario. Abbiamo costruito qualcosa di solido, partendo dal locale. Quando ci siamo chiesti cosa siamo, il termine “agenzia di rappresentanza” mi

Andrea Pizzolato, partner di Pizzolato fashion management, società fondata nel 1978

è subito andato stretto. Noi non vogliamo semplicemente rappresentare un brand: vogliamo esserne partner, soci temporanei ma operativi, con una responsabilità condivisa. È per questo che parliamo di fashion brand management: racchiude meglio ciò che facciamo ogni giorno.

In cosa consiste concretamente il vostro lavoro?

È tanto strategico, quanto operativo. Ci troviamo nel mezzo, tra brand e rete distributiva. Certo, siamo intermediari, ma con un approccio profondo, empatico, strategico. Vendere collezioni ai titolari dei negozi multimarca è solo una parte del lavoro. Il vero valore si gioca nel sell-through, quando il prodotto arriva al cliente finale.

Lì entrano in gioco attività fuori campagna vendita: road show, training dello staff, supporto visivo, customer service in loco. Non è solo un restock: è capire che momento sta vivendo il brand in uno store, raccogliere dati, proporre soluzioni, agire.

Come nasce la vostra storia aziendale?

È una realtà familiare, partita nel 1978 con i nonni, proseguita con mio padre Fabio, figura centrale per esperienza e visione, formata nell’ufficio direzionale GFT a Roma. Io sono entrato nel 2009, dopo una laurea in Finanza aziendale. In teoria avrei dovuto lavorare in un fondo di private equity, ma la crisi del 2008 ha cambiato tutto. Insieme abbiamo costruito un modello basato sulla complementarietà: lui più commerciale, io più finanziario e organizzativo.

Ha parlato di trasformazioni profonde nel settore. Quali sono stati, secondo lei, gli snodi chiave?

Il primo è stato il cambio di paradigma sull’aspirazione. Non conta più il valore oggettivo, ma la desiderabilità. Supreme è stato emblematico: da brand di nicchia a fenomeno globale, ha riscritto le regole con l’hype. Non si vendeva più per ciò che si era, ma per quanto si era desiderati. Da lì è nato un nuovo vocabolario del retail: reselling, drop, collab, cop or drop. Il secondo è stato il Covid. Ha accelerato dinamiche già in atto, spingendo l’online al centro della scena. Marketplace e performance digitali sono diventati indicatori centrali. Ma spesso erano numeri effimeri. Finito l’hype, è crollato il castello.

«Avrei dovuto lavorare in un fondo di private equity, ma dal 2009 affianco mio padre in azienda. Insieme abbiamo costruito un modello basato sulla complementarietà: lui più commerciale, io più finanziario e organizzativo»

Andrea Pizzolato

di Pizzolato fashion management

Oggi, che fase stiamo vivendo?

Il 2024 è stato l’anno della paura, il 2025 è quello della consapevolezza. Ti obbliga a riorganizzarti. Il 2026? Sarà l’anno della selezione naturale: chi ha tenuto il timone dritto, potrà ripartire.

C’è spazio per un po' di ottimismo?

Oggi si parla - finalmente - di ritorno al fisico. È una sfida, ma anche un’opportunità. Il consumatore va rieducato: abituato a un online aggressivo, ora cerca esperienze d’acquisto emozionali, coinvolgenti, umane. Non possiamo limitarci a verticalizzare le collezioni su dati passati. Dobbiamo tornare a ispirare, come faceva Colette a Parigi. La palla oggi è tornata agli imprenditori. Devono creare valore nei propri spazi. Noi siamo partner di questo percorso, non semplici fornitori.

Il tema della selettività distributiva è sempre più centrale. Come lo gestite?

La distribuzione selettiva è sana, ma se esasperata rischia di diventare controproducente. Noi lavoriamo a percentuale, quindi non abbiamo interesse a bloccare vendite. Ma abbiamo il dovere di proteggere l’equilibrio dell’ecosistema. Quando diciamo di no, lo facciamo con responsabilità e spiegando i motivi: non è un rifiuto persona-

le, ma che rispetta parametri precisi, che spesso derivano direttamente dal brand. Il punto è proprio lì: la selettività, se fatta con intelligenza, è sana. Ma se portata all’estremo, può diventare controproducente. Ecco perché dobbiamo essere sempre più intelligenti nel costruire la visibilità e la presenza dei brand. ‘Less is more’, certo, ma solo se il ‘less’ è ben ragionato. La scarsa visibilità non è sinonimo di esclusività: può diventare un boomerang. Serve equilibrio, serve studio. E serve una distribuzione capillare, consapevole, rispettosa delle specificità territoriali.

Qual è la sua visione sul ruolo dell’agente oggi?

Io mi considero un ambasciatore dell’“old sale”, del multibrand. È l’arena più autentica: lì il brand si misura davvero, senza marketing controllato. Credo molto nel ruolo delle agenzie locali strutturate. Conosciamo i clienti, costruiamo relazioni vere. È un lavoro impegnativo, ma insostituibile. Per un singolo brand nostro cliente, arriviamo a gestire fino a 220230 account nella nostra macroarea di competenza: un brand da solo non potrebbe mai farlo in modo sostenibile.

Avete anche creato un brand vostro, giusto?

Sì, due anni fa abbiamo deciso di investire in un brand JG1, fondato da Justin Gall, un designer californiano trapiantato a Roma. In questo progetto siamo soci con Marcona3, che ha preso in carico la distribuzione globale. È stata una delle prime collaborazioni tra showroom indipendenti. Questa esperienza ci ha permesso di approfondire dinamiche prima note solo superficialmente per noi, come produzione e marginalità. Ed è lì che capisci: la crescita deve essere sana, organica, sostenibile. Solo così si crea valore reale.

In conclusione, qual è la vostra missione oggi?

Aiutare le boutique a scegliere, interpretare, emozionare. Il confine tra lusso, contemporary, sport e outdoor è sempre più sfumato. I multimarca devono vendere molto di più per ottenere gli stessi risultati, perché margini e volumi sono cambiati. Ecco perché hanno bisogno di supporto, idee, servizio. Ed è quello che offriamo. ■

ANDREA BIGOZZI

SILVANA PEZZOLI «Il cambiamento è la linfa dell'imprenditoria. Se vuoi crescere devi uscire dal guscio»

Nominata di recente vicepresidente di Confindustria Moda e presidente di Ente Moda

Italia, Silvana Pezzoli guida con il fratello la Sitip di Bergamo, specializzata in tessuti

tecnici e industriali. A Fashion racconta le tappe del suo percorso e le convinzioni che porta in azienda. Ma anche cosa ha in mente per sostenere il futuro del settore

ASilvana Pezzoli piace dire che il mondo tessile si muove tra cielo e terra, perché «i tessuti li trovi ovunque, negli interni dei telefonini, nelle cinghie dei motori, nei tubi delle fognature, fin su su alla luna, nelle tute degli astronauti». E sospesa dinamicamente tra "basso" e "alto" lo è un po' anche lei, imprenditrice per imprinting familiare e soprattutto per passione, che si descrive come «realista, con un occhio ottimista». Pragmatica sì, perché bisogna sempre calcolare i numeri e il rischio, ma sempre pronta a gettare il cuore oltre l'ostacolo per alzare di volta in volta l'asticella.

Lei lavora nell'azienda di famiglia. Imprenditrice è nata o diventata?

Sono cresciuta nella realtà fondata negli anni Sessanta da mio padre (Luigi Pezzoli, ndr), è difficile capire fino a che punto la mia sia stata una scelta autonoma. Fin da quando avevo 1213 anni lui mi faceva notare le donne imprenditrici: sembrava normale lo diventassi anch'io. Con me e mio fratello aveva lo stesso approccio, non mi vedeva, né mi trattava, come la figlia femmina destinata semplicemente ad accasarsi. Per mio padre era talmente naturale e scontato che un giorno sarei entrata in azienda, che forse lo è stato anche per me.

E ha trovato subito una collocazione vicina alle sue corde...

A me è sempre piaciuto viaggiare. Fin da quando avevo 14 anni ho fatto in modo di andare all'estero a studiare le lingue e in azienda è stato poi norma-

le occuparmi della parte commerciale, quella che mi consentiva di spostarmi in continuazione e confrontarmi con altre culture. Mio fratello (Giancarlo Pezzoli, a.d. della Sitip, ndr) è sempre stato più stanziale e anche oggi i nostri ruoli riflettono le reciproche inclinazioni.

In un mondo come quello dei tessuti tecnici e industriali il fatto di essere donna l'ha in qualche modo ostacolata?

Direi di no, perché non ho mai fatto caso a questo aspetto. Se non noti e non dai importanza al genere, sono convinta non si crei il terreno per distinzioni o preclusioni.

La Sitip dà lavoro a 550 addetti. Qual è il suo modello di leadership?

DIETRO LE QUINTE DEL SUCCESSO

«METTERE L'AZIENDA AL PRIMO POSTO, OLTRE I PERSONALISMI»

• «COINVOLGERE I DIPENDENTI, FACENDOLI SENTIRE PARTE DI UN PROGETTO COMUNE»

• «UNIRE TRADIZIONE CON INNOVAZIONE, APERTI AL CAMBIAMENTO»

• «TENERE APERTI GLI OCCHI SUL MONDO ESTERNO, STRINGENDO SINERGIE»

Nel nostro caso, con la maggior parte dei dipendenti che viene dal territorio circostante e che magari sono con noi da più generazioni, la responsabilità che sentiamo è fortissima. Il fatto di conoscersi anche fuori dalla fabbrica fa la differenza e ci spinge ancora di più a creare le condizioni perché tutti si sentano parte di un progetto comune. Credo sia fondamentale condividere gli obiettivi, i traguardi conquistati e da conquistare, perché questo fa sentire ognuno un anello imprescindibile per conseguire i risultati prefissati. In azienda mi piace allestire dei pannelli che raccontano quello per cui stiamo lavorando. L'ho fatto in occasione della sponsorizzazione della Maglia Rosa ed è una consuetudine anche dopo le fiere: un modo per coinvolgere tutti nel percorso imprenditoriale dell'azienda. Se mancano passione e motivazione non si crea una bella squadra. E senza una bella squadra non si va da nessuna parte.

Suo fratello ha il ruolo di amministratore delegato, lei di vicepresidente esecutivo. Facile o difficile la co-gestione?

Al di là della massima fiducia e del volersi bene, seguiamo quella che era la regola aurea di mio padre: niente personalismi, l'azienda viene prima. Prioritario è che sia solida e vada avanti. Tutte le persone che ci lavorano devono avere la certezza che chi è al comando mette al primo posto il loro benessere.

Litigate mai?

Brutte litigate sinceramente no. Certo, ci sono punti su cui non andiamo perfettamente d'accordo, ma ci confron-

tiamo apertamente. Qualsiasi cosa succeda, resta forte il baluardo stabilito da mio padre: se si aderisce al mantra che l'azienda viene prima, le possibili frizioni passano in secondo piano.

Lei è stata recentemente nominata vicepresidente di Confindustria Moda e presidente di Ente Moda Italia. Come ha accolto questi nuovi incarichi? Ho sempre fatto parte del mondo associativo e, anche se il compito sarà impegnativo, sento forte la spinta nel contribuire a fare rete per rafforzare quella grande ricchezza che è il made in Italy. Sviluppare la base associativa sarà una delle mie priorità in Confindustria Moda. In Italia la filiera produttiva è costituita da piccole-medie imprese, che spesso non hanno la forza per competere da sole: entrare in contatto con altre aziende allarga gli orizzonti, apre nuove strade. Mio padre lo diceva sempre:

se vuoi crescere devi uscire dal guscio. Devi varcare il tuo recinto, visitare le altre realtà, frequentare le fiere, osservare quello che fanno gli altri. La frase "abbiamo sempre fatto così" dovrebbe essere abolita da ogni vocabolario. È il cambiamento la linfa dell'imprenditoria, perché solo nell'evoluzione c'è futuro. La tradizione deve sempre fare coppia con l'innovazione.

Come si muoverà nei prossimi mesi a livello associativo?

Lavorerò sulla consapevolezza e sull'importanza di fare quadrato nella salvaguardia e promozione del made in Italy: siamo gli unici al mondo a poter vantare una filiera produttiva d'eccellenza, da monte a valle. E la creatività italiana non si limita a quello che si vede su una passerella, ma si esprime in tutto il processo, a partire dalla materia prima e dai macchinari innovativi pensati per la sua trasformazione. Essere consapevoli

IDENTIKIT

Silvana Pezzoli, classe 1969, è vicepresidente esecutivo e direttore commerciale di Sitip Technical Textiles, azienda fondata nel 1959 dal padre Luigi Pezzoli nel cuore della Valle Seriana e oggi punto di riferimento nella produzione di tessuti indemagliabili sintetici ed elasticizzati e circolari, destinati al mondo tecnico industriale e a quello dell'abbigliamento sportivo e dell'outerwear. La società (circa 550 dipendenti e un fatturato di 98 milioni di euro nel 2024) esporta in tutto il mondo dalla sede produttiva di Cene (Bergamo) e attraverso le controllate Accoppiatura di Asolo (Treviso) e Nylon Knitting di Malta. Oltre a guidare l'azienda di famiglia insieme al fratello Giancarlo Pezzoli (amministratore delegato), l'imprenditrice è da qualche mese nella squadra del nuovo presidente di Confindustria Moda Luca Sburlati in qualità di vicepresidente vicario con delega alla Crescita Associativa e Comunicazione Interna, oltre a essere la nuova presidente di Ente Moda Italia.

della nostra forza distintiva è il primo passo. Il secondo è stringere legami e creare sinergie per aumentare il nostro peso specifico, anche nelle sedi istituzionali dove si prendono le decisioni. Se al tavolo delle regole ci sei, le fai anche tu. Se non ci sei, le subisci.

Cosa sogna per la sua azienda?

Che Sitip sopravviva a me e a mio fratello. Questa è la cosa più importante. E poi di continuare a essere ottimista, cercando di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno anche nelle difficoltà.

E per lei stessa?

Beh, ho già percorso un buon tratto della mia vita. L'unica cosa che spero è di mantenere la salute per poter proseguire nel fare un sacco di cose. Viaggiare, certo. Ma soprattutto lavorare continuando a divertirmi. ■

ANGELA TOVAZZI

«Da Romanengo come in Gucci, parlo sempre la stessa lingua: quella dell'eccellenza»

Lo schema si ripete, anche ora che Violante Avogadro è ceo della più antica confetteria d’Italia e non lavora più per brand della moda come Gucci, Ralph Lauren e Roger Vivier. «Il vocabolario è lo stesso: collezioni, product hero, scarcity. Questo perché Romanengo è una maison del gusto»

«Èun marchio piccolo, genovese, sicuramente non conosci, perché anche se sei italiana, vivi da 20 anni all’estero». Così mi disse, con una battuta, il cacciatore di teste che mi aveva selezionata, senza voler svelare il nome dell’azienda fino al primo colloquio». Violante Avogadro di Vigliano, oggi a.d. della più antica confetteria d’Italia - Pietro Romanengo fu Stefano, fondata a Genova nel 1780 - sorride ancora ricordando quel momento. «Alla fine dovette confessarmi il nome. Non avrei proseguito la selezione altrimenti: avevo già un lavoro che mi piaceva. E sa una cosa? Romanengo non solo lo conoscevo, ma ero cliente abituale: tre volte a settimana nel negozio di Milano. È stato un segno del destino». La proposta ufficiale arrivò da Jean Sébastien Decaux, dal 2019 socio di riferimento di Romanengo e figlio del fondatore della multinazionale dei cartelloni pubblicitari. All’epoca Avogadro era in Illy Caffè da cinque anni, come chief communication officer. «L’offerta era unica: guidare un marchio storico, quasi sconosciuto fuori da Genova, e trasformarlo in un brand internazionale. Una sfida così non mi era mai capitata. Ho accettato. Da gennaio sono qui». Per lei questo è un territorio nuovo rispetto al percorso precedente: prima di Illy, Avogadro aveva lavorato per Montblanc, Roger Vivier, Polo Ralph Lauren e Gucci. Eppure, il passaggio dal fashion system al food è stato anche l’occasione per sfatare un vecchio stereotipo: quello secondo cui ogni settore segua logiche a sé. «Oggi - dice - non esistono più compartimenti stagni: la moda invade la ristorazione, le pasticcerie diventano lifestyle experience». Insomma, che si tratti di calzature, pelletteria o frutta candita, guidare un’eccellenza del made in Italy richiede strategie simili. «Anche il linguaggio è condiviso: si parla di product hero, collezioni, stagioni. Perché, in fondo, sia nella moda che nel food si tratta di veicolare un desiderio raccontando valori e identità». «Romanengo - prosegue Avogadro - non è distante dal mondo del lusso da cui provengo: è una piccola maison del gusto,

«Cosa porto del mio background? Pianificazione, strategia, forecast. Qui non forziamo la natura, ma serve l'organizzazione della moda»

Violante Avogadro di Vigliano

con rituali, tradizioni e un’attenzione al dettaglio che la avvicinano più a Hermès che a un qualsiasi altro marchio di pasticceria. Basta pensare alle nostre confezioni: scatole di legno avvolte in una velina bianca, poi in carta blu, chiuse con lo spago e una matita. Ogni scatola porta il nome di chi l’ha confezionata. È un gesto che racconta un lusso autentico». Anche sulle nu-

merose connessioni tra moda e gusto - al punto che ormai si parla di foodification della moda - Avogadro è certa che il futuro riserverà opportunità per Romanengo. «Abbiamo già fornito prodotti ad aziende di moda e continueremo a farlo. Collaborazioni vere e proprie, però, al momento non ce ne sono. Forse arriveranno, ma dovranno riflettere l’anima di Romanengo. Un esempio? Penso subito a Valentino, non il marchio di oggi, ma quello del Garavani della Dolce Vita. Quella sì che sarebbe una collaborazione perfetta». Nei primi mesi in carica, Avogadro ha colto, oltre alle somiglianze, anche le differenze tra un brand del gusto di nicchia e il fashion system globale: «Nella moda puoi creare scarsità artificiale, qui seguiamo i ritmi della natura. Le clementine si candiscono solo quando è il momento. Coltiviamo le nostre rose per i petali canditi in una cascina a un’ora da Milano, insieme a miglio e grani. Questo progetto unisce natura, artigianato e tradizione».

Chiari anche gli aspetti del suo know how più utili per questa nuova avventura: «In una realtà piccola come Romanengo, con 50 persone, serve costruire processi: pianificazione, strategia, forecast. Capire quando servono le fragole, quante ne occorrono per punto vendita. Non vogliamo forzare la natura, ma ci vuole organizzazione: piani di mercato, uscite, lanci. Nella moda è la norma, nel food meno, ma la logica è la stessa: cura del dettaglio, amore per il bello, precisione. Chi arriva dal lusso porta questa cultura ovunque».

Intanto Avogadro guarda già oltreconfine: «L’espansione è partita da Genova, dai negozi storici di via Soziglia e via Roma. Il primo passo fuori città è stato Milano nel 2022, dove entro fine anno apriremo uno spazio più grande con confetteria e salon de thé. Il vero sogno, però, è crescere all’estero in modo più strutturato».

Non appena i tempi saranno maturi, partirà la scommessa successiva: «Vorremmo aprire la manifattura al pubblico, con visite e archivio storico. Perché Romanengo non è solo prodotto: è cultura». ■

ANDREA BIGOZZI
Sopra, la storica bottega Romanengo in via di Soziglia a Genova. Tra i nomi noti passati da qui Giuseppe Verdi e Ira von Fürstenberg

CAMERA SHOWROOM MILANO

CSM è un’associazione autonoma, libera ed indipendente.

CSM è dedicata a tutti gli showroom multibrand di Milano più rappresentativi del fashion e con una forte vocazione internazionale.

CSM ha tra i suoi obiettivi fondamentali l’esigenza, resa ancor più forte dalla recente situazione congiunturale, di fare squadra.

CSM ha concretizzato, grazie alla collaborazione con Confartigianato Moda, importanti attività durante le Fashion Week di Milano:

ARTISANAL EVOLUTION + CSM MEETS SUSTAINABILITY

CAMERA SHOWROOM MILANO ringrazia

1ST FLOOR

999 SHOWROOM

ARETE’ SHOWROOM

ASESTANTE SHOWROOM

BOIOCCHI SHOWROOM

BRERAMODE

CASILE & CASILE

CONTINUO

DANIELE GHISELLI SHOWROOM

DMVB SHOWROOM

ELISA GAITO SHOWROOM

FATTORE K MILANO

GARAGE MARINA GUIDI

K-LAB

MANNERS

MANUEL MENCARELLI SWOWROOM

MODERN SWOWROOM

PANORAMA MODA

PERCORSI OBBLIGATI

PROGETTO MILANO

RENZO VESENTINI MILANO

S5 SHOWROOM

SD SHOWROOM

SHOWROOM A. FICCARELLI

SHOWROOM DUNE

SHOWROOM JE T’AIME

SHOWROOM PAPAVERI

SPAZIO 38

SPAZIO COLTRI

SPAZIO LIBERTY

STUDIO 360 SHOWROOM

STUDIO POGGIO

STUDIO TATO SOSSAI

STUDIO ZETA

STYLE COUNCIL SHOWROOM

THE PLACE SHOWROOM

ZAPPIERI MILANO

Thank you all!

A.D.

Markus Gotta markus.gotta@dfv.de

DIRETTORE RESPONSABILE

Tobias Bayer t.bayer@fashionmagazine.it

EDITOR AT LARGE

Michael Werner michael.werner@dfv.de

CAPOSERVIZIO

Alessandra Bigotta a.bigotta@fashionmagazine.it

REDAZIONE

Andrea Bigozzi a.bigozzi@fashionmagazine.it Elisabetta Fabbri e.fabbri@fashionmagazine.it Maria Cristina Pavarini mariacristina.pavarini@dfv.de Angela Tovazzi a.tovazzi@fashionmagazine.it

GRAFICA E DESIGN

Nadia Blasevich n.blasevich@fashionmagazine.it

HEAD OF ADVERTISING

Barbara Sertorini b.sertorini@fashionmagazine.it

SALES CONSULTANT

Anna Pellizzola a.pellizzola@fashionmagazine.it

ASSISTENTE DI DIREZIONE/UFFICIO TRAFFICO

Valentina Capra v.capra@fashionmagazine.it

COORDINAMENTO INTERNAZIONALE

Margherita Cimino margherita.cimino@dfv.de

AMMINISTRAZIONE

Cristina Damiano c.damiano@fashionmagazine.it

COLLABORATORI

Cristiana Bonzi, Olivia Dhordain, Barbara Markert, Alice Merli

EDIZIONI ECOMARKET SPA

Redazione, Amministrazione e Pubblicità, Piazzale Cadorna 15, 20123 Milano - telefono 02 80620-1

FASHION

IL MAGAZINE DI STRATEGIA, INNOVAZIONE E MERCATI Registrazione presso il Tribunale di Milano n. 389 del 6-11-1970 Iscrizione n. 1418 al ROC Registro Operatori della Comunicazione Stampa: New Press Edizioni SRL Lomazzo (Co)

Distributore: MDM Milano Distribuzione Media Srl

© FASHION 2025 Edizioni Ecomarket S.R.L. - Milano

È vietata la riproduzione anche parziale. Articoli, disegni e fotografie, anche se non pubblicati, non verranno restituiti.

Abbonamento annuale Euro 69,00 (quindicinale)

Per informazioni scrivi a abbonamenti@fashionmagazine.it oppure vai al sito https://www.fashionmagazine.it/abbonamenti/ È possibile richiedere gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a: Edizioni Ecomarket S.R.L. - servizio abbonamenti Piazzale Cadorna 15 - 20123 Milano. Numeri Arretrati: 16,00 Euro cad

L’editore garantisce che i dati forniti dai sottoscrittori degli abbonamenti vengono utilizzati esclusivamente per l’invio della pubblicazione come quelli relativi agli invii in omaggio non vengono ceduti a terzi per alcun motivo. Garanzia di riservatezza per gli abbonati in ottemperanza al D. Lgs. n.196/2003 (tutela dati personali)

Fashion fa parte del Gruppo Dfv MedienGruppe - Deutscher Fachverlag GmbH www.dfv.de

Alcune testate moda del gruppo sono: TextilWirtschaft, Francoforte; The Spin Off, Milano; Ötz Österreichische Textil Zeitung, Vienna.

www.fashionmagazine.it

Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.
Fashion Magazine N 3 2025 by Fashion Magazine - Issuu