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«Siamo un modello che funziona anche in tempi di crisi»

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Stefano Beraldo

Stefano Beraldo

Vestiaire Collective da start-up si è trasformata in un'azienda globale da miliardi di fatturato. La co-founder Sophie Hersan parla della mission della piattaforma, di clienti sensibili al prezzo, del boom del vintage e delle proiezioni per il mercato italiano

Vestiaire Collective è considerata leader mondiale nel settore del commercio digitale di moda di seconda mano di alta gamma. Fondata nel 2009 da un gruppo di amici, l’azienda ha alle spalle una storia di successo impressionante: da piccola start-up parigina a unicorno con oltre 1 miliardo di euro di fatturato e 600 dipendenti in tutto il mondo, su cui nel 2021 ha investito anche Kering con una quota del 5%. La piattaforma peer-to-peer è attualmente attiva in oltre 70 Paesi e riceve ogni giorno 30mila nuovi articoli di seconda mano. Del team fondatore sono rimasti solo due membri: Fanny Moizant e Sophie Hersan. Entrambe sono diventate modelli di riferimento per la loro stessa azienda. Presentano regolarmente i loro acquisti personali di articoli di seconda mano sui social media e sono impegnate politicamente nella lotta contro il fast fashion. Abbiamo incontrato su Zoom Sophie Hersan, convinta consumatrice ed esperta di second hand, per fare il punto sulla situazione sul mercato dell’usato.

In qualità di co-fondatrice di Vestiaire Collective, lei lavora da oltre 15 anni con la moda di seconda mano. Come si è evoluto il mercato e a che punto siamo oggi?

Il mercato dell’usato cresce complessivamente del 15-20% all’anno. È un dato enorme. Attualmente è stimato in 200 miliardi di dollari. Quando oggi parliamo di mercato second hand, spesso pensiamo solo a quello digitale. Ma non bisogna dimenticare i piccoli negozi fisici di moda usata. Esistono ancora, alcuni si sono reinventati. Ci sono state anche molte nuove aperture di questi punti vendita, ma va detto che in ambito digitale il settore è semplicemente esploso.

Perché questo segmento sta registrando una tale crescita?

L’abbigliamento di seconda mano è ormai saldamente radicato nelle abitudini di consumo. Quando abbiamo iniziato 15 anni

«Stiamo conquistando i clienti che, pur potendosi permettere articoli nuovi, non sono più disposti a spendere così tanto per prodotti di lusso»

Sophie Hersan fa non era ancora così. Abbiamo dovuto fare un grande lavoro di sensibilizzazione, soprattutto presso le case di moda. La pandemia ha contribuito a un cambiamento di mentalità. A partire dal 2021 i marchi e anche i rivenditori hanno voluto impegnarsi maggiormente nell’economia circolare. Molti però non sapevano come entrare in questo mercato e come mettere in circolazione i prodotti.

A questo scopo Vestiaire Collective offre oggi delle collaborazioni. Esatto. Nel 2021 abbiamo iniziato a stringere partnership con i marchi per consentire ai loro clienti di rivendere i loro articoli. Nel frattempo, più di una dozzina di marchi - come Burberry, Chloé, Courrèges, Isabel Marant - e fornitori di e-commerce, tra cui Mytheresa o LuisaViaRoma, si sono uniti a noi. La rivendita viene gestita come un servizio: acquistiamo i prodotti e li rivendiamo sulla nostra piattaforma.

L’atteggiamento nei confronti della moda usata è simile in tutto il mondo o ci sono Paesi più inclini al second hand rispetto ad altri? Sappiamo che i Paesi anglosassoni, ovvero in primis Stati Uniti e Inghilterra, sono molto più aperti al second hand. Lo notiamo anche noi. Il mercato americano è diventato per Vestiaire uno dei più grandi e importanti, soprattutto dopo l’acquisizione del concorrente statunitense Tradesy. In Europa, la Germania rappresenta lo sbocco più importante. La Spagna, l’Italia e il nostro mercato interno, la Francia, sono molto equilibrati in termini di rapporto tra acquirenti e venditori. La Germania, invece, è piuttosto un grande mercato di consumo.

Quando Vestiaire si è espansa in Europa, l’Italia era un mercato forte per la vendita. È ancora così?

Quando abbiamo aperto il mercato italiano nel 2014, era vero che gli italiani vendevano molto. Come in Francia, anche lì ci sono molti marchi di alta moda. Inoltre, in Italia ci sono numerosi outlet. Le italiane avevano quindi facile accesso a prodotti nuovi a prezzi accessibili. Ma ora il rapporto tra venditori e acquirenti è equilibrato anche in questo Paese.

I consumatori sono restii a comprare prodotti nuovi. Ne traete vantaggio? È vero, il nostro è un modello che funziona in tempi di crisi. Non appena si verifica una crisi economica, la liquidità diventa importante. Le persone vendono perché hanno bisogno di denaro. Mentre i prezzi dei prodotti usati restavano stabili, quelli dei prodotti nuovi continuavano a salire. Pertanto, sia dal lato dei venditori che da quello degli acquirenti, traiamo vantaggio da coloro che non vogliono più spendere tanto o hanno bisogno di soldi.

I marchi di lusso stanno attraversando un periodo difficile perché hanno aumentato notevolmente i prezzi. Cosa significa questo per Vestiaire Collective?

A mio parere oggi c’è una vera e propria sensibilità ai prezzi. E questo in tutti i generi e in tutte le categorie. Inoltre il lusso ha raggiunto una dimensione critica. Molti consumatori non sono riusciti a stare al passo con i forti aumenti dei listini di Prada, Chanel, Louis Vuitton e altri negli ultimi anni. Stiamo riconquistando una parte dei clienti che in passato puntavano sui prodotti nuovi, ma che ora, pur potendoselo permettere, non sono più disposti a spendere così tanto per i prodotti di lusso. Si può parlare di un effetto valanga.

Nel settore dell'usato Vestiaire è considerata una piattaforma di fascia alta. Anche le sue commissioni sono però più elevate rispetto a certi competitor. Che effetto ha questo su una clientela sensibile al prezzo? Non direi che abbiamo un’immagine di lusso. Vestiaire Collective ha soprattutto un’offerta molto alla moda e si distingue per la sua affidabilità: nessun prodotto viene messo online senza aver prima superato tutte le fasi di verifica. Esaminiamo tutti gli utenti che desiderano registrarsi sulla piattaforma. La nostra autenticazione digitale e fisica e il nostro controllo di qualità sono unici. Quasi nessun’altra piattaforma peer-to-peer ha controlli così severi.

Già alcuni anni fa avete bandito il fast fashion dalla vostra offerta. Anche per questo motivo i prezzi medi dei prodotti usati da voi sono generalmente più alti rispetto ad altre piattaforme.

Ciononostante, attiriamo molti acquirenti grazie alla convenienza. Da noi si trova qualità a un prezzo equo: il 50% delle transazioni ha un valore medio del carrello di 180 euro. Fin dall’inizio cerchiamo di convincere i nostri clienti a consumare meno, ma meglio. Penso che questo corrisponda alle aspettative odierne dei consumatori: cercano un capo di abbigliamento con un nome o un marchio a un prezzo accessibile, che possa essere indossato a lungo e che mantenga il suo valore nel tempo.

Ci sono capi che possono essere venduti a un prezzo superiore a quello di origine?

C’è una clientela interessata a pezzi unici. Si tratta per lo più di capi di collezioni precedenti. Il vintage è una categoria che va molto, molto bene da noi. Attualmente abbiamo il 220% in più di offerte nel settore vintage e cinque volte più ricerche di capi che hanno oltre 15 anni. La categoria è in forte espansione.

Il second hand è arrivato anche nelle serie TV: Vestiaire Collective è apparso persino in un episodio di “Emily in Paris”.

Tutto ciò che ha a che fare con la cultura pop è un ottimo mezzo per attirare l’attenzione della grande maggioranza delle persone sul second hand. I social network, le serie TV, le piattaforme come Netflix, Amazon Prime o Disney Plus riescono a trasmettere nuovi messaggi sulla moda. Nel caso di “Emily in Paris” è stata la serie a venire da noi.

I marketplace come Vestiaire sono grandi aziende tecnologiche. In che misura l’intelligenza artificiale è già presente sulla vostra piattaforma? È presente nei nostri algoritmi. Se si cerca qualcosa di specifico, la ricerca è molto più precisa rispetto al passato. Il cliente trova molto più rapidamente i prodotti che gli interessano. Oggi abbiamo cinque milioni di prodotti sulla piattaforma. È più di quanto offra un grande magazzino. Grazie all’AI analizziamo la cronologia dell’utente. Dove vive? Cosa ha guardato in precedenza? In questo modo ci assicuriamo che la selezione rimanga stimolante. Sup- poniamo che un cliente stia cercando una borsa Chanel. La ricerca mostrerà naturalmente le borse Chanel, ma non solo quelle. Ampliamo leggermente il raggio di ricerca per migliorare l’esperienza dell'utente.

Vestiaire Collective offre anche abbigliamento maschile.

Gli uomini sono già entrati nel mondo dell’usato?

Abbiamo una community maschile, ma è piccola. Chi ha già acquistato da noi una volta, torna sempre. Per il pubblico maschile vanno bene le categorie scarpe, gioielli e orologi. L’offerta di prêt-àporter, accessori, borse e orologi c’è, ma abbiamo bisogno di una scelta molto più ampia e dobbiamo rivolgerci in modo molto più chiaro al target maschile. Finora non l’abbiamo fatto e ci siamo concentrati molto sulle donne.

All’inizio del 2024 Vestiaire Collective ha lanciato una campagna di crowdfunding. Era una preparazione per una possibile quotazione di cui si vocifera da tempo?

Sì, molti pensavano che fosse una preparazione all’Ipo. Ma per noi era qualcosa di diverso. Questa azienda non sarebbe mai arrivata così lontano senza la nostra fedele community. La mission originale era, e rimane, quella di cambiare il settore della moda verso la sostenibilità. La community ci aiuta a promuovere questo cambiamento. Il crowdfunding era inteso come ringraziamento e ricompensa per i nostri clienti. A proposito, ha funzionato davvero molto bene. Abbiamo ottenuto molto più di quanto previsto e raccolto oltre 3 milioni di euro. Il 68% di questi investitori sono donne. Un dato che mi ha fatto piacere. Perché noi promuoviamo molto le donne all’interno dell’azienda.

E il tanto atteso sbarco in Borsa?

È qualcosa che teniamo presente, ma non è ancora il momento giusto. Attualmente stiamo cercando di mantenere la nostra crescita in un periodo nuovamente difficile. Molti marchi stanno soffrendo. La crisi continua e oggi colpisce l'industria, il commercio al dettaglio e persino il settore del lusso. ■ BARBARA MARKET

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