Albino comunità viva - gennaio 2022

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IL GIORNALE DELLA COMUNITÀ PARROCCHIALE DI SAN GIULIANO - GENNAIO 2022


INFO UTILI RECAPITI Casa parrocchiale Tel. e fax: 035 751 039 albino@diocesibg.it Oratorio Giovanni XXIII Tel. 035 751 288 oratorioalbino@gmail.com Santuario del Pianto 035 751 613 - www.piantoalbino.it Convento dei Frati Cappuccini Tel. 035 751 119

da coltivare Gratitudine virtù in questo anno pastorale

ORARI delle SANTE MESSE FESTIVE

FERIALI

In Prepositurale

In Prepositurale

Scuola dell’infanzia Centro per la famiglia “San Giovanni Battista” Tel. 035 751 482 - 035 02 919 01

ore 18.00 al sabato (prefestiva) ore 8.00 - 10.30 - 18.00

Padri Dehoniani Tel. 035 758 711

ore 7.30 - 17.00

Suore delle Poverelle alla Guadalupe Tel. 035 751 253 Caritas Parrocchiale Centro di Primo Ascolto aperto il 1° e il 3° sabato del mese dalle ore 9.30 alle 11.30 PER COPPIE E GENITORI IN DIFFICOLTÀ Consultorio familiare via Conventino 8 - Bergamo Tel. 035 45 983 50

Al santuario del Pianto Al santuario della Guadalupe ore 9.00

Al santuario della Concezione ore 10.00

Alla chiesa dei Frati Cappuccini ore 7.00 - 9.00 - 11.00 - 21.00

ore 8.30 - 17.00 Quando si celebra un funerale se è al mattino, è sospesa la S. Messa delle 8.30; se è al pomeriggio, è sospesa la S. Messa delle 17.

Alla chiesa dei Frati ore 6.45 Al santuario del Pianto ore 7.30 Alla Guadalupe ore 8.00 Sulla frequenza 94,7 Mhz in FM è possibile ascoltare celebrazioni liturgiche e catechesi in programma nella nostra chiesa Prepositurale

Amarcord

Centro di Aiuto alla Vita Via Abruzzi, 9 - Alzano Lombardo Tel. 035 45 984 91 - 035 515 532 (martedì, mercoledì e giovedì 15-17) A.C.A.T. (metodo Hudolin) Ass.ne dei Club Alcologici Territoriali Tel. 331 81 735 75 PER CONIUGI IN CRISI Gruppo “La casa” (don Eugenio Zanetti) presso Ufficio famiglia della Curia diocesana Tel. 035 278 111 - 035 278 224 GIORNALE PARROCCHIALE info@vivalavita.eu Numero chiuso in redazione il 26.01.2022

www.oratorioalbino.it

Capodanno 1953, gli auguri della banda, alla signorina Milly Honegger, all’esterno del cotonificio.

In copertina, stendardo processionale esposto in Prepositurale nei giorni della festa patronale di san Giuliano (foto di Maurizio Pulcini).


1 “Io resto quieto e sereno: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia”. (Salmo 131,2)

Abbiamo iniziato il nuovo anno, con riconoscenza e gratitudine. Un po’ meno spari, ma un po’ più luce dei fuochi. D’altra parte dovevamo pur dire che stavamo vivendo un po’ di differenza rispetto lo scorso anno. Con gratitudine. Che non è solo un grazie, o un atteggiamento di correttezza sociale; non è una riconoscenza per un favore o un dono ricevuto. La gratitudine sposta l’attenzione dal dono alla persona che si è dimostrata buona in un modo imprevedibile nei nostri riguardi. La gratitudine è un atteggiamento affettuoso, che non ti fa dimenticare chi t’ha fatto del bene. E mentre la gratitudine ha buona memoria, potremmo dire che non ha bisogno nemmeno delle parole. Guarda il bambino in braccio a sua mamma! Addirittura si addormenta beato, diventando così anche il simbolo della piena fiducia. Ma l’immagine che in assoluto più mi colpisce è quella dei dieci lebbrosi, che chiedono pietà; nemmeno guarigione. Agli ultimi di questo mondo, tenuti lontano da tutti, non resta che gridare per farsi sentire; a volte per manifestare rabbia, a volte per supplicare. Vengono ascoltati e mandati dai sacerdoti perché constatassero la guarigione e li ammettessero nella vita sociale. Gesù non li tocca e loro si fidano, partono quando ancora non sono guariti. Ed è così che, strada facendo, hanno la consapevolezza di quanto è loro accaduto. Nove proseguono il cammino e, arrivati dai sacerdoti, avranno reagito ciascuno a suo modo. Però non sentono la necessità di tornare da Colui che avevano invocato. Chissà se, essendo ebrei, avranno creduto di essersela meritata la guarigione! Fatto sta che uno però torna indietro, lodando Dio a gran voce. Era uno straniero; uno che non andava al tempio a pregare. Ancora una volta un samaritano, come quello del Vangelo che si ferma a medicare quell’uomo aggredito dai briganti; come la donna al pozzo che dialoga con Gesù. Grida più forte ancora della prima volta, sconvolto non solo per la guarigione, ma perché è stato ascoltato anche se non appartiene alla fede degli ebrei. Ha compreso che nulla gli era dovuto e per questo si è sentito amato come non avrebbe mai potuto immaginare. È a questo punto che lo troviamo gettarsi con la faccia a terra ai suoi piedi per ringraziarlo. Come non ricordare che, più tardi quando Gesù risorge, Maria Maddalena e le altre donne appena lo vedono si gettano a terra e gli abbracciano e baciano piedi. Anche questo samaritano avrà fatto lo stesso. Quando la gratitudine si carica di riconoscenza e di affetto e ti fa passare dal dono ricevuto a colui dal quale lo hai ricevuto. Questo è il vero miracolo: quando quest’uomo si vede guarito, si vede come lo vede Dio e comincia a vedersi con gli occhi di Dio: occhi che liberano, che guariscono. Si accorge di vedersi e di vedere gli altri con occhi nuovi. Gesù ci ha insegnato la gratitudine nei riguardi di suo Padre: “Ti ringrazio, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai grandi e ai sapienti e le hai fatte conoscere ai piccoli”. È quello che è accaduto nell’episodio dei dieci lebbrosi. Qualche anno fa, papa Francesco, parlando di queste cose, ebbe a dire: “Certe volte viene da pensare che stiamo diventando una civiltà delle cattive maniere e delle cattive parole, come se fossero un segno di emancipazione. Le sentiamo dire tante volte anche pubblicamente. La gentilezza e la capacità di ringraziare vengono viste come un segno di debolezza, a volte suscitano addirittura diffidenza. Questa tendenza va contrastata nel grembo stesso della famiglia. Dobbiamo diventare intransigenti sull’educazione alla gratitudine, alla riconoscenza: la dignità della persona e la giustizia sociale passano da qui. Se la vita familiare trascura questo stile, anche la vita della società lo perderà”. Papa Giovanni, questo nostro papa il cui sorriso semplice ha lasciato un segno nella storia, aveva cercato di manifestare la sua gratitudine a Dio attraverso alcuni propositi che ben conosciamo: “Solo per oggi dedicherò dieci minuti del mio tempo a sedere in silenzio ascoltando Dio, ricordando che come il cibo è necessario alla vita del corpo, così il silenzio e l’ascolto sono necessari alla vita dell’anima. Solo per oggi compirò una buona azione e non lo dirò a nessuno. Solo per oggi mi farò un programma: forse non lo seguirò perfettamente, ma lo farò. E mi guarderò dai due malanni: la fretta e l’indecisione”. Chissà che qualcosa di questo ci aiuti a crescere nella gratitudine, che ci siamo dati quest’anno come virtù da vivere. Nella speranza di aver iniziato bene questo nuovo anno e di poterlo continuare meglio, ci auguriamo una buona continuazione del nostro cammino vs. dongiuseppe

Gennaio 2022


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VITA DELLA CHIESA

Maria, Elisabetta e la Chiesa: “Magnificant”

La lettura di un intervento di Mauro Pedrazzoli, dall’apparentemente innocuo titolo I codici purpurei in latino (in versione ridotta sul mensile “Il Foglio” n. 400, marzo 2013), che discute svariate questioni riguardanti i primi due capitoli di Luca, mi ha colpito in modo particolare per le sue argomentazioni circa il Magnificat. Pedrazzoli riferisce infatti dell’esistenza di codici secondo i quali colei che eleva il canto «Magnifica il Signore, anima mia» non sarebbe Maria ma Elisabetta, in quanto (in quei codici) il passo di Luca 1,46 riporta non «allora Maria disse» ma «allora Elisabetta disse». Un “errore” difficile da spiegare dato che la tradizione cristiana ha sempre attribuito quel canto alla «Madre del mio Signore» (Luca 1,43) giunta in visita alla cugina. Un errore? Non si può però scartare a cuor leggero quella che in filologia si chiama lectio difficilior: in quel punto un copista che avesse voluto intervenire, traducendo o trascrivendo, avrebbe semmai posto il nome di Maria al posto di quello di Elisabetta e non viceversa (detto con le parole di Pedrazzoli: «se originariamente il Magnificat fosse stato pronunciato dalla Madonna, nessuno si sarebbe sognato di trasferirlo su Elisabetta»). Nel momento in cui si prende sul serio l’ipotesi secondo cui nel testo lucano vi sarebbe stato scritto «allora Elisabetta disse», si apre la possibilità di leggere in modo continuativo i versetti precedenti Luca 1,26 e quelli successivi Luca 1,45 (più o meno così: «Dopo quei giorni Elisabetta, sua moglie, concepì, e diceva: “Ecco che cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna tra gli uomini. L’anima mia magnifica il Signore…”»). La narrazione guadagna in coerenza; è noto infatti che il Magnificat trova la sua fonte principale nella preghiera di Anna (1 Samuele 2,1-10), anch’ella madre di un profeta (Samuele, appunto) e anch’ella rimasta a lungo a subire l’onta della sterilità prima di ricevere la grazia di divenire madre. Non è affatto insensato dunque pensare che quelle parole possano essere state originariamente non di Maria ma di Elisabetta (ciò costringe a considerare Lc 1,26-45, l’annunciazione e la visitazione, come un inserto, aggiunto in una seconda fase di elaborazione del testo: Pedrazzoli ne tratta a lungo, ma non è questo il tema principale di questo intervento). La domanda che mi sono posto può essere espressa più o meno in questi termini: nel momento in cui un cristiano, nel suo sforzo di lettura e comprensione del testo biblico, giunge a ritenere che in una prima fase di elaborazione dei vangeli che oggi conosciamo il Magnificat fosse parola di Elisabetta, e non di Maria, cosa cambia per quanto riguarda il valore da attribuire a quel canto? […] Quale Maria per quale Magnificat? Che cosa cambierebbe allora se il Magnificat non fosse di Maria ma di Elisabetta? Se dovessimo ammettere che la prima generazione cristiana l’aveva attribuito non alla madre del Cristo, ma alla madre del Battista? È intuibile che ammetterlo sarebbe un danno per i teologi e i devoti impegnati a esaltare l’eccezionalità della figura di Maria: non si potrebbe infatti più attribuire

alla Theotokos quel «tutte le generazioni mi chiameranno beata, grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente». Anche chi ritiene che solo la figura della Madre di Cristo possa legittimare i contenuti di liberazione di carattere sociale, economico e politico presenti nel cantico dovrebbe respingere l’eventualità che il Magnificat possa essere attribuito non a Maria ma, invece, a Elisabetta. Di fronte alle argomentazioni del filologo queste posizioni dovrebbero dunque contrapporre una netta chiusura, elevando a criterio di verità la tradizione che si è consolidata attorno ai testi, più che i testi stessi. Diverso è il discorso se ci si pone nell’altra prospettiva, quella che – tenendo conto soprattutto dei testi giovannei – guarda alla madre di Gesù non come figura singola storica o metastorica ma come immagine della Chiesa. In tal caso, che il Magnificat sia stato composto da Luca o da qualche altro redattore, che sia stato attribuito in un certo momento a Elisabetta e in un altro a Maria non cambia nulla, perché si tratta sempre dell’esultanza della comunità dei credenti. Un’esultanza che riecheggia da Esodo 15 a 1Samuele 2, da Giuditta


VITA DELLA CHIESA

13 a Siracide 10, e che trae motivo dalle grandi opere di Dio. Un canto di redenzione innalzato però non dalla “corredentrice” – come qualcuno vorrebbe definire Maria – ma dai redenti; un salmo che santifica il nome di Dio, vale a dire riconosce la Sua grandezza; un annuncio che testimonia la fede (non la determina, non se ne appropria); un grido profetico per una vittoria che è già avvenuta e non può essere più messa in discussione. Attribuire il Magnificat a Elisabetta, seguendo la lectio difficilior di alcuni antichi codici, non sarebbe dunque in alcun modo un vulnus per la fede; aiuterebbe invece il filologo (lo scriba, per dirlo con linguaggio biblico) a farsi una ragione delle anomalie presenti nella tradizione del testo, e aiuterebbe chiunque a capire alcuni significati profondi del testo stesso. Riporterebbe quel canto al centro della comunità: magnificant animae nostrae Dominum.

Albino Luciani beato

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«Albino Luciani, che fu papa per 33 giorni nel 1978 con il nome di Giovanni Paolo sarà fatto Beato il prossimo 4 settembre. (…) Papa amato per le origini povere e montanare, ai margini di un piccolo borgo delle Alpi bellunesi. “Durante l’anno dell’invasione (il 1918, dopo Caporetto, n.d.r.) ho patito veramente la fame, e anche dopo, almeno sarò capace di capire i problemi di chi ha fame” disse da Papa [andava mendicando, mandato dalla madre, un pezzo di pane e una patata nelle cascine vicine, n.d.r.]. Amato anche per i modi semplici e per non aver dimenticato la raccomandazione del papà Giovanni, socialista, che così gli scrisse dalla Svizzera – dov’era migrato per lavoro – quando a undici anni gli chiese il permesso di entrare in seminario: “Spero che quando tu sarai prete, starai dalla parte di poveri, perché Cristo era dalla loro parte”. Beati i poveri dice il Vangelo: e allora beato questo Papa che patì la fame». Luigi Accattoli “La Lettura” del Corriere della sera, 2 gen. 2022

Maria, Elisabetta e la Chiesa magnificano il Signore D’altronde la Chiesa innalza già quotidianamente quel cantico nella preghiera del vespro. In questo senso è davvero un canto “mariano”, attribuibile senza difficoltà anche a colei che per prima ascoltò la Parola. Paolo VI, nell’enciclica Marialis cultus (§ 18), definiva il Magnificat l’«esultanza dell’antico e del nuovo Israele»: di questo, dunque, stiamo parlando. Il fatto di giungere, alla fine di questa riflessione, a citare un’enciclica mariana del grande papa del Concilio è per me motivo di conforto. E, se mi si concede un’ultima battuta, è motivo di conforto anche pensare che il continente che si è autodefinito «spazio privilegiato della speranza umana» abbia adottato la corona di dodici stelle come proprio simbolo: non un segno di forza ma una testimonianza di fiducia in Colui che protegge la Donna partoriente nel momento del dolore e del pericolo. Emanuele Curiel (“Il Margine”, n. 7/2014 e www.settimananews 5-6-2019)

N.B.: Il padre di Papa Luciani gli diede il nome Albino in memoria di un “giovane bergamasco” morto in un altoforno tedesco, a Essen o Solingen dove il padre lavorava nei primi anni del 1900; e sul finire dell’Ottocento, ogni anno, diversi sono quelli che portano questo nome nella parrocchia di Albino che ha come protettore, oltre che san Giuliano e san Mario, anche sant’Albino.

Settembre 2021


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VITA DELLA CHIESA

Rutilio e i martiri dei campesinos

Dopo sant’Oscar Romero, dal 22 gennaio il Salvador ha altri quattro nuovi beati uccisi negli anni drammatici della guerra civile.

«Nella motivazione dell’amore non può rimanere assente la giustizia, non ci possono essere vera pace e vero amore sulle basi dell’ingiustizia, della violenza, degli intrighi. Il vero amore è quello che ha portato Rutilio Grande alla morte insieme a due contadini. Così ama la Chiesa, muore con loro e con loro si presenta alla trascendenza del cielo». Aveva da appena tre settimane assunto la guida dell’arcidiocesi di San Salvador, monsignor Oscar Arnulfo Romero, quando si trovò a pronunciare queste parole ai funerali dell’amico padre Rutilio Grande. Il gesuita che aveva voluto accanto a sé come cerimoniere il giorno dell’inizio del suo ministero, il 17 febbraio 1977 era diventato il primo prete a essere colpito dagli squadroni della morte. Caduto insieme all’anziano catechista Manuel Solórzano e all’adolescente Nelson Rutilio Lemus mentre rientravano in auto dalla celebrazione di una Messa. Cominciò probabilmente quel giorno il martirio di “san Romero delle Americhe”, l’arcivescovo di San Salvador assassinato sull’altare il 24 marzo 1980 e proclamato poi santo da Papa Francesco nel 2018. Ma ora an-

che padre Rutilio, Manuel e Nelson stanno per essere indicati ufficialmente dalla Chiesa come testimoni del Vangelo fino al dono della propria vita. Beatificati il 22 gennaio a San Salvador, insieme al francescano italiano padre Cosma Spessotto, ucciso il 14 giugno 1980, poche settimane dopo monsignor Romero, nella nazione dell’America Centrale precipitata nel baratro. Anni drammatici in cui questo Paese poverissimo finì dilaniato dallo scontro tra l’estrema destra – che con l’appoggio dell’esercito voleva perpetuare un sistema economico profondamente ingiusto, fondato sullo sfruttamento del lavoro dei campesinos – e la guerriglia comunista. Perché tornare ai fatti di quarant’anni fa in un Paese come il Salvador, oggi alle prese con ferite non meno gravi: la povertà ancora dilagante, le conseguenze della pandemia, la violenza delle bande giovanili, l’emigrazione di tanti salvadoregni che ripongono nelle carovane in marcia verso i muri dell’America la speranza di un futuro migliore? Innanzitutto per ricordare che il martirio di monsignor Romero non fu un fatto isolato. «Ci sembra provvidenziale – hanno scrit-

to i vescovi del Salvador in una lettera in vista di questa beatificazione – poter venerare insieme un gesuita salvadoregno, un francescano italiano e due laici del nostro popolo, un giovane e un anziano, accomunati tutti dal fatto di aver versato il proprio sangue per Cristo in mezzo al fragore della guerra. Una guerra che molti ormai non hanno vissuto e molti di più non vorrebbero conoscere ed esaminare alla luce della fede». «I nostri martiri – scrivono ancora i vescovi del Salvador – sono testimoni credibili di una Chiesa in uscita, una Chiesa compassionevole e misericordiosa, una Chiesa che annuncia con parole e opere il Regno di Dio che si fa presente in Gesù Cristo e nel suo messaggio». Guarda dunque al “qui e ora” il messaggio dei quattro nuovi martiri del Salvador. Con la loro vita e la loro morte ricordano che «l’amore verso Dio si esprime nell’amore al prossimo più bisognoso, così come attraverso la lotta per costruire relazioni di fraternità basate sulla verità, la giustizia, la riconciliazione e il perdono». Giorgio Bernardelli Mondo e Missione


VITA DELLA CHIESA

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San Charles de Foucauld

Una sfida per la Chiesa di oggi Fratello universale «Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono?» chiede, nel vangelo di Giovanni (1, 46), Natanaele a Filippo. Se lo chiede, sul finire del secolo scorso, anche Charles de Foucauld, un giovane sregolato dell’esercito francese, di stanza in Nord Africa. Lo attirano la vita nascosta di Gesù, la sua estrema semplicità, il suo confondersi con gli altri. Decide di cambiare vita e di porsi alla sequela del Signore, riconosciuto presente nell’Eucarestia. Di fronte al Santissimo Charles imparerà a sostare ore e ore. Egli vede nei poveri, l’icona vivente di un Dio fatto povero. Vede se stesso come “Fratello di tutti”, “fratello universale”. Decide di “continuare la vita nascosta di Gesù”. L’obiettivo non è di stare “in disparte” o “al di sopra” ma “dentro la vita”. Sta con i Tuareg, una popolazione nomade che abita nel deserto, impara la loro lingua. All’attività missionaria, che spesso si accompagna a superiorità e potere, mostra che, in nome del nascondimento di Gesù, si può scegliere di essere ultimo tra gli ultimi. Quando il primo dicembre del 1916 fratel Charles muore in modo anonimo, ucciso da una banda ribelle, nessuno ha raccolto la sua eredità. Renè Voillaume è un prete parigino esperto di arabo e di islamistica, autore di un testo -“Come loro” – di spiritualità sulla vita di fr. Charles. Sarà lui a dare forma ad un progetto audacissimo. L’8 settembre 1933 nella basilica parigina del Sacro Cuore a Montmartre, insieme a Guy Champenois, Marcel Boucher, Georges Gorrée e Marc Gerin, Voillaume dava inizio alla famiglia dei Piccoli fratelli di Gesù. Oggi la “famiglia” di Charles de Foucauld è composta da 11 congregazioni diverse, presenti in tutto il mondo. I vari rami femminili contano complessivamente oltre 1600 “piccole sorelle”.

Quelli maschili circa 600 “piccoli fratelli”. A questi bisogna aggiungere diversi gruppi e movimenti laicali. Con un obiettivo: essere in ogni ambiente il lievito che si perde nella pasta per farla lievitare. Uomini e donne che non possono possedere nulla, che vivono del proprio lavoro, intrecciando contemplazione e servizio, adorazione del Santissimo e amore verso l’uomo concreto.

Cosa vuol dire la santità di de Foucauld per la Chiesa di oggi?

Ora la Chiesa ha deciso: il prossimo 15 maggio – lo stesso giorno della beatificazione di don Luigi Maria Palazzolo – Charles de Foucauld sarà proclamato santo. Come a voler certificare il valore che l’esperienza spirituale da lui generata è stata profondamente significativa per il nostro tempo. Perché c’è davvero un

prima e un dopo la vicenda di Charles de Foucauld. Eppure la domanda sorge spontanea: qual è la ragione dell’attualità e del fascino, mai tramontati, di Charles de Foucauld e delle fraternità di piccoli fratelli e delle piccole sorelle? Come possono essere significativi per una Chiesa occidentale alle prese con la crisi delle chiese mezze vuote, la distanza dell’uomo contemporaneo sempre più indifferente alla proposta cristiana? La forza di Charles de Foucauld sta nell’indicare a tutti la normalità della vita come il luogo della fede cristiana e dell’annuncio evangelico. “La stessa vita di Nostro Signore” Gesù e cioè ‘l’esistenza umile e oscura di Dio, operaio di Nazareth’”. Una canonizzazione che indica una strada da seguire e una sfida da raccogliere. Daniele Rocchetti www.labarcaeilmare.it

Gennaio 2022


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VITA DELLA CHIESA

Tre cerchi concentrici per dire un cammino di Chiesa: parrocchia, diocesi, mondo. Il cammino pastorale della nostra parrocchia si inserisce all’interno di tre cerchi concentrici più ampi, che ci ricordano il legame con la nostra Diocesi e con la Chiesa sparsa in tutto il mondo. All’inizio dell’anno è bene tornare a ricalcare i bordi di questi tre cerchi, per non perdere il disegno complessivo. Il cerchio più esterno è costituito dallo spunto della Chiesa universale: Papa Francesco ha proposto a tutti, per quest’anno pastorale 2021-2022, di mettere al centro della riflessione e dell’attenzione il tema della famiglia. Attraverso l’invito a riscoprire la sua lettera Amoris Laetitia, il papa chiede a tutte le comunità cristiane di mettersi in ascolto reale delle famiglie di oggi, sia quelle giovani che quelle più mature – con le loro domande, i loro bisogni e le loro risorse in merito alla questione della fede: che cosa hanno bisogno di ricevere dalla nostra parrocchia per custodire il loro cammino credente? E come possono aiutarci, da protagoniste, a capire la fede, a partire dalla loro esperienza estremamente concreta e quotidiana? Papa Francesco chiede inoltre di interessarsi e di farsi carico delle situazioni delicate che complicano la vita di coppia e di famiglia delle nostre comunità. L’idea è di immaginare una forma di Chiesa e di comunità cristiana che non parta semplicemente dai singoli, ma respiri una dimensione familiare. Una Chiesa a misura di famiglia. Il secondo cerchio, quello di mezzo, è il cammino della Chiesa Italiana, rappresentato dai vescovi della CEI. Semplificando un po’ le cose, potremmo dire che papa Francesco ha dedicato questi due anni (2021-2023) a preparare un Sinodo che avrà come tema la sinodalità: il Sinodo è una riunione di tutti i vescovi, e si terrà a Roma nell’ottobre 2023. L’argomento è la sinodalità, cioè come camminare insieme (“sinodo” in greco vuol dire letteralmente “fare strada con”): c’è bisogno di porsi in ascolto di tutti per una Chiesa che non sia lontana dalla vita della gente reale; e c’è bisogno di ascoltarsi tra cristiani perché la fede non divenga affare dei preti e delle suore, ma di tutti i battezzati. Se questa è la mèta, in questo anno si sta lavorando, anche a livello di Chiesa Italiana, per avviare un

processo sinodale, cioè per mettere in atto modalità di ascolto e di protagonismo del popolo di Dio nella vita della Chiesa. Il terzo cerchio, quello più vicino, è quello Diocesano. Il vescovo Francesco sta vivendo da febbraio scorso il suo pellegrinaggio pastorale, che lo impegnerà per sei anni. Il vescovo si fa pellegrino in tutte le parrocchie della Diocesi, per celebrare una Messa con loro, per pregare insieme il rosario, per incontrare i preti e i Consigli pastorali, e per far visita a una realtà pastorale significativa. Un momento di condivisione e di speranza, per ascoltare il tanto che nelle nostre parrocchie già si vive e per incoraggiare la bellezza che non manca. Al termine del pellegrinaggio pastorale in ogni zona, una lettera del vescovo aiuterà le nostre comunità a mettere al centro alcune priorità e a fare alcune considerazioni. L’obiettivo di questo passaggio del vescovo è infatti provare a dare una mano a ripensare la forma e le modalità attraverso cui le nostre parrocchie vivono il loro sforzo di evangelizzazione: come le parrocchie possono diventare più ospitali, fraterne e prossime? Cioè capaci di raggiungere la vita di chi già c’è, di non smarrire chi ha un’appartenenza più timida e di non lasciare andare coloro verso cui c’è bisogno di investire maggiori energie missionarie? Come dare una mano alle nostre parrocchie a smuoversi in una direzione più capace non solo di conservare l’esistente, ma di rivolgersi a chi si sente lontano? Questi dunque sono i tre cerchi concentrici che tratteggiano un percorso ecclesiale che va ben oltre quest’anno, a cui anche la nostra parrocchia è chiamata a guardare: famiglia, sinodalità e parrocchia fraterna, ospitale e prossima. Tre movimenti di Chiesa che hanno come elemento comune il fatto che ci mettono nella condizione di chi deve fare dei lavori: il cantiere della Chiesa di domani passa anche dalla nostra parrocchia e chiede a ogni comunità cristiana di pensarsi e immaginarsi a partire da qui. Mattia Magoni Angelo in famiglia light


ESPERIENZE EDUCATIVE

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Rover in Lunigiana al Santuario della Beata Vergine del Soccorso

Campo all’eremo tra preghiera e lavoro Molti di voi probabilmente non hanno idea di come sia la vita in un eremo, magari non vi sarete neanche mai posti il problema, ed ecco perché in questo articolo proverò a descrivervela, o quanto meno descriverò quella che noi, del clan B. Carlo d’Asburgo, abbiamo potuto assaggiare durante il nostro campo invernale. Nello specifico abbiamo passato tre giorni, tra il 27/12 e il 29/12, all’interno dell’Eremo Santuario della Beata Vergine del Soccorso, posizionato sul valico della Lunigiana, vicino a Minucciano (Lu), cercando di vivere anche solo una parte della vita di questi eremiti. La scelta di svolgere lì il campo è nata dal nostro desiderio di fare un campo di servizio, un campo in cui poterci mettere al servizio di qualcuno per poter aiutare chi ne ha bisogno, e, quando ci è stata proposta questa idea, ne siamo subito rimasti affascinati. Ad ogni modo, la vita nell’eremo segue i dettami della regola benedettina dell’Ora et Labora (prega e lavora), e ruota quindi intorno al lavoro manuale e alla liturgia delle ore, praticata in modo rigoroso dai monaci: nel

dettaglio la giornata inizia alle 3 di notte con una veglia comune che prosegue poi con una privata fino alle 6, a quel punto si svolgono le lodi, seguite dalla S. Messa; alle 8 poi inizia il lavoro che prosegue fino alle 12 con la recita dell’Angelus e il pranzo, nel pomeriggio hanno del tempo libero dedicato al riposo o allo studio individuale, poi vengono recitati i vespri, seguiti dalla cena e infine dalla compieta. Noi avevamo deciso di seguire con loro le lodi e la messa, dandoci anche la possibilità di partecipare alla veglia delle 3 in modo autonomo e volontario, e, dopo la messa, di lavorare con loro: il nostro compito consisteva nello spaccare e impilare la legna che fra Paolo, il monaco più giovane, aveva precedentemente tagliato. Nel pomeriggio del primo e del secondo giorno invece abbiamo avuto delle chiacchierate con fra Mario, il monaco più anziano, riguardanti la fede e abbiamo svolto in autonomia delle attività tra cui la costruzione di torce svedesi, di cui vi lascio una foto, usate poi durante una veglia alle stelle. Posso senza dubbio definire in-

teressante questa esperienza in quanto ci ha permesso di vedere e di confrontarci con delle persone che hanno deciso di seguire in maniera integrale e senza sconti ciò in cui credono, e penso che a prescindere dall’aspetto religioso questo ci possa insegnare a non avere paura di seguire le nostre convinzioni. Picchio Attento

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EDUCAZIONE

Don Chino Pezzoli

PREVENZIONE PER COMBATTERE ALCOOL E DROGHE

VOGLIA DI PROVARE LA DROGA Rubrica a cura del Centro di Ascolto e Auto-Aiuto “Promozione Umana” di don Chino Pezzoli. Conoscere le motivazioni più frequenti che possono indurre un adolescente a voler provare la droga può aiutare i genitori a comprendere le molte pressioni alle quali i loro figli sono sottoposti in questa delicata fase della loro vita. Motivazioni semplici, quali: il desiderio di divertirsi o fare qualcosa di diverso; la disponibilità delle sostanze; la condivisione con gli amici; la curiosità di sperimentare; il desiderio di essere accettati dal gruppo; la perdita d’interessi; la ricerca di sicurezza e autostima. «Volevo sentirmi meglio con me stesso, vincere lo stress, la noia, il dolore, i problemi, sperimentare una “sbornia”», afferma Daniele di diciassette anni. Spesso i ragazzi si basano su ciò che sentono dagli amici per sapere che cosa aspettarsi dall’uso della droga e sovente le informazioni che ne ottengono sono false o poco attendibili, ma accattivanti. Capire se il figlio si droga «Come faccio a capire se mio figlio si droga?» mi chiede Sonia, una mamma con in casa due adolescenti. Questa è la domanda che più spesso i genitori si pongono. La risposta è che non esiste un modo facile e sicuro per saperlo perché l’effetto della droga potrebbe essersi esaurito prima che il genitore veda il figlio o perché l’effetto stesso potrebbe non essere così evidente. Anche nel caso ci fosse un considerevole cambiamento di comportamento, ciò potrebbe essere causato da qualche altro motivo, per esempio un problema di sviluppo, una crisi affettiva, un’apatia tipica dell’età. Se il genitore è però attento può notare un insieme di atteggiamenti anomali da non sottovalutare: lunghi silenzi, broncio o irascibilità verso gli altri; improvvisi sbalzi di umore; insolita mancanza di collaborazione e scontrosità; pochissima disponibilità a parlare e a stare in famiglia; diminuzione del rendimento scolastico, svogliatezza o tendenza a marinare la scuola; abbandono delle attività svolte regolarmente, per esempio uno sport, cambio di amicizie; apparentemente inspiegabile e repentino passaggio a un nuovo gruppo di amici; cambiamenti nell’aspetto fisico, per esempio occhi arrossati; disturbi alimentari. No alla superficialità o rassegnazione!

Alcuni genitori sembrano preferire rassegnarsi a quel particolare nemico, la droga, ignorandone l’evidenza, negando e chiudendo un occhio sulla possibilità che il loro ragazzo adolescente faccia uso di sostanze psicoattive. Afferma il professor Pickhardt, psicologo esperto di adolescenza: «Personalmente, ritengo sia meglio ammettere che il mondo d’oggi in cui crescono i ragazzi è pieno di droghe d’ogni genere, e questo impone una continua vigilanza e discussione soprattutto con gli adolescenti». L’uso di droghe ricreative inizia a entrare in gioco negli anni delle superiori, quando la curiosità diventa più pressante, l’eccitazione diventa più allettante e le feste e gli incontri sociali diventano più frequenti. Non è facile per i genitori sostenere un dialogo costruttivo e mettere in luce i rischi fisici e psichici sull’uso di droghe, ma devono farlo. Non sorvolare sui sospetti. Se i genitori hanno sospetti sul consumo di droghe da parte del figlio, chiedano aiuto a un Centro in cui operano persone esperte. In questo modo potranno gestire il problema al meglio e con maggiore consapevolezza. Importante che siano vigili, sappiano prestare attenzione ai figli, che cosa fanno, dove vanno, le persone e i luoghi che frequentano e con chi hanno rapporti. Da ultimo, lo ripeto, mantengano un buon livello di comunicazione che sta alla base di un ambiente familiare sano e in grado di rilevare le prime devianze del figlio. I ragazzi chiamano le droghe di iniziazione canne, erba, fumo, droghe leggere. Attenti anche alle prime sbronze.

CENTRO DI ASCOLTO E AUTO-AIUTO “PROMOZIONE UMANA” di don Chino Pezzoli Via Donatori di Sangue 13 Fiorano al Serio - Tel. 035 712913 Cell. 3388658461 (Michele) centrodiascoltofiorano@virgilio.it Facebook @centrodiascoltofiorano INCONTRI GENITORI mercoledì dalle 20.30 alle 22.30


EDUCAZIONE

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DARE ALLA LUCE L’esperienza umana del generare, a ben vedere, è comune ad una serie di azioni che, a partire dalla generazione biologica vera e propria, vanno dalla creazione artistica (pensiamo alla composizione o all’esecuzione di un brano musicale, alla realizzazione di un quadro, una scultura, un’opera letteraria, ecc.), alla produzione di manufatti più o meno complessi o all’esecuzione di operazioni delicatissime (pensiamo alla professione del chirurgo ma anche al lavoro dell’operaio e dell’artigiano), al compito educativo di chi istruisce ed insegna… Ma cos’hanno in comune fare un figlio, comporre una sinfonia, dipingere un quadro, scrivere poesie, eseguire un’operazione chirurgica, produrre un software, costruire un’automobile, accompagnare uno studente al diploma o alla laurea? Quello di essere esperienze nelle quali chi opera crea “qualcosa” che prima non c’era; “qualcosa” che il soggetto operante “dà alla luce”, “mette al mondo” grazie alla sua “intenzionalità”, cioè alla sua tensione creatrice. Queste metafore stanno ad indicare che quella del generare è davvero un’esperienza multiforme ma presente nella vita di ciascuno, un’esperienza che ci vede tutti impegnati a “tirar fuori” qualcosa, o qualcuno, dal buio della non esistenza per introdurlo nella luce dell’esistente. Giustamente si parla di processo “maieutico”, scomodando l’arte della levatrice per riferirci comunque al compito centrale: quello della/del partoriente. Ma tutte queste esperienze hanno in comune, proprio perché esperienze del generare, un altro aspetto: quello di riconoscere che, una volta “dato alla luce” o “messo al mondo” qualcosa o qualcuno, ciò che hai generato è altro da te, non ti appartiene, non è più dentro di te ma fuori di te, separato, nel

mondo appunto. Questa consapevolezza non è affatto scontata ma va acquisita, non una volta per tutte ma continuamente perché è facile dimenticarsene e tornare a credere che ciò che hai creato sia tuo, ti appartenga, sia un’estensione della tua mente o del tuo corpo. Nel caso della generazione di un figlio, sia che tu l’abbia dato alla luce generandolo biologicamente o accogliendolo in adozione (che è una modalità diversa, insieme all’affido, di dare alla luce), questa consapevolezza va davvero acquisita -direi conquistata- con determinazione ed impegno; ti devi impegnare a riconoscere che il figlio sia altro da te e non ti appartenga; e devi credere che proprio questa sua alterità rappresenti il senso profondo del tuo essere generativo. Certo, si tratta di un’esperienza per certi versi paradossale: generi per lasciar andare, fai uscire dalle profondità del tuo io un tu che diviene “qualcos’altro” anche rispetto a ciò che avevi desiderato, immaginato, sognato. Se non sei disposto a lasciarlo andare, se vuoi trattenerlo dentro i tuoi schemi, costringerlo ad essere come te, finisci per contraddire il senso stesso del generare, l’esperienza più umana ed insieme più gratificante e dolorosa che si possa fare. E per questo, probabilmente, che di fronte ad ogni nostra creazione proviamo un senso di orgoglio e di fierezza per quanto abbiamo dato alla luce ma allo stesso tempo una certa malinconia nel vederlo ormai distinto da noi, diverso, autonomo, dotato di vita propria; non è più la nostra “creatura” perché ormai appartiene al mondo. Enzo Noris

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VITA PARROCCHIALE

Casa Clara è tornata ad accogliere! Eh sì, dopo qualche mese di inattività, Casa Clara ha ripreso ad essere una realtà di accoglienza per donne e minori. Nel giugno del 2021 è stato siglato un accordo tra la Parrocchia di san Giuliano, nella persona del parroco don Giuseppe, e il comune di Albino, nella persona del dr Costantini, responsabile dei servizi alla persona. Questa Convenzione, della durata di 4 anni rinnovabili, ha consentito di riprendere il cammino della Casa della Carità, nata dalla collaborazione con l’Ambito territoriale in convenzione con Regione Lombardia, ribattezzata Casa Clara in memoria della dottoressa Clara Acerbis, coordinatrice della struttura, che tanto si è spesa per le donne e i bambini che lì sono state accolte. La Convenzione stabilisce che possano essere ospitate presso Casa Clara persone che hanno bisogno di essere sostenute per potersi, nel tempo, rendere indipendenti: donne sole o con figli, che grazie a un tetto garantito possono attivare le loro potenzialità per un progetto di vita autonomo e, in prospettiva, indipendente da aiuti. Da parte della Parrocchia viene fornito lo stabile di piazza san Giuliano 5, a fronte del versamento di una quota mensile pari a 500 € (che utilizzeremo per apportare alcune migliorie alla casa, sede anche del Centro di Primo Ascolto e Coinvolgimento); le bollette sono a carico delle ospiti (con eventuale integrazione del Comune nel caso non fossero in grado di onorarle). L’assistente sociale è tenuta a stendere per ogni nucleo famigliare un Progetto personalizzato e l’ingresso in Casa Clara della nuova ospite è subordinato alla sottoscrizione di un regolamento

di coabitazione in cui sono specificati i compiti che ognuno deve mettere in pratica per una pacifica e proficua coabitazione, dai turni per le pulizie, alle regole per la gestione degli spazi comuni. Il riferimento per le persone ospitate non è come in passato una persona individuata dalla Parrocchia (nell’esperienza scorsa lo era stata Clara Acerbis), ma sono l’assistente sociale e l’educatrice del Comune. Anche i volontari del CPAC sono coinvolti nel progetto contribuendo a mantenere rapporti di vicinanza con le persone ospitate: in particolare, Monica Luiselli, nipote di Clara ed educatrice, si occupa di raccogliere le necessità delle ospiti in maniera coordinata con il personale comunale. Nei mesi di luglio e ottobre hanno fatto il loro ingresso due nuclei

famigliari e questi primi mesi, pur nelle difficoltà proprie dell’avvio di una nuova esperienza, hanno dato ragione degli sforzi messi in campo, con l’avvio di iniziative promettenti sia sul piano dell’inserimento nel tessuto sociale che su quello lavorativo. La nuova responsabile dei Servizi sociali comunali, dr.ssa Carol Angelini, subentrata a Costantini, ha mostrato entusiasmo per l’iniziativa e in generale per la volontà che cerchiamo di far valere di lavorare in stretta collaborazione con il Comune: confronto e costante integrazione possono dare qualità al nostro operato e promuovere miglioramenti nella vita delle persone, lontani dall’assistenzialismo, alla ricerca di una vera emancipazione. I volontari del Centro di Primo Ascolto e Coinvolgimento


VITA PARROCCHIALE

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San Giuliano e lo stendardo ritrovato Domenica 9 gennaio la nostra comunità parrocchiale ha festeggiato il suo patrono, san Giuliano martire. Se le restrizioni dovute al crescente numero di contagi hanno portato al provvisorio annullamento del concerto del Complesso bandistico di Albino, una sorpresa ha accolto i fedeli: un grande stendardo processionale ottocentesco che riprende la pala centrale dell’altare con l’effige della Vergine con i santi Giuliano e Albino. Il pregevole manufatto, custodito nei solai della sagrestia, è stato eccezionalmente esposto da sabato 8 a sabato 15 gennaio sull’altare della Prepositurale. Alla base dello stendardo, per l’occasione, è stata posta l’urna con le reliquie del santo patrono e dei due compatroni, sant’Albino e san Mario. Due opere, stesso soggetto, che andiamo a scoprire grazie a Giampiero Tiraboschi.

gamento di 60 zecchini d’oro. Alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano esiste un disegno preparatorio. Lo stendardo bifacciale, sul retro riprende l’opera orginale del Cignaroli. Nell’archivio parrocchiale, fra le carte della Confraternita del Santissimo Sacramento, è conservato il contratto per la realizzazione dello stendardo datato 31 dicembre 1858 con data di consegna entro giugno 1859 e pagamenti rateizzati per complessive “in Austriache lire Mille nove cento”.

Dal contratto scopriamo che lo stendardo venne realizzato dal ricamatore e disegnatore milanese Antonio Biella, la stoffa adoperata fu di raso bianco di perfetta qualità tanto per la parte anteriore, come per la posteriore. Il ricamo d’ambedue i lati realizzato in oro fino come pure gli ornati eseguiti precipuamente come al disegno firmato e la frangia. Il quadro della parte anteriore rappresenta il santissimo sacramento, quello della parte posteriore la Vergine del rosario con sant’Albino vescovo e san Giuliano martire.

Il dipinto. Nel centro dell’abside è posta una grande tela rappresentante la Madonna in trono coi santi Albino e Giuliano (olio su tela cm 377x260), opera pregevole del pittore veronese Gian Bettino Cignaroli (Verona 1706-1770), a cui fu commissionata il 26 aprile 1750. Fu consegnata nel luglio 1759 dietro pa-

Diventiamo prossimo Continua l’iniziativa del fondo di solidarietà “Diventiamo prossimo” per sostenere e accompagnare le famiglie in difficoltà economica MODALITÀ PER CONTRIBUIRE

 Autotassazione mensile: si stabilisce una cifra che viene versata

mensilmente per il periodo indicato  Presso il Centro di Primo Ascolto alla Casa della Carità

in piazza San Giuliano 5 al mercoledì dalle 20.45 alle 22  Con bonifico bancario tramite il nuovo IBAN attivo dal 22 febbraio 2021

IBAN: IT20 L0538 75248 00000 4260 6856 c/c intestato Parrocchia San Giuliano, Conto Caritas indicando la causale: FONDO DI SOLIDARIETÀ DIVENTIAMO PROSSIMO

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NATALE 2021 - I PRESEPI NELLE NOSTRE CASE G Be aia e ned etta

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Domenica 6 febbraio 44ª Giornata nazionale per la vita

“CUSTODIRE OGNI VITA”

Domenica 6 febbraio si celebrerà in tutta Italia la 44a Giornata nazionale per la vita. Per tutta la giornata di Domenica (e anche sabato 5 febbraio in concomitanza con la S. Messa prefestiva in Prepositurale e al mattino nel porticato della chiesa di Sant’Anna) verrà riproposta l’iniziativa di sensibilizzazione ai temi della vita e di sostegno a progetti di aiuto alla vita. In tutte le chiese della Parrocchia di Albino dove si celebreranno le Ss. Messe (Prepositurale di San Giuliano, Frati Cappuccini, Madonna del Pianto, Madonna della Concezione e Madonna di Guadalupe) si vivranno - durante le celebrazioni - alcuni momenti di riflessione sui temi della vita e a tutti i presenti sarà consegnato il messaggio “Custodire ogni Vita” che i Vescovi italiani hanno preparato per la Giornata per la Vita di quest’anno. Fuori dalle chiese sarà possibile prendere un vasetto di primule e lasciare un’offerta libera il cui ricavato servirà per sostenere iniziative in favore della vita. Nella settimana che precederà la Giornata per la Vita, da lunedì 31 gennaio a sabato 5 febbraio, presso il santuario della Madonna di Guadalupe, si pregherà per la vita con il Rosario meditato tutte le mattine alle ore 7.30 prima della S. Messa delle 8.00.

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«Complimenti, bravi, grazie!»

Mi permetto di occupare un piccolo spazio del nostro giornale certa di interpretare con due righe anche il pensiero di persone che come me hanno avuto occasione di apprezzare la fantasia, la finezza, la semplicità che i volontari della parrocchia hanno usato, mettendo a disposizione il loro tempo, per addobbare la nostra chiesa parrocchiale in occasione delle feste natalizie. Complimenti, bravi, grazie! Olimpia Zanga

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CAMPO INVERNALE ADOLESCENTI A NAPOLI dal 26 notte al 30 dicembre

Napule è mille culure… Napule è mille paure… Napule è nu sole amaro… Napule è ardore e’ mare… e si potrebbe andare avanti con questa splendida canzone del grande Pino Daniele. Napoli è Napoli! Ma Napoli è stata per noi anche il primo campo invernale vissuto insieme dopo la pandemia. Per cui Napoli è anche attenzione e soddisfazione. La cura delle necessarie procedure anti Covid ma anche, e soprattutto, la soddisfazione di aver pensato, scelto e vissuto un tempo di condivisione fatto di bellezza, viaggio, scoperta, incontro, storia, preghiera… insieme. E quindi la memoria si fa gratitudine per gli ado che hanno partecipato e per gli educatori che hanno preparato e condiviso tutto quanto. Napoli ci ha regalato così la possibilità di gustare quel tempo così unico del “campo scuola”. E siamo così partiti notte tempo ancora un po’ frastornati dai banchetti natalizi per arrivare in città la mattina del 27 verso le 8.00. Lì, una volta lasciate le nostre borse (quasi tutte) nell’ostello, siamo partiti per quattro giorni sempre in movimento. Primo giorno: Chiostro di santa Chiara, Chiesa del Gesù Nuovo, Via Tribunali (Spaccanapoli) e via san Gregorio Armeno, Duomo di Napoli, Piazza Plebiscito, Maschio Angioino, Galleria Umberto I, Castel dell’Ovo (e mega tramonto sul mare). Secondo giorno: Pompei, super pizza, Castel sant’Elmo, campetto dedicato a Kobe Bryant e grande gioco serale. Terzo giorno: la Reggia di Caserta, Napoli centro e giro serale al belvedere della Certosa. Quarto giorno: la Napoli sotterranea della Galleria Borbonica e l’ultimo giro in centro. E tra una tappa e l’altra viaggi in metropolitana, murales, canti, spizzichi, foto (tantissime!), temperature primaverili, cene abbondanti e tanta storia di questa città ad attenderti dietro ogni angolo. La consapevolezza di aver creato un tempo prezioso di condivisione in una stagione ancora molto segnata da preoccupazioni e quarantene lascia ancora più gioia: è nella concretezza delle relazioni che incontriamo e ci facciamo incontrare, è nel condividere pezzi di strada che rafforziamo il nostro passo e continuiamo a scegliere la direzione, è nell’ascolto della storia e nell’incontro con l’arte che riscopriamo la bellezza della storia personale e collettiva di ognuno. Per cui ancora grazie!


STORIE Appunti di viaggio...

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Anita: «Ho trovato questo viaggio, come motivo di crescita culturale e personale, nell’approfondire la mia conoscenza delle cose che abbiamo visto e riuscire a conoscere meglio le persone che mi circondavano». Nicole: «Il secondo giorno visita a Pompei. Devo dire che mi sono proprio goduta la giornata e abbiamo pure mangiato la vera pizza napoletana! Se dovessi scegliere la cosa che mi piaciuta di più, è sicuramente la Reggia di Caserta, perché come già detto mi sono sentita una principessa!» Diego: «Ciao riguardo l’esperienza di Napoli, è stata veramente una fantastica esperienza soprattutto in questo periodo dove il Covid persiste ancora. secondo me di tutto quello che abbiamo visto non c’è qualcosa di più bello o di più brutto. è stato l’insieme che ha reso fantastico questo campo invernale un grazie ancora a voi ci avete accompagnato». Lorenzo: «Il viaggio fatto a Napoli è stato molto interessante, ma la cosa che mi è piaciuta di più sono stati i sotterranei e la loro storia, il modo misero in cui la gente doveva vivere all’epoca dei bombardamenti in quei luoghi e con un’igiene pessima». Marcello: «Il viaggio a Napoli mi è piaciuto, sono contento di aver visto per la prima volta una città che ero curioso di vedere, in più mi sono piaciuti molto anche Pompei e la reggia di Caserta. Mi sono trovato bene con gli altri che c’erano e mi sono divertito, è stata una bella esperienza». Giorgia: «Il mio primo campo invernale da vera e propria adolescente è stato particolarmente entusiasmante, sotto vari punti di vista. La parte più stravolgente e interessante è stata la visita presso la Reggia di Caserta, soprattutto gli immensi giardini esterni della costruzione. Questa è stata una della vacanze migliori che io abbia mai fatto, non solo per i luoghi e il cibo, ma per la gradevole compagnia». Noemi: «La grandezza della Piazza del Plebiscito e l’architettura del Duomo sono senz’altro affascinanti ma di certo la visita alla Reggia di Caserta, secondo il mio punto di vista, è stata la migliore. I suoi giardini rigogliosi, la fontana dalla quale sgorgava acqua limpida e la magnitudine dell’edificio, infatti, mi hanno particolarmente colpita. Ovviamente non posso dimenticare l’interesse storico e i riferimenti riguardanti la seconda guerra mondiale che sono emersi durante la visita di Napoli sotterranea e che quindi non è passata inosservata. È importante ricordare inoltre gli autentici affreschi dipinti sui muri e i quadri appesi alle pareti delle chiese che abbiamo visitato come la Chiesa del Gesù Nuovo e San Gennaro. Bellissima anche la visita al chiostro di Santa Chiara che abbiamo visitato il primo giorno e stessa cosa vale anche per la storica Pompei e la vista mozzafiato che offriva il Castel dell’Elmo nel suo punto più alto».

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ORATORIO CAMPO INVERNALE PREADO A PIARIO dal 3 al 5 gennaio 2022

Ingredienti per la pozione magica. Prendi un gruppo di ragazzi delle medie carichi del desiderio di condividere un’esperienza di campo invernale dopo due anni di stop e mettili in un posto quasi in montagna e in alcuni giorni in cui di neve ce n’è poca (purtroppo…). Prendi poi una casa molto grande con un mega spazio esterno e con delle cuoche che ti vogliono fare ingrassare. Poi prendi 2 pulmini a disposizione per scorrazzare su e giù per la val Seriana. Metti infine che per tre giorni siano accompagnati pure da Asterix e Obelix irriducibili eroi galli venuti apposta da un piccolo villaggio dell’Armorica. E così tra giochi, condivisione, giri a piedi sopra Casnigo e in centro a Clusone, preghiere, pattinaggio sul ghiaccio e camminata al Magnolini era già arrivato il tempo di tornare a casa. Sono stati 3 giorni intensi e semplici, vissuti nella bellezza dello stare insieme dentro il ritmo di un campo invernale. Per cui grazie ai ragazzi e a chi li ha accompagnati in questa avventura! Contiamo che anche questa esperienza possa rimanere come un’altra memoria di quegli ingredienti di cui è bello nutrire la propria vita. Anche perché non è tanto questione di pozioni magiche ma di scelte su cui giocare la propria vita!


ORATORIO

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ARTE AD ALBINO

Da 25 anni le vetrate della cappella dell’oratorio Giovanni XXIII sono un’opera d’arte sacra visiva Furono terminate all’inizio del 1997, inaugurate con il nuovo edificio dell’oratorio ristrutturato il 20 aprile e benedette il 22 giugno. La vetrata è per il loro autore, fra’ Costantino Ruggeri, un tramite per cantare Dio: «Voglio che il sole attraversi le vetrate fin dal mattino, rifranga i suoi raggi sul pavimento e sulle pareti, modulando la luce della giornata con una visibilità maggiore di quella che un tempo si assegnava ai rosoni. Un canto di gioia a Dio è luce del mondo e noi siamo figli della luce non certo delle tenebre. L’epifania del divino si rivela nella luce e nella bellezza. I capolavori medioevali erano fatti perché l’Uomo guardasse verso il cielo, io ho capovolto, ho voluto creare spazi mistici in cui si potesse avvertire la presenza del “Dio con noi”». La vetrata, infatti, nelle intenzioni di Padre Costantino rappresenta un inno al Dio Trinitario: il suo simbolo è, soprattutto, il sole che è l’immagine più vivida e radiosa della luce e del calore di Dio, Padre. Lo ritroviamo anche in una della trentina di chiese che ha realizzato nel mondo, il nuovo santuario della Madonna del Divino Amore a Roma, che fra Costantino stava realizzando proprio mentre in contemporanea lavorava per la nostra cappella. Al sole è unito il monogramma cristologico I e X intrecciate: sono le iniziali nel nome di Gesù in greco. Altri simboli

che ritroviamo nelle vetrate della nostra cappella sono quelli eucaristici: l’ostia bianca posata su un calice che prende forma da un tralcio di uva. E la croce a Tau, simbolo presente nelle Scritture dal primo Testamento all’Apocalisse. In una delle vetrate piccole un grande fiore sbocciato vuol farci percepire il germogliare dei frutti dello Spirito. Figurazioni fatte dei colori della luce: il caldo rosso, il profondo blu, il verdone, il giallo, il viola. Simboli abbastanza aderenti alle Scritture e comprensibili nella modernità, anche se l’essere moderni non basta (per non essere oggi incomprensibili come il barocco o il neoclassico), secondo padre Costantino: “Certe chiese moderne, chiese alla moda e basta, possono compromettere per lungo tempo la penetrazione evangelica nella società contemporanea”. Per raggiungere il suo intento di trasformazione dell’arte sacra, Costantino Ruggeri non creava solo vetrate, ma cu-

rava l’intera chiesa e le suppellettili: suoi nella nostra cappella sono il tabernacolo, la mensa, il crocifisso, il leggio della Parola di Dio e l’acquasantiere. Ad Albino nella commissione, prima pastorale poi progettuale, della ristrutturazione dell’oratorio c’era chi, per portare la bellezza artistica nella cappella dell’oratorio, con l’appoggio del primo progettista, Armen Manoukian e del direttore dell’oratorio, don Valentino Ferrari, si rivolse alla grande anima di Costantino Ruggeri, artista e frate, cantore e poeta dell’arte e della fede, della luce e del colore, della natura e della gioia. Pittore, scultore, creatore di vetrate e innanzitutto frate francescano e sacerdote, padre Costantino Ruggeri, visse 52 anni a Pavia nel convento francescano di Canepanova. Il suo sorriso luminoso e comunicativo si spense, dieci anni dopo aver operato per Albino, il 25 giugno 2007.

Fra’ Costantino Ruggeri e le sue vetrate al Santuario del Divino Amore di Roma. In alto, quelle a sud nella cappella del nostro oratorio.

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ALTRI MONDI

Suor Antonella e le suore Figlie del Sacro Cuore in missione a Shengjin in Albania accolgono profughi Una sera di ottobre piovosa e fredda hanno suonato alla porta (racconta suor Antonella Ruggeri, già direttrice la scuola per l’infanzia San Giovanni Battista di Albino, su “Andiamo”, la rivista missionaria delle Figlie del Sacro Cuore): erano due giovani che parlavano inglese e chiedevano un posto per passare la notte. Con il poco inglese che molti anni fa avevamo studiato abbiamo capito che uno di loro era iraniano e l’altro afgano; si erano incontrati in Turchia e da lì hanno continuato insieme il loro viaggio; hanno percorso molti chilometri a piedi e con mezzi di fortuna. Sono arrivati veramente stanchi e affamati, i piedi gonfi e pieni di vesciche. Li abbiamo ospitati nelle camerette dietro il prefabbricato; a loro bastava una tettoia per sentirsi al coperto e qui, invece, hanno trovato anche una doccia. Si sono fermati presso la missione una notte e sono ripartiti: Il giovane afgano vuole raggiungere la Francia e l’altro, Ali, è diretto in Austria. La sera dopo, altrettanto fredda e piovosa, sono arrivati altri tre profughi amici del giovane iraniano passato la sera prima, chiedendo ospitalità e cibo; nello zaino avevano del pane ammuffito. Il giorno dopo sarebbero passati in Montenegro per poi continuare attraverso la Bosnia, Slovenia, Croazia, Italia, fino a raggiungere la Germania. Questi incontri ci hanno fatto pensare in modo più concreto a quante persone ogni giorno sono costrette a lasciare il loro Paese, la loro casa, la loro gente, affrontare viaggi estenuanti, privazioni e fatiche pur di trovare un futuro sicuro e sereno; vedere tutte queste persone alla tv e leggere le loro fughe sui giornali è molto diverso dall’incon-

Bambini afgani con suor Antonella e suor Fernanda nel giardino della missione

trarle. Contemporaneamente è avvenuto che gli USA hanno destinato all’Albania, finanziandone il soggiorno, un migliaio di persone dell’Afghanistan che in qualche modo avevano collaborato con il contingente americano. Ora sono ospiti nel grandissimo resort Rafaelo di Shengjin, di fronte a noi; di là poi c’è il mare. I loro ragazzi vengono a giocare al pallone insieme con i nostri ragazzi albanesi. Le ragazze con i loro foulard non vanno tanto in giro, i maschi sì.

Il Fondo Paoli compie 10 anni Questo il titolo dell’incontro pubblico organizzato a Lucca, città natale di fratel Arturo Paoli (nella foto) il 3 dicembre scorso. Era infatti il 3 dicembre 2011 quando veniva istituito, dalla Fondazione Banca del Monte di Lucca, il Fondo documentazione dedicato a lui. Da allora grazie a ben 100 donatori che hanno conferito, complessivamente, oltre 10 mila documenti, l’archivio è cresciuto costantemente e permette oggi di conoscere a fondo la vita e il pensiero di fratel Arturo, nonché i contesti internazionali in cui ha vissuto: la chiesa italiana, l’azione cattolica, i Piccoli Fratelli del Vangelo, la Sardegna, l’Argentina, il Venezuela, il Brasile, la teologia della liberazione. All’incontro, moderato da Silvia Pettiti, già collaboratrice di fratel Arturo, hanno preso parte l’archivista Francesca Pisani, la professoressa Bruna Bocchini Camaiani, don Marcello Brunini, archivista diocesano e teologo, e Antonio Romiti. Tante poi le testimonianze di amici e collaboratori del presbitero collegate da remoto. Tra queste, particolarmente toccante il ricordo condiviso dal premio Nobel per la pace Adolfo Pérez Esquivel, che conobbe Paoli in Argentina negli anni Sessanta del Novecento, al tempo della dittatura: https://www.fondopaoli.it/it/pagina/33/i-10-anni-del-fondo-paoli In questo archivio sono stati depositati, da Lorenzo Moroni, anche le lettere e i documenti relativi all’Operazione Terzo Mondo di Albino (Cfr. www.oratorioalbino.it/pubblicazioni)


ARTE Dal terrore dei talebani al resort sulla spiaggia: uno strano viaggio per alcuni rifugiati

Cari Amici, Pace… Pace! Oggi è nato a noi un Salvatore. “Una carezza sulla guancia a tutti: per liberare la dolcezza divina che giace in fondo al cuore di ciascuno di noi…” Quali segni in questo Natale? “Una piccola luce nella grande notte, brilla una luce, l’ha accesa Dio nel campo del mondo.” “È notte di stupore, sta nascendo un uomo nuovo. Nasce dove sei, come sei. Il Dio di questa notte entra in questo mondo nella forma di un Bambino, un bambino qualunque. L’Altissimo, così viene… come Divina Potenza tra noi: come Divina Dolcezza. Viene così sempre: nelle creature segnate dalla più grande debolezza. Sappi che solo la Tenerezza salverà il mondo. Ed anche tu devi essere più tenero. La “pietà”, o la Dolcezza ricevuta e donata, ci salverà; e con noi salverà questo splendido, stanco mondo…” Grazie a tutti per il bene che ci avete aiutato a fare verso chi è più bisognoso, e per il sostegno alla nostra opera educativa. Suor Antonella per la Comunità Figlie del S.Cuore di Gesù - Shengjin Albania

“Nella vita normale non ci rendiamo conto che l’uomo riceve molto più di quanto dia e che la vita è arricchita proprio dalla riconoscenza. Facilmente si dà esagerata importanza alle proprie azioni, dimenticando che abbiamo ricevuto da altri quello che siamo diventati”. (D. Bonhoeffer)

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La studentessa di medicina, dopo una settimana sotto il dominio dei talebani e tre giorni di terrore in attesa di un volo dall’aeroporto di Kabul, ha guardato fuori dalla finestra il primo giorno nella sua nuova casa e ha visto la statua di Libertà. Ho pensato per un momento che forse ero a New York”, ha detto Tahera, una studentessa di 21 anni. Ma la statua, realizzata in gesso anziché in rame e situata nel nord dell’Albania, un paese ferocemente filoamericano, era “molto più bassa di quella reale”, ha aggiunto, evocando un ironico senso dell’umorismo nonostante il suo straziante calvario. La statua era una decorazione involontariamente provocante, un ornamento kitsch sul terreno di una località balneare albanese che ospita più di 440 afgani fuggiti da Kabul dopo che la città è caduta nelle mani dei talebani il 15 agosto. L’Albania, che si è impegnata ad accogliere fino a 4.000 profughi afgani, ne ospita diverse centinaia nei resort della costa adriatica Prima di essere volata in Albania, un paese di cui non aveva mai sentito parlare, Tahera aveva sperato di fuggire negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, dove ha uno zio il New York Times sta usando solo il nome di Tahera per proteggere la sua famiglia ancora in Afghanistan.) Ma con quei paesi e altre nazioni ricche diffidenti nell’accogliere rifugiati, ha trovato rifugio in quello che è forse il campo profughi più strano e lussuoso del mondo. L’Albania, una delle nazioni più povere d’Europa, si è impegnata ad ospitare fino a 4.000 rifugiati dall’Afghanistan, più di qualsiasi altro Paese. Nel mese di agosto i 677 arrivati , tra cui circa 250 bambini, sono ospitati nei resort lungo la costa adriatica, una pratica basata su un approccio di risposta all’emergenza che l’Albania ha sviluppato dopo il devastante terremoto del 2019, quando le persone rimaste senza casa sono stato sistemate negli hotel sulla spiaggia. Gli afghani sono grati per le sistemazioni, il tocco di lusso suona un po’ vuoto per molti. Parwarish, un’attivista delle donne afghane che ha lavorato a progetti finanziati dall’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, ha affermato di essere stata commossa dalla gentilezza degli albanesi, ma che comunque dormiva a intermittenza e aveva incubi. “Vedo la mia famiglia morire nei miei sogni”, ha detto. “Tutto questo lusso è fantastico se sei tranquillo. Io no.” La decisione di ospitare gli afghani sembra essere popolare in Albania, un paese con una lunga storia di fuga del suo popolo. Provvedere ai rifugiati “è la cosa giusta e naturale da fare”, ha detto il primo ministro Edi Rama in un’intervista a Tirana. Mentre i politici dell’opposizione in Francia, Germania e altre nazioni europee alimentano più la paura dei rifugiati e dei migranti, gli oppositori di Rama sono rimasti per lo più silenziosi o hanno sostenuto il suo aiuto agli afgani. “Non mettiamo le persone nei campi. Sono disumanizzanti”, ha detto il primo ministro. “Siamo stati come loro molte volte nella nostra storia. Stanno solo cercando di scappare dall’inferno”. Tahera, la studentessa di medicina, condivide la stanza con una donna afgana che ha perso entrambe le mani in un attentato dinamitardo in Afghanistan. Ora in un resort con tre piscine e una lunga spiaggia sabbiosa, Tahera vuole imparare a nuotare, desiderosa di distrarsi dai traumi. Non vede l’ora anche di imparare ad andare in bicicletta, una forma di esercizio che la società patriarcale e conservatrice dell’Afghanistan disapprova per le donne. Determinata a mantenere la sua carriera medica pianificata in pista, sta seguendo un corso di primo soccorso offerto presso il resort da un medico afghano di Londra. L’Albania, un membro della NATO che ha inviato truppe in Afghanistan per unirsi allo sforzo guidato dagli Stati Uniti per tenere a bada i talebani, ha aiutato a lungo le persone che gli Stati Uniti non vogliono o non sanno come aiutare. Vitto e alloggio degli afghani sono coperti da organizzazioni straniere. Shengjin - Albania Dal New York Times del 14 settembre 2021

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Natale dentro e oltre le “sbarre”

Il tempo del Natale è sempre un periodo molto particolare per le donne che vivono in carcere e nelle comunità in alternativa, come Casa Samaria. Infatti molto spesso il pensiero è rivolto alle rispettive famiglie di origine, ai figli e ai parenti. Molti sono i ricordi che riaffiorano: si sente la mancanza dei propri cari e questo provoca tristezza. Già il tempo dell’attesa cerchiamo di viverlo accompagnati da un piccolo momento di riflessione quotidiano, che aiuta a mantenere viva la speranza del cammino che ognuna personalmente sta facendo. Anche la preparazione dell’ambiente (albero, luci, presepe..) ci aiuta a creare un clima di famiglia. Infatti durante l’allestimento spesso le donne si raccontano: “con i miei figli andavo a raccogliere muschio, legna e cominciavamo a preparare la base per il presepio.. il mio figlio più piccolo era solito prendere le statuine e chiedeva chi erano. È da lì raccontavo la storia del Natale”. “Bellissimo il Natale. Ho ricordi stupendi che al solo pensarci mi commuovo, come una bimba piccola che viveva in una grande cascina insieme ai nonni e ai genitori. Già all’inizio del mese di dicembre, io, mio padre, mio nonno e i miei fratelli, costruivamo in un angolo sotto il portico un presepe dalle dimensioni molto grandi, con animali fatti di paglia (bue, asinello, tre pecore, e due agnelli), mentre Giuseppe e Maria erano fatti di carta e vestivano abiti recuperati dall’armadio dei

CASA SAMARIA

Una casa per accogliere le donne detenute in carcere

Casa Samaria è una comunità di accoglienza femminile nata dalla collaborazione tra Caritas Bergamasca e l’Istituto Palazzolo delle Suore Poverelle con l’obiettivo di offrire alle donne detenute in carcere, coloro le quali possono accedere ai benefici previsti dalla legge, la possibilità di usufruire delle misure alternative alla detenzione in un ambiente il più possibile familiare ed educativo. La comunità può accogliere un massimo di sei persone, ma grazie alla rete di servizi creata sul territorio, abbiamo a disposizione alcuni appartamenti dove accogliere ospiti in maggiore autonomia, per un totale di ulteriori sei posti. Casa Samaria inoltre offre ai detenuti un sostegno stabile fuori e dentro l’Istituto penitenziario di Bergamo.

Per chi?

Donne che possono usufruire delle misure alternative alla detenzione.

Cosa offre?

- Accoglienza e ascolto - Accompagnamento e sostegno nel percorso verso l’autonomia personale e l’inclusione sociale - Spazi lavorativi e abitativi in cui misurare la propria autonomia - Esperienze di volontariato

Contatti

E-mail casasamaria@istitutopalazzolo.it - Tel. 035 239365

miei nonni. Era per me un presepio vero, e tanta tantissima gente veniva a vederlo. Ero così felice all’idea dell’avvicinarsi del Natale e immaginavo già Babbo Natale in viaggio con le renne a portare i regali ai bambini. Il giorno di Natale tutta la famiglia si riuniva per far festa, mangiare, bere, ridere. Insomma, non volevo che finisse quel giorno. I Natali di adesso non sono più per me quelli che sono stati. Perduti i valori che li accompagnavano: ora ci sono tanti regali ma anche tanta indifferenza. Prima non vedevo l’ora che arrivasse il Natale, era per me il giorno più bello dell’anno e avrei voluto che non finisse mai. Ora è diventato il giorno più brutto, da dimenticare…sono in carcere, senza nessuno dei miei cari, senza il calore dei miei famigliari, sono da solo. Mi auguro di poter cambiare idea, di amare ancora il Natale e di essere ancora pieno di vita”. Ormai da tre anni a Casa Samaria si è impegnati, nel laboratorio di sartoria, a preparare le confezioni dei panettoni che vengono prodotti in carcere e poi venduti. È un’occasione per valorizzare l’impegno di tutte (ospiti, suore, volontarie …) e favorire una rete di bene e di solidarietà che coinvolge e fa avvicinare le persone alla realtà delle detenute.


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Ci siamo chiesti: come evitare le morti in mare di migliaia di persone, tra cui molti bambini? La risposta è stata: creiamo dei...

Corridoi Umanitari per i profughi

Pur sapendo che come comunità non ci possiamo sostituire alla loro famiglia, cerchiamo comunque di creare un clima sereno, in cui si possa respirare gioia e affetto reciproco; si dà la possibilità di partecipare alla Santa Messa, e si prosegue il tempo di festa con canti, giochi da tavola (es. tombola), regali e mangiando i cibi tradizionali. In questo clima di festa, quasi tutte si lasciano coinvolgere e si dedicano alla cura del proprio aspetto esteriore: si truccano, mettono i vestiti più belli ecc. Il Natale, seppur dietro le sbarre, rimane ancora una festa in grado di trasmettere valori e sentimenti positivi. Margherita Gamba Suora delle Poverelle in servizio a Casa Samaria a Bergamo (da Nuovo Grandangolo, bollettino della parrocchia di Vall’Alta)

È un progetto-pilota, realizzato dalla Comunità di Sant’Egidio con la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, la Tavola Valdese e la Cei-Caritas, completamente autofinanziato. Ha come principali obiettivi evitare i viaggi con i barconi nel Mediterraneo, che hanno già provocato un numero altissimo di morti, tra cui molti bambini; impedire lo sfruttamento dei trafficanti di uomini che fanno affari con chi fugge dalle guerre; concedere a persone in “condizioni di vulnerabilità” (ad esempio, oltre a vittime di persecuzioni, torture e violenze, famiglie con bambini, anziani, malati, persone con disabilità) un ingresso legale sul territorio italiano con visto umanitario e la possibilità di presentare successivamente domanda di asilo. È un modo sicuro per tutti, perché il rilascio dei visti umanitari prevede i necessari controlli da parte delle autorità italiane. Arrivati in Italia, i profughi sono accolti a spese delle nostre associazioni in strutture o case. Insegniamo loro l’italiano, iscriviamo a scuola i loro bambini, per favorire l’integrazione nel nostro paese e aiutarli a cercare un lavoro. Da febbraio 2016 a oggi sono già arrivate più di 4.200 persone (siriani in fuga dalla guerra e rifugiati dal Corno d’Africa e dalla Grecia).

Come funzionano?

I corridoi umanitari sono frutto di un Protocollo d’intesa tra la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, la Tavola Valdese, la Cei-Caritas e il governo italiano. Le associazioni inviano sul posto dei volontari, che prendono contatti diretti con i rifugiati nei paesi interessati dal progetto, predispongono una lista di potenziali beneficiari da trasmettere alle autorità consolari italiane, che dopo il controllo da parte del Ministero dell’Interno rilasciano dei visti umanitari con Validità Territoriale Limitata, validi dunque solo per l’Italia. Una volta arrivati in Italia legalmente e in sicurezza, i profughi potranno presentare domanda di asilo.

Come sono finanziati?

I corridoi umanitari sono totalmente autofinanziati dalle associazioni che li hanno promossi. Comunità di Sant’Egidio

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Uscire dalla pandemia 10 spunti per guardare avanti

In un mondo globale con un’autocoscienza di onnipotenza e di crescita programmabile secondo modelli lineari di un neo-colonialismo economico e culturale, l’irruzione di una pandemia infettiva, con sapore antico, si è tradotta in un’esperienza di impotenza-ignoranza rispetto a qualcosa che si temeva da sempre ma a cui non si voleva credere: un attacco terroristico alle Torri Gemelle della scienza e dell’economia. Era quasi implicito il rischio di una risposta, più o meno ritardata, nei termini già sperimentati di una guerra travestita da affidamento alla sicurezza, con rimedi di chiusura che mimavano in chiave moderna quelli delle pesti medievali. I punti che seguono provano a rileggere la storia di questi due anni a partire dal settore specifico più immediato e visibile della pandemia - la salute-sanità - ma avendo come obiettivo quello di guardare a un futuro che, come in tutte le guerre, è annunciato in termini densi di preoccupazioni, ma soprattutto di promesse di cambiamenti in vista di un mondo “altro”. Chiamare le cose per nome è un passo indispensabile per sapere quali sono, se ci sono, i vincitori di questa guerra (le vittime sono certe, non nei numeri, ma nella tragicità non conclusa…) che, per definizione, diventano i decisori del futuro.

1.

Dal punto di vista della “scienza medica” la pandemia di per sé era uno dei campi di ignoranza-impotenza che si incrociano nel rapporto tra salute e rischi di malattia-morte. Allo stesso modo in cui un tempo il tumore era vissuto come un male incurabile e la sofferenza psichica come disordine da contenere-punire (magari con psicofarmaci più o meno sintomatici e isolamenti: la demenza riproduce ora il problema per il popolo degli anziani). Poi l’AIDS era stata una prova generale, finché la ricerca non ha prodotto un’area nuova di intervento-controllo cronico (in collaborazione con interventi sociali e culturali importanti, anche se non perfetti, per quanto riguarda i diritti delle persone).

2.

La novità determinante della pandemia era la rapidità e il non sapere quasi nulla del nemico: dipinto come una variante dell’influenza, con il suo peso di “morti in eccesso”, soprattutto per popolazioni in condizioni precarie e diversificate di fragilità. “Per fortuna” (non lo si diceva così, ma lo si constatava, non solo in Italia) il picco di visibilità e di gravità era nella popolazione anziana, non produttiva, già in qualche modo “destinata” e nelle periferie delle tante diseguaglianze.

3.

Come in tutte le guerre, con destini incerti e senza vincitori in vista, l’unico segnale di vita e di speranza di futuro si traduce nella segnalazione degli eroismi che vanno al di là delle attese e che – si garantisce e promette solennemente – avranno riconoscimenti culturali, politici ed economici che saranno la risposta democratica e di civiltà della “comunità internazionale”. La calamità – si riconosce da tutte le parti, e spesso perfino con toni dispiaciuti – ha messo in evidenza il come, il quanto e le responsabilità di sistemi sociopolitici che dappertutto (e strutturalmente in Italia) erano in un più o meno esplicito stato di smantellamento (o, più banalmente, di “assenza” nel mondo dei paesi altri, previsti come tali nei modelli di sviluppo neocoloniali).

4.

Il riconoscere che si è tutti nella stessa barca in un mare in tempesta diventa un mantra condiviso, con il proliferare di dichiarazioni internazionali di solidarietà che sembrano trasformare la globalizzazione in un laboratorio in cui sperimentare nuove forme di convivenza: la salute-sanità è il settore dove si dovrà e potrà maggiormente condividere il diritto universale di nuovi “rimedi”, non appena questi saranno prodotti da una ricerca dove la competizione sarà sostituita da una conoscenza senza barriere e confini. Sottaciuta e negata è la constatazione che nulla lascia prevedere cambiamenti a livello di un’economia paralizzata nelle sue catene di distribuzione di beni, trasporti, produzioni che non si mette in discussione nei suoi dogmi. Solo la voce di Francesco, in una piazza San Pietro buia, silenziosa, nella pioggia trova i toni per esprimere il bisogno di una “conversione” di sguardo e di comportamenti. La pandemia sanitaria rivela drammaticamente di essere una sindemia: prodotto del sommarsi-esprimersi di pandemie – sociali, economi-

che, ambientali, politiche – per le quali nessuna ricerca di “vaccini” sembra prevista.

5.

L’annuncio, simbolicamente e concretamente fatto a livello non sanitario ma finanziario da un attore “privato” (una delle industrie farmaceutiche più rappresentative del mercato duro e puro, la Pfizer), di aver trovato un vaccino cambia di colpo lo scenario: la scienza ha fatto il miracolo. Tutto è rimesso in gioco. Non c’è più bisogno di conversioni culturali e tanto meno economiche. Se la pandemia sanitaria ha un rimedio (e gli annunci di altri vaccini si moltiplicano, nei modi più diversi, e meno controllati), tutto il resto non conta più: la guerra ha il suo vincitore, che detta le regole del gioco. Che sono le stesse del “prima”: senza se e senza ma. L’umanità che si era trovata a essere migrante rispetto alle sue certezze e aveva promesso di fare della salute un bene comune, può essere destinata al destino dei migranti (quelli veri, che hanno continuato a morire come e più di sempre): non-umani, dipendenti dalla sicurezza delle leggi del mercato, titolari di diritti solo se cittadini dei paesi e dei sistemi sanitari che possono pagare, perché anche i costi assolutamente sproporzionati, e senza sconti, non si toccano.

6.

La storia dei vaccini – che continua immutata producendo vittime senza nome e senza numero: vero, programmato, impunito “genocidio per diseguaglianza” – è troppo nota e documentata in tutti i suoi dettagli per aver bisogno di essere raccontata. Testimonia meglio di ogni altro indicatore che il “dopo” della pandemia è la copia fedele del “prima”. La salute (cioè il diritto alla vita e alla dignità) è ritornata ad essere indicatore della in-civiltà del mondo globale. I produttori, privati, nella piena conniven-


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forzamento ed esigerebbero un cambiamento.

8.

Il nucleo di quello che l’eroismo sanitario aveva fatto sognare fosse un “dopo” della società era, e rimane, quello: ri-conoscere lo statuto di beni-diritti inviolabili, e perciò di attenzione prioritaria della politica, della economia, del dibattito pubblico quei “bisogni inevasi di uguaglianza e dignità” che sono (anche costituzionalmente) oggetto obbligatorio di ricerca. È ora che per la sanità si vedano chiaramente i piani: la Lombardia ha già detto che, nel “prima”, tutto era così positivo da dover essere confermato per il dopo; il privato, che nessuno si sogna di indicare come problema, deve essere il protagonista del futuro, lasciando al pubblico i carichi assistenziali non attraenti per il mercato; come saranno le Regioni nella loro diversità? dove e come creare continuità tra sanità, ambiente, lavoro, non-autonomia di vita? Non ha senso – meglio, è irresponsabile – continuare in dibattiti sui vaccini, fingendo di fare informazione sanitaria o addirittura “scientifica”, e non avere tempo e risorse per una trasparenza informativa sul presente-dopo della scuola, nella infinita diversità dei contesti sociali e geografici, del personale, dei contenuti.

za degli Stati, sono gli unici protagonisti: direttamente, imponendo al pubblico spese che violano impunemente perfino le regole minime del mercato, e ancor di più per ridare il vero green pass (senza obbligo o possibilità di vaccini) a tutti gli attori, mediatori, strumenti, paradigmi di una società della diseguaglianza.

7.

È tempo di smettere di fare della pandemia virale il paravento informativo, emotivo, operativo con cui si garantisce clandestinità, o al massimo tempi e spazi contingentati, agli scenari strutturali promessi (e finanziati) del PNRR. La guerra in Afghanistan (e altrove: condotta con l’accordo “dovuto” dei paesi NATO) non è stata un “dopo” di maggiore democrazia: anzi. E non c’era bisogno di 20 anni per fare un bilancio. Covid-19, con tutte le sue varianti, è solo “una” delle aree critiche della sanità e della società. Il suo spazio mediatico non è solo un pessimo servizio informativo. È un’irresponsabile manipolazione culturale, oltre che una cortina fumogena per una politica che si dichiara sempre e solo preoccupata di dati sanitari la cui comunicazione, anche quando vuol “colpire”, continua a essere patetica e insieme arrogante: uno spettacolo di finti dibattiti, che documentano drammaticamente, da un lato, l’inesistenza di una collettività scientifica che si prenda la responsabilità (indipendente e critica) di produrre informazioni essenziali e orientate seriamente e non a far propaganda ai singoli, dall’altro, la disponibilità trasversale (di parti politiche e competenze: economiche, giuridiche, filosofiche, più o meno mescolate) a imporre un disegno, di governo oltre che di cultura, teso a non portare in primo piano, in modo conflittuale e sistematico, quegli aspetti del “prima” che stanno dimostrando il loro raf-

9.

Gli anni della pandemia sono stati scuola massificata di disinformazione sul ruolo della scienza nella società. L’attenzione obbligata agli aspetti medici (tradotti nell’ossessività acritica dei bollettini, degli algoritmi e di dibattiti più o meno arbitrari) è stata un altro pericoloso paravento di cui disfarsi: la preoccupazione per l’affidabilità delle decisioni prese sulla pandemia ha favorito la illusionepercezione che le decisioni economico-finanziarie, infinitamente più pesanti in termini di conseguenze sulla vita delle persone e della collettività, passino allo stesso vaglio di “scientificità”. Non si spiega altrimenti – se non con ignoranza colpevole o malafede – la scomparsa dalla pianificazione-valutazione di aree “critiche” (molto più della sanità e dei vaccini) come quelle dell’ecologia, dell’energia, dei territori e come il ruolo di confronti pubblici, locali e generali, sui rapporti benefici/rischi, costi/ efficacia, ampliamenti/restrizioni delle libertà personali e via elencando. Gli obblighi di trasparenza, l’impatto della politica sulla vita, il futuro delle società eccetera devono trovare almeno altrettanto spazio nei settori non sanitari: con più robustezza di confronti-conflitti, con più preoccupazione per il rispetto dei diritti fondamentali delle persone e nella definizione dei beni-comuni. Ciò che rilancia la critica e l’appello alle categorie-competenze, come quelle del diritto e dell’economia, a non accettaresubire, con il silenzio o la reticenza, il ruolo di paraventi rispetto a un futuro che non può più essere pensato come lineare.

10.

Come per la gran parte dei problemi “pandemici”, la pandemia virale è un prodotto “sistemico”. Con il vantaggio di avere, per cercare soluzioni, tanti vaccini. E addirittura una promessa di farmaci. Vantaggio che richiede una continuità di ricerca medica (come per altre aree mediche: l’ambito tumorale è un esempio). Ma ci sono patologie ancora più gravi, cui si cambia il nome per non associarvi subito anche il rimedio, che non chiede ricerca, ma civiltà: come la fame, che la medicina traveste come “malnutrizione severa”. I vaccini per le altre pandemie che si sono menzionate sono noti: culturalmente “registrati”, parte della storia che si vive. Si chiamano diritti: umani, dei popoli, costituzionali. Non si possono comprare nel “libero mercato”. Stanno sempre più diventando un’emergenza, per la quale non si discute nemmeno (come alla vigilia di Covid-19) di preparedness o preparazione. Il primo laboratorio obbligato è a portata di lotta-ricerca: il PNRR, in tutti i suoi pilastri (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2021/12/07/dove-ci-porta-ilpiano/). Incominciando magari dalla sanità come indicatore-verifica di praticabilità concreta: anche perché se la si discute (includendo la salute, e magari perfino la cura) la sanità fa incrociare senz’altro tutte le pandemie per le quali si attende un dopo.

GIANNI TOGNONI

Medico, è esperto di epidemiologia clinica e comunitaria. È stato direttore del Consorzio Negri Sud. Attualmente opera nel Dipartimento di Anestesia-Rianimazione e Emergenza-Urgenza, Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milano. È segretario del Tribunale permanente dei popoli.

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LAVANDERIA LAVASECCO Fassi Fulvia di Esther

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ASSOCIAZIONISMO

ACLI ALBINESI

Rubrica a cura del Circolo “Giorgio La Pira”

COSTUME E SOCIETÀ

Nella carenza di valori in cui si rispecchia la nostra società, ci ha colpito una lettera pubblicata dal quotidiano “La Repubblica”, che vogliamo qui riportare integralmente. “Siamo sposati da 55 anni, non mi sono mai fatto un’amante non perché non ne abbia avuto la possibilità ma perché ciò avrebbe causato dolore a mia moglie, e penso che non si possa voler bene a una persona e causarle dolore. Ci sono stati certamente momenti di disaccordo ma abbiamo cercato di giungere ad una composizione ragionando, non litigando: nel senso che non ci siamo mai tirati i piatti, ma non abbiamo mai neanche alzato la voce o usato parole scortesi. Quando vedevo che era difficile concordare, io cedevo senza difficoltà anche su questioni importanti perché nell’alternativa far valere il mio punto di vista e farle piacere, non crearle difficoltà, ho sempre privilegiato istintivamente la seconda cosa. Sono certo che anche lei abbia fatto altrettanto in altre occasioni senza farmelo pesare. Abbiamo trascorso gli anni volendoci bene e rispettandoci a vicenda e io non so come potrei vivere senza di lei. Non riesco a credere che se non si litiga vuole dire che non ce ne importa. Se mai vuole dire che ce ne importa di più del coniuge che di noi stessi perché preferiamo cedere che rischiare una rottura. Non credo che in queste circostanze cedere sia una vigliaccheria. Io lo chiamerei invece “amore”. Mia moglie ed io non abbiamo più rapporti sessuali da quasi dieci anni, ma questo non ci impedisce di darci almeno un bacio tutti i giorni e di fare ogni tanto un po’ di coccole, anche senza litigare”. Non si tratta soltanto di amore, ma di rispetto, non solo uno dell’altro, ma del matrimonio stesso.

BUONA NOTIZIA

Le Acli bergamasche accolgono con particolare entusiasmo la notizia che Bergamo è stata scelta come “Prima Capitale italiana del volontariato per il 2022”. Titolo assegnato da “Cavnet”, l’Associazione nazionale dei Centri di servizio per il volontariato. Un premio decisamente meritato, tenuto conto che la provincia conta 4300 associazioni e oltre 100.000 volontari, di cui molti giovani. Bastano le dichiarazioni di Stefano Zamagni, economista e fondatore della Scuola di Economia civile e del presidente del “Cavnet” Oscar Bianchi per sancire l’importanza dell’avvenimento. Zamagni dice: “Bergamo merita questo riconoscimento per la missione portata avanti nella diffusione della cultura e della prassi del dono, inteso come gratuità. Il volontariato ha bisogno di essere riconosciuto e considerato, in modo da diffonderne le virtù”. Bianchi ha sottolineato come “i bergamaschi, sempre pronti nel momento del bisogno, sono un pilastro delle nostre comunità”.

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ASSOCIAZIONISMO RIFLESSIONE DELLE ACLI NAZIONALI Il lavoro tra equità e giustizia sociale, vera frontiera di una società autenticamente libera

In questi anni inediti e drammatici ce’ un disagio crescente nella popolazione che non si può ignorare, un senso di vulnerabilità diffuso che ha radici lontane e che la tragedia della pandemia e le restrizioni conseguenti hanno certamente acuito, ma soprattutto hanno reso evidente e drammatico. Nel contempo la stessa pandemia ci ha ricordato quanto sia preziosa e indispensabile la democrazia, non solo nelle sue libertà fondamentali e nella democraticità delle istituzioni, ma nel garantire universalmente quella giustizia e solidarietà sociale, che non devono essere un lusso per pochi ma, come ricorda la nostra Costituzione, sono un dovere per tutti. È nella vitalità della democrazia che oggi il Paese e il pianeta devono trovare la strada per trasformare in fatti la consapevolezza diffusa che nessuno si salva da solo: né come singolo, né come popolo, né come generazione, né come specie vivente. Il dramma della povertà, che oggi colpisce anche chi lavora, ha come effetto ulteriore la paura e il senso di vulnerabilità che essa crea, veicola implicitamente ed indirettamente la consapevolezza che se fai un figlio stai giocando d’azzardo con la tua vita, blocca persone e famiglie nel desiderare e investire sul futuro. È questo il vero macigno sul costo della vita e sulla creazione di lavoro vero. Per questo l’ingente mole di risorse e i positivi sforzi di pianificazione messi in campo con il PNRR e i fondi europei, troveranno senso solo se la politica saprà mettere in campo un riformismo che sia sociale: in caso contrario anche le migliori innovazioni detteranno una crescita ulteriore delle diseguaglianze e di quella selezione sociale, che certo non contrasta il pericoloso frammentarsi del tessuto civile, anche nei suoi legami più prossimi. Da questo punto di vista le scelte attorno alla legge di Bilancio, nonostante diverse siano positive, destano più di una preoccupazione. La riforma fiscale va fatta, ma in senso sociale. Si può fare impostando un sistema integrato dove far convogliare ciascuna informazione economica riguardante il contribuente, tra redditi imponibili e spese effettuate, che sia “sartoriale” (dove ciascuno contribuisce, realmente, in relazione a quanto è in grado di generare e percepire in termini di reddito: chi guadagna un euro in più versa in misura maggiore di chi ne guadagna uno in meno) e andando a toccare i privilegi dei pochi che vivono di speculazione sulle rendite e sui flussi di capitali, approvando anche nuove misure urgenti (per esempio, la Tassa sulle Transazioni Finanziarie che attende da tempo uno scatto di orgoglio della cooperazione rafforzata europea). Solo con una vera progressività, una vera attuazione della Costituzione, con un’autentica lotta all’evasione e all’elusione (che non scenda a patti con i paradisi fiscali) si può di fatto e senza costi tagliare le imposte ai ceti medio-bassi e al lavoro. Ci sembra, invece, che si rischi di procedere in un senso opposto, con una riduzione delle aliquote che poco servirà a dare solidità alla domanda interna e che, nella ricerca di una mediazione,

rischia di fare eco alle richieste di quella flat tax che ha profili di incostituzionalità e che negli Stati Uniti ha garantito l’esclusione dalla sanità di milioni di persone e famiglie. Gli 8 miliardi stanziati per la riforma dell’IRPEF, o poco meno, potrebbero invece essere subito impiegati su tre direzioni di marcia essenziali. La prima: una strategia per riscattare il mondo del lavoro dal suo impoverimento economico e di tutele attive e passive, con conseguenze anche gravi sulla consistenza e l’inclusività della crescita. Innanzitutto bisognerebbe investire su una più ampia riforma della Scuola, che aiuti ogni persona a crescere: una Scuola che, nonostante la buona volontà di tanti, è di fatto selettiva e nella programmazione complessiva ha perso la vocazione ad essere il primo campo in cui si combattono le diseguaglianze; una Scuola che andrebbe reimpostata come sistema di istruzione e formazione professionale, che accompagni le persone anche in età adulta. In secondo luogo è necessaria una strategia che non può declinare verso la scorciatoia del salario minimo, ma che deve vedere le parti sociali addivenire a un accordo forte sulla capacità di rappresentanza che imponga contratti veri e solidi per tutti, superando il quasi migliaio di contratti nazionali che sempre lasciano nel mondo del lavoro spazio a una sorta di far west. La seconda: un investimento che punti a raggiungere un solido sistema di welfare e uno sviluppo sostenibile e sociale per tutti (paesi poveri e stranieri inclusi). Il costo della vita cresce anche perché è sempre più difficile essere genitori, essere anziani, essere semplicemente cittadini, in cui la fascia di ricchezza determina l’accesso a servizi e prestazioni essenziali. Ci sono obiettivi ambiziosi nel PNRR, specie sulle politiche attive, e in parte nella legge di bilancio, soprattutto dove si comincia a riparlare di livelli essenziali delle prestazioni, ma serve capire come, una volta finiti i fondi, si radicherà ovunque una infrastrutturazione sociale che sani tante profonde disparità, anche territoriali. E ancora molte cose non hanno una definizione completa, come il Reddito di Cittadinanza, le risorse per la Cooperazione allo sviluppo, i fondi per l’infanzia e il sociale. La terza: occorre un più forte investimento già nel PNRR nell’economia sociale (oggetto di un importante piano europeo) e in tanti campi, legati a produzione di beni a impatto ambientale zero e forieri di nuova occupazione anche in questi anni difficili, come la cultura, la storia, il patrimonio paesaggistico, la ricreazione e lo sport sociale, l’agricoltura sociale… Dove può prevalere un’economia che cresce soprattutto prendendosi cura delle persone, dell’ambiente e delle comunità, e non facendo leva sul consumismo. Dove il paese cresce perché cresce ogni persona. Riformismo sociale significa anche ricordarsi che la democrazia non è rinchiusa solo sulla centralità delle sue istituzioni: è urgente dettare una chiara scelta di coinvolgimento e convocazione delle comunità e dei corpi intermedi. Compreso il ruolo del Terzo settore, sul quale ci sono importanti passi avanti anche di parziale correzione e attuazione della riforma che lo ha coinvolto negli ultimi anni, ma anche controtendenze negative, come quella sull’Iva, frutto dell’arretratezza delle norme europee. La sussidiarietà è spesso male interpretata come semplice prota-


ASSOCIAZIONISMO gonismo del mercato e del profit oppure chiamata in causa solo per tappare buchi o per trovare un fornitore da mal pagare. Ecco perché, in ultimo, ma non ultimo, queste ragioni, espresse in modo diverso da più parti, reclamano quanto prima un’azione e un cammino sempre più unitario del sindacato. Perché il lavoro è il luogo e l’esperienza umana dove purtroppo l’economia globale detta la crescita delle diseguaglianze, imponendo una distribuzione e una gestione della ricchezza prodotta sempre più appannaggio di poche migliaia di persone e di un’economia che estrae valore dal territorio e dalla società molto aldilà di ogni legittimo profitto e guadagno. Lì continua a giocarsi con forza la frontiera di una società autenticamente libera. L’esigenza pressante di equità e giustizia sociale deve trovare tutti consapevoli che il futuro o sarà sociale o non sarà. L’unità di ogni società non va confusa con l’unanimismo, ma va costruita giorno per giorno, col concorso e il confronto di tutti. Il pianeta e il suo futuro sono un posto per tutti e non per pochi.

TESTIMONIANZA

Maurizio Scala, papà, nonno, pensionato e vedovo diventa prete a 66 anni. Lo ha ordinato il cardinale arcivescovo di Bologna, nella basilica dell’Annunziata di Genova. È responsabile del servizio ai senza dimora della Comunità di Sant’Egidio della città. Da Roma sono giunti i vertici della Comunità stessa. Il fondatore Andrea Riccardi e il presidente Marco Impagliazzo, oltre al consigliere spirituale monsignor Vincenzo Paglia. E tra i presenti molti i senzatetto che vengono serviti dalla mensa e che Maurizio incontra tutte le sere lungo le strade di Genova. La sua storia è cominciata 45 anni fa. Un’esperienza che significa tenere insieme il vangelo e l’impegno accanto agli indigenti. Un percorso umano e spirituale che fino a nove anni fa ha condiviso con sua moglie Roberta la quale, purtroppo, a 38 anni si è ammalata di un tumore cerebrale. Un lungo calvario durato 17 anni, vissuti in casa, sempre assistita da lui e dalla figlia. Fortunatamente quest’ultima poi gli ha dato la gioia di due bellissime nipotine. Poi la vita va avanti, fortunatamente la figlia gli ha dato due bellissime nipotine e Maurizio ha continuato a donare il suo contributo alla Comunità, occupandosi anche dei giovani e della crescita di Sant’Egidio in altre città del Nord Italia. A chi gli chiede come è nata la sua vocazione e che cosa significa essere sacerdote egli risponde: “Dalla lunga esperienza di incontro con i poveri. Ed essere sacerdote far sentire la vicinanza di Dio a tutti, soprattutto a chi sente il peso delle ferite della vita”. È un esempio che ai nostri tempi sembra quasi un’assurdità. E invece diventa una testimonianza che dà gioia ed è un granello di speranza nel futuro.

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ATTORI SPECIALI

Dal carcere all’Inferno. Ma di Dante. Tre ore di libertà, sotto scorta, dopo quasi trent’anni in regime di massima sicurezza nel carcere romano di Rebibbia per tre detenuti. Nessuno meglio di loro, in anni di detenzione per associazione a delinquere, ha attraversato il girone della colpa, passando per l’espiazione della pena fino al riscatto. E il riscatto lo ha dato loro la compagnia Teatro libero di Rebibbia durante un incontro organizzato dall’Università Roma Tre, dove i detenuti hanno recitato brani della Divina Commedia, alla presenza anche del presidente del Pontificio consiglio per la Cultura, il cardinale Gianfranco Ravasi. Non sappiamo quanto hanno ancora da restare in carcere , ma una cosa sappiamo: per alcune ore si saranno sentiti di fare ancora parte del consorzio umano.

IL FATTO

Trattati alla stregua di criminali. Incriminati, e poi assolti, per aver ospitato per una notte una famiglia con 3 bambini. L’accusa era quella di appartenere ad una rete internazionale di trafficanti di uomini. Ma Gian Andrea Franchi e la moglie Lorena Fornasir fanno solo parte di un’associazione chiamata “Linea d’Ombra” che svolge volontariato. Professore di filosofia in pensione lui e pedagogista oltre che giudice onorario dei minorenni lei, ogni sera arrivano davanti alla stazione centrale di Trieste dove scendono dal Carso i superstiti della “rotta balcanica”, affrontando fino a tre settimane di cammino dalla Bosnia a Trieste. Non ce ne mai uno che non abbia bisogno di cure ai piedi. Attenzioni che ricevono dai due volontari, non a caso soprannominati “i samaritani di Trieste”. Dopo alcune indagini i coniugi sono stati assolti per non aver commesso il fatto. Lapidario il commento del professore: “La solidarietà non è reato”.

MISERICORDIA

Spesso Papa Francesco cita la parola Misericordia nei suoi discorsi. Essa ha un immenso valore, non solo per il cristiano ma per l’umanità intera. A questo proposito ecco uno scritto di Martin Lutero che tende a magnificarne il significato: “La Misericordia di Dio è come il cielo che rimane sempre fermo sopra di noi. Sotto questo tetto siamo al sicuro, dovunque ci troviamo”. Questo bel pensiero ci da tanta fiducia e una grande speranza, perché l’uomo ha bisogno della misericordia di Dio e può contare su di essa. Per le Acli albinesi Gi.Bi.

Gennaio 2022


CASA FUNERARIA di ALBINO CENTRO FUNERARIO BERGAMASCO srl, società di servizi funebri che opera con varie sedi attive sul territorio da più di 60 anni, nata dalla fusione di imprese storiche per offrire un servizio più attento alle crescenti esigenze dei dolenti, ha realizzato ad Albino la nuova casa funeraria. La casa funeraria nasce per accogliere una crescente richiesta da parte dei famigliari che nel delicato momento della perdita di una persona cara si trovano ad affrontare una situazione di disagio oltre che di dolore nell’attesa del funerale. Il disagio potrebbe derivare dalla necessità di garantire al defunto un luogo consono, sia dal punto di vista funzionale che sanitario e permettere alle persone a lui vicine di poter manifestare il loro cordoglio con tranquillità e discrezione.

Spesso si manifesta la necessità di trasferire salme in strutture diverse dall’abitazione per ragioni di spazio, climatiche igienico sanitarie. Ad oggi le strutture ricettive per i defunti sono poche ed il più delle volte improvvisate, come ad esempio le chiesine di paese, che sono state realizzate per tutt’altro scopo e certamente non garantiscono il rispetto delle leggi sanitarie in materia. Dal punto di vista tecnico la casa funeraria è stata costruita nel rispetto delle più attuali norme igienico-sanitarie ed è dotata di un sistema di condizionamento e di riciclo dell’aria specifico per creare e mantenere le migliori condizioni di conservazione della salma. La struttura è ubicata nel centro storico della città di Albino, in un edificio d’epoca in stile liberty che unisce funzionalità e bellezza estetica. Gli arredi interni sono stati curati nei minimi dettagli; grazie alla combinazione di elementi come il vetro e il legno, abbiamo ottenuto un ambiente luminoso e moderno, elegante ma sobrio.

Lo spazio è suddiviso in 4 ampi appartamenti, ognuno dei quali presenta un’anticamera separata dalla sala nella quale viene esposta la salma, soluzione che garantisce di portare un saluto al defunto rispettando la sensibilità del visitatore. Ogni famiglia ha a disposizione uno spazio esclusivo contando sulla totale disponibilità di un personale altamente qualificato in grado di soddisfare ogni esigenza.

FUNERALE SOLIDALE Il gruppo CENTRO FUNERARIO BERGAMASCO, presente sul territorio con onestà e competenza, mette a disposizione per chi lo necessita un servizio funebre completo ad un prezzo equo e solidale che comprende: - Cofano in legno (abete) per cremazione e/o inumazione; - Casa del commiato comprensiva di vestizione e composizione della salma, carro funebre con personale necroforo; - Disbrigo pratiche comunali.

Antonio Mascher  335 7080048 ALBINO - Via Roma 9 - Tel. 035 774140 - 035 511054 info@centrofunerariobergamasco.it


ANAGRAFE PARROCCHIALE Anniversari

Defunto

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Da ottobre 2021 a gennaio 2022 ... sono rinati nel Battesimo

- Gabriele Carlo Moretti

... sono tornati alla casa del Padre

Silvestro Capitanio

Franco Chioda anni 80

6° anniversario

20.07.1944 - 30.01.2016

17.04.1941 - 30.11.2021

Rimani nel cuore di chi ti ha voluto bene. Veglia su di noi

Rimanga vivo il suo ricordo a quanti l’ebbero caro

- Elena Golikova - Ugo Carrara - Ida Tacchini - Franco Chioda - Teresa Fratelli - Claudio Vedovati - Edmondo Antonio (detto Dino) Valdelli - Gianantonio Bonassoli - Marco Giovannini - Katia Facchinetti - Elena Bergamelli

Breve prospetto pastorale di questi ultimi tre anni

Aurelio Testa

Battesimi 1e Comunioni Cresime Matrimoni Defunti

Luigi Signori

2019 22 49 69 8 66

2020 29 37 nessuna nessuno 137

2021 23 58 56+46 7+4* 49

* sposati fuori parrocchia

17.04.1938 - 25.01.2020

2° anniversario

05.08.1937 - 23.02.2020

Il Signore veglia sul cammino dei giusti (Sal 1-6)

Sarai sempre nei nostri cuori

Per la pubblicazione in questa pagina delle fotografie dei propri cari defunti, rivolgersi alla portineria dell’oratorio.

2° anniversario

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Gennaio 2022


Vieni e rinasci in noi Vieni e rinasci in noi, sorgente della vita; vieni e rendici liberi, principe di pace. Vieni e saremo giusti, seme della giustizia; vieni a risollevarci, figlio dell’Altissimo. Vieni ad illuminarci, luce di questo mondo: vieni a rifare il mondo, Gesù, figlio di Dio!. Didier Rimaud


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