Jerry&Robin

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Roberto Lasagna

FALSOPIANO

Anton Giulio Mancino

Jerry &Robin PENSARE DIVERTENTE Con una prefazione di Steve Della Casa

www.falsopiano.com/jerryrobin.htm

Jerry&Robin

Roberto Lasagna saggista e critico, è stato tra i collaboratori della rivista “Duellanti”. È autore di brillanti saggi sul cinema tra i quali: I film di Michael Cimino (1998), Wenders Story. Il cinema, il mito (1998), Lars Von Trier (2003), Steven Spielberg (2006), I film di Dario Argento (2009), Walt Disney. Una storia del cinema (2011). Anton Giulio Mancino critico cinematografico, saggista, è professore associato di cinema all’Università di Macerata. È stato selezionatore della Settimana Internazionale della Critica della Mostra del Cinema di Venezia. È autore, fra gli altri, di Francesco Rosi (con Sandro Zambetti) (1998), John Wayne (1998), Sergio Rubini 10 (con Fabio Prencipe) (2011), La recita della storia. Il caso Moro nel cinema di Bellocchio (2014).

Roberto Lasagna Anton Giulio Mancino

Questo libro è soprattutto un atto d’amore nei confronti di due nomi popolari ma al tempo stesso dotati di vaste zone di penombra. Lewis e Williams vengono accostati con alcuni indubbi parallelismi (la “serietà” dei loro ultimi lavori, ad esempio, oppure l’essere costretti a esibire in pubblico almeno una parte del repertorio per il quale erano noti al grande pubblico), ma in questa direzione non si insiste piùdi tanto. Anche perchéquesti autori non consentono una sintesi del fenomeno della comicitàautoriale hollywoodiana: hanno traiettorie molto personali, hanno origini diverse, non hanno fatto scuola, non provengono dalla scuola. Ecco, Robin e Jerry sono di fatto due macchine celibi. Possono essere autori di performances straordinarie (fa molto piacere che per Lewis si ricordi lo straordinario One More Time e per Williams la definizione struggente di “serial Killer” fornita da Terry Gilliam in un necrologio sorprendente e struggente) che possono a loro volta richiamare altre performances, ma rimangono completamente unici e irripetibili. Queste vite parallele del terzo millennio ci propongono due autori dei quali pensiamo di sapere molto e che invece ci accorgiamo di conoscere solo super- ficialmente. Merito di un lavoro veramente approfondito, in cui la passione e la scientificitànon si elidono ma si arricchiscono a vicenda. Cosa rara, nella saggistica cinematografica.

€ 20,00

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FALSOPIANO

CINEMA


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EDIZIONI

Roberto Lasagna

FALSOPIANO

Anton Giulio Mancino

Jerry &Robin PENSARE DIVERTENTE


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INDICE

Vite parallele del terzo millennio di Steve Della Casa

p. 9

2 + 2 sul divano. Dialogo introduttivo

p. 11

JERRY LEWIS

p. 21

Capitolo primo Dean & Martin

p. 23

Capitolo secondo Good Fella

p. 64

Capitolo terzo Way way-out

p. 90

Capitolo quarto Everybody loves a clown

p. 118


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ROBIN WILLIAMS

p. 133

Capitolo quinto In cerca di Mister Williams

p. 135

Capitolo sesto Good Morning, America

p. 154

Capitolo settimo Il cinema dei risvegli

p. 173

Capitolo ottavo Fai la cosa sbagliata

p. 219

Filmografia Jerry Lewis

p. 259

Filmografia Robin Williams

p. 273

Bibliografia Jerry Lewis

p. 288

Bibliografia Robin Williams

p. 292


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Jerry e Robin. Pensare divertente

Vite parallele del terzo millennio di Steve Della Casa

È dal secondo secolo dopo Cristo, e quindi dai tempi di Plutarco che le vite parallele affascinano e al tempo stesso spaventano. All’epoca lo scopo era di paragonare con argomenti concreti la cultura ellenica e quella romana, concludendo le biografie accostate con una sorta di riassunto che sottolineava similitudini e differenze. Ero il periodo d’oro dell’Impero Romano, si poteva pensare decisamente a una sintesi e il sacerdote caro all’imperatore Adriano si caricò sulle spalle questo compito, riuscendovi pienamente. Il suo obiettivo era di fatto dimostrare che l’Impero che all’epoca conosceva la sua massima espansione era per davvero la sintesi migliore di tutto quanto l’uomo aveva fatto fino a quel momento. I miei amici Lasagna e Mancino hanno invece un approccio molto diverso, il loro libro a quattro mani è soprattutto un atto d’amore nei confronti di due nomi popolari ma al tempo stesso dotati di vaste zone di penombra. Lewis e Williams vengono accostati con alcuni indubbi parallelismi (la “serietà” dei loro ultimi lavori, ad esempio, oppure l’essere costretti a esibire in pubblico almeno una parte del repertorio per il quale erano noti al grande pubblico), ma in questa direzione non si insiste più di tanto. Anche perché questi artisti non consentono una sintesi del fenomeno della comicità autoriale hollywoodiana: hanno traiettorie molto personali, hanno origini diverse, non hanno fatto scuola, non provengono dalla scuola. Chi ha studiato Plutarco ha presente il concetto di apax legomenon, ovvero di un termine che è riscontrato una sola volta nel corpus letterario in greco antico che è stato conservato fino ai giorni nostri. Ecco, Robin e Jerry (come i due autori amichevolmente li chiamano, mostrando una familiarità intensa con il loro lavoro, familiarità che appare innumerevoli volte nel testo) sono di fatto due macchine celibi. Possono essere autori di performances straordinarie (fa molto piacere che per

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Lewis si ricordi lo straordinario One More Time e per Williams la definizione struggente di ”serial Killer” fornita da Terry Gilliam in un necrologio sorprendente e struggente) che possono a loro volta richiamare altre performances, ma rimangono completamente unici e irripetibili. Queste vite parallele del terzo millennio ci propongono due autori dei quali pensiamo di sapere molto e che invece ci accorgiamo di conoscere solo superficialmente. Merito di un lavoro veramente approfondito, in cui la passione e la scientificità non si elidono ma si arricchiscono a vicenda. Cosa rara, nella saggistica cinematografica.

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2 + 2 sul divano. Dialogo introduttivo Roberto Lasagna: “Jerry Lewis fondò ‘La casa della risata’, per aiutare i bambini e i giovani affetti da traumi e malattie. Una fondazione la cui prima importante iniziativa benefica fu un galà in onore di Robin Williams il 19 giugno 2017. Lewis e Williams dedicarono molto impegno alla beneficienza, ma quando pensiamo a loro ci vengono in mente dei ‘beneffatori della risata’…” Anton Giulio Mancino: “L’immagine plastica dei ‘benefattori della risata’ è calzante. Mi sembra inoltre una coincidenza perfetta poiché aiuta a spiegare la nostra scelta di dedicare un libro congiunto a Jerry Lewis e Robin Williams, accorciandone le distanze. Non a caso abbiamo scelto di intitolarlo, confidenzialmente, ‘Jerry & Robin’ per sottolineare l’approccio comune ad una trattazione non sistematica, ma problematica e appassionata. Cioè dove la passione diventa il punto di partenza per un’analisi che non segue necessariamente l’ordine cronologico ma un filo conduttore esemplificato nel sottotitolo ‘Pensare divertente’, ricavato da un’affermazione dello stesso Jerry Lewis, di cui si darà conto nel libro, ma che potrebbe a ragion veduta essere estesa a Robin Williams. Sei d’accordo nel definirlo una dichiarazione d’amore scritta a quattro mani? Il discorso ‘amoroso’ e il ricorso frequente al concetto di ‘amore’ è del resto centrale per comprendere la strategia comunicativa e la drammaturgia del Jerry Lewis ‘film-maker totale’ (uso il trattino tra ‘film’ e ‘maker’, in ossequio all’omonimo titolo del suo manuale di regia). R. L.: “Sono d’accordo. Questo libro è una dichiarazione di amorosa complicità. Non potrebbe essere diversamente quando un lavoro, come il nostro, nasce e si sviluppa spontaneamente. E prende la forma di un racconto, sfaccettato, dentro il cinema, per mano di due protagonisti esemplari, paradigmatici e, allo stesso tempo, eccentrici. Una dichiarazione d’amore per chi ha saputo attraversare decenni di spettacolo, portandosi addosso i lustri e le ferite della propria arte ed è arrivato a interpretare (nel caso di Lewis, anche a dirigere) film nuovi, vette comiche o del pensare intelligente, con l’idea di sperimentare ogni volta qual-

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cosa di nuovo e originale. Una dichiarazione per chi non ha mai nascosto la disarmante predilezione per la maschera del clown, e per il volto fragile che essa sovente cela”. A. G. M.: “C’è un doppio fondo nelle due maschere, che rende fluido e sfumato il confine tra comicità e malinconia, felicità e tristezza, e che mi sembra ugualmente accomunarle. Tutti e due hanno usato il naso rosso. Robin facendosi interprete della clown-terapia nei panni di Patch Adams, Jerry da sempre portandoselo dietro, addosso. Lo esibisce anche in uno dei suoi ultimi incontri pubblici, al Tribeca Film Festival a New York, rincontrando Martin Scorsese e Robert De Niro il 29 aprile 2013 per l’anniversario di Re per una notte. La maschera del clown, assieme alla polisemia ‘amorosa’, è una delle linee guida che seguiamo nel nostro percorso. Al nesso stretto tra il clown e l’amore in particolare ho dedicato il quarto capitolo. E il pensiero corre sempre al film che non vedremo mai di Jerry Lewis,!The Day The Clown Cried, rimasto incompiuto. Se ne possono recuperare alcune scene on-line. Ma l’insieme non assumerà mai una forma definitiva. Eppure questa edizione frammentaria, fragile, agli antipodi del perfezionismo maniacale di!Ragazzo tuttofare,!L’idolo delle donne,!Il mattatore di Hollywood!e!Jerry ¾, rende molto bene l’idea del fattore umano inseparabile dalla padronanza assoluta della tecnica da parte di Jerry. Ma parlami un po’ di come hai affrontato il ‘tuo’ Robin”. R. L: “Il ‘mio” Robin’ mi ha sempre affascinato per l’incredibile coraggio di essere disarmante, nei piccoli film come in quelli più grandi. In Cadillac man - Mister occasionissima, ambientato in un concessionario d’automobili, ti potresti aspettare la critica all’individuo alienato, al venditore incallito. E invece no: Robin ti avvicina con immediatezza a un mondo di persone che vivono, si confrontano, senza pregiudizi. In Mosca a New York immagineresti forse di ritrovare il prototipo del russo algido e scostante? Il suo Vladimir Ivanoff è invece un uomo desiderante, smanioso di togliersi la maschera che pure indossa per necessità di dialogo e integrazione. Il filo rosso del risveglio emotivo caratterizza un certo periodo del cinema americano post-reaganiano, e Williams è come una luce di contagiosa irriverenza tra le ombre di quegli anni, pronto a darci scossoni con la sua comicità debordante per poi stupirci con l’empatia, con

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una carica di umanità che lo rende, secondo me, un umanista a Hollywood. Si espone con il corpo, con la fisicità che può diventare irruente danza di trasformismo come in Mrs. Doubtfire - Mammo per sempre!o dimensione stessa della cura, come ben sa lo psicoterapeuta di!Will Hunting - Genio Ribelle. Un corpo che parla, diventa racconto di un’esistenza, in perpetua agitazione per aiutare i figli che hanno bisogno di un padre o per portare sollievo a un individuo che soffre. Un volto che cerca di far sorridere anche con pose stralunate, evidentemente segnato da antiche e costanti preoccupazioni, pronte a ritrovarsi nei moltissimi ruoli portati sullo schermo dall’attore; per il quale il dramma è sempre dietro l’angolo e l’arte della recitazione diventa un’irrinunciabile terapia. Mi ha affascinato la cultura di Robin, spesso insospettabile, non a caso professor Keating nel suo ruolo forse più indimenticabile, quello ne! L’attimo fuggente...”. A. M. : “Poni una questione infatti centrale, sul fronte Robin, che vale anche per Jerry. Quella della possibilità di esplorarne la ricchezza espressiva, fisica e comportamentale senza necessariamente distinguere tra opere maggiori o minori. Quando si studiano figure così coerenti, che hanno speso la propria vita e la propria carriera per uno spettacolo che fosse anche una forma di terapia e di auto-terapia, è inevitabile che le gerarchie tra film d’autore e non cadano e si proceda ad una lettura verticale di apporti preziosi presenti anche in film spesso sottostimati. Mi sono posto il problema con un’opera centrale, poco apprezzata, e che invece fa da spartiacque definitivo tra il Jerry Lewis di prima, con Dean Martin, e il Jerry Lewis successivo, di lì a poco senza Dean Martin. Mi riferisco a Il circo a tre piste di Joseph Pevney, che non soltanto diventa il primo film ufficiale in cui vengono a galla le divergenze tra i due soci e amici, ma è proprio per questo una prova generale di tante sperimentazioni future. È qui che prende forma compiuta l’istanza clownesca, la necessità di rimodulare il comico con il sentimentale, a torto giudicato in più occasioni “patetico”. Jerry in questo film altrimenti ‘suo’ si scopre più che altrove, corre il rischio di mettere a repentaglio gli standard medi della sua clamorosa popolarità di coppia. Rischia e in parte incorre nell’insuccesso commerciale. !Ma dimostra come l’asse Jerry-Dean sia fondamentale, anche dopo che il sodalizio si interrompe, per comprendere l’istanza

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dell’altro. Tutta la poetica e la forte propensione di Jerry a visualizzarla cinematograficamente trova le sue motivazioni di fondo in questo strappo. Il conflitto interiore/esteriore tra solitudine e socialità, l’istanza d’amore duplice, in entrata e in uscita, si spiegano a partire da questa necessaria rottura. Tutto dapprincipio corre verso questo epilogo, che rappresenta un nuovo inizio, fisiologico e fatale. Si coglie tra le righe anche la contrapposizione felliniana tra il Clown Bianco e il comprimario Augusto. Credo, dal canto mio, di aver insistito molto nel ripercorrere le modalità e l’evidenza di questa insofferenza reciproca, che nasce a ben guardare nei film stessi. Esaminare i film, anche nel caso di Jerry, equivale a leggere neanche tanto tra le righe il diario intimo di un’anima divisa in due, donde la preliminare situazione di coppia, Martin & Lewis, poi ricomposta nella statura del ‘film-maker totale’, non più il ‘personaggio in cerca di autore’ o di un ‘partner’ (Pardners, non a caso, è il titolo dell’ultimo film che li vede assieme, in Italia!Mezzogiorno di... fifa), ma l’autore di se stesso, a pieno titolo. Spesso attraverso la mediazione geniale di quel grande e irresistibile cineasta che fu Frank Tashlin. Credo di essermi concentrato sui film, nella misura in cui questi restituiscono risposte adeguate alla domanda di fondo: perché si sono separati? Detto altrimenti: come hanno fatto a restare fianco a fianco tutto quel tempo? Il loro legame stretto è stato anche il motivo di un conflitto costante, terminato con il congedo al Copacabana. In tutto ciò sono convinto che la confessione di questa permanente condizione umana in cui il comico spesso e volentieri non si diverte divertendo, angosciato dalla sofferenza altrui e dal proprio bisogno di isolamento, giunga per interposto autore, Scorsese, proprio con Re per una notte”. R. L.: “Ci sono incontri davvero significativi, in grado di far emergere aspetti del personaggio rimasti inespressi o latenti sino a quel momento. Come quello con Scorsese per Lewis, o quello con Van Sant per Williams. Incontri in cui gli artisti mettono molto di loro stessi e che arrivano a un punto delle loro carriere in cui qualcosa sembra essersi davvero trasformato. Incontri che preludono a mutazioni in parte già percepite, tanto che, a guardare bene, inquietudini e interrogativi, dell’uomo e dell’artista, paiono rintracciabili in molti lavori delle rispettive filmografie. Far ridere, così come far riflettere, può diventare un’ossessione e condizio-

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nare gli esiti o la struttura di un film. Nel nostro libro ci siamo interrogati su cosa possa aver favorito Jerry e Robin nel dare forma alle proprie ossessioni per la comicità (e per il dramma) con frequentazioni in grado di favorire discorsi personali. E’ stato stimolante il poter valutare di volta in volta le molte scelte artistiche come esiti complessi dettati dalle rispettive maturazioni e da inevitabili ripensamenti: ogni passo un tassello e un tentativo di unicità, per questi due combattenti nella macchina del cinema industriale, che ci paiono oggi sempre di più due spiriti indipendenti. Nella consapevolezza che il racconto in parallelo dei due artisti sarebbe diventato un viaggio tra le domande dell’uomo contemporaneo pronte a diventare scommesse espressive quando non di senso. Un viaggio tra le trasformazioni del gusto e del costume dal secondo dopoguerra mondiale sino ad oggi, in cui troviamo Jerry e Robin calati in situazioni in cui la comicità è centrale, oppure, dinamica espressiva prossima ad altre sfumature, nei casi più significativi vicina ad uno spirito anarchico o sperimentale. Jerry costruisce i suoi film con abile astrazione, con il controllo a più livelli della scena, mostrando individui sbigottiti al cospetto del suo personaggio in lotta con gli oggetti e con l’ordine del mondo, un po’ come lo sono gli spettatori che si divertono attoniti vedendo le personificazioni di questo ragazzo tuttofare, pronto a farsi trino (3 sul divano) o ancora più proteiforme (I sette magnifici Jerry), per sopperire sovente a un disagio che coinvolge la persona che si ama o si vuole proteggere. In questo percorso Jerry trova una strada e uno stile tutti suoi, con ben pochi debiti artistici, presto imitato dalle generazioni a venire. E lo stesso Robin si lancia in una corsa artistica che lo vede senza troppi genitori, senza modelli, diventando anch’egli un esempio unico, come Jerry attraversato dall’ansia di sdoppiarsi e moltiplicarsi (Mrs Doubtfire – Mammo per sempre) per poter essere quell’amato genitore pronto a realizzare i desideri che la realtà non garantisce, o poter librare tra i desideri come un redivivo Peter Pan destinato al pubblico che sta diventando adulto. Tra la baraonda degli oggetti e della modernità, tra le nevrosi curate dalla psicanalisi e cenerentoli insospettabili, Williams e Levis portano nel loro cinema un’altra scena, che può far ridere ma soprattutto pensare. E sono due interpreti che hanno davvero accompagnato la maturazione, la crescita, il viaggio nel tempo di generazioni di spettatori…”.

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A. M. : “Trovo infine molto significativo che nell’ultima stagione di entrambi, sebbene i loro congedi abbiano seguito modalità diverse, nel caso di Robin davvero drammatica, vi sia una sorta di nobiltà inversamente proporzionale all’eventuale importanza dei film interpretati. Invecchiando, entrambi, al di là dello scarto generazionale, assumono uno spessore autonomo, che prescinde dai contesti performativi. Jerry è Jerry e Robin è Robin. La loro fama li precede, anche in una sorta di oblio che se possibile ne accresce l’intensità e la grandezza. Sono diventati icone viventi. Jerry al Festival di Cannes !nel 2013, alla veneranda età di ottantasette anni, è accolto come una leggenda, indipendentemente dal film che ha interpretato e per il quale è stato invitato, che per la cronaca si intitola Max Rose di Daniel Noah. L’impressione è che siano nati per stare sul palcoscenico e sul piedistallo, eccedendo la norma fisiologicamente. Uno come l’altro, inconfondibili e inarrestabili ‘Kings of Comedy’. Di Robin ho un ricordo pressoché equivalente, assai anteriore, di oltre vent’anni, alla Mostra del Cinema di Venezia, dove nel 1987 stava accompagnando!Good Morning, Vietnam di Barry Levinson. Aveva i riflettori puntati addosso. Tutti aspettavano soltanto che lui ripetesse con la voce da speaker radiofonico sopra le righe le parole corrispondenti a quel titolo e allo storico personaggio interpretato. Non si discusse poi quasi d’altro, contò solo la sua performance. Lo stesso accade con Jerry a Cannes: con le sue gag, i suoi scherzi, il film passò in sott’ordine. Sta facendo uno spettacolo. Fuori dal set, lontano dal palcoscenico, in qualsiasi circostanza Jerry e Robin fanno e danno spettacolo. Un tipo di spettacolo che da un certo punto in poi diventa compulsivo, vive di vita propria. Uno spettacolo incarnato che non si esaurisce nello spazio dell’incontro pubblico. Sembra che sia necessario arrestarli, spegnerli, disinnescarli. Perché da soli se lasciati fare potrebbero continuare all’infinito, a dispetto dell’età o delle condizioni fisiche contingenti. Questo senso di familiarità, di vicinanza travolgente, magari all’opposto del loro umore nel privato, li rende personaggi con cui stabilire un dialogo inverosimile ma sostenibile. Scrivendo di Jerry, in particolare, ho cercato di trasmettere quest’impressione di vicinanza costante connaturata al tipo di attore, di regista, di showman. Il perfezionismo sul set, cui accennavo, costituisce l’indizio più determinante per accorgersi di come ogni frutto di questo lavoro incessante debba dare la sensazione di essere stato coltivato con

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cura assoluta e amore sconfinato. E torna così la parola più ricorrente e trasversale, ‘amore’, che assume una valenza mistica. In matematica quando un numero non ha né segno negativo né segno positivo si dice sia ‘in valore assoluto’. Il ‘valore assoluto’ di un ‘amore’ variamente declinato da Jerry risulta dalla capacità di trasformarsi, travestirsi, aumentare a più non posso voci, volti, lingue, accenti, personaggi, maschere per farsi accettare o circondare i suoi spettatori dell’energia indispensabile per affrontare un’esistenza altrimenti ingrata. Non è semplice dar conto della vasta produzione letteraria, storico-critica su Jerry. E non volevo, nel cercare di ripercorrerla interamente, cavarmela con un ritratto corretto, circostanziato, documentato. Inizialmente mi sono preparato per questo tipo di incombenza. Quando infine ho raccolto tutte le fonti, i testi, e mi sono dotato della enorme mole di oggetti cartacei, musicali e audiovisivi, compresi i manifesti originali italiani, i dischi con le performance radiofoniche e le canzoni per bambini su incise, ho deciso di disfare tutto, costruire un percorso destrutturato, un sistema di vasi comunicanti non necessariamente lineare. Insomma, come un film di Jerry, decostruendo attentamente - slacciando e riallacciando i fili, come si addice ad un prestatore d’opera maldestro, alla Jerry - il lavoro al quale mi ero a lungo preparato. Onde ottenere infine qualcosa che nell’impianto rimasse conforme alla materia difforme alla quale mi stavo avvicinando. In fondo posso dire di non averci messo mesi o anni ad arrivare ad un simile risultato. Ma tutta una vita. Credo di aver incominciato a mettere insieme i pezzi del puzzle, che non ho voluto qui finire o ricomporre una volta per tutte, dall’infanzia. Da quando ho visto i film di Jerry e Dean, poi di Jerry senza Dean, lungi dal preoccuparmi delle ragioni di quel repentino cambio di marcia. Un’infanzia che guarda l’altra o si osserva, perplessa allo specchio. Perché l’infanzia è a sua volta il tema o, se si preferisce, l’ossessione oltre che la sorgente di tutti i suoi personaggi, indifferenti al tempo, all’età, alle istituzioni, alle convenzioni, alla psicanalisi e alla pedagogia, attraversati da una corrente liberatoria ad alto voltaggio comico-esistenziale. Non saprei cos’altro aggiungere, se non il seguente mio contributo a questo libro a due facce, a quattro mani, su due sovrani della commedia. Quattro capitoli in tutto. Il primo: ‘Dean & Martin’, che non sono soltanto il nome e il cognome dello storico partner di Jerry. Il secondo: ‘Good Fella’, che non è il titolo, deprivato appena della ‘s’ finale, del ce-

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lebre capolavoro sull’universo gangsteristico affrontato dal basso dell’autore di!Re per una notte, ma in sé lascia intendere anche il senso del primo capitolo. Il terzo: ‘Way Way Out’, che non è soltanto la riproduzione, senza i puntini di sospensione, del titolo originale dell’italiano Stazione Luna di Gordon Douglas, ma anche quello della canzone omonima, completa quindi dei puntini di sospensione di cui sopra, di Gary Lewis & The Playboys. Per chi non lo sapesse Gary è il figlio di Jerry. Quarto: ‘Everybody loves a clown’, per cui vale quanto già detto riguardo al capitolo precedente. Inutile ripetersi. Se si sono già lette quelle righe, sono di sicuro superflue queste”.!! R. L.: “Vedere e rivedere film di Williams mi ha fatto riscoprire un artista sensibile in grado di conquistare per la forza della sua passione. Tra l’idea iniziale del libro e la stesura dello stesso ho vissuto anche momenti di disorientamento quando non di vero e proprio sconforto, mano a mano che ‘frequentavo’ sempre di più Robin, pensando che egli non era più con noi mentre alcuni dei suoi ultimi film non erano mai usciti nelle sale. Mi è capitato di rivedere il suo cinema attraversando l’entusiasmo per gli esordi e l’ebbrezza che ha accompagnato l’epoca d’oro dei film più acclamati, ma ho interpretato e a mio modo rivissuto le possibili delusioni (così come ho ammirato la tenacia) dell’attore criticato per alcune sue scelte non facili o immediatamente comprensibili specie nell’ultimo periodo. Lungo tutto il periodo del lavoro sul libro, ero consapevole di trovarmi dinanzi ad una vicenda artistica irripetibile.!La sistematicità del metodo di scrittura si è dimostrata allora appiglio a cui mi sono ancorato molto presto, assieme ad un entusiasmo consapevole; è prevalsa infine una sciolta trepidazione corroborata dall’opportunità di scrivere e rimediare a certi luoghi comuni dell’interpretazione critica, specialmente quello che disconosce totalmente una componente (psico)sociologica nello sguardo del cinema, che ignora il ruolo dell’attore all’interno dei complessi equilibri dell’industria dello spettacolo. Ho lottato - uso volutamente questa espressione - per restituire a Williams il proposito dell’irriverenza, così evidente in tanti momenti della sua filmografia, che per qualcuno sembra facile vedere presto addomesticata a seguito del successo e delle scelte personali non condivise. E’ infine prevalsa la consapevolezza di saperne abbastanza, per condurre il lavoro di scrittura sino

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in fondo, pur dovendo trattare di oltre sessanta lungometraggi, tanti sono i lavori soltanto per il cinema che Williams ci ha lasciato, alcuni dei quali molto popolari e importanti, fino ad oggi non trattati in un libro dedicato approfonditamente all’arte cinematografica e all’analisi dei suoi film (esistono invece alcuni interessanti volumi sulla vita di Williams). Perché giustamente la fama di Williams, come quella di Lewis, ha subissato l’interprete nella fase finale e un po’ in ombra della vita, mentre i film sono continuamente riprogrammati dalle reti di tutto il mondo. A proposito dei grandi personaggi ci si ricorda sovente dei momenti più celebrativi, dei film più divertenti, degli episodi più popolari che non sono sempre necessariamente anche i loro migliori. Ma come Lewis è ricordato anche per quello che è riconosciuto come un suo capolavoro,!Le folli notti del dottor Jerryl, la doppiezza costitutiva dell’attore comico riverbera la sua luce enigmatica sulla vicenda di questi protagonisti della cultura, nel caso di Willliams ribadita dal doppio bisogno di affiancare i ruoli brillanti a quelli drammatici, di incontrare il consenso del pubblico e il riconoscimento critico, di prosciugare l’esuberanza connaturata senza però perdere l’empatia. Un bisogno di smarcarsi avvertito sin dall’esperienza come stand up comedian (peraltro mai abbandonata), trasportata sul set e via via modulata attraverso gli incontri con i molti registi e i confronti, tanti e ripetuti, con gli attori, ciascuno a sua volta ‘modello’ di uno stile recitativo o di un’impronta inconfutabile. Williams e Jeff Bridges, Williams e De Niro, Williams e Dustin Hoffman, Williams e Al Pacino. Si potrebbe continuare a lungo. E a ben guardare, con ognuno di questi interpreti Robin l’anti-accademico ha modulato la sua recitazione, raffinandola, perfezionando personaggi che sentiamo immancabilmente ‘suoi’: dal professore fulminato de!La leggenda del re pescatore, al medico pieno di dedizione al lavoro di!Risvegli (dove esibisce piena misura nel temibile confronto con De Niro), dal Peter Pan adulto e smemorato di!Hook, al killer ricercato tra le nebbie della mente in!Insomnia (dove, in un film tutto sbilanciato sulla figura del poliziotto interpretato da Pacino, Robin fa la sua ‘maledetta e sporca’ figura). L’arte di esporsi, generosamente, anche attraverso opere meno riuscite o deliziosi film indipendenti assolutamente da rivalutare (Il padre migliore del mondo, Boulevard), dove emerge la coerenza del discorso dell’attore, l’esigenza di svelarsi quale portatore di punti di vista culturalmente aperti, disposti

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ad accogliere il lato fragile di sé e a condividere, anche con emozioni scomode, l’anelito a cambiare. Il bisogno di un limite, di un riconoscimento definitivo, avrebbe accompagnato la vicenda artistica e la vita di Williams, che ci ha lasciati con l’invito a ‘cogliere l’attimo’ e a rivedere i suoi film con sguardo nuovo. Come quel cineasta totale che fu Lewis, appunto”.

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Capitolo Primo DEAN & MARTIN “Let me tell your fortune. Just give me your hand. I’ll look in your future. And what fate has planned. Now you may think it’s foolish. Just a guessing game.”1 (Gary Lewis & The Playboys, Let Me Tell Your Fortune)

L’originale e la copia C’è una scena in Artisti e modelle (Artists and Models, Frank Tashlin, 1955) in cui Rick, cioè Dean Martin, canta The Lucky Song in uno stato di completo trasporto e gioia spettacolare. L’insieme denota una regia d’eccezione e una vivace coreografia urbana ricostruita negli Studios della Paramount. Subito dopo Rick passa davanti lanciando appena un’occhiata alla vetrina di un negozio che espone televisori accesi. Non fa quasi caso alle immagini trasmesse. Ci ripensa. Torna sui suoi passi e presta maggiore attenzione al programma in onda. L’ospite speciale è l’amico e coinquilino Eugene, Jerry Lewis, precursore di tutte le generazioni future di nerd. Da non credere: Eugene sta pubblicamente abiurando, in diretta, i fumetti di fantascienza di cui è un vorace consumatore tanto da sognarseli anche la notte.Rick è contrariato. Forse anche perché Eugene, prestandosi sia pure ingenuamente a questo show moralistico, sta raggiungendo via etere la celebrità. Trent’anni dopo un’esperienza simile tocca invece all’ex Eugene, il Jerry Langford interpretato da Jerry Lewis. Il nuovo Jerry, Langford, scopre in televisione che l’aspirante comico Rupert Pupkin, Robert De Niro,

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a suon di battute mediocri è riuscito a debuttare sul piccolo schermo. Per riuscirci Rupert ha dovuto rapire Jerry e chiedere come riscatto un’apparizione esclusiva in apertura del “Jerry Langford Show”. Il monologo modestamente spiritoso e autolesionista di Rupert sorprende a distanza e riempie di silenziosa, dolente malinconia Jerry. Per Rupert, visibilmente compiaciuto di apparire e rivedersi in differita sul televisore di un bar prima di consegnarsi ai poliziotti, lo spregiudicato gesto plateale è un trionfo. Sente di avercela fatta a imporsi, con i proverbiali e poco professionali “quindici minuti di celebrità”. È lui il nuovo “Re dei Comici”. O “King of Comedy” in originale. Che è anche il titolo del film, in italiano Re per una notte (King of Comedy, Martin Scorsese, 1983), in cui Jerry si ritrova coinvolto in una replica di Artisti modelle, il cui titolo già la dice lunga sul problema della copia e dell’originale, quindi del rischio di un “artista” di essere il “modello” dell’altro. La replica di Re per una notte avviene a ruoli ribaltati. E saranno ancora ribaltati in Joker (id., Todd Philip, 2019), dove il nuovo debuttante, Joaquin Phoenix nei panni di Arthur Fleck, in arte Joker, storico avversario di Batman, è un soggetto psicolabile che come clown è destinato a un funesto successo. Passando sempre per la televisione. L’ulteriore “King of Comedy” è un criminale. E con un gesto ancora più criminale, un omicidio in diretta anziché un sequestro in differita, detronizza l’ex Rupert Pupkin, ora un conduttore di nome Murray Franklin. Ma sempre lui, Robert De Niro, che lo show tutto suo infine l’ha avuto. Per morirci. Chissà se quella di Arthur “Joker” Fleck sia una vendetta postuma nei confronti del lontano Rupert Pupkin che si era preso gioco di Jerry Langford, che come Eugene, quindi Jerry Lewis simultaneamente aveva messo nell’angolo Rick, quindi Dean Martin. Complicato il ragionamento? Certo è che in Re per una notte è già scattata “ribalta di gloria”2. Chi la fa l’aspetti. Sono le regole della celebrità. “Tutto si è compiuto”, esulta dal canto suo il tormentato Messia de L’ultima tentazione di Cristo (The Last Temptation of Christ, Martin Scorsese, 1988). Ma Jerry, indipendente dal cognome, non è un personaggio di Scorsese. Non è escluso che in Re per una notte Scorsese sia un personaggio di Jerry. Rapito anche lui dal Jerry entertainer, regista, umorista. Jerry è innanzitutto se stesso, in persona: un Jerry diversamente declinabile ma inconfondibile. Il Jerry che per interposto personaggio assume il cognome provvi-

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sorio di Langford. Il 1983 è fondamentale per lui. Un anno che accorpa eventi diversi e rende prismatico il fattore tempo: non soltanto esce in sala Re per una notte, ma pubblica la sua (prima) autobiografia, Jerry Lewis in Person3. L’ulteriore conferma della centralità di questo film non suo, altrimenti suo (o tanto più suo perché tra le righe di una scena che innesca la reazione a catena della memoria e rivela il crudele segreto della partnership con Dean Martin), è King of Comedy: stavolta il titolo della biografia di Jerry Lewis scritta nel 1996 da Shawn Levy4. In copertina: metà faccia del comico, senza trucco, e metà del clown truccato. Curiosamente la casa editrice è la St. Martin’s Press. La coincidenza significativa tra St. Martin (Dean “Martin” tanto quanto “Martin” Scorsese) e un titolo, King of Comedy, che ipoteca un destino già scritto, completa il quadro. Il destino di Jerry Lewis si “compie” nel legame stretto con Dean Martin. Mediante il “martirio”di quest’ultimo. È a “San Martin” (Scorsese), in omaggio alla sua formazione cattolica, l’italoamericano a Hollywood come Dean Martin, che si deve Re per una notte. Ma anche a Jerry. È uno strano film. Per quanto esterno alla filmografia di Jerry Lewis autore, ne è forse la pietra angolare. Mai perderlo di vista. Re per una notte può essere adoperato come un libretto delle istruzioni, un codice segreto o un sistema operativo per comprendere il funzionamento del sistema Jerry Lewis. E accorgersi, tra le tante cose che porta allo scoperto, del perché Jerry e Dean siano stati assieme pur non potendo stare assieme. Finché non si è profilata l’urgenza di smettere di (re)stare assieme. Re per una notte, per la legge del contrappasso, induce Jerry Langoford/Lewis a riguardarsi allo specchio: uno specchio che per ovvie ragioni è uno schermo, la superficie di vetro, trasparente e claustrofobica che fa da tramite con lo spettatore. Qui si capovolgono le sorti e i ruoli in commedia. A Jerry tocca in estrema ratio il personaggio (più) serio, quello dell’affermato, preparato ed esilarante showman che non può permettersi nella vita privata e professionale di essere un buffone. Ed è proprio un personaggio del genere a dover fare i conti con le luci e le ombre del palcoscenico, mentre grazie allo schermo televisivo guadagna terreno l’altro, Rupert, lo sciocco convinto di essere serio e pronto a fare sul serio con una pistola giocattolo. L’ex cacciatore di autografi è disposto a tutto pur di fare il salto di qualità. C’era una volta Jerry Lewis cacciatore di autografi. Sul grande e sul piccolo

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schermo, per scherzo, c’era una volta un Mister Smith non qualsiasi, il Malcolm Smith di Jerry Lewis in Hollywood o morte (Hollywood or Bust, 1956), che rimandava al consimile personaggio completamente anonimo di uno sketch del Jerry Lewis Show (1957). La prassi è che ci si accanisce e si sgomita per ottenere un autografo. Il personaggio torna, mescolato alla folla, in Jerry 8¾ (The Patsy, Jerry Lewis, 1964) quando il suo Stanley allo sbaraglio nel firmamento hollywoodiano s’ingegna occasionalmente per travestirsi ad arte e infine accedere dall’ingresso principale alla première di un film. Perché rassegnarsi o accontentarsi di restarsene fuori istupidito dalla calca a leccare un lecca-lecca e vagheggiare autografi? Rupert Pupkin è un lontano parente o erede dei tanti Malcolm (Mister) Smith o Stanley, quando non vivono nell’anonimato. Ed è anche l’anti-Jerry Langford/Lewis. L’ex stalker di celebrità del mondo dello spettacolo, stanco di restare fuori dagli studi, allontanato con le buone o sbattuto con le cattive, si è incattivito a sua volta. Somiglia, sì, alle tante figure di ammiratori recitate in passato dall’attuale Jerry all’apice (simulato) del successo, ma lo percepisce a un tratto come la sua nemesi. Rupert Pupkin è un po’ l’alter ego territoriale non solo di Jerry, visto che dice di provenire dal New Jersey. È anche l’alter ego comico, in quanto sedicente comico di professione, dello sfasato Travis Bickle di Taxi Driver (id., Martin Scorsese, 1976), sedicente tutto, poliziotto, agente segreto, giustiziere, che da improvvisato sostenitore del candidato politico Charles Palantine è pronto a degenerare nel suo killer solitario. Un fantasista e un trasformista. Come Jerry. De Niro l’uno, De Niro l’altro. Petulante l’uno, petulante l’altro. Sicario uno, rapitore l’altro. Armato uno, sul serio, armato l’altro, per finta. Un film di Scorsese l’uno, un film di Scorsese l’altro. E Joker somiglia sia all’uno che all’altro film, come il personaggio sopra le righe somiglia all’uno o all’altro personaggio negletto. Con ogni probabilità anche Rupert è italoamericano, magari non di (cog)nome quanto di fatto, con le sembianze di De Niro e la voce materna fuori campo che appartiene a Catherine Scorsese, la madre vera di Martin. Catherine è stata sempre presente nei film del figlio, fino alla fine. Quindi Rupert, almeno per parte di madre è uno “spaghetti”, si comporta come uno “spaghetti”, calza a pennello a De Niro che di personaggi “spaghetti” se ne intende. Quella di Re per una notte che rimanda a quella di Artisti e modelle è

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dunque la “scena primaria”. Scorsese non ha sentito il bisogno di precipitarsi in sala a vedere Joker, che peraltro avrebbe dovuto originariamente dirigere. Se somiglia ai suoi film, se è un omaggio ai suoi film, a che serve “ri-vederlo”? A lui che li ha già fatti, bastano i suoi film. Allo stesso modo Jerry Lewis, interrotto durante la partita di golf, così come in passato ha interrotto lui il primato sul campo da golf a Dean Martin, può permettersi il lusso di recitare in un film di Martin Scorsese che in accezione lacaniana lo “ri-guarda”5. L’impressione è che Jerry si senta a casa propria, anche mentre allusivamente viene irretito dal televisore domestico che ripropone la celebre scena in tv del furto dalla borsetta di Mano pericolosa (Pickup on South Street, Samuel Fuller, 1953). Non dovendo rispondere della regia, si sente libero di recitare se stesso, comportandosi tanto più come su un suo set. In una scena arriva a dirigersi da solo, per strada alle prese con una vecchia fan lo maledice, guarda caso. E Scorsese lo lascia fare. Questa sovrapposizione di ruoli e compresenza di autori è un ulteriore occasione per rivangare il passato, sottoporsi a una terapia freudiana. Anziché prendersi gioco del lettino della psicanalista come in 3 sul divano (Three on a Coach, Jerry Lewis, 1966) travestendosi e triplicandosi per rimediare a tempo di record al trauma delle storie d’amore fallite delle tre pazienti della moglie, che fa nel 1983? Accetta di trovarsi per un istante, interminabile, nei panni del Rick di Artisti e modelle scalzato da Eugene. Si sottopone, con Scorsese, a rivivere cinematograficamente la spiacevole ed emblematica posizione del Dean Martin di un tempo. Non esita a guardar fisso nello specchio/schermo dello spettacolo di massa, i tanti apparecchi televisivi esposti, dove si materializza sotto mentite spoglie il fantasma del partner per eccellenza della prima metà degli anni Cinquanta, quelli in cui è lui, Jerry, raggiunta la meta prefissata dell’industria cinematografica (e il titolo Hollywood o morte riassume molto bene il concetto), a togliere in continuazione la scena, lo spazio performativo e il campo visivo a Dean. Ed è Dean a essersene reso continuamente conto, in privato, in pubblico, nel film, in ogni film. L’imbarazzo non appartiene alla parte di Dean. Non è recitato, né in Artisti e modelle né altrove, ma reale. Dean in quei frangenti sta decidendo sul daffare. Deve decidersi a farlo anche in fretta. Il tempo stringe. Ma bisogna attendere il 1956 poiché lo scioglimento della coppia sia ufficializzato e interpretato a malincuore davanti agli avventori

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del 500 Club ad Atlantic City. Sono i corsi e i ricorsi dell’autobiografia appaltata talvolta a un biografo, tal altra affrontata da solo o con qualcuno, e per una volta almeno affidata a un altro cineasta di punta. Il dramma di Dean diventa così in Re per una notte quello di Jerry, di fronte all’impeto di Rupert, lo si è detto: fisiologicamente italoamericano come Dean, in un film di un terzo italoamericano, Martin, l’altro Martin: Martin Scorsese. La carriera di Jerry Lewis, inseparabile dalla vita privata, oltretutto “privata” dalla carriera che assorbe tutto il tempo e gli affetti, si sviluppa da un capo all’altro, da un nome a un cognome che a sua volta diventa un nome proprio: tra un Dean e un Martin numero uno, Dean Martin nella fase inaugurale del percorso, e un Martin numero due ugualmente giunto alla sua fase matura, senza contare il “Martino” numero tre, l’imitatore di Jerry in Re per una notte. Per Jerry Lewis - qui, come Langford, una specie d’incredulo e indignato Dean Martin sotto sequestro, come per Martin Scorsese, in vece del metà omonimo Dean Martin - è giunto il momento di fare i conti il successo. Per Jerry Lewis, in particolare, senza la maschera di Langford, che di anni né ha sedici in più del più giovane collega Scorsese, è questione di prenderne coscienza, affrontare i fantasmi, lasciar affiorare dal presente il passato. E con esso lucida la riflessione sui meccanismi dello show-business. Per comprendere il “primo” tempo di Jerry, un tempo di lunga durata, infinito, indivisibile, in tandem con Dean, Dean Martin, serve il suo “secondo” tempo, filtrato dal “secondo” Martin, l’autore di Re per una notte. Quelli di Jerry, Dean e Martin sono insomma tre destini incrociati, segnati da coincidenze significative molto dilazionate. E su cui conviene indagare piuttosto che procedere ad una ricostruzione biografica qualsiasi. In particolare è su Re per una notte, il cui spessore retrospettivo e retroattivo mette in moto una serie di combinazioni sparpagliate lungo le coordinate spazio-temporali, che occorre insistere come osservatorio privilegiato. La prova del nove manca. Ma sarebbe potuta essere un altro film, purtroppo scomparso dall’orizzonte. Cioè il film che Scorsese non riesce più a fare, dopo aver approntato la sceneggiatura su George Gershwin. La Warner Bros gli dice: “Preferiremmo averne una su Dean Martin”. L’idea gli piace e si mette subito al lavoro con lo sceneggiatore Nicholas Pileggi. Il cast previsto, all star, comprende Tom Hanks nei

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panni di Martin, Jim Carrey in quelli di Jerry Lewis. John Travolta sarebbe stato Frank Sinatra, Hugh Grant Peter Lawford e Adam Sandler infine Joey Bishop6. Ma anche il progetto di Martin (Scorsese) su (Dean) Martin, come alternativa a quello su Gershwin, naufraga nel mare delle intenzioni: “Ci hanno ucciso lavorando su quello script”. Il fatto che questioni legali e di sceneggiatura abbiano bloccato il biopic Dino e che Scorsese abbia deciso di dedicarsi piuttosto a Gangs of New York (id., 2002) non cambia la sostanza dell’impressionante combinazione. Inizio e fine, per essere tali devono invertirsi, come i ruoli in commedia, come i nomi e i cognomi, da Dean (Martin) e Jerry a Jerry e Martin (Scorsese). La cronaca dell’inizio e dell’implicita fine annunciata è dunque il tema del presente capitolo. Per individuare tuttavia l’inizio della storia interna, non esterna di Jerry Lewis, o la storia di Dean Martin e Jerry Lewis assieme, fino a un certo punto unitaria e dal quel punto in poi divergente, senza sforzarsi di cercare troppo lontano questa fine, è bene tenere a mente che la presunta fine spesso coincide con l’inizio. Tutto sta a fissare il punto di rottura e di non ritorno. Impresa impossibile dal momento che la fine dei due, o del duo, è la premessa dell’inizio delle due carriere da solisti, ciascuno per proprio conto e in ambiti protetti, mantenendo quello che oggi chiamiamo “distanziamento sociale”. Jerry e Dean l’hanno sperimentato dal 1956. L’inizio della fine Ricapitolando, l’inizio ipoteca dunque la fine e viceversa. E si sposa alla fine, in forma di divorzio annunciato. Quel che più sorprende in questa specie di scioglilingua, in linea con lo spirito di Jerry Lewis, è come l’implicito inizio cinematografico del sodalizio Martin & Lewis non solo inneschi una fine ineluttabile, ma venga addirittura tenuto a battesimo da un insulto, per molti versi fatale. Questo: “Lo spaghetti non è male, ma che ci faccio con la scimmia?”. Lo “spaghetti” sarebbe l’italoamericano Dino Paul Crocetti, in arte Dean Martin. E la “scimmia” naturalmente l’emergente ebreo americano Jerry Lewis, all’anagrafe Joseph Levitch. Nella traduzione italiana della biografia di Dean Martin scritta da Nick Toskes non si dice se originariamente sia stato usato proprio il dispre-

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giativo “spaghetti”7. In un’altra biografia, che è in parte anche un’autobiografia, quella di Jerry Lewis incentrata sul sodalizio artistico e affettivo con Dean Martin, scritta a quattro mani con James Kaplan, un’apposita nota precisa: “Guinea’s nel testo originale, con una pesante valenza razzista”8. Comunque sia, né “spaghetti” né “Guinea’s” suonano come complimenti. Meno che mai “scimmia”. Sicura è solo la persona, oltretutto molto sicura di sé, alla quale è attribuita la battuta: il potentissimo produttore Louis B.[urt] Meyer, convinto di fare un’offerta che Dean Martin non potrebbe rifiutare. Scelta che comporta la cancellazione di Jerry Lewis. Ma le cose vanno come il gran capo dei Metro-Goldyn Meyer Studios ha previsto. La coppia regge all’urto e al tracotante tentativo cinematografico di una separazione, sancita dal vantaggioso contratto riservato al solo “Guinea’s”. Del resto Louis B. Meyer non solo presume di poter tagliare fuori in partenza la “scimmia”, ma mostra poca considerazione anche per lo “spaghetti”, certo di poterlo irreggimentare e comandare a bacchetta. Lo ha già fatto con altri prima di lui, compresa la giovanissima Judy Garland. La triste parabola restituita dalla performance mimetica ai limiti della possessione di Renée Zellweger in Judy (id., Rupert Goold, 2019) e Jerry che il 6 agosto 1956 sembra l’abbia dovuta sostituire d’urgenza in uno show al Frontier Hotel a Las Vegas perché la vera Judy non ce la fa proprio più a cantare9, sommati servono a farsi un’idea, col senno di poi, di cosa il prestante e già celebre crooner debba aspettarsi dal nuovo padrone alla fine degli anni Quaranta. Se accetta di mollare la “scimmia”. Sotto Louis B. Meyer è Dean, non Jerry, già bollato come “scimmia”, che rischia un trattamento da “scimmia”. Ma qui entra in scena quello che ufficialmente è l’artefice della fine: il diretto concorrente di Louis B. Meyer, Harold Brent Wallis, al secolo Hal B. Wallis. Il signor Wallis non ci mette molto a chiudere l’affare, assai più bravo per esserseli aggiudicati entrambi, senza disgiungerli, con una cifra più congrua. La “B.” intermedia che all’apparenza accomuna Louis B. Meyer e Hal B. Wallis, siglando del primo il nome Burt e nel secondo Brent, ha fatto la differenza. Harold Brent Wallis batte Louis Burt Meyer due a zero. E Jerry Lewis e Dean Martin “finiscono”, sotto ogni punto di vista, nella costellazione della Paramount che vanta “più stelle che in cielo”, non foss’altro perché dal signor Wallis apprendono intanto la battutaccia sul loro conto del volitivo signor Meyer.

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Ironia della sorte il turno della “scimmia” arriva comunque. Non tanto nel convenzionale film di lancio, La mia amica Irma (My Friend Irma, George Marshall, 1949), dove Dean Martin e Jerry Lewis vengono per precauzione testati in ruoli importanti ma di contorno. L’appuntamento con la “scimmia” è demandato al sequel, Irma va Hollywood (My Friend Irma Goes West, Hal Walker, 1950), dove Dean e Jerry diventano di necessità centrali. Jerry, in quanto “scimmia”, si vede assegnare sia una scena con gli spaghetti, veri spaghetti, sia una con la scimmia, una vera scimmia. Una scimmia imita l’altra, questa in sintesi l’azione, capovolgendo il principio evolutivo, in una società frenetica, alienante e consumistica, della discendenza dell’uomo dalla scimmia ribadita successivamente in Il circo a tre piste (Three Ring Circus, Joseph Pevney, 1954). È la scimmia che discende dall’uomo, se questo giovane uomo è Jerry. Guai poi a sottovalutare gli “spaghetti”. Combattendo con gli spaghetti che strabordano dal piatto, Jerry si esercita in allusiva chiave parodistica a interagire con il suo partner “spaghetti”, che all’occorrenza esclama pure, in italiano, “Mamma mia!”. E preannunciando l’intero repertorio dell’attore cantante che in Occhio alla palla (The Caddy, 1953) sfocia nell’esecuzione di That’s Amore! Al cospetto della famiglia. Una famiglia allargata, in cui c’è posto per tutti, anche per un ebreo del New Jersey come Jerry che riprende la performance stressante in Morti di paura (Scared Stiff, George Marshall, 1953) con una quantità enorme di “spaghetti” da servire ai tavoli. Troppo per un inserviente che s’improvvisa cameriere. Troppo a sua volta per uno “spaghetti” cantante. Troppo grossa anche la porzione di “spaghetti” durante un pranzo vagamente romantico in Pazzi, pupe e pillole (The Disorderly Orderly, Frank Tashlin, 1964) che a malapena un cameriere che non è Jerry a stento riesce a districare, infastidendo Jerry. Chiusa la parentesi degli/dello “spaghetti”, resta in piedi la faccenda della “scimmia”. Giocando d’anticipo, Irma va a Hollywood propone qualcosa di diverso: Jerry non si limita a prendere in giro l’amico, recitando in uno spot televisivo la parte della “scimmia” che affronta gli/lo “spaghetti”. Fa di più. Si prepara senza indugi a interferire come da copione, un copione che si ripete ogni volta, uno dei tanti numeri canori di routine assegnati a Dean. Lo schema comico che li ha resi celebri pochi

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anni prima qui consente a Jerry, disturbando ovviamente Dean che canta, di spingersi oltre. Non c’entra più quanto è stato concordato e collaudato in pubblico o in televisione. Nella nuova cornice cinematografica, delle cui specificità espressive si sta progressivamente appropriando, Jerry sembra piuttosto scontrarsi frontalmente con gli standard di un film mediamente divertente. Non si può fare a meno di notare l’insofferenza del ribelle. Gli sta talmente stretto l’impianto di questo tipo di film sorretto da una trama ordinaria, prudentemente ancorata a uno spettacolo teatrale di successo, che Jerry non può fare a meno di eccedere la misura. O andare fino in fondo. Cosicché sul treno diretto a Hollywood, così come verso Hollywood si sta orientando il suo ego artistico, è costretto a recitare come/con una “scimmia”. Da “scimmia” sa di avere un’unica occasione di lancio in quel frangente: il gioco di coppia con un suo equivalente, una “scimmia”, o con un suo complementare, uno “spaghetti”. E la coppia asimmetrica “scimmia-spaghetti”, variante di “scimmia-scimmia” funziona, vede aumentare la propria popolarità. Eppure perde qualcosa dell’improvvisazione incontrollata che è abituata a sprigionare dal vivo e recepita dal 1950 in quell’enciclopedia di sketch che è lo show serale The Colgate Comedy Hours, spiegando come mai ad un certo punto la coppia sia scoppiata. È il cinema a farla scoppiare diventando per i due un terreno fisiologico di confronto e scontro. La messa in quadro del loro repertorio, rispetto alla messa in scena, si trasforma in un campo minato. Il campo, ovvero l’inquadratura, ha il timer, gli anni contati. È a tempo determinato. Non è questione di ascoltare una versione piuttosto di un’altra. Jerry Lewis, in prima persona singolare e plurale, secondo la sua propensione all’one-man-show, lascia intendere come siano davvero andate le cose già dal suo punto di vista. È proprio l’amicizia tra i due, che sopravvive a entrambi a consentire a lui soltanto una o più autobiografie in cui una campana, da sola, produce implicitamente il suono dell’altra. Irma va Hollywood fornisce la principale, inconfutabile prova indiziaria e generale di quel che sta bollendo in pentola. Il film del 1950 è l’anticamera, fotogramma per fotogramma, della sera decisiva del 24 luglio 1956. E il commovente “martedì nero” rievocato dal “pardner” più longevo della coppia nel bellissimo Prologo di Dean & Me innesca con

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perfetto senso cinematografico il lungo flashback auto-analitico: “La gran parte del mondo là fuori non aveva alcuna idea della voragine che si era creata tra di noi, e noi continuavamo a fare soldi come la Zecca di Stato. Ma era inevitabile: il tempo aveva fatto il suo corso. Nel più tranquillo e pratico dei modi, Dean e io decidemmo di uscire allo scoperto. La notte di martedì 24 luglio del 1956 - a dieci anni dalla nostra prima apparizione insieme al 500 Club di Skinny D’Amato ad Atlantic City - ci esibimmo nei nostri ultimi tre spettacoli, al Copacabana, sulla Sessantesima Est a Manhattan. La serata acquisì in fretta l’imponenza di un grande evento. Del resto, in quell’ultimo decennio, Martin e Lewis avevano incantato l’America e il mondo. Eravamo stati amati, idolatrati, contesi. E adesso stavamo rompendo l’idillio. La lista delle celebrità invitate a questa serata delle serate non faceva che crescere. A circa mezz’ora dall’inizio dello show Dean e io non avevamo molto da dirci. Sarebbe stata una nottataccia, ma sapevamo entrambi che non potevamo permetterci di essere sciatti o poco professionali. Per cui avevamo in mente di divertirci, se possibile, e di fare il miglior spettacolo che ci riuscisse”.10 Si noti come i tempi della messa in scena e in campo, della scrittura, ascrivibili a Jerry Lewis che li padroneggia completamente, siano ineccepibili. Inizia da questo punto il conto alla rovescia: “Verso le 19.35 attraversai il corridoio diretto alla suite del mio partner solo per dirgli che mi serviva del ghiaccio. Dean aveva sempre del ghiaccio. Andai verso il bar e me ne versai un po’ nel bicchiere. Lui mi guardò consapevole: provava quello che provavo io e non c’era granché da spiegare. Arrivai fino alla porta e quindi gracchiai: ‘Buono spettacolo, Paul’ (Paul era il suo secondo nome, e io lo chiamavo sempre così). E lui: ‘Anche a te, ragazzo’. Uscii in corridoio e pensai che mi si sarebbe spezzato il cuore. Stavo perdendo il mio migliore amico e non sapevo perché. E anche se lo avessi saputo, che differenza avrebbe fatto? Col senno di poi penso che visto

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che doveva accadere, quantomeno accadde in fretta. Mariti e mogli ci mettono anni a separarsi, o rimangono insieme per le ragioni sbagliate. Dean e io sapevamo che dovevamo riappropriarci delle nostre vite, e che lavorare insieme non funzionava più. Per quanto suoni sentimentale, avevamo goduto entrambi della benedizione di Dio ma alla fine anche Lui aveva detto: ‘Basta!’. Credo che entrambi fossimo quasi del tutto consapevoli di quanto stava succedendo. È solo che avevamo paura, e non volevamo che si sapesse. Paura di dove saremmo andati e di che cosa avremmo fatto”.11 Fondamentale parentesi introspettiva: “C’eravamo abituati al nostro favoloso stile di vita. Avrebbero continuato a chiederci autografi? Saremmo riusciti a fare qualcosa l’uno senza l’altro? Saremmo stati accettati nel momento in cui fossimo diventati diversi da quello che eravamo? Dean aveva quel suo modo sorprendente di far sembrare anche le cose peggiori non così brutte. Non è che negasse la realtà, è solo che a lui non sudavano mai le mani. Comunque si mettessero le cose, Dean riusciva a far sembrare che tutto stesse andando esattamente come aveva previsto. E invece bastava un’occhiata alla mia faccia per leggerci tutto: disperazione, gioia, felicità, dolore. Mio padre mi chiamava ‘Signor Neon’. E aveva ragione. Lasciavo sempre che gli altri capissero che cosa provavo. Se avessi fatto diversamente mi sarei sentito un bugiardo. Per quanto dolorosa, la verità è sempre stata per me la più grande alleata e l’unica via percorribile. Dean riusciva a mentire per non ferire gli altri. A me risultava molto difficile farlo”.12 Chiusa parentesi. Gran finale di partita: “Beh, comunque ci sentissimo, il mio socio e io avevamo ancora i nostri ultimi tre show da fare al Copa, ed era arrivato il momento di affrontarli. Io entravo in scena sempre prima di Dean, facevo il mio numero e lo presentavo. Lui nel frattempo se ne stava al piano di sopra del Copa ad accogliere la gente e a fare il simpatico mentre io ero sul palco a prepa-

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rare il pubblico al suo ingresso. Ma quella notte, quando arrivò per me il momento di dire: ed ecco il mio socio, Dean Martin, le parole mi si bloccarono in gola. L’aria era satura dell’intensità del momento: il pubblico, costellato di celebrità, sapeva che quella sarebbe stata l’ultima notte in cui avrei pronunciato quelle parole e probabilmente sperava che all’ultimo minuto ci ripensassimo. C’era un’atmosfera di inquietudine e incertezza. Io stesso non sapevo se le potenti vibrazioni dentro il Copa[Cabana] fossero buone o cattive. Bisognava fare questo primo spettacolo per scoprirlo. E così Dean venne fuori, come faceva sempre: apparentemente tranquillo, con l’aria rilassata. Ma io conoscevo il mio socio. I suoi occhi mi dicevano che provava lo stesso dolore e la stessa perplessità che provavo io. Ci stringemmo la mano come facevamo sempre, anche se questa volta si sentì un mormorio attraversare la sala. ‘Forse c’è una possibilità?’. Il mormorio vibrò nell’intero edificio. Dean fece le sue tre canzoni senza grandi colpi di scena, più o meno come le faceva sempre, e dopo io iniziai con la solita routine. ‘È bello che tu abbia ridotto a undici le tue canzoni. Stavo per andare a rifarmi la doccia! Fuori non c’è scritto Dean Martin, punto, c’è scritto Dean Martin e Jerry Lewis! Te lo sei scordato, o hai paura di restare disoccupato?. Erano le solite battute di sempre, ma quella notte ogni frase pesava più del solito. Andammo avanti, sapendo che presto sarebbe finita. Ancora due spettacoli, e poi basta. Procedemmo sparati e arrivammo all’ultima canzone dello spettacolo, Pardners. You and me, we’ll always be pardners You and me, we’ll always be friends Ora, cantare quella canzone poteva essere un errore perché, una volta cantata, avrebbe tolto ogni dubbio al pubblico: era finita, e loro erano lì che guardavano l’ultimo numero prima della fine. Terminammo la canzone e l’applauso fu assordante. Finimmo il secondo spettacolo, e il terzo cominciava alle due e trenta in punto. Dean e io lo sapevamo: Ci siamo! L’ultima volta, mai più, è finita. Era come sentirsi strozzare senza che nessuno ti stringa la gola. Ma eccoci. Sono le due e venticinque e Dean è in piedi al suo posto in fondo

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alle scale, a destra del palcoscenico. Anche io sono in piedi in fondo alle scale, a sinistra del palcoscenico. Le Copa Girls ci passano vicino mentre finiscono il numero di apertura e anche loro hanno le lacrime agli occhi. Invece di correre ai loro camerini, se ne stanno a guardare in piedi lungo le scale, sui due lati del palcoscenico. Avevano sentito tutti la campana a morto e volevano esserci. E noi andammo avanti e uccidemmo tutti, compresi noi stessi. Eravamo crollati entrambi prima ancora di arrivare a Pardners e non la cantammo neanche così bene, ma la cantammo comunque, e nell’alzarsi per celebrare tutto ciò che avevamo fatto, il pubblico sapeva che era finita. Ci furono urla, lacrime, applausi. Sembrava la notte di Capodanno, anche se era ancora luglio. Dean e io ci dirigemmo verso l’ascensore, allontanando quelli che si avvicinavano. Quando le porte si chiusero, ci abbracciammo, lasciando che la diga cedesse. Arrivammo al nostro piano, e grazie a Dio non c’era nessuno in giro. Andammo nelle nostre suite e chiudemmo le porte. Presi il telefono e chiamai Dean. ‘Ehi, amico’, disse. ‘Come va?’. ‘Ancora non lo so. C’è una cosa che voglio dirti: insieme ce la siamo spassata, no, Paul?’. ‘Continueremo a spassarcela’. ‘Già, beh, stammi bene’. ‘Anche tu, pardner [corsivo nostro]’. Riagganciammo e chiudemmo il libro di quei dieci anni grandiosi, tolti gli ultimi dieci mesi. Quelli erano stati tremendi. Dieci mesi di sofferenza e rabbia, incertezza e dolore. Adesso era tempo di rimettere insieme i pezzi. Non sarebbe stato facile...”13 No, non è (stato) “facile” per i due separarsi. Neppure restare uniti è (stata) però una passeggiata. Tanto vale separarsi, si sono detti i due, a un certo punto. Ma “alla fine”, bisogna proprio dire, ce l’hanno fatta14. Si sono separati e dopo una fase di fisiologico assestamento, lungo sentieri dorati diversificati, Jerry e Dean tornano alla ribalta, ciascuno per sé e lo “spettacolo che deve continuare” per tutti. Ma è poi vero che la linea di demarcazione che assicura a entrambi uno spazio vitale e professionale

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autonomo è (stata) così rigida? Se Dean Martin, scartata la prosecuzione del modello di coppia, accetta quella del gruppo, cinque star al posto di due (il Rat Pack guidato da Frank Sinatra, con Sammy Davis jr., Peter Lawford e Joey Bishop), è altresì evidente che Jerry Lewis, il quale spesso si esibisce sugli stessi palcoscenici di Las Vegas calcati dal team di Sinatra, non rinuncia a uno di loro. Non si rivolge più all’italoamericano con cui ha fatto già molta strada, ma all’afroamericano Sammy Davis jr. che non solo firma la canzone The Disorderly Orderly omonimo, nell’originale, Pazzi, pupe e pillole, ma addirittura interpreta e in pratica sostituisce completamente il Lewis attore comico scatenato in Controfigura per un delitto (One More Time, Jerry Lewis, 1970). La distanza fisiologica di Jerry Lewis da Dean Martin viene relativamente colmata sul campo e in campo da Sammy Davis jr., attraverso il canale Frank Sinatra che al momento opportuno, vent’anni dopo, proprio come recita il titolo italiano alternativo di Teste dure/Vent’anni dopo (Block-Heads, John G.[ilman] Blystone, 1938) della coppia Laurel & Hardy, si impegna a fare incontrare, come ai vecchi tempi, tempi irrimediabilmente alle spalle, gli anziani Martin & Lewis finalmente “teste dure” alla pari. A Las Vegas, ovviamente. Sul palco del Sahara Hotel durante la conduzione dell’edizione del 1976 del Telethon avviene la storica reunion patrocinata da Sinatra. È una sorpresa, per quel che di sorprendente è possibile che ancora vi sia nello show business. Un cenno degli occhi. Un assenso reciproco. Un sorriso. Un abbraccio coperto dagli applausi. Non necessariamente in quest’ordine per chi l’ha vissuta dall’interno. Le telecamere non riescono a restituire l’esatta sequenza degli istanti, delle emozioni e delle espressioni. Offrono solo l’apparenza15. Serve adesso un secondo passo indietro rispetto al 1976. Esaminando attentamente l’intenso assolo conclusivo del 1956, si scopre in realtà di assistere all’ennesima replica. Per accorgersene conviene appunto fare l’ulteriore passo indietro di cui sopra. Indietro di altri sei anni. Succede tutto nel 1950, bruscamente, in Irma va a Hollywood. Si potrebbe dire, mutando semplicemente il complemento di moto a luogo in complemento di stato in luogo, che succede tutto “a Hollywood”. Un conto è far ridere stravolgendo l’impianto istituzionale del brano cantato, quindi del musical classico dell’epoca, un altro è rubare in concreto la scena. Jerry non solo impazza con effetto immediato, e retroattivo, in scene sempre più

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sue, da solo, ma dilaga in quelle del compagno. E se ne appropria ribadendo che deve essere lui l’unico al centro dell’attenzione. Monopolizza la scena, si ritaglia su misura il campo, impartisce ordini e dirige. Addirittura dall’interno. See more In Irma va a Hollywood, senza aspettare, Jerry non è già più la versione secondaria e speculare della tonta Irma (Marie Wilson), ma è più Irma della stessa Irma, a suo agio nella cornice hollywoodiana e nelle inquadrature. È il definitivo sé medesimo spinto all’estrema potenza. Non si considera né si comporta da semplice “direttore d’orchestra”, metaforicamente parlando. Pretende di condurla davvero, un’orchestra, siglando il proprio debutto in quella che può essere considerata a tutti gli effetti la prima inequivocabile dichiarazione di protagonismo assoluto, senza comprimari: nasce così, con dieci anni di anticipo, il “film-maker totale”. Questo “diritto d’autore” ante litteram Jerry Lewis lo acquisisce e lo rivendica nel ruolo di Seymour. Un nome che significa anche per assonanza “see more”. Assume senza indugi lui la conduzione salda, esilarante e assurda dell’orchestra. Di conseguenza gli orchestrali non seguono più Steve, cioè Dean Martin, ma Jerry Lewis che in quanto Seymour o “see more” ha il potere di “vedere di più”. Vede oltre il presente, dritto negli occhi il futuro prossimo venturo: Seymour (togliendo di mano la bacchetta all’effettivo direttore): Questa la prendo io. Steve: Che vuoi fare? Seymour: Dirigere l’orchestra. Steve: Sai come si dirige un’orchestra? Seymour: Se so come si dirige un’orchestra? Gli ho appena tolto la bacchetta! Sto per cominciare e hai il coraggio di chiedermi se ne sono davvero capace? (ride sonoramente) Steve: Sì o no? Seymour: No. Steve: Andiamo!

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Seymour: In alto gli ottoni (inizia effettivamente a dirigere, ma non appena Steve sta per iniziare, Seymour si volta verso il pubblico platealmente in cerca di consenso, smettendo solo appena incrocia lo sguardo dell’amico). Steve (contrariato): Cosa stai facendo? (riprende, anzi comincia davvero a cantare, a fronte della reazione dispiaciuta di Seymour). ‘Sono un vagabondo sulla strada della vita …’ (si volta distratto dalla strana mimica di Seymour, che colto di sorpresa di blocca all’istante e fa a pezzi mortificato la bacchetta) ‘… e affronto il mondo con una canzone e un sorriso’. Seymour (incurante dell’esecuzione in corso, con una nuova bacchetta si rivolge a un orchestrale): Tu! Fuori! Che fai? Dirigo io l’orchestra? Steve (indispettito dalla nuova interruzione, lo afferra per la giacca all’altezza della spalla): Che stai facendo? Seymour: Ma perché ti preoccupi? (gli passa la bacchetta tra i capelli) Che forfora! Steve (strattonandoloancora): Che fai con l’orchestra? Seymour (indispettito a sua volta): Tu pensa a cantare, a loro ci penso io. Devono obbedire a me, ce l’ho io la ‘barchetta’! Steve: La ‘barchetta’? Seymour: La bacchetta! (alterando in modo serioso la voce) Sono spiritoso, io! Steve (riprendendo a cantare): ‘I vecchi tormenti mi lascio alle spalle …’. Seymour (incurante della canzone, che interrompe nuovamente, torna a rimproverare un orchestrale): Ma che fai? Perché non segui gli altri? (provocando trambusto) Qui comando io! Steve (tentando di proseguire comunque): ‘La felicità mi accompagna …’. Seymour (che non riesce a contenere il coro di proteste chiassose degli orchestrali offesi, i quali hanno smesso di suonare): Comando io! Steve (incurante di quel che sta accadendo alle sue spalle): ‘Vedrai che il lungo cammino della vita è faticoso’. Seymour (che intanto gli si è avvicinato seccato): Che stai facendo? Steve (basito): Sto cantando! Seymour: Non senti che fracasso sta facendo l’orchestra?

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Steve: Non sento niente! Seymour (alzando la voce): Non vogliono starmi a sentire! (al colmo dell’irritazione). Vi prendo a bacchettate! (voltando le spalle a Steve) Steve (afferrandolo daccapo per la giacca): Ehi! Seymour (indispettito, spalancando la bocca irridente): Non ci credi, eh? Steve (afferrandolo per la bocca, lo sospinge con forza al lato): Siamo in televisione, Seymour. Facciamo le cose per bene. (Riprende a cantare) ‘Non appartengo a quella grande schiera di quelli con ansie di viaggio. E sebbene non sia religioso e saggio, ecco la mia unica preghiera’. Steve (dopo aver compiuto gesti eccessivi nella direzione apparentemente normale dell’orchestra, si volta verso Steve interrompendolo di conseguenza): Mi sono rotto il braccio, Steve, tutto il braccio. L’osso è andato. Tutto il braccio è … (osserva la reazione di Steve e si tace con smorfie infantili e scimmiesche per riprendere a dirigere, senza troppa convinzione) Steve (tornando alla sventurata canzone, mentre Seymour lo costringe a ripetere i versi imponendo agli orchestrali suoni che stridono con la melodia): ‘La vita non è … La vita non è … La vita non è fatta di futili piaceri. Quelli sono facili da trovare. Ma io non riesco a trovare …’ (ancora un suono diversamente stridente dell’orchestra richiesto da Steve). Seymour (interrompendo per l’ennesima volta): È lì in mezzo, guarda! Steve (colpendolo bruscamente al braccio, nel vano tentativo di proseguire): ‘Ma io non riesco a trovare i grandi piaceri della vita nella mia mente tranquilla’. Seymour (indispettito con l’amico, mentre continua a dare indicazioni all’orchestra completamente disarticolate): Bravissimo! Steve: ‘Dammi la strada …’. Seymour (agli orchestrali): Solo un po’ più forte, Così ci siamo. (Urlamentre Steve si volta spazientito verso di lui a causa del trambusto insopportabile che sta scatenando). Non rimarrò qui con voi che mi sopportate a fatica. Steve (trattenendosi educato): Dove hai trovato questa banda? Seymour: Non urlare alla banda. Sono io che li dirigo. Sono io il direttore, ma non urlare. Questa è una banda sindacale. Steve: Non mi interessa niente di te e della tua banda. Orchestrali (in coro): Oooh!

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Seymour: Vedi come li fai arrabbiare? Dovresti chiedere scusa. Steve: Non lo farò. Seymour: Ti avverto. Steve: No. Seymour (agli orchestrali): Andiamocene. (Si alzano tutti per andarsene) Steve: Aspetta! Scusate, scusate. Seymour: Va bene. C’è solo un piccolo errore … Steve: Un piccolo errore? Seymour: Sì, e dovresti solo ignorarlo. Steve: Ignorare un errore? Seymour: Certo. Steve: Ma sei fuori di testa? Seymour: Sono normale quanto te e chiunque altro. (Simulando una voce più impostata) Vattene. Oh, no, non mi rivorranno indietro. Ho le granate. (Simulando con i gesti un’azione bellica) Li faccio fuori tutti. Faccio rapporto, signore? Mi piacerebbe provare. (Inizia marciare, moltiplicando smorfie, sbracciandosi, agitando la bacchetta e simulandone l’uso come mazza da golf, fino a ritrovarsi in ginocchio al cospetto di Steve). Steve (con le braccia conserte): Dammi la nota. Seymour: D’accordo. (A un orchestrale) Dagli una nota. Perfetto. Canta. Steve: ‘Dammi la strada, le tortuose autostrade più conosciute. Fammi conoscere le strade meno battute. E io viaggerò cantando una canzone da vagabondo. Dammi i fiori e gli uccelli al mattino. Fammi vedere l’alba e il tramonto. E io viaggerò cantando una canzone da vagabondo. Tu puoi essere felice con le tue mode e le tue passioni. Con le tue fiere particine. Ma non mi abbindolerai con le tue sciocchezze e i tuoi gioielli. Posso solo dire. Dammi le stelle …’. Seymour (indossando all’improvviso cappello e bastone da charleston si unisce a Steve): ‘Dammi la strada, le tortuose autostrade più conosciute. È lì che …’. (Spicca un salto e cade perdendo il cappello) Steve (riprendendo): ‘Girerò il mondo cantando una canzone da vagabondo’ (Seymour al termine del brano si unisce a Steve, tenendogli il braccio, per raccogliere gli applausi comportandosi come la vera star dello spettacolo).

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Il Seymour lewisiano sta davvero prefigurando l’avvenire comico che lo riguarda. E lo fa spezzando il filo del discorso canoro con le continue intromissioni, esigendo con esuberanza maniacale l’obbedienza degli orchestrali alla sua direzione ‘totale’, presentandosi infine per ricevere il caloroso riconoscimento frontale del pubblico, a discapito del cantante Steve, socio non più sullo stesso piano (cinematografico). Precorrere i tempi vuol dire aver visto giusto, di più (‘see more’, appunto), lontano. Lontano dal presente e dal film contingente. L’occasione di Irma va a Hollywood è propizia, irrinunciabile, profetica. Irma, cioè Jerry, a Hollywood non solo ci va ma intende restarci, in posizione predominante. Il complemento di moto a luogo, come si diceva, punta allo stato in luogo. Quattro anni più tardi, ne Il nipote picchiatello (You’re Never Too Young, Norman Taurog, 1954), la situazione si ripete, Jerry si ripete rincarando la dose. Cambiano solo i nomi dei personaggi. Dean è ora l’insegnante del collegio femminile Bob Miles. E Jerry l’improponibile ‘nipote’ undicenne Wilbur Hoolick (Wilbert, chissà perché, nell’edizione italiana) della ragazza di Bob, insegnante anche lei. Per sfuggire al malvivente intenzionato a recuperare un prezioso diamante rubato, Wilbur finisce sul palcoscenico sui cui Bob si appresta a cantare e dirigere il coro scolastico. Sempre che gli sia concesso: Bob: Ma cosa vuoi? Wilbur: Voglio star qui. Bob: Qui non ci puoi stare. Wilbur: Ma tu ci stai Bob: Ma io dirigo. Wilbur: E chi dirige può restar qui? Bob: È così. Wilbur: Allora dirigo io. Bob: Tu non puoi dirigere. Wilbur: Voglio dirigere! Bob: No! Ragazza: Lasciate che diriga! Pubblico (in coro): Lasciate che diriga! Bob: (fingendosi educato per ragioni di circostanza) A richiesta generale ascolterete la società corale diretta da Wilbur Hoolick. (stizzito) Auguri!

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Wilbur: No, no, resti signor Miles. Potrà darmi una mano. Se Irma va a Hollywood e Il nipote picchiatello offrono una scena quasi identica è perché sono molto in tono con lo stato di frizione della coppia, ne monitorano in due momenti diversi il decorso. La richiesta di lasciar dirigere Jerry giunge la seconda volta come un giro di vite: addirittura è a furor di popolo che Bob/Dean, per sua stessa ammissione, si prepara a essere diretto, malvolentieri, da Wilbur/Jerry. Galeotto è (stato) per loro il cinema. E la colpa va imputata all’artefice di questo ingresso nel mondo del cinema, Hal B. Wallis, il produttore che ha prodotto innanzitutto la rottura: “Come ho detto il nostro produttore aveva alle spalle una lunga e notevole carriera nel cinema. Aveva iniziato (non vi sto prendendo in giro) nel 1927 come addetto stampa de II cantante di Jazz (The Jazz Singer, Alan Crosland, 1927), il primo film parlato. Aveva fatto tutta una serie di grandi film drammatici – Casablanca (id., Michael Curtiz, 1943), Il sergente York (Sergeant York, Howard Hawks, 1941), lo sono un evaso (I Am a Fugitive from a Chain Gang, Mervyn LeRoy, 1932) - come produttore capo alla Warner e, dopo essersi messo in proprio come produttore indipendente per la Paramount, aveva scoperto e scritturato Kirk Douglas, Burt Lancaster, Anna Magnani e Charlton Heston. E poi Martin e Lewis. Ma il problema di Hal Wallis era che seppur bravo con i film drammatici, quando si trattava di film comici aveva il senso dell’umorismo di un blocco di marmo. E glielo dissi pure. Mi rispose: ‘Stammi a sentire, ragazzino, faccio film da quarant’anni?’. E io: ‘Potresti averli fatti sempre sbagliati!’. Non gli andava a genio nessun artista che metteva in discussione la sua idea di film, e io la misi in discussione eccome. Non gli davo tregua. Andavo nel suo ufficio sei volte al giorno per fargli domande sulla sceneggiatura. Inutile dirlo, la cosa non gli piaceva. Il suo atteggiamento era questo: mettete Dean e Jerry davanti alle telecamere e girate abbastanza da farci un lungo- metraggio. ‘Tutti i film di Martin e Lewis incassano parecchio’, diceva sempre. ‘Per cui che importa come vengono girati?’.”16 Accanto a uno come Jerry è evidente che Dean potrebbe acconten-

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tarsi solo di un secondo posto, a meno di non separarsi e fare altro. Dean non è insostituibile, sebbene Jerry “guardando oltre” non sia riuscito in seguito a trovare più un altro partner all’altezza. A parti invertite ne Il cantante matto (The Stooge, Norman Taurog, 1951) il problema sembra essere non suo, ma di Dean. Irma va a Hollywood si snoda come un rito di iniziazione, al successo. Il nomen omen del personaggio Jerry, in cerca d’autore, cioè di se stesso, è sinonimo di allargamento della prospettiva, superamento dello schema della coppia, la cui armonia e simmetria sono ormai insostenibili. A Jerry Lewis, con evidente cognizione di causa nella prova già matura di Irma va a Hollywood, serve soltanto tempo. Poco tempo. Quello necessario per assumere il pieno controllo del film, lontano da compromessi con la commedia o con il film comico in stile post-bellico e in voga negli anni Cinquanta, almeno così come lo intende Wallis che di comicità però capisce poco o niente. Come abbiano potuto Jerry e Dean separarsi, al culmine del successo, dopo i contemporanei Mezzogiorno di… fifa (Pardners, Norman Taurog, 1956) e Hollywood o morte? La risposta, o la “cifra nel tappeto”, sta in ogni loro emblematico film, spie di un destino segnato, dal principio. Un destino per giunta simulato, come appunto ne Il cantante matto che comincia con Bill, cioè Dean Martin, sicuro di aver fatto bene a separarsi dal pregresso partner, ma ignaro che il nuovo rimpiazzo – ironia della sorte - è Ted, Jerry Lewis, sua insospettabile e imprevista unica chance di sopravvivenza sulla scena. Ha ragione quindi Jerry a dire che la fine della coppia Martin & Lewis coincide con la migliore offerta, di Hal B. Wallis anziché di Louis B. Meyer. L’offerta inevitabile del cinema nel loro percorso professionale ne sigla l’esaurimento. Costituisce una svolta, un’opportunità unica, ma anche il punto di non ritorno. Jerry racconta con affetto e riconoscenza volentieri la storia dell’amicizia, ma tra le righe, nel solco sottile di ogni affermazione e implicita contraddizione che l’autobiografico e sintomatico Dean & Me si lascia sfuggire, è contenuto il fantasma costante della separazione. L’indizio rivelatore, presente ovunque, genera una catena. E la catena indiziaria è il sintomo prolungato della sincerità di Jerry Lewis che può permettersi di parlare a pieno titolo della coppia e per conto della coppia: “Chiaramente così non andavamo da nessuna parte, soprattutto Dean.

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Ma Dean si comportava con Wallis più o meno come Wallis si comportava con noi: non gli faceva mai capire cosa pensasse veramente. Credo che Wallis lo considerasse un idiota. Un idiota che non faceva altro che giocare a golf. E fu proprio quello il suo sbaglio. In pratica ero io a preoccuparmi di tutto ciò che riguardava i film. Dean giocava a golf. Questi erano gli accordi. Così voleva Dean. Amava il golf, letteralmente. Amava quel gioco più delle donne - ed era pazzo per le donne - e molto più dell’alcol. Nel frattempo io mi innamoravo sempre più di ogni aspetto dell’industria cinematografica. E così mi interessavo sempre più alla produzione. Eppure, mentre una parte di Dean voleva che fosse così, c’era un’altra parte di lui, fomentata da tutta quella gente che gli ronzava intorno man mano che diventava più famoso, gente che io chiamavo ‘malelingue’, che iniziò a sentirsi messa in secondo piano. Quello che vi starete chiedendo adesso è: io andai da Wallis a chiedere per Dean un ruolo più importante nei nostri film? Ogni tanto lo feci. Il mio primo pensiero però era la coppia, e il nostro numero: Dean e Jerry avrebbero funzionato sul grande schermo tanto quanto funzionavano sul palco? Se Dean funzionava meno, allora funzionavamo meno entrambi. Ma... stavo diventando egocentrico? Ero affascinato, innamorato, rapito da tutte le cose che stavo imparando sul cinema? Ero attratto dalle illimitate possibilità comiche per il personaggio di Jerry sullo schermo? Sì, sì, e ancora sì. Accadde tutto silenziosamente, come quando un giorno ci vedi perfettamente e la settimana dopo hai bisogno degli occhiali: stavo sviluppando una certa miopia nei confronti di Dean. E visto che il mio partner temeva e odiava ogni sorta di chiarimento, non me lo faceva notare. Non ancora. Ma altri iniziarono a dirgli di farlo. Per tutta la sua vita Dean fu una persona abbastanza solitaria. Non si univa ai gruppi o alle folle. Ma era talmente magnetico da essere sempre circondato da persone che volevano stargli vicino, stare dalla sua parte. Era Dean Martin, Cristo santo! La gente nei bar, nei casinò, nei circoli di golf passava un sacco di tempo in quei posti, lo avvicinava per dirgli quanto fosse bravo. Lui da solo [corsivo nostro]. Poi, credo che Dean iniziasse a sentire di essere pronto per mettersi alla prova come attore. Ma nel frattempo vedeva tutte quelle recensioni

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che lo stroncavano oppure lo ignoravano. E non facevano altro che parlare di Jerry, Jerry, Jerry. E le malelingue continuavano a parlare...”.17 Per comprendere l’essenza del Jerry Lewis “maturo”, completamente egemone della propria arte senza tappe propedeutiche - un’arte di colpo commisurata alle esigenze plastiche e geometriche dello schermo - ci vuole un po’ di filosofia antica. Ci vogliono i primordi del pensiero logico occidentale. Ci vuole Zenone. Con l’ausilio del primo dei suoi paradossi si dimostra quanto vano sia stabilire l’esatto momento della “maturità” nell’inarrestabile carriera di Jerry. Una “maturità” positiva per Jerry, conveniente per Dean, negativa per Dean & Jerry. Zenone a Hollywood Esiste davvero un inizio? La soluzione al problema la fornisce la ‘dicotomia’. Che è il primo dei ragionamenti di cui il filosofo eleatico si è servito a sostegno dell’‘inesistenza del movimento per il fatto che l’oggetto spostato deve giungere alla metà prima al termine finale’18. La filmografia lewisiana convalida questo modello paradossale. Nell’orizzonte del Jerry Lewis cinematografico mancano infatti sia un punto partenza che uno di arrivo. Accade di frequente che il protagonista annulli distanze temporali e spaziali, anche siderali come in Un marziano sulla Terra (Visit to a Small Planet, Norman Taurog, 1959), spostandosi all’istante da un luogo all’altro o scomparendo vestito in un modo per ricomparire immediatamente dopo vestito in un altro. E il perché Jerry non parta e non arrivi, conscio com’è della sua arte da sempre, scaturisce dall’impossibilità di individuare un qualsiasi traguardo conclamato senza dover riconoscere traguardi intermedi. Un esempio per tutti di traguardo, condiviso a larga maggioranza, è Le folli notti del dottor Jerryll (The Nutty Professor, Jerry Lewis, 1963). Ebbene, dividendo per due i quattordici anni che separano questo film da La mia mica Irma arriva la prima conferma. A sette anni di distanza da La mia amica Irma un blocco di tre film concentra al proprio interno capovolgimenti precognitivi, destini incrociati e coincidenze significative. Sono Il circo a tre piste, Il nipote picchia-

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tello e Artisti e modelle. Preferirne uno all’altro non ha senso. Lo sfortunato esito de Il circo a tre piste non toglie, ad esempio, che sia stato lungimirante nell’aver traghettato il personaggio dal registro comico a quello drammatico. L’incipit è in linea con i soliti film di ambiente militare della coppia Martin & Lewis, simili a loro volta a quelli della coppia Abbott & Costello. Ma è una partenza che prepara il terreno commovente della seconda parte. Qui Jerry sposa senza indugi la causa del clown triste incline alle lacrime, e con il brano Hey, Punchinello l’evoluzione del “picchiatello” altrimenti a uso e consumo seriale del box office è completa. Tra un segnale e l’altro la pulsione divisiva culmina nella scena dello spettacolo di beneficenza, voluto non dal personaggio di Dean ma da quello di Jerry, il clown ostinato. Il circo a tre piste introduce aspetti imprescindibili del percorso del solo Jerry: l’allegria incontenibile, tragicomica e terapeutica rende improrogabile l’appuntamento con ruoli che lasciano dapprincipio sbalorditi i fan. Senza alcun complesso di inferiorità verso Al Jolson o Danny Thomas, protagonisti rispettivamente dello storico Il cantante di Jazz (The Jazz Singer, Alan Crosland, 1927) e del remake The Jazz Singer (Michael Curtiz, 1952), Jerry Lewis adatta la trama originale al proprio repertorio di entertainer completo, alternando sketch e canzoni, mimica e voce, corpo e spirito, goffaggine e aggressività, solitudine e bisogno di compagnia, fino al bagno di folla, in un ulteriore remake, questa volta per la tv. Il risultato, di rara austerità stilistica e narrativa è un nuovo The Jazz Singer (Ralph Nelson, 1959), che suona implicitamente anche come una sfida rivolta a Hal B. Wallis, il quale aveva cominciato la sua carriera occupandosi dell’ufficio stampa proprio del prototipo, il primo film sonoro hollywoodiano nato della commedia di Sam Miles Raphaelson scritta su misura per Al Jolson. Lo strappo de Il circo a tre piste è fondamentale per capire il ricorso alla comune matrice ebraico-americana che dall’originale teatrale e cinematografico slitta in televisione: The Jazz Singer versione Jerry Lewis spiana poi la strada alla meno irridente, tanto più indicativa delle maschere parentali indossate da Jerry ne I sette magnifici Jerry (The Family Jewels, Jerry Lewis, 1965). Il circo a tre piste innesca da un lato una reazione a catena, dall’altro partecipa di quel sistema di vasi comunicanti che in Jerry Lewis veicola energia diffusa, copiosa e incontrollata. Il primo paradosso di Zenone è dunque la chiave di volta di un universo

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che soltanto all’esterno si manifesta in perpetuo, frenetico, divenire. Il movimento che conduce il comico a specchiarsi nel suo contrario, portando allo scoperto il pirandelliano “sentimento del contrario”, è arte pura, apparenza, spettacolo. Ciò che trascorre, appare e poi scompare dalla superficie filmica, è in sé un’immagine fissa, inamovibile, persistente del clown. Quel clown inaspettato che di colpo acquista una fisionomia riproducibile ne Il circo a tre piste, incubato sin dal primo impegno assunto nel 1951 per la Muscolar Dystrophy Association, accelera anche la dissoluzione della coppia Martin & Lewis e fa da battistrada dal 1966 alle numerose edizioni del Telethon ideate e condotte da Jerry Lewis. In più prelude al film più ambizioso della sua carriera, non per niente invisibile e incompiuto: The Day the Clown Cried (Jerry Lewis, 1972). L’avvilita figura di Helmut, clown allo specchio sotto il nazismo, dall’aspetto spento, la barba spesso incolta, fisiologicamente crepuscolare è davvero un “professional idiot”? Quest’accusa contiene una verità nobile che porta il protagonista nel campo di concentramento a indossare un pigiama a righe con il triangolo rosso e a esibirsi a proprio rischio e pericolo per un gruppo di bambini con la stella di David. Senza Il circo a tre piste l’intero mondo di Jerry Lewis non sta in piedi. Senza Il circo a tre piste non esisterebbe il testamentario The Day the Clown Cried, film che peraltro materialmente non esiste, se non in condizioni di mero documento poetico, parziale, di struggente valenza antesignana. Senza Il circo a tre piste, cioè senza il clown di mezzo, ovvero l’ossessione per l’icona del clown che occupa ogni tappa situata a metà strada tra l’origine e il provvisorio traguardo, Jerry e Dean sarebbero persino potuti rimanere uniti. Una cosa è certa. L’apprezzamento per qualunque prova d’autore di Jerry Lewis, anche per interposto regista, non può riflettere scelte o gusti personali. Esige uno sguardo globale. Nel puzzle scompaginato del picchiatello/punchinello/clown più geniale della storia dello spettacolo in generale e del cinema in particolare ogni intercambiabile tassello all’occorrenza è prezioso. Il trittico Il circo a tre piste, Il nipote picchiatello e Artisti e modelle, scandito in “tre anelli” o “tre piste” del circo, allinea un regista defilato che meriterebbe un discorso a sé come Joseph Pevney, un regista il versatile e mai banale, di fiducia (della Paramount) come Norman Taurog, e l’imparagonabile Tashlin, che meglio di chiunque valorizza e libera subito l’energia cinetica in uscita di Lewis. Nessuno è ar-

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rivato a tanto, a parte Lewis stesso. Sottoponendo l’itinerario di Jerry Lewis, stabile dentro e dinamico fuori, a un’ulteriore, caparbia operazione (crono)logica suggerita dalla “dicotomia” le scoperte si susseguono: i sette anni, suppergiù, che intercorrono tra La mia amica Irma e uno dei tre film di cui sopra, ne sono la conferma. Il procedimento aritmetico della “divisione” interna rischia va dunque ripetuto, spingendo all’infinito l’effetto paradossale e a maggior (s)ragione comico. Nel tratto intermedio dal 1954-1955 al 1963 di film- spartiacque ne sono almeno un paio: Il Cenerentolo (CinderFella, Frank Tashlin, 1959) e Ragazzo tuttofare (The Bellboy, Jerry Lewis, 1960), uno dopo l’altro, anche uno la conseguenza dell’altro, traghettano il Jerry Lewis produttore e autore implicito sotto la guida ancora di Frank Tashlin al Jerry Lewis produttore e autore esplicito che si auto-dirige. Nel tratto intermedio che va dal 1955 in giù, fino al 1949, Il cantante matto o appena più in là Occhio alla palla assolvono a un analogo compito. Il guaio è che se si dimezza ancora l’arco temporale oramai ridotto ai minimi termini, tre anni, poco più o poco meno, esattamente come fa Zenone con lo spazio fisico su cui provare inutilmente a fissare un punto di arrivo definitivo, scappa fuori Irma va a Hollywood. Non si capisce bene se da Irma va Hollywood Jerry Lewis sia partito o se a Irma va a Hollywood sia arrivato. L’ambivalenza del verbo “andare” (to go) del resto è provvidenziale: aiuta fortunatamente a (non) capire più se sia in atto una “partenza” o un “arrivo”. Il complemento di stato in luogo e quello di moto a luogo, come si è detto, si sovrappongono, si confondono, s’interfacciano e si scambiano le competenze. Come si alternano nel “gioco delle parti” il cantante e il clown, il comico e il drammatico, Martin & Lewis che diventano sempre più o lo sono dal principio Lewis & Martin. Tutte le strade conducono i due a Hollywood, per separarsi a Hollywood. E tutte le loro strade portano, dimezzando e dimezzando ancora, i segmenti temporali a Irma va a Hollywood, che non è il solito sequel di successo equivalente ai tanti remake “sicuri” e poco immaginativi assegnati fino al 1956 a Dean e Jerry. Il loro secondo film contiene tutti i segnali irridenti di de-costruzione successiva, se di successione temporale vale ancora la pena di parlare, e non di stabilità sostanziale. Come un treno in corsa, veloce in ogni suo istante fisso – in concomitanza con il

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terzo paradosso di Zenone, quello della freccia - Jerry viene sospinto contro le strutture portanti dell’immaginario di massa, contro le infrastrutture della società dello spettacolo e lo specifico, caotico, alienante sistema organizzativo. E l’ambito cinematografico preso ripetutamente di mira è il comparto di quella società dello spettacolo su cui Jerry ha deciso di investire. Hollywood investe su Jerry e Jerry investe Hollywood, alla lettera, come un treno lanciato a velocità sostenuta. L’effetto domino sommandosi all’effetto comico genera Irma va a Hollywood che genera Artisti e modelle, che genera Hollywood o morte, che genera Il balio asciutto (Rock-A-Bye Baby, Frank Tashlin, 1958) e genera Il Cenerentolo. In questo meccanismo rigenerativo che annulla ogni coordinata spazio-temporale entrano in circolo quindi Il mattatore di Hollywood (The Errand Boy, Jerry Lewis, 1961), che equivale a Le folli notti del dottor Jerryll, che equivale a Jerry 8 ¾. E tutti fanno insistentemente a pezzi l’industria hollywoodiana rendendo i pezzi stessi lasciati sul campo cinematografico di battaglia, comici o commoventi, non fa differenza, schegge impazzite di un progetto a lungo termine di umana comprensione, pirandelliano umorismo e lewisiano “pensiero divertente”. Guardandosi indietro, retrocedendo all’infanzia e all’adolescenza: “La verità - ammette il diretto interessato – è che mi venivano in mente frasi divertenti: io pensavo divertente”19 . E il corsivo questa volta è suo. La frase continua così: “Ma con quella voce nasale da ragazzino che mi ritrovavo, mi vergognavo di cosa sarebbe venuto fuori se avessi parlato. Per cui in scena ero divertente, ma ero divertente solo in parte. E ero sempre alla ricerca del pezzo mancante”20. Sul concetto di “mancante”, che sembrerebbe preludere all’imminente completamento con Dean Martin, conviene far chiarezza, sicché “ogni atto mancato è un discorso riuscito, piuttosto ben girato, e che nel lapsus è il bavaglio che gira sulla parola, e solo di quel tanto che basta perché il buon intenditore intenda”21. Fin qui Jacques Lacan. Ora, che se ne renda conto o meno, anche Jerry quando sottolinea l’esigenza del “pezzo mancante” non si riferisce ad un’altra persona, ma a quel “pezzo” di se stesso che provvisoriamente sta per essere occupato da Dean. Per dirla ancora con I sei personaggi in cerca d’autore, la cui situazione molto si addice alla circostanza biografica e drammaturgica di Jerry Lewis: “Il dramma per me è tutto qui”. Jerry, attraverso Dean, si sta cercando. Ciò lo porta

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a respingere o a mettere in ombra il partner, per potersi ogni volta trovare. La colpa non è sua, di Jerry, né tantomeno di Dean. La colpa, se c’è, è nel “dramma” della macchina da presa. Nella fattispecie di caso si chiama “cinema”. Nell’intrinseca, immobile e solida presenza spettacolare di Jerry Lewis alla ricerca del “pezzo mancante” a farne le spese, dall’istante in cui firmano di concerto con la Paramount, è lo spiritoso, elegante, complementare Dean Martin. È lui, l’altro da Jerry, a soccombere nel gioco spietato di coppia, lentamente e in maniera sempre più marcata. Dean è insostituibile negli anni successivi al consensuale divorzio artistico, e Jerry Lewis non ottiene più risultati di coppia con nessuno in grado di eguagliare l’empatia del “pezzo mancante” storico. Ma Dean ha la possibilità di ricominciare a dimostrarsi l’attore, cantante e showman versatile che sa di essere solo lontano da quel paradigma comico dove è costretto a fare il coinquilino. Poiché è Jerry ad aver creato, messo a punto e perfezionato film dopo film, come un ingranaggio a orologeria, un paradigma che di star non ne prevede due ma una sola, prorompente, sconcertante. Jerry Lewis in tutte le forme, con un personaggio moltiplicato e moltiplicatore, protagonista, capocomico, ne è demiurgo. Soltanto separandosi, di necessità, e stando attenti a mantenere le misure di sicurezza nei decenni seguenti, Jerry e Dean sono stati diversamente irripetibili, grandi, all’altezza dei rispettivi talenti e dei rispettivi ambiti inventivi e performativi. La verità sul loro stretto legame consiste nella sostanziale impossibilità a (re)stare assieme. Lo specifico spazio/tempo filmico per tanti anni va a esclusivo discapito di Dean e ad altrettanto esclusivo vantaggio d’autore di Jerry. Leggendo e rileggendo Dean & Me losi capisce immediatamente. In ogni gesto e affermazione di stima e riconoscenza reciproca la “scimmia” dice la verità. Regala all’inizio del nuovo secolo e del nuovo millennio, nel 2005, superata la soglia degli ottant’anni, un commosso e attendibilissimo portavoce coltivando l’imperituro ricordo dello “spaghetti”. La rievocazione autocritica, ai limiti della confessione, assomiglia alla scena di un loro film, senza il versante comico: “Il golf rimase il grande rifugio di Dean. […] L’autostima del mio partner era una faccenda divertente. Con un

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aspetto, un talento e un senso dell’umorismo come il suo, Dean Martin sarebbe dovuto essere la persona più sicura di sé al mondo. Eppure aveva i suoi punti deboli. Il problema è che era talmente bravo a nascondere quanto fosse vulnerabile che a volte nemmeno chi lo conosceva bene capiva di averlo ferito. Ma io lo conoscevo talmente bene che ci riuscivo quasi sempre. Con ciò non voglio dire che non ho fatto anch’io i miei sbagli [corsivo nostro]. Dean era molto fiero del suo talento nel golf, ed era giusto che lo fosse. Il suo era un talento naturale e invece di giocare senza sforzarsi, come ti saresti aspettato da un tizio con la fama da fannullone, si impegnò al massimo per migliorare. Quando si trattava di girare un film o di andare alla radio o in TV per lui era sempre buona la prima – ‘Basta che me lo dici una sola volta’ era la sua frase preferita quando parlava coi registi - ma non ci vedeva niente di male nel l’esercitarsi nel putting e nel driving per ore e ore. I risultati si videro. Aveva un bellissimo swing, e il controllo totale su un campo da golf. Riusciva a fare battute mentre giocava (faceva sempre battute), continuando a giocare in modo serissimo. E migliorò sempre di più. All’epoca, però, invasi il suo campo [corsivo nostro]. Pensando che giocare a golf insieme potesse avvicinarci ulteriormente, iniziai a giocare di nascosto - e con mia grande gioia scoprii che avevo un talento innato. Il mio piano era di fare una sorpresa a Dean: ‘Non è fantastico?’ gli avrei detto. ‘Adesso ovunque andremo potremo giocare insieme!’. E così un giorno che andai a Palm Spring (dove Dean si stava rilassando tra una ripresa e l’altra) per raggiungerlo a pranzo, lui era convinto che avremmo semplicemente pranzato. Aveva già fatto nove buche quando ci incontrammo al circolo. Dopo pranzo, Dean disse: ‘Ti va di fare un giro con me fino alla nona buca?’. ‘Certo che sì!’, dissi. ‘Aspetta qui!’. Uscii di corsa dal circolo e andai in macchina, aprii il cofano e tirai fuori le mie nuove scintillanti scarpe da golf e le mie nuove costosissime mazze. M’infilai le scarpe, misi la sacca a tracolla e corsi da Dean, che si sta avviando sul green.Lui mi guardò e disse soltanto: ‘Lo sapevo che prima o poi avresti capito anche tu quant’è fico giocare a golf!’.

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Saltammo entrambi sul suo cart e ci dirigemmo verso il primo tee.Ero senza fiato dall’eccitazione, non vedevo l’ora di esibirmi davanti al mio fratellone. Saltammo giù, e Dean disse con un gran sorriso, ‘Prima tu, amico’. Piazzai la palla sul teepregando in silenzio: Ti prego fammi essere bravo per lui...Feci oscillare la mazza e colpii la pallina facendola volare sul fairway, a 180 metri di distanza. Dean strabuzzò gli occhi. ‘Dove hai imparato?’, chiese. ‘Pensavo che stessi sempre in ufficio o nella sala di montaggio!’”22 Per dirla con Pirandello, “Il dramma è tutto qui, signori”. Jerry non soltanto passa moltissimo tempo alla moviola, esercitando un controllo assillante e appassionato sui (propri) film e imparando contestualmente i segreti, la tecnica per renderli se possibile ancora più suoi. Non si impadronisce solo del campo cinematografico ma soffia all’amico anche il ‘rifugio’ prediletto. Cioè il golf: “Ammisi di avere preso lezioni per potere passare più tempo con lui. Negli occhi gli si leggeva che avevo fatto un errore. Ma lo nascose bene, e continuammo a giocare. Fatta la tredicesima buca, Dean era sotto di un punto e io ero sopra di due. Niente male per un principiante! pensai. Guardai il viso del mio partner che riempiva il foglietto del punteggio. Niente. Per le prime quattro buche (partivamo dalla nona), avevo cercato un qualche segnale di quanto fossi bravo. Niente. Poi Dean disse, con uno strano sorriso: ‘Perché non rendiamo il tutto più interessante e scommettiamo sulle ultime cinque buche?’ disse. ‘Cinquecento dollari, chi vince prende tutto, ok?’ ‘Certo!’ dissi. Ovviamente, avrei pagato quei cinquecento dollari solo per il privilegio di giocare con lui... Ma poi feci birdie [chiudere una buca con un colpo in meno rispetto al par (cioè al numero dei colpi previsto) del campo da golfalla quattordicesima] e Dean fece bogey [chiudere una buca con un colpo in più rispetto al par del campo da golf]. Di colpo riprendeva la competizione: io avevo fatto par [chiudere una buca con il numero di colpi previsto dal campo] e lui era di un punto sopra.

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Dean fece par alla quindicesima e - con mia grande sorpresa - io feci di nuovo birdie. Adesso eravamo pari. Facemmo entrambi par alla sedicesima, e gli studiai attentamente il viso. Nessuna reazione. Un bogey per entrambi alla diciassettesima. Ancora pari. Poi feci il più bel drive della mia vita, e anche Dean. Il risultato della partita dipendeva da quell’ultima buca. Mentre tiravo fuori il mio ferro nove per il terzo tiro, lui tirò su una mano. Aveva un sorriso dispettoso stampato in faccia. «Aspetta, [William] Ben Hogan [uno dei più forti giocatori di golf di tutti i tempi]’, disse. ‘Certo’, dissi. ‘Scommettiamo altri duecento dollari che non fai par’. ‘E se facessi birdie?’ chiesi, facendo la faccia innocente. Scosse il capo per la mia faccia tosta. ‘Ehi, campione, se fai birdie ti do mille dollari!’. Non feci birdie (grazie a Dio). Feci par all’ultima buca, e anche Dean fece par, facendoci finire pari, anche se Dean aveva perso la seconda scommessa. Tirò fuori le banconote dalla tasca, le contò e me le passò. Sorrideva, ma aveva lo sguardo gelido. Ehi, è la fortuna del principiante», disse. Alzai una mano. ‘Va bene così’, gli dissi. ‘Non voglio i tuoi soldi’. Stavo iniziando a sentirmi a disagio. ‘Oh, no’, disse Dean. ‘Una scommessa è una scommessa’. E m’infilò i soldi in tasca. Sapevo in cuor mio di avere commesso un grosso errore. Non solo vincendo quei soldi, ma anche solo imparando a giocare. Quando chiamai mio padre e gli raccontai cosa era successo, le sua urla si sentirono in tutta la stanza. ‘Sei un idiota!’ urlò. ‘Ingenuo, stupido idiota! Perché l’hai fatto?’. ‘Volevo solo passare del tempo con lui giocando al suo gioco preferito’, dissi timidamente. ‘I giornali non scrivono altro che del ragazzino pelle e ossa’, disse papà. ‘Jerry di qua e Jerry di là, è lui quello divertente, è lui il fico. Non vedi che l’unica cosa che Dean ha tutta per sé è il golf? E adesso stai cercando di portargli via anche quello?’. Mio padre era uno in gamba. Dean e io non giocammo più insieme, tranne che per un torneo di beneficenza contro il cancro a cui parteci-

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pammo per aiutare Bing Crosby. Ma solo quella volta. Non parlai mai più al mio partner del ‘mio’ golf, ma solo del ‘suo’”.23 Il golf non è soltanto il pretesto di qualcosa che accade di continuo tra Jerry e Dean, ma un motivo ricorrente che assume una valenza psicanalitica che scorre in altre due opere a questo punto illuminanti: Occhio alla palla! e Dove vai sono guai (Who’s Minding the Store?, Frank Tashlin, 1963) accorciano clamorosamente le distanze tra un film di Norman Taurog con Jerry Lewis e uno di Frank Tashlin con Jerry Lewis che è quasi un film di Jerry Lewis con Jerry Lewis. Il golf, come il canto, sono terreni in cui Dean eccelle, purtroppo per lui destinati a essere invasi da Jerry. Un simile trattamento Jerry è costretto, suo malgrado, ad aspettarselo di conseguenza dal rivale comico in Re per una notte. Non c’è spiegazione, a ben vedere, rammarico e obiettiva ricostruzione dei fatti, quantunque a ricostruirla sia unilateralmente Jerry, in grado di reggere il confronto con la realtà di fatto. E che di continuo si fa strumento di confutazione. Si prenda il movimento. Basta una tartaruga a invalidarlo. E Zenone a dimostrarne l’evidenza nel secondo paradosso logico, quello di “Achille e la tartaruga”, che Jerry visualizza in Pazzi, pupe e pillole. È qui che il suo volenteroso e scapestrato inserviente ospedaliero Jerome - il cui cognome “Littlefield” riporta il discorso alla dimensione spaziale e cinematografica infinitamente piccola (“piccolo campo”) - si assume il difficile compito di mettere la camicia di forza ad una star della televisione impazzita daccapo a causa della pressione cui si sottopone quotidianamente. E non solo non ci riesce, ma si ritrova lui stesso a dover procedere lentamente dentro la camicia di forza. Tanto lentamente da farsi superare da una lumaca. Jerome/Jerry è Achille, un Achille capovolto, imbrigliato in un indumento per pazzi scatenati, mentre la lumaca di turno, ribadendo e capovolgendo a sua volta la premessa della lentezza, è l’equivalente accelerato della tartaruga di Zenone, ereditata dalla favola di Esopo. Non c’è verso: Jerry Lewis, predestinato a scrollarsi di dosso ogni movimento concepibile, progressione, evoluzione, si trova nell’impossibilità logica di gareggiare persino con una tartaruga o più (in)verosimilmente con una lumaca. Né Dean Martin, al suo fianco, può andare troppo veloce. Solo che stavolta, con Dean, è Jerry la tartaruga/lumaca “piè veloce”. Allo “spaghetti” non resta molta scelta né

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scampo se intende raggiungere non tanto la creatura cosiddetta lenta, invero velocissima, sia essa una “scimmia”, una “tartaruga” o una “lumaca”, ma un’eventuale autentica vetta personale. A meno di non stare alla larga fisicamente, sullo schermo, dalla “scimmia”. Il compagno cangiante, fin qui la “scimmia” sfrenata, travolgente di una parte insostituibile e generativa della vita, umanamente e professionalmente, si sta preparando a entrare nei panni dell’Opossum. Di cui si dirà tra breve. Nessuna contraddizione, solo paradossi. “Achille la tartaruga”, nel rispetto dei diritti cinematografici che spettano a Zenone, sarebbe stato un ottimo soggetto per un film di o con Jerry Lewis. Così come la “dicotomia” della filmografia di Jerry e Dean esemplifica il meccanismo che include ogni titolo ed esclude strada facendo il solo Dean a beneficio dell’inclusione progressiva dell’umanità tutta. È la divisibilità spinta all’infinito, per il filosofo greco tanto quanto per il comico americano, a rendere comprensibile con il senno di poi anche la “divisione” di Dean e Jerry. Che è stata voluta e scatenata a più riprese soprattutto da Dean, ma causata e intimamente cercata durante le riprese soprattutto da Jerry. La solitudine, come insegnano tutti i suoi film, culmina nel diversamente suo Re per una notte. Ed è inversamente proporzionale al bisogno di amare ed essere amati. Perché la solitudine è una condizione biografica, caratteriale e preliminare per Jerry: “Adoravo i momenti preziosi in cui mamma e papà mi portavano in tour con loro. E per loro stare insieme significava mettermi nello spettacolo: la mia prima apparizione sul palco la feci a cinque anni, nel 1931, al Presidente Hotel, un resort estivo di Swan Lake, New York, indossavo uno smoking (ovviamente) e cantavo un classico degli anni della Depressione, Brother, Can You Spare a Dime?. Da quel momento in avanti, lo showbusiness mi entrò nel sangue, insieme alla solitudine.”24 L’ingresso di Dean nell’orizzonte di Jerry, per un numero record di anni di coabitazione spontanea o forzata, distoglie quest’ultimo dall’atavico bisogno esistenziale di solitudine, da primo attore. A contraddirlo c’è solo un’affermazione sibillina che risale ai primi tempi di vacche magre. L’eccezione che conferma la regola: “La nostra camera d’albergo era così piccola che i topi dovevano uscire fuori per rinfrescarsi le idee

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[la battuta è attribuita a Henry Youngman]. Ma eravamo insieme, e la cosa mi rendeva molto felice. Non ero tagliato per la solitudine”25. Funziona così con Jerry. Sempre e comunque.

Note “Lascia che ti dica la tua fortuna. / Dammi solo la tua mano. / Cercherò nel tuo futuro. / E ciò che il destino ha pianificato. / Ora si potrebbe pensare che sia sciocco. / Solo un gioco a indovinare”.

1

Cfr.i capitoli Via dalla pazza folla e Il re dell’audience di A. G. Mancino, Angeli selvaggi. Martin Scorsese, Jonathan Demme c/o Hollywood U.S.A., Chieti, Métis, 1995, pp. 25-39. 2

3

J. Lewis, H. Gluck, Jerry Lewis in Person, New York, Atheneum, 1982.

S. Levy, King of Comedy. The Life and Art of Jerry Lewis, New York, St. Martin’s Press, 1996. 4

Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro I. Gli scritti teorici di Freud. 1953-1954, Torino, Einaudi, 1978, p. 266., quindi S. Žižek, Hitchcock: è possibile girare il remake di un film?, Milano, Mimesis, 2011, pp. 19-26. Cfr. anche R. Salvatore, La distanza amorosa. Il cinema interroga la psicanalisi, Macerata, Quodlibet, 2011, pp. 99-100. 5

Cfr. https://www.yahoo.com/entertainment/martin-scorsese-10-movies-hes-considered-making-but-well-probably-never-see210548861.html?guccounter=1&guce_referrer=aHR0cHM6Ly93d3cuZ29vZ2xlL m l 0 L w & g u c e _ r e f e r r e r _ s i g = A Q A A A C g V- Yi y j j q R L s Y 3 c F _ e 4 I q scrRzmyLmnpz9_FO8cJq2NIPvvM5Rqqg5o0Zr_fjb01aUz60TzaUFT6JhEnrnM5 Wm0o3CzqDTz8ImSeHrN1_546SzY5TciojO30HSTDmKr9lPeRFoKmzr2FsM7 Tdmfgvyq0kmw9P0o9rLDZ_0MK5_(ultima consultazione 2 marzo 2020). 6

7

N. Tosches, Dino. Living High in the Dirty Business of Dreams, New York,

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Doubleday - Random House, 1992, tr. it. Dino. Dean Martin e la sporca fabbrica dei sogni, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2004, pp. 167, 172. J. Lewis, J. Kaplan, Dean & Me. A Love Story, Doubleday - Random House, New York 2005, tr. it. Dean & Me. Una storia d’amore, Vimercate, Sagoma, 2010, p. 66.

8

9

Ivi, pp. 271-272. Cfr. anche S. Levy, King of Comedy, cit., p. 213.

10

J. Lewis, J. Kaplan, Dean & Me, cit., p. 1.

11

Ivi, pp. 1-2.

12

Ivi, pp. 2-3.

13

Ivi, pp. 3-5.

14

Cfr. anche J. Lewis, H. Gluck, Jerry Lewis in Person, cit., pp. 3-6.

15

Cfr. J. Lewis, J. Kaplan, Dean & Me, cit., pp. 291-292.

16

Ivi, pp. 146-147.

17

Ivi, pp. 147-148.

Aristotele, Fisica, VI, 9, 11-13, in Id., Opere, vol. 3, Bari-Roma, Laterza, 1991, p. 160. 18

19

J. Lewis, J. Kaplan, Dean & Me, cit., p. 15.

20

Ibidem.

J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicanalisi, relazione del Congresso all’Istituto di Psicologia, Università di Roma, 26 e il 27 settembre 1953, in Id., Écrits, Parigi, Éditions du Seuil, 1966, tr. it. Scritti, vol. I, Torino, Einaudi, 1974; 2002, p. 261. 21

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22

Ivi, cit., pp. 156-157.

23

Ivi, pp. 157-159.

24

Ivi, p. 13.

25

Ivi, p. 29.

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The Geisha Boy (1958) 61


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The Caddy (1953)

My Friend Irma (1949)

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My Friend Irma (1949)

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