È finito il Sessantotto

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Giorgio Barberis

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È finito il SESSANTOTTO

È finito il SESSANTOTTO

a cura di

Giorgio Barberis

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È finito il SESSANTOTTO

Giorgio Barberis (Alessandria, 1974) è professore di Storia del Pensiero Politico presso il Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze Politiche, Economiche e Sociali (DIGSPES) dell’Università del Piemonte Orientale, del quale è vicedirettore dal novembre 2019. È autore di volumi e saggi sulla figura di Alexandre Kojève e l’interpretazione di Hegel in Francia, su Louis de Bonald e il pensiero controrivoluzionario, su Ivan Illich, la teoria critica e la Teologia della Liberazione, e sulla crisi in atto della politica e della democrazia rappresentativa. Tra i suoi libri, Il Regno della libertà. Diritto, politica e storia nel pensiero di Alexandre Kojève [Napoli 2003], Sulla fine della politica [Milano 2005, con Marco Revelli], Louis de Bonald. Ordre et pouvoir entre subversion et providence [Paris - Perpignan 2016].

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Giorgio Barberis

Perché un altro volume sul Sessantotto? Che cosa resta ancora da dire, a più di mezzo secolo da quegli anni formidabili, pieni di idee e speranza, ma anche di contraddizioni e disillusioni? L’opinione delle autrici e degli autori dei saggi qui raccolti è che ci sia ancora molto su cui riflettere in relazione a quella stagione decisiva, che ha segnato in profondità - tra cesure inattese ed eredità sorprendenti - la storia contemporanea del nostro Paese e del globo intero. Il volume, nel quale confluiscono ricerche e dibattiti riconducibili al Laboratorio di Storia, Politica, Istituzioni (LaSPI) dell’Università del Piemonte Orientale, si articola in due distinte sezioni, una dedicata ai “luoghi” (con contributi di N. Del Corno, F. Ingravalle, S. Parodi, C. Panizza, A. Ballerino) e l’altra ai “temi” (con saggi di L. Ziruolo, G. Gaballo, S. Tessaglia, V. Rapetti, F. Ponzano) del Sessantotto, completate da una Sezione Conclusiva (testi di R. Lasagna e M. Revelli). Le sezioni, ovviamente, non hanno alcuna ambizione di esaustività, ma si propongono di delineare un originale percorso di lettura, capace di dar conto della pluralità di voci, di sensibilità, di obiettivi, di critiche, di aspirazioni, di illusioni e disillusioni di una generazione che voleva “cambiare il mondo” (e che almeno in parte ci è riuscita).

€ 18,00

www.falsopiano.com/sessantotto.htm

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Se non ci fosse il diritto di sognare tutti gli altri diritti morirebbero di sete. Eduardo Galeano,!Il cacciatore di storie

Nella lotta si impara a lottare. Errico Malatesta,!L’anarchia

Anche su Marte ci sono contraddizioni le aveva ribattuto - come in tutto ciò che esiste. Una società ideale senza conflitti non sarebbe ideale. Sarebbe una bugia. Wu Ming, Proletkult


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È finito il SESSANTOTTO a cura di

Giorgio Barberis


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Questo volume è stato realizzato con il contributo di:


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Indice

Prefazione di Corrado Malandrino

p. 9

È finito il Sessantotto. Riflessioni introduttive di Giorgio Barberis

p. 11

La nostra ricerca sul Sessantotto: metodologia e temi di Stefano Quirico

p. 20

Luoghi Alle radici del ’68 italiano: il movimento beat a Milano di Nicola Del Corno

p. 29

Il movimento studentesco antiautoritario del 1968 in Italia. Trento e Torino di Francesco Ingravalle

p. 43

Il Sessantotto genovese: il Movimento studentesco di Fisica di Stefano Parodi

p. 59

Una derrota pírrica: il Sessantotto messicano di Cesare Panizza

p. 74

Contestazione, circoli culturali e teatro ad Alessandria di Alberto Ballerino

p. 101


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Temi La scuola italiana nella critica del Sessantotto di Luciana Ziruolo

p. 117

Il ’68 e le donne di Graziella Gaballo

p. 128

Giudicare il Sessantotto: Chiesa cattolica e immagine della contestazione di Stefano Tessaglia

p. 142

L’eredità del ’68 nel cattolicesimo italiano di Vittorio Rapetti

p. 157

L’economia italiana nel 1968 e oggi. Un confronto di Ferruccio Ponzano

p. 175

Sezione conclusiva Cinema e Sessantotto: immaginazione e motociclisti al potere di Roberto Lasagna

p. 189

Dalle lotte operaie alla sconfitta del lavoro

di Marco Revelli

p. 201

È finito il Sessantotto di Paolo Pietrangeli

p. 206


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È finito il Sessantotto

Prefazione di Corrado Malandrino (Università del Piemonte Orientale) I lavori presentati a cura di Giorgio Barberis nel presente volume costituiscono la seconda parte delle ricerche, compiute all’interno del progetto sul Sessantotto avviato nel 2017 dal “Laboratorio di Storia Politica Istituzioni” (LASPI) dell’Università del Piemonte Orientale, il cui primo risultato fu incentrato sull’approfondimento di alcune “parole” di un vocabolario politico del Sessantotto che ci parevano rappresentare lo spirito dell’epoca: “autogestione”, “dissenso/i”, “assemblea/assemblearismo”, “consigli”, “democrazia diretta”, “democrazia partecipativa”, “terzomondismo”, “guevarismo”, “antipsichiatria”. Questi termini, insieme alla stessa parola “Sessantotto”, formarono una sorta di piccolo “lessico del Sessantotto”, che fu pubblicato nella sezione Vocabolario politico della rivista “Il Pensiero Politico” (2018. a. LI, n. 3, pp. 445-510). Lungi da intenti meramente celebrativi, agiografici e reducistici, il progetto di LASPI intendeva, e intende anche nella presente pubblicazione, porre alcune basi per una riflessione approfondita sul significato storico-politico del Sessantotto, visto in un quadro temporale e interpretativo a partire dalla prima metà degli anni Sessanta, configurati come preparazione di una svolta epocale. Fino ai primissimi anni Settanta, infatti, essi rappresentano, nel loro complesso, il periodo i cui fermenti produssero rilevanti ricadute sul piano culturale, istituzionale e costituzionale (a livello materiale e sostanziale), chiaramente distinte dalla torsione terroristica subita dalla coeva e successiva storia italiana. Il progetto LASPI poneva, e continua a porre anche in questa raccolta di saggi, interrogativi e obiettivi coerenti con la metodologia storico-politica, ma con aperture alla storia della cultura, delle istituzioni, della società, dell’economia, e in collegamento con i tratti fondamentali nel “discorso” nazionale e internazionale del Sessantotto, inserendole nel dibattito del tempo ed esplorandone anche i riverberi su altri filoni politico-ideali.

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Giorgio Barberis

Tale impostazione problematica, ricordata da Barberis e Quirico nei loro interventi introduttivi, è ben sviluppata anche nei contributi pubblicati nel presente volume. Essi sono articolati in due partizioni che privilegiano non solo le “parole”, ma anche i “luoghi” e i “temi” del Sessantotto. Così, accanto ai saggi di Del Corno, Ingravalle, Parodi e Panizza - che riprendono la dimensione nazionale italiana e internazionale del Sessantotto -, quello di Ballerino dedica un’attenzione maggiore al radicamento degli eventi sessantotteschi sul territorio alessandrino. Nella seconda parte invece ricorrono temi e categorie più generali - la scuola, le donne, il cattolicesimo, l’economia -, che vengono analizzati da Ziruolo, Gaballo, Tessaglia, Rapetti e Ponzano, per scoprire in quali modi e in che misura il Sessantotto abbia funzionato da fattore di accelerazione delle trasformazioni e degli sviluppi successivi. Le postfazioni di Lasagna e Revelli si soffermano infine su due questioni centrali che testimoniano lo “spirito del Sessantotto”: la parola d’ordine dell’immaginazione al potere, colta nella sua rappresentazione cinematografica, da un lato, e la ricaduta delle insurrezioni studentesche sulle lotte operaie, dall’altro. Con questa nuova, meritoria, fatica scientifica ed editoriale, il gruppo di ricercatori attivo nel LASPI spera di partecipare ancora una volta all’impresa di dare una più adeguata definizione e comprensione di un fenomeno storicamente così complesso come il Sessantotto, che per molta parte resta ancora incompreso.

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È finito il Sessantotto. Riflessioni introduttive di Giorgio Barberis (Università del Piemonte Orientale) Perché un altro volume sul Sessantotto, che si va ad aggiungere ad una bibliografia ormai sterminata? Che cosa resta ancora da dire, a più di mezzo secolo da quegli anni formidabili, pieni di idee e speranza, ma anche di contraddizioni e disillusioni? L’opinione di chi scrive, unitamente a quella delle autrici e degli autori dei saggi qui raccolti, è che ci sia ancora molto su cui riflettere in relazione a quella stagione decisiva, che ha segnato in profondità - tra cesure inattese ed eredità sorprendenti - la storia contemporanea del nostro Paese e del globo intero. Il titolo del libro che state leggendo - È finito il Sessantotto -, nel quale confluiscono ricerche e dibattiti riconducibili - come bene spiegano la Prefazione di Corrado Malandrino e il saggio introduttivo di Stefano Quirico, La nostra ricerca sul Sessantotto: metodologia e temi - al Laboratorio di Storia, Politica, Istituzioni (LaSPI) dell’Università del Piemonte Orientale1, trae spunto da una canzone del cantautore romano Paolo Pietrangeli, tratta dall’album Karlmarxstrasse del 1974 (riportata integralmente a chiusura del volume). Si tratta di una filastrocca ironica, ma anche malinconica e arrabbiata, con la quale l’autore di Contessa e di Valle Giulia, pietre miliari della canzone politica e di protesta, prende congedo da quell’anno mirabile, che è “finito con un botto” - chiaro riferimento alla strage di piazza Fontana -, con la repressione del movimento e gli ideali “ripiegati in tasca”. Eppure sono rimaste tante cose, che fanno del ‘68 una data spartiacque e dei movimenti e delle istanze di quell’epoca un riferimento imprescindibile per comprendere il nostro presente. Ed è ciò che cerchiamo di fare in queste pagine Dopo la parte introduttiva, il volume si articola in due distinte sezioni, una dedicata ai “luoghi” e l’altra ai “temi” del Sessantotto; sezioni che ovviamente non hanno alcuna ambizione di esaustività - le riflessioni proposte dalle autrici e dagli autori dei saggi sono solo una piccola selezione tra un’infinità di opzioni possibili -, ma che nel contempo si propongono

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di delineare un originale percorso di lettura, capace di dar conto della pluralità di voci, di sensibilità, di obiettivi, di critiche, di aspirazioni, di illusioni e disillusioni di una generazione che voleva “cambiare il mondo” (e che almeno in parte ci è riuscita). Il primo dei “luoghi” che incontriamo nei saggi raccolti nel volume è il capoluogo lombardo, sede di un vivace e variegato mondo underground sul quale si sofferma il contributo di Nicola Del Corno, Alle radici del ’68 italiano: il movimento beat a Milano. Come ben mostra l’autore, nelle manifestazioni beat e provos s’intrecciavano tematiche esistenziali provenienti dal modello americano degli hippies e concrete battaglie politiche a favore di maggiori diritti civili, non con l’obiettivo di “prendere il potere”, ma con l’idea di combattere, mediante le “armi” della provocazione e della non violenza, la società tradizionale con i suoi valori obsoleti e i suoi orizzonti limitati (sintetizzati nell’angusto modello della società delle 3M, ossia “moglie/marito, mestiere, macchina”). Del Corno da un lato mostra come la prospettiva di benessere materiale e di quieto vivere, caratterizzante l’Italia del boom economico, non potesse in alcun modo corrispondere alle aspettative di coloro che volevano ribaltare in profondità i paradigmi sociali “in senso pacifista, libertario, anticapitalista e anticonformista”, ma dall’altro lato evidenzia anche come la rapida politicizzazione della cultura giovanile nel ’68 abbia spinto inevitabilmente ai margini dell’ondata protestataria la dimensione meramente controculturale del mondo beat. Tuttavia, se un certo integralismo ideologico tende ormai a negare legittimità politica a comportamenti “scanzonati e individualistici”, e perciò considerati “borghesi”, una significativa continuità fra movimento beat e contestazione giovanile pare innegabile, con chiari punti di contatto quali la critica alla società dei consumi, l’internazionalismo pacifista, l’antiautoritarismo. A dividere, invece, è soprattutto il nodo complesso della violenza politica, totalmente irrelata alla provocazione situazionista. L’antiautoritarismo, quale nucleo politico caratterizzante del movimento sessantottino, è al centro anche del saggio di Francesco Ingravalle, Il movimento studentesco antiautoritario del 1968 in Italia. Trento e Torino. Dopo un’analisi generale della rivolta degli studenti, l’autore foca12


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lizza la propria attenzione su due delle sedi principali di tale mobilitazione, ossia la Facoltà di Sociologia di Trento e la Facoltà di Lettere e Filosofia a Torino, nella sede di Palazzo Campana, ed esamina alcuni documenti politici prodotti dal movimento studentesco, che mettono radicalmente in questione l’istituzione universitaria, ma anche - più in generale - il modello socio-economico sia del capitalismo liberista occidentale, sia del capitalismo statal-burocratico orientale (considerati, almeno da un parte del movimento, due facce della medesima medaglia). Con il rifiuto del controllo “totalitario” della vita sociale, si delinea dunque una visione antiautoritaria costruita dialogicamente nella teoria e sperimentata concretamente nella prassi, pur con alcune inevitabili contraddizioni. Anche il contributo di Stefano Parodi - Il Sessantotto genovese; il Movimento studentesco di Fisica - che ci conduce, appunto, nel capoluogo ligure, e in particolare all’Istituto di Fisica, prende le mosse dall’analisi di alcuni documenti eterogenei sull’attività degli studenti genovesi, che rappresentano non solo una preziosa testimonianza “delle lotte, dei sogni e, talvolta, delle ingenuità” di tutta una generazione di scienziati in formazione, ma anche un generoso tentativo di compiere un’elaborazione teorica originale, che è di grande interesse per la fase storica che stiamo vivendo oggi. In quei testi, infatti, si ritrova una lucida discussione circa il ruolo della scienza e dello scienziato (e del “tecnico”), e una riflessione lungimirante sul rapporto tra scienza e potere (da quello accademico a quello politico) e sui rischi, molto concreti - allora come ora - di strumentalizzazione, economica ancor più che politica, del sapere scientifico, che diventa il mezzo per rendere “oggettive”, e quindi razionalmente, “scientificamente” inevitabili, quelle che sono semplicemente “scelte” politiche. Per quegli studenti consapevoli, riformare l’università diventa quindi indispensabile al fine di “formare dei ‘ricercatori-tecnici-cittadini’ non asserviti al potere (di qualsiasi natura)” e avvertiti della responsabilità che grava sulle spalle degli scienziati, “soprattutto nel momento in cui le scoperte scientifiche rendono possibile la costruzione di armi sempre più distruttive”. La presunta “neutralità della scienza e della tecnica” è, in realtà, fortemente condizionata dagli inte-

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ressi economici, ed è pienamente funzionale al mantenimento di un certo sistema di potere, che diventa “oggettivo”, si ipostatizza, e marginalizza il pensiero critico e la ricerca e la pratica di alternative politiche. Con l’ampio saggio di Cesare Panizza, Una derrota pírrica: il Sessantotto messicano, ci spostiamo invece al di là dell’Atlantico, e più nello specifico in Messico, che rappresenta un caso per molti aspetti esemplare. Vi è un’immagine che più di tutte è considerata rappresentativa del ’68 a Ciudad de México, sede in quell’anno dei Giochi Olimpici: il celebre gesto degli atleti afroamericani Tommie Smith e John Carlos, sul podio dei duecento metri insieme all’australiano Peter Norman, con loro solidale, che all’atto della premiazione, quando risuona l’inno statunitense, alzano il pugno guantato, nel saluto delle Black Panthers, a evocare - al di là della generica solidarietà fra tutti i soggetti allora in lotta a livello globale - “le rivolte dei ghetti neri delle città statunitensi, piuttosto che le proteste degli studenti messicani”. Era il 16 ottobre. Solo due settimane prima, però, aveva avuto luogo una tragedia immane, che è un po’ più scolorita nel ricordo degli occidentali, ma vivissima nella memoria del popolo messicano: la matanza di Tlatelolco, con centinaia di morti tra gli studenti in piazza, vittime della brutale repressione del governo. Un momento di svolta nella storia del Paese, e infatti, come ci ricorda l’autore, lo slogan “el dos de octubre nunca se olvida” riecheggia ancora oggi nelle manifestazioni di piazza. Ad essere analizzati nel saggio sono l’intero ciclo delle mobilitazioni studentesche e i lunghi anni Sessanta messicani, che per molti aspetti iniziano già nella seconda metà dei Cinquanta e finiscono ben addentro ai Settanta. A mobilitare le persone non è tanto, o comunque non è solo la denuncia dell’“imperialismo gringo”, né rivendicazioni specifiche in ambito studentesco, quanto piuttosto motivazioni etiche, quali “l’ira di fronte alle ingiustizie scontate, l’ansia di partecipazione civica, la fame di modernità politica, il voltastomaco per il nazionalismo da operetta, la constatazione delle continue violazioni da parte del potere dei più elementari diritti umani”2. Se il movimento studentesco fu duramente represso, la sconfitta fu soltanto di breve periodo - una derrota pírrica, appunto, secondo l’efficace formula coniata da Carlos Fuentes, osservatore direttamente coin-

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volto in quegli avvenimenti3 -, e le istanze di liberazione che l’avevano percorso si disseminano nella società e portano al pettine i nodi irrisolti - “dalla questione femminile a quella indigena, da quella di un libero sindacalismo al peso intollerabile della disuguaglianza economica e sociale, a quella di una informazione realmente indipendente” - di una società in trasformazione e ancora lontana da una democratizzazione effettiva del sistema politico e da una pacificazione del conflitto sociale, anche oggi, malgrado significativi progressi, non del tutto compiuta. L’ultimo saggio di questa sezione - Contestazioni, circoli culturali e teatro in Alessandria - ci riporta in Italia, questa volta in periferia. L’autore, Alberto Ballerino, prende in esame la vivace attività, negli anni Sessanta e all’inizio del decennio successivo, di gruppi e circoli culturali attivi in Alessandria, quieto capoluogo di provincia nel Basso Piemonte4, che in quel periodo vive in realtà una stagione di grande fermento. Un caso per diversi aspetti esemplare di quanto accade in moltissime città del nostro Paese, in cui le istanze del Sessantotto non rimangono confinate nei grandi centri e nelle sedi universitarie, ma si irradiano in modo più diffuso e capillare, pur in contrasto con le “resistenze” dei valori tradizionali e delle abitudini consolidate. Il testo si propone anche di evidenziare il ruolo che quei circoli culturali, insieme al nuovo protagonismo del mondo giovanile, hanno avuto nell’originale scelta istituzionale di avviare il primo esperimento in Italia di gestione del Teatro civico attraverso una municipalizzata di servizi relativi allo spettacolo e alla cultura. La sezione sui “temi” si apre con il contributo di Luciana Ziruolo, intitolato La scuola italiana nella critica del Sessantotto. Nodo cruciale nella mobilitazione degli anni Sessanta, il mondo della scuola subisce vaste e profonde trasformazioni, di cui l’autrice dà conto, evidenziandone gli aspetti positivi, ma senza ometterne criticità e limiti. “A ben vedere - si sottolinea opportunamente nel testo - vi fu un eccesso di fiducia nella capacità dell’istruzione di cancellare le ineguaglianze di classe. L’espansione della scolarità negli anni Sessanta, con l’accesso all’istruzione di ceti prima esclusi, avviene in un sistema che continua a essere rigido e fortemente selettivo. Gli studenti, notevolmente cresciuti di nu-

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mero, nel 1968 arrivano in università e si scontrano con strutture inadeguate ad accoglierli: un’università insufficiente sia dal punto di vista quantitativo, sia dal punto di vista qualitativo”. Torna qui il tema dell’autoritarismo, in relazione in questa occasione con la struttura scolastica nel suo complesso, volta a trasmettere una cultura che si limita a riprodurre il sistema dominante. Da qui parte la contestazione, che ottiene importanti traguardi, mettendo per molti aspetti in crisi il modello elitario gentiliano, ma non riuscendo comunque a creare le condizione necessarie a soddisfare le aspirazioni diffuse di mobilità sociale, né a incidere in profondità sui modelli formativi e sulla struttura della società. Il saggio di Graziella Gaballo, Il ’68 e le donne, parte da un presupposto molto chiaro: quando parliamo di generazione del Sessantotto, in realtà, “parliamo della ‘doppia storia’ di una generazione: una storia di uomini e una storia di donne, che daranno vita a due percorsi diversi”, con molti tratti comuni (in particolare l’antiautoritarismo, l’antistituzionalismo e una forte valorizzazione della soggettività), ma anche con delle peculiarità che vanno analizzate attentamente. In particolare, occorre riflettere - come fa l’autrice - su un nodo centrale, ossia sul rapporto tra le lotte degli anni Sessanta e il movimento femminista successivo. Studenti e studentesse volevano “cambiare insieme il mondo” e criticavano “la morale borghese”, ma “nella pratica dell’attività politica e delle relazioni rispuntava la disparità”. Il cambiamento nei costumi modifica solo in parte i vecchi rapporti di potere tra i sessi, e l’uguaglianza tra essi è un traguardo ancora lontano. Si fa strada, allora, l’idea di “capovolgere il dogma secondo cui la rivoluzione doveva essere di classe e generazionale e non di genere, perché essa avrebbe automaticamente portato con sé anche il riscatto femminile (Non c’è liberazione della donna senza rivoluzione), sostenendo che invece la liberazione della donna non poteva e non doveva essere rinviata fino a dopo la rivoluzione, ma doveva iniziare subito (Non c’è rivoluzione senza liberazione della donna)”. Molte militanti decisero, infine, di separarsi dai loro compagni di lotta, mettendone in discussione la visione complessiva della società e intraprendendo percorsi originali. Proprio questa scelta del separatismo, osserva Gaballo, “permise di operare una rottura radicale con le forme e i linguaggi tradi-

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zionali della politica”, e aprì la strada al femminismo degli anni Settanta, “ultimo movimento politico di quegli anni a fare la sua comparsa sulla scena politica e sociale, ma anche quello che lasciò sul lungo periodo il segno più profondo nella società, nei comportamenti, nei costumi, nelle mentalità”. Ne conseguono un più radicale senso della libertà femminile, un rigetto definitivo della struttura “patriarcale” dei rapporti sociali, significative conquiste normative e giuridiche, ma anche l’elaborazione di un concetto forte di “differenza”, rivendicata ora come valore. L’universalità del soggetto maschile, con il suo ordine simbolico, viene messa in discussione alla radice, lasciando un’eredità preziosa alle nuove generazioni. Due saggi sono poi dedicati al rapporto tra il cattolicesimo, con le sue istituzioni e suoi variegati movimenti, e la contestazione sessantottina, nonché alle eredità che quella mobilitazione ha lasciato nel mondo cattolico, latamente inteso. Più in particolare, il contributo di Stefano Tessaglia, Giudicare il Sessantotto: Chiesa cattolica e immagine della contestazione, prende le mosse dal Concilio Vaticano ii, che ha trasformato in profondità la realtà ecclesiale e ha dato un contributo decisivo per “liberare energie, rivendicazioni e bisogni del popolo cristiano”. In relazione più specificamente alla critica e al dissenso, che si diffondono ampiamente anche tra i cattolici, l’autore si sofferma sulle prese di posizione e gli interventi di Paolo vi - in cui convivevano “parole di altissimo e quasi mistico ottimismo insieme con espressioni di paterna delusione e amarezza, con rari spunti di polemica e pungente ironia” - e sulle cronache e le riflessioni nell’Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede. Uno sguardo particolare, attento e severo, sulla mobilitazione giovanile e sulle tensioni che attraversano la società italiana, con un richiamo alla necessità di “riforme” ma con il contestuale netto rifiuto di istanze troppo radicali e rivoluzionarie.

Anche il saggio di Vittorio Rapetti, L’eredità del ’68 nel cattolicesimo italiano, evidenzia il rinnovamento ecclesiale, sociale e politico che si è verificato negli anni Sessanta, ed esplora gli intrecci tra mondo cattolico e contestazione, con adesioni e censure, entusiasmi e condanne senza ap-

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pello. Al di là di contrapposizioni anche molto forti, resta comunque innegabile “una robusta connessione” tra il movimento del Sessantotto e una parte significativa del cattolicesimo italiano, che “si prolunga nei decenni successivi, nelle persone, negli approcci culturali e negli schemi mentali di giudizio”. Il testo propone appunto una lucida rassegna dei principali nodi critici e delle “eredità” del movimento culturale e politico della contestazione, che - ben lungi dall’essere compatto e organico - intreccia sensibilità, atteggiamenti, stili di vita - teorie e prassi, potremmo dire - anche molto distanti, e che includono, non certo in una posizione marginale, esperienze e istanze apertamente cristiane, che giungono - carsicamente - fino ad oggi. Il saggio di Ferruccio Ponzano - intitolato L’economia italiana nel 1968 e oggi. Un confronto - ricostruisce, infine, il quadro economico degli anni Sessanta nel nostro Paese, tratteggiando il contesto “materiale” nel quale si realizza la mobilitazione studentesca prima e operaia poi, e mettendolo in rapporto al quadro attuale. Un focus specifico è dedicato all’industria automobilistica, cruciale per l’economia italiana, e alla questione “epocale” della disuguaglianza, che in quegli anni di lotta e fermento viene di molto ridotta, e che è invece assai più acuta oggi, peraltro in un quadro economico di crescente sofferenza. La “questione operaia” ritorna anche nel contributo di Marco Revelli, incluso nella Postfazione, a chiusura del volume, dopo l’originale approfondimento di Roberto Lasagna, Cinema e Sessantotto. Immaginazione e motociclisti al potere. Il critico cinematografico alessandrino5 propone qui una rassegna - quantitativamente limitata ma qualitativamente ricchissima - di registi e di film legati, cronologicamente o idealmente, al Sessantotto. Ritroviamo così, fra gli altri, Bernardo Bertolucci e Marco Bellocchio, Marco Tullio Giordana, con la sua Meglio gioventù, e lo straordinario Elio Petri de La classe operaia va in paradiso, Michelangelo Antonioni e Jean-Luc Godard, fino alla cinematografia americana, con capolavori come Easy Rider, un vero e proprio “film-manifesto” dell’essenza autentica del Sessantotto “in chiave di cambiamento e libertà senza condizionamenti”. Un passaggio sul cinema “operaio” si ritrova anche nel contri-

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buto, già richiamato, di Marco Revelli, che ripercorre rapidamente i trionfi - nel decennio successivo al Sessantotto - e poi il fragoroso e repentino crollo (dal 1980 in avanti) del “lavoro” al cospetto del capitale, e si chiude con una riflessione - alla quale rimandiamo - che restituisce perfettamente il senso di questo nostro volume. Sì, il Sessantotto è finito, ma studiarne la storia, i valori, le lotte e le conquiste, come anche le contraddizioni e i limiti, è quanto mai utile non solo per comprendere in profondità quell’esperienza per molti aspetti unica, ma anche per orientarci nel nostro tempo inquieto.

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La nostra ricerca sul Sessantotto: metodologia e temi di Stefano Quirico (Università del Piemonte Orientale) Come spesso accade alla ricerca scientifica, specialmente nel momento in cui intende uscire dal ristretto ambito accademico e intercettare le priorità del dibattito pubblico, la ricorrenza del 50° anniversario del Sessantotto ha costituito un potente stimolo per riportare l’attenzione su quel complesso tornante della storia novecentesca. Anche il Laboratorio di Storia, Politica, Istituzioni (LaSPI) dell’Università del Piemonte Orientale ha aderito a un’iniziativa tanto più significativa, quanto più la vicenda sessantottesca resta impressa nella memoria collettiva, ma con il dichiarato obiettivo di resistere alle sirene reducistico-agiografiche che talvolta risuonano nell’opera di ricostruzione di quegli eventi. In questo senso sono state concepite tre iniziative pubbliche: il seminario “Studi e ricerche sulla democrazia: dal dopoguerra al Sessantotto”, tenuto l’11 ottobre 2017 in concomitanza con il cinquantenario della morte di Ernesto Guevara (9 ottobre 1967); l’incontro “1968-69: Movimento studentesco e lotte operaie”, promosso il 30 novembre 2018 in collaborazione con l’Associazione Città Futura e con il patrocinio della CGIL-Camera del Lavoro di Alessandria6; il convegno “Il Sessantotto: un fenomeno globale tra storia, politica e istituzioni”, svoltosi il 4 aprile 2019 e diviso in due sessioni, l’una ospitata dal Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze Politiche, Economiche e Sociali e l’altra dall’Associazione Cultura e Sviluppo di Alessandria. Il percorso di ricerca del LaSPI, come già precisato nella prefazione del presente volume, ha assunto fin dal principio una connotazione disciplinare prevalente, quella della storia del pensiero politico. Richiamandone lo specifico approccio metodologico, ci si è proposti di individuare alcune “parole d’ordine” del Sessantotto, allo scopo di ricucire i fili e restituire le sfumature del “discorso” politico intessuto da scritti e interventi riconducibili ai movimenti e agli intellettuali che avevano forgiato lo spirito dell’epoca. Da questa indagine è scaturito un vero

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e proprio Vocabolario politico, pubblicato a cura di Corrado Malandrino e Stefano Quirico sulla rivista “Il Pensiero Politico” nel 20187. In tale sede si è reso immediatamente necessario un chiarimento storico-interpretativo della nozione stessa di “Sessantotto”, troppo spesso associata esclusivamente alla contestazione studentesca e in particolare alle sue manifestazioni più vibranti, come il Maggio francese. Lungi dal voler negare il rilievo simbolico di quella stagione, il saggio introduttivo di Malandrino la rilegge come apice di un fenomeno politico, sociale e culturale di più ampia portata e durata, che affonda le proprie radici nei fermenti di varia natura riscontrabili nella società europea e occidentale quanto meno dalla metà degli anni ’60. Nel contempo, sarebbe riduttivo far coincidere la fine del Sessantotto con la conclusione delle agitazioni più clamorose che gli diedero concretamente corpo: il terreno dissodato dai protagonisti della vicenda sessantottesca è stato coltivato nel decennio successivo, culla di una serie di riforme e trasformazioni sociali e istituzionali in cui si sono riverberate idee e mentalità consacrate dal pensiero critico del Sessantotto8. Da questa duplice constatazione Malandrino ricava il concetto di “lungo Sessantotto”, più adatta ad abbracciare l’esteso arco temporale descritto dal fenomeno e, soprattutto, il suo impatto di medio periodo. Limitando l’analisi alla società italiana, è innegabile che alcuni mutamenti nella costituzione formale e materiale del paese maturati negli anni Settanta sarebbero stati meno incisivi – o addirittura impossibili – in assenza della cesura sessantottesca. L’adozione dello Statuto dei Lavoratori, l’attivazione effettiva delle amministrazioni regionali e le riforme dell’ordinamento scolastico e universitario appaiono più o meno diretta emanazione del Sessantotto. Nella medesima direzione si muove il saggio di Tiziana C. Carena e Francesco Ingravalle, che indica nella parola d’ordine dell’“antipsichiatria” il grimaldello culturale offerto dal Sessantotto per scardinare l’oppressiva e a tratti disumana struttura degli ospedali psichiatrici italiani9. Rendendo il giusto omaggio al caso dell’Italia, la ricerca promossa dal LaSPI ha inteso mettere in luce il carattere eminentemente transnazionale del Sessantotto. È il contributo di Giorgio Barberis sul “dissenso”

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a evidenziare che tale concetto, pur declinandosi in forme e contesti differenti, costituisce l’elemento qualificante ed esprime la natura più intima di quell’esperienza. Caratterizzandosi come manifestazioni di contrarietà e opposizioni che non provengono dall’esterno, ma nascono all’interno di una comunità, la teoria e la pratica del dissenso si diramano in molteplici direzioni, mobilitando studenti e operai nelle democrazie liberali occidentali e dando voce, per converso, alla disillusione emergente nei paesi schiacciati dall’autoritarismo sovietico. E nessuna istituzione incarna l’idea di transnazionalità meglio della Chiesa Cattolica, la cui opera e predicazione viene in certa misura ridisegnata dal Concilio Vaticano II nella prima metà degli anni Sessanta, cui seguono le Encicliche Gaudium et Spes (1965) e Populorum Progressio (1967). Se i contenuti di tali testi – da leggere anche in connessione con l’azione innovatrice messa in campo da sacerdoti e gruppi cattolici di base – ne testimoniano la prossimità ad alcune istanze liberatrici sessantottesche, le loro date di gestazione e pubblicazione avvalorano una volta di più l’interpretazione riassunta nella formula del “lungo Sessantotto”10. Autentica architrave del pensiero sessantottesco è, inoltre, la critica della democrazia, che ne problematizza il legame con la moderna teoria liberale della rappresentanza. Nel mirino dei contestatori è la mediazione quale strumento della decisione politico-parlamentare, ma anche come pietra angolare dei sistemi organizzativi e deliberativi in ambito partitico, sindacale e aziendale. Con la figura del “rappresentante” il discorso del Sessantotto non identifica un soggetto più maturo e consapevole rispetto alla massa popolare, ma – al contrario – il componente di un’oligarchia che avoca indebitamente a sé la facoltà di adottare gli indirizzi generali della vita collettiva. Nella visione sessantottesca, questi ultimi dovrebbero viceversa essere l’oggetto di una discussione pubblica aperta a tutti gli interessati, in cui riecheggino in qualche modo i fasti dell’antica democrazia ateniese. Non è casuale che l’“assemblea”, cui è dedicata la voce del Vocabolario redatta da Filippo M. Giordano, divenga una sorta di icona della democrazia praticata dal Sessantotto in nome di una riscoperta del diritto-dovere degli individui ad autodeterminarsi in tutte le sfere della propria esistenza, dalla famiglia all’università11.

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È certamente sintomatico che, nella temperie sessantottesca, il modello della democrazia liberale-rappresentativa venga preso di mira negli Stati Uniti, suo luogo d’elezione sia nel ricordo del dibattito svoltosi nel momento fondativo della repubblica americana – che esaltava la rappresentanza come risorsa indispensabile per il buon funzionamento dell’esperimento democratico inaugurato dopo l’indipendenza –, sia nella prospettiva della guerra fredda in corso nel XX secolo. Lo scontro ideologico con il blocco sovietico è fra le ragioni che contribuiscono a sdoganare una concezione sempre più scarna e formale della democrazia, di cui la scienza e teoria politica statunitense si fa promotrice nel cuore del Novecento, enfatizzando e legittimando il ruolo delle élites in un quadro democratico ridotto per lo più a competizione elettorale fra minoranze orientate alla conquista del potere politico. Ma è proprio dai campus americani che partono i più celebri atti d’accusa contro la degenerazione politico-sociale dell’Occidente, dalla Dichiarazione di Port Huron approvata nel 1962 dagli Students for a Democratic Society (SDS), alla pubblicazione di One Dimensional Man di Herbert Marcuse nel 1964. Con largo anticipo rispetto all’Europa, come mostra il saggio di Giovanni Borgognone, gli Stati Uniti divengono l’epicentro di una protesta che, nei suoi risvolti politici, auspica il ripensamento della democrazia su basi partecipative. E a differenza di quanto accadrà di lì a poco nel Sessantotto europeo, permeato dei retaggi di dottrine rivoluzionarie di ascendenza marxista, nel caso americano l’invocazione della partecipazione dal basso alle scelte politiche resta nella sostanza compatibile con le premesse del pensiero democratico moderno12. A rinfocolare le tensioni interne ai paesi avanzati è, in quella fase, anche il grido di dolore che si leva dal Terzo Mondo e denuncia lo sfruttamento in atto da parte dell’Occidente, ma rifiuta contestualmente di allinearsi al comunismo di matrice sovietica. È una nuova concezione della rivoluzione mondiale a guidare Ernesto Guevara e gli altri esponenti di punta delle variegate correnti politico-culturali unite dalla convinzione che il fulcro di un progetto rivoluzionario capace di riscattare l’umanità e superare le profonde diseguaglianze che la affliggono si

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situi nelle aree meno sviluppate, come ci ricorda il contributo di Italia M. Cannataro13. Nell’ottica terzomondista, infatti, le popolazioni che risiedono nelle periferie del globo sono vittime di dinamiche imperialiste non più riconducibili all’archetipo leninista e primonovecentesco, ma specifiche dell’epoca bipolare e coerenti con il riassetto delle relazioni internazionali prodotto dal secondo dopoguerra. Stretta nella tenaglia della guerra fredda e oscurata dalle retoriche del terzomondismo, l’Europa non trova uno spazio autonomo nel discorso politico sessantottesco. Nel saggio dello scrivente, anzi, prende forma l’idea che, tra le parole d’ordine del Sessantotto, sia opportuno annoverare anche una “non Europa”, con lo scopo di rimarcare il disinteresse dei protagonisti di quell’epopea per lo sviluppo politico unitario del vecchio continente14. Il che può apparire comprensibile nella misura in cui, in quel torno di tempo, è la sinistra tradizionale – prima socialista e poi comunista – a entrare nell’orbita dell’integrazione eurocomunitaria, inizialmente patrimonio esclusivo delle forze democristiane e liberaldemocratiche. Se, dunque, il diverso giudizio sulla costruzione europea può configurarsi come ennesimo fattore di distinzione dai partiti progressisti storici, risulta però paradossale che nelle prime file del movimento sessantottesco operino personalità come Daniel Cohn-Bendit e Joschka Fischer, i quali, a cavallo tra XX e XXI secolo, si segnaleranno per una spiccata sensibilità eurofederalista15. E su questa curiosa genealogia, che rinvia anche alla marcata propensione europeista presente nel pensiero ecologista contemporaneo, varrebbe probabilmente la pena di ritornare in futuro, esaminandone più attentamente i contorni. Oltre al Vocabolario politico appena rievocato, la ricerca del LaSPI sul Sessantotto è all’origine di due ulteriori articoli in cui chi scrive ha esaminato la reazione di alcuni noti studiosi e intellettuali dell’Europa novecentesca davanti alla sfida sessantottesca nei confronti della teoria della democrazia16. I profili dei personaggi coinvolti – Raymond Aron, Norberto Bobbio, Ralf Dahrendorf e Nicola Matteucci – coprono l’ampia gamma di tonalità interne al coevo pensiero liberale, dalle sue va-

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rianti moderate, se non conservatrici, a quelle più aperte al dialogo con la cultura socialdemocratica. Non è sorprendente che tutte le figure menzionate si ergano a protezione del principio della rappresentanza, quale condizione ineludibile per la realizzazione degli ideali democratici in età contemporanea, e si prodighino a confutare, tramite argomenti diversi e complementari, gli istituti di democrazia diretta o delegata – dall’assemblea al mandato imperativo – che il Sessantotto riporta agli onori del dibattito politico. D’altra parte, non può essere ignorata la differenza che intercorre tra le risposte dure, stizzite e talvolta irridenti di liberali a tutto tondo come Aron e Matteucci e le posizioni assunte dagli altri due pensatori presi in considerazione. L’uno, Dahrendorf, ha alle spalle una militanza nella SPD e non si sottrae al confronto pubblico con i leader del Sessantotto tedesco, a partire da Rudi Dutschke. L’altro, Bobbio, si sforza di coniugare la ferma difesa dottrinaria del modello democratico-rappresentativo con acute valutazioni circa i limiti concreti denotati dalla sua attuazione. È anche lo shock generato dalla contestazione studentesca, che lo tocca persino nell’ambito familiare, a persuadere il filosofo torinese dell’opportunità di intraprendere negli anni ’70 e ’80 la famosa e articolata riflessione sulle “promesse non mantenute” dalla democrazia, in cui troveranno riscontro talune delle critiche sessantottesche. E anche tale circostanza, pur non potendo evidentemente colmare il solco che separa i fondamenti liberaldemocratici della cultura bobbiana dalla radicalità politica del Sessantotto, rende ragione della funzione non puramente iconoclastica, ma anche feconda e costruttiva che alcuni lasciti e provocazioni ideali di quest’ultimo hanno saputo rivestire nella seconda metà del secolo scorso. Innestandosi su questa solida base, i saggi riuniti nel presente volume completano la ricerca collettiva, approfondendone l’interesse per alcuni dei temi già affrontati – tra cui il versante cattolico del movimento sessantottesco –, arricchendola di nuovi spunti e concentrandosi in particolare sui contesti nei quali il fenomeno ha attecchito. Il richiamo ad alcune aree del nostro paese, unito al resoconto sulla variante messicana, rende plasticamente la natura polimorfa del

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Sessantotto, frutto complessivo di una sollevazione globale che tuttavia ha finito per assumere tratti specifici nei diversi territori in cui agivano i soggetti che l’hanno cavalcata.

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Alle radici del ’68 italiano: il movimento beat a Milano di Nicola Del Corno (Università di Milano) All’alba del 12 giugno 1967 la polizia sgomberò il campeggio beat sorto in via Ripamonti, accanto al canale Vettabbia nella periferia milanese; il blitz delle forze dell’ordine era stato da tempo richiesto da parte dell’opinione pubblica moderata cittadina, l’importante quotidiano “Corriere della sera” in testa, che mal tollerava l’instaurarsi di una «New Barbonia city»17 – per riprendere un articolo del quotidiano – alle porte della metropoli. Il campeggio era presto divenuto – secondo questa volta le parole del prefetto di Milano – un «ricettacolo di elementi oziosi e vagabondi»18. Poco contava il fatto che i beat – «capelloni» e «sbarbine» secondo una certa stampa19 – avessero regolarmente affittato quel terreno per un periodo che andava dal 1° maggio al 31 agosto ’67; l’azione della polizia fu inesorabile, quanto spettacolare: 79 arresti, circa 200 fogli di via e soprattutto per disinfestare la zona furono usati, come riportano le cronache del tempo, 500 litri di DDT20. Con lo sgombero dell’«inverecondo bivacco» (per riprendere il titolo del “Corriere”), si può dire che terminò anche l’esperienza beat milanese. Inoltre l’uscita di lì a poco del numero 5 (ma in realtà il 7, dato che i primi due furono il numero 0 e il 00) della rivista “Mondo beat” per l’editore Feltrinelli determinò una spaccatura all’interno del movimento, con alcuni “scissionisti” che risposero a tale iniziativa, considerata poco underground e molto mainstream, con la pubblicazione di un foglio alternativo (che cambiava nome ogni volta per sfuggire alle normative sulla stampa e all’obbligo del direttore responsabile usando la dizione «numero zero in attesa di autorizzazione») denominato in successione “Urlo beat”, “Grido beat”, “Urlo Grido Beat”, “Parentesi beat”21. Sul primo di questi giornali, “Urlo beat”, l’atto d’accusa nei confronti della fine dell’indipendenza di “Mondo beat”, e pertanto l’esigenza di un nuovo giornale, chiamava esplicitamente in causa la vecchia redazione, rea di essersi seduta «comodamente sulla poltrona di pelle del baffuto signore [ossia Gian Giacomo Feltri-

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nelli] con dieci lire in tasca», relegando di fatto in secondo piano i concreti «problemi di ragazzi che hanno lasciato una casa per correre a Milano dove avevano letto che c’era una cava, un campeggio, un giornale tutto per loro, venduto per la strada da loro»22. Dopo lo sgombero del campeggio, si radicalizzò ancor di più una vera e propria “caccia al capellone”, peraltro già iniziata con la prima comparsa dei primi beat nelle piazze italiane; come ebbe modo di ricordare Fernanda Pivano, «un uomo non poteva girare per le strade con i capelli lunghi senza venire insultato, sputato e magari portato in questura; tutto l’apparato benpensante, ben strutturato, dedito alla morale della produttività e alle varie morali della famiglia, della religione, dei partiti eccetera si era mobilitato con polizia, giornali, prediche e giovanotti intellettuali super impegnati a stroncare più in fretta possibile qualunque accenno a pensieri di ricerca, di apertura, di critica per non dire poi di dissacrazione e di strafottenza»23. Nonostante che nei mesi successivi l’informale comunità beat milanese avesse tentato in qualche modo di riorganizzarsi, spalancando e condividendo gli abbaini delle case di via San Maurilio nel quartiere Brera24, con il 68’ alle porte iniziò un vero proprio esodo all’interno del movimento, con alcuni dei suoi esponenti che partirono per l’Oriente (soprattutto India, Afghanistan, Marocco)25. Altri suoi esponenti preferirono allontanarsi dalle metropoli per dar vita a comuni in campagna; particolarmente nota fu quella di Ovada, dove i giovani poterono concretizzare, sia pure per breve tempo, le proprie speranze di vita alternativa al consumismo e alla massificazione caratterizzante lo status quo; come infatti asseriva un suo frequentatore: «Io ho sempre sognato un’isola fuori dalla civiltà dove vivere di caccia e di pesca»26. I primi beat erano comparsi nell’estate del ‘65 nelle piazze italiana; erano per lo più giovani stranieri, turisti on the road, che presto vennero affiancati da ragazzi italiani; già dal loro solo apparire (capelli lunghi, abiti trasandati, debole distinzione nell’aspetto tra i sessi) furono da subito fonte di scandalo per l’opinione pubblica, e di attenzione da parte delle forze dell’ordine. Il milieu sociale dei beat italiani appariva com-

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posito; fra di loro troviamo studenti ed ex studenti, operai spesso appena licenziati, pacifisti così come veri e propri sbandati e soprattutto molti giovani – spesso minorenni – che erano scappati da casa. Le loro fonti d’ispirazione, ribellistiche da un punto di vista comportamentale e culturale, erano i beat americani, il pop britannico, l’esistenzialismo caratterizzante la vita di quartieri come Gamla Stan a Stoccolma, e soprattutto i provos olandesi; pur non avendo un proprio programma politico, né una sicura ispirazione ideologica, si rifacevano ad un generico ethos libertario. Come spiegava un giovanissimo collaboratore nel primo numero di “Mondo Beat” ciò a cui si aspirava «soprattutto» era «la libertà, anzi la liberazione da ogni legame con un mondo precostituito» e da una «società che riesce solo a condizionare le menti degli uomini»; e per fare ciò si cerca di «udire quella voce più interna che è nascosta dalle violenze della vita quotidiana»27. Dalla stampa, ma più in generale dall’opinione pubblica, i giovani beat vennero apostrofati quali «sporchi capelloni», «drogati», «vagabondi», «pervertiti», «promiscui», «parassiti», «barboni», «senza Dio»; si prenda ad esempio un articolo di Paolo Bugialli sul “Corriere della sera” a proposito dei beat che si ritrovavano sulla scalinata di Trinità dei Monti – uscito già il 6 novembre 1965, ossia ai primordi del fenomeno – nel corso del quale, partendo dal presupposto che «essi sono brutti e non piacciono a noi», se ne denunciava soprattutto il look trasandato, l’«evidente disprezzo per l’acqua e per il sapone», e il loro non far nulla, «ora gli accampati suonano la chitarra, ora si stendono lungo una balaustra e studiano le nuvole, ora affondano la testa nelle mani e immergono lo sguardo nel vuoto», se non provocare i passanti, fino ad arrivare ad una drastica soluzione per la loro eliminazione dalla piazza romana: «Andare lì, armati di civismo, di insetticida, e di forbici. O si lasciano disinfestare e tagliare i capelli, e allora il problema è risolto; o reagiscono, ingaggiano rissa, arrivano le guardie ed è risolto lo stesso»28. Peraltro «capellone» fu un termine rifiutato dai giovani beat che denunciavano – come spiegava uno dei protagonisti della scena milanese, Vittorio Di Russo – come con tale denominazione riduttiva si cercasse di eludere la reale portata della contestazione beat: «Capellone è un termine coniato dalla stampa. Noi lo

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odiamo. Il nostro è un serio movimento di protesta contro la società costituita e non si ferma certo alla pettinatura»29. L’attenzione spesso negativa, ma sempre spasmodica, dei media si concretizzò in una quantità immensa di articoli, inchieste, reportage – c’è chi dice circa 500 nel solo biennio ’66-’6730 – affrontanti questo aspetto della prontamente nominata “questione giovanile” sotto diverse angolature; fece scalpore, ad esempio, il libro-inchiesta firmato Eleonora X, Ho vissuto un anno coi capelloni, per gli spregiudicati riferimenti alla loro disinibita sessualità31. Anche la cinematografia si occupò del fenomeno sia pure spesso in termini “macchiettistici”; in un celebre episodio, Il mostro della domenica del film collettaneo Capriccio all’Italiana girato 1967, Totò, diretto da Steno, interpretava un signore che, odiando fino al parossismo la moda dei capelloni, riusciva con vari inganni ad attirare la loro attenzione per poi raparli a zero. Ben diverso nell’approccio e nei contenuti avrebbe dovuto risultare il film Capelli lunghi pensato da Mario Monicelli, ma poi mai girato; un road-movie, bocciato dal produttore Franco Cristaldi perché ritenuto troppo “estremista”, che avrebbe dovuto raccontare la ribellione di una coppia di giovani all’ipocrita moralismo caratterizzante la società italiana di allora32. Un’altra delle accuse rivolte ai beat era quella – ben esemplificata da un articolo comparso sul “Corriere della sera” di Giuliano Zincone del 12 aprile 196733 – di non aver saputo generare una propria cultura e una propria letteratura autonoma e caratterizzante. Pur non avvicinandosi, per tanti motivi, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo alla produzione americana, i beat italiani diedero invece alle stampe romanzi e poesie degni di essere ricordati, studiati e conosciuti a distanza di quasi mezzo secolo34; fra i titoli più significativi occorre sicuramente menzionare il psichedelico romanzo, ambientato ad Harar in Etiopia, Il paradiso delle Urì del milanese Andrea D’Anna35. Come si è già notato, sul movimento ricadde una valutazione estremamente negativa da parte di quella stampa che maggiormente influenzava l’opinione pubblica; giudizi altrettanto ostili arrivarono anche da altri contesti intellettuali, ad esempio da due noti pensatori politicamente distanti come Pier Paolo Pasolini e Julius Evola: il primo, agli inizi degli

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anni ’70 nel suo primo articolo per il “Corriere”, li accusava ancora di conformismo, di essere diventati ormai una moda non dissimile dalle altre imposte dal sistema contro cui pretendevano invece di combattere, e quindi di risultare un esempio di devianza facilmente riassorbita dal sistema: «I capelli lunghi dicono, nel loro inarticolato e ossesso linguaggio dei segni non verbali, nella loro teppistica iconicità, le ‘cose’ della televisione o delle reclame dei prodotti»36; il secondo di non contare nulla nella loro banale convinzione di essere alternativi all’esistente – quando erano invece parte integrante dell’esistente – e quindi non vedeva come potessero risultare di qualsivoglia pericolosità; si comportavano solamente come dei bambini capricciosi, e come tali andavano trattati: «Quando questa gioventù pretende di non essere capita, la sola risposta da darle è che in essa non vi è proprio nulla da capire, e se esistesse un ordine normale si tratterebbe unicamente di metterla a posto per le vie brevi, come si fa con i bambini, quando la sua stupidità diviene fastidiosa, invadente e impertinente»37. Mentre nella musica leggera fu Adriano Celentano a scagliarsi contro i beat nell’incipit recitato della canzone Tre passi avanti del 1967, denunciandone comportamenti trasgressivi di vario genere e predicandone per questo una pronta fine: «Caro Beat mi piaci tanto / sei forte perché hai portato / oltre alla musica dei bellissimi colori / che danno una nota di allegria / in questo mondo pieno di nebbia. / Però se i ragazzi che non si lavano / quelli che scappano di casa / e altri che si drogano e dimenticano Dio / fanno parte del tuo mondo / o cambi nome o presto finirai»38. Non tutta l’intellettualità prese però le distanze da loro; fra chi li difese, cercò di intenderne le ragioni e di giustificarne i comportamenti, si può ricordare Elsa Morante, Italo Calvino, Alberto Arbasino. La Morante denunciava come un attacco alla democrazia e alla libertà personale l’essere represso solo per la lunghezza dei capelli e la foggia dei vestiti: «Ritenevo per certo e indubitabile che in Italia, paese di civiltà democratica, ciascuno fosse libero di pettinarsi e vestirsi come meglio crede»; ricordando inoltre, a mo’ di provocazione, illustri “capelloni” in Giuseppe Garibaldi, Dante Alighieri e Albert Einstein, e altrettanto illustri “vagabondi” giunti a Roma in Johann Wolfang Goethe e Raffaello Sanzio39. Calvino,

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anch’egli turbato e sdegnato per l’ondata repressiva nei confronti dei capelloni, considerava ciò «un fatto di inciviltà allarmante» dal momento che «non è il caso di scherzare quando una piccola minoranza inoffensiva e impopolare, oggetto di scherno e barzellette, viene presa a bastonate e la polizia volta le spalle e addirittura se la prende con gli aggrediti»40. Qualche giorno prima, sempre sul “Giorno”, Arbasino aveva notato come l’attacco indiscriminato ai beat, prescindendo dal valutare idee e comportamenti, non testimoniasse altro che una «costante» del comune atteggiamento italiano, ossia «quella mentalità protervamente nazionalistica, piccolo-borghese, furibonda, per cui l’Apparenza è Tutto, e ogni valore pensabile si compendia nel Decoro Esteriore e si esaurisce nella Lunghezza del Capello»41. A difesa dell’esperienza della tendopoli milanese, e a conseguente denuncia del suo violento abbattimento sull’ultimo numero di “Mondo Beat” era uscito un manifesto di solidarietà intitolato Sono con noi, redatto per iniziativa di Gian Giacomo Feltrinelli, e firmato da importanti intellettuali quali Cesare Musatti, Elvio Fachinelli, Umberto Eco, Nanni Balestrini, Luciano Berio, Dario Fo, Franca Rame, Vittorio Gregotti, Mario Spinella, Lodovico Geymonat, Arturo Schwarz, e altri ancora42. A Milano, i primi beat erano comparsi «timidamente» alla metà degli anni ’60 ritrovandosi dalle parti di piazzale Brescia43, per muovere successivamente verso il centro, e divenire finalmente una presenza visibile nella città, fissando il loro punto d’incontro dapprima presso la fermata della metropolitana di Cordusio e poi in piazza Duomo sotto la statua del “pirla a cavallo”, così come veniva definito il monumento a Vittorio Emanuele II nello slang beat. Nell’autunno del ’67 i beat affittarono uno scantinato in via Vicenza – presto denominato secondo suggestioni estere “la Cava” – che divenne il punto di riferimento del movimento italiano44; presso la Cava e il successivo campeggio, oltre ad una ventina di presenze stabili, si è calcolato che transitarono più di quattromila giovani, provenienti da tutta Italia, ma anche da buona parte dell’Europa occidentale. All’interno della Cava – presentata dalla stampa come un luogo vizioso e perverso – vigeva invece una certa forma di autorganizzazione, così scandita da tre divieti fondamentali: “no alla violenza, no al furto, no

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alla droga; le prime due per ragioni di coscienza, la terza per sicurezza”45. I beat si legarono presto ai cosiddetti provos milanesi – i situazionisti dell’“Onda verde” nelle cui fila figura di riferimento è Andrea Valcarenghi, futuro fondatore dell’importante rivista controculturale “Re Nudo” – dando vita assieme ad una serie di manifestazioni pacifiche; particolarmente riuscite risultarono quella antimilitarista del 4 novembre ’66, quella del 28 novembre ’66 contro i fogli di via e la repressione poliziesca, e quella del 6 maggio ‘67 durante la quale vennero trascinate per il centro di Milano una serie di bare bianche e lunghe catene per protestare con la guerra in Vietnam. Marco Daniele, un esponente di Onda Verde Provo, sintetizzava così su “Mondo Beat” le modalità «complementari» della contestazione di beat e provos: i primi «sono ragazzi scappati di casa» che «si rifiutano di vivere come la società del benessere prescrive»; i secondi «si preoccupano di tenere alta la ‘temperatura’ sociale» affinché il movimento giovanile nel suo insieme non si tramutasse «in un vaso chiuso che la società possa facilmente isolare, ignorare e digerire»; ambedue i comportamenti erano, secondo l’autore, ugualmente «necessari»46. Nelle manifestazioni beat e provos s’intrecciavano tematiche esistenziali provenienti dal modello americano degli hippies a concrete battaglie politiche a favore di maggiori diritti civili; l’obiettivo non era certamente quello, per così dire, di prendere il potere, quanto quello di combattere con le armi underground della provocazione e della non violenza la società tradizionale. La way of life contro cui i beat muovevano era quella che Ugo Alfassio Grimaldi e Italo Bertoni avevano definito agli inizi del decennio la società delle 3M (ossia moglie/marito, mestiere, macchina)47; una prospettiva di benessere materiale e di quieto vivere, caratterizzante l’Italia del boom economico, che ovviamente non poteva accontentare le aspirazioni di coloro che volevano radicalmente ribaltare i paradigmi sociali del presente in senso pacifista, libertario, anticapitalista e anticonformista; come rivendicavano loro stessi con orgoglio «i beat sono dei fannulloni, non lavorano. […] Noi potremo, in un mondo beat, non lavorare»48. I capelloni finivano spesso per risultare negli ondivaghi giudizi dell’opinione pubblica – per riprendere una sarcastica definizione data

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da uno di loro, Livio Cafici, su “Mondo beat” – «odiosamati»; odiati perché il più delle volte sporchi, brutti, drogati e irriverenti; ma a volte amati per il loro impegno a favore della pace e della fratellanza universale: «BEATI I BEATS così diversi da noi ma ai quali ci piacerebbe tanto assomigliare!», pareva all’autore un pensiero recondito in quei non pochi milanesi che consideravano l’essere beat come una «moda», come una «evasione serale»49. Proprio sul terreno della radicale contestazione al sistema vigente i beat milanesi intrecciarono un proficuo rapporto anche con i gruppi giovanili anarchici; questo incontro si esplicitò in una serie di assemblee congiunte, nella partecipazione dei beat ad alcuni convegni anarchici (ad esempio quello di Carrara dell’estate 1967), e a Milano nell’aiuto che gli anarchici – soprattutto nella figura di Giuseppe Pinelli – fornirono ai beat per la stampa del primo numero del giornale50. Dai partiti, anche da quelli di sinistra, i beat avevano invece preso le distanze sin da subito, non riconoscendosi in alcuna forma di apparato, di burocrazia, di ideologia; una presa di distanza dalla politica tradizionale che si riverberava anche nel rifiuto per ogni coinvolgimento nella dialettica democratica, e quindi anche del voto. Come si scriveva sul secondo numero (il numero 00) di “Mondo Beat”, “votare significa scegliere etichette intercambiabili, [mentre] tutto è sempre uguale”51. In realtà, nel novembre del 1966 ci fu un tentativo da parte di alcuni esponenti del PSIUP (Partito socialista di unità proletaria) di interloquire con i giovani del movimento; nella casa veronese dell’editore Giorgio Bertani si tenne infatti un incontro, presente anche la Pivano, che però si concluse con un nulla di fatto, data l’assoluta refrattarietà dei beat nei confronti di un impegno politico, tradizionalmente inteso. A questo incontro fu presente anche il poeta beat Gianni Milano che così ha sintetizzato la reciproca incomprensione: «I politici erano ancora a letture materialiste, fuori da grandi prospettive, noi utilizzavamo filosofie orientali, saggezze indigene, sentimenti libertari. La loro era una politica asessuata, di scontro frontale. Noi eravamo convinti che occorresse tirarsi fuori dal sistema. Poche possibilità di accordo»52. Con il partito radicale i beat condivisero invece qualche manifestazione; ad esempio la marcia della pace Milano-Vicenza dell’estate

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del ’6753. Come ha sottolineato Silvia Casilio, il movimento beat milanese fu “apartitico”, ma non certamente “apolitico”54, dal momento che pur non schierandosi per nessuna parte, non poteva certo essere definito qualunquista, data la contestazione radicale del presente: “Rifiutiamo la società costituita con la speranza di formarne una migliore”, rivendicavano infatti i beat55. Il movimento beat milanese diede vita ad un’interessante proliferazione di testate underground, fra le quali si distinsero, oltre al già citato “Mondo Beat”, “Pianeta Fresco” e “S”. Fra i 3 giornali, “Mondo beat” fu il foglio più politico; nelle sue pagine si ritrovano alcuni temi portanti delle future proteste sessantottine e degli anni seguenti quali il pacifismo, l’antimilitarismo, l’obiezione di coscienza, il libero amore, il diritto al divorzio, all’aborto, alla pillola anticoncezionale, in un contesto di generale critica alla politica tradizionale – anche quella dei partiti di sinistra – ed una esaltazione della vita in comune per superare definitivamente gli stereotipi della famiglia, della società, della buona educazione tradizionalmente intesi. Inoltre inizia già ad emergere quella passione per l’Oriente che influenzerà le scelte esistenziali di una parte non trascurabile della gioventù del decennio successivo. “Pianeta fresco” – nato per iniziativa della ‘madrina’ del beat italiano, ossia Fernanda Pivano (direttrice «responsabile» della rivista, mentre direttore «irresponsabile» risultava Allen Ginsberg), e il cui primo numero uscì nel dicembre del ’67 – si distinse da “Mondo beat” per un tono sicuramente più controculturale, affrontando tematiche proprie dell’underground americano quali la possibilità e la libertà di poter espandere la propria conoscenza tramite l’uso di sostante psicoattive, e un più esplicito misticismo attento ovviamente a religioni e filosofie orientali. Da “Pianeta fresco” sparivano quei concreti problemi esistenziali presenti invece su “Mondo beat”, quali la fuga da casa, la repressione da parte del sistema, il bisogno di socializzazioni alternative, mentre si parlava in termini teorici di de-condizionamento culturale, di nuove visioni apprese tramite viaggi allucinogeni o da religioni e filosofie orientali. Ad esempio, sul primo numero della rivista, Miro Silvera, al fine di «migliorare il proprio modo di esistere», consigliava di usare «delle piante (il vegetale, la foglia, il seme,

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il fungo), delle formule (chimiche, il minerale, la pozione, le pillole), dell’ardore ascetico e dell’estasi (le regole di vita e di cibo, essere vegetariani, le pratiche del buddismo, dello yoga, dello zen)»56. Si abbandonava la materialità della strada dove si era formato il movimento beat, per concentrarsi, grazie anche alla traduzione di testi di Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs, Timothy Leary, a creare sia pure in forma elitaria – «non ho mai cercato di travestirmi da sottoproletaria o da sottocolta», rivendicava la Pivano57 – una originale intellettualità libertaria partecipe soprattutto delle istanze dell’underground americano58. In maniera simile, anche la situazionista “S”, il cui primo numero vide la luce nell’ottobre 1967, fece fare un salto di qualità da un punto di vista culturale al movimento underground non solo milanese, visto che fu diffuso anche in altre città italiane; nelle sue pagine, ricercate anche da un punto di vista grafico, vi era sì una ripresa di alcune tematiche protestatarie già comparse su “Mondo beat”, ma ora presentate secondo una prospettiva sicuramente meno elementarmente schematica. Tale era ad esempio l’appello ad un’opera di deculturizzazione per difendersi dalla cultura imposta dal sistema; come si leggeva, infatti, nel secondo numero della rivista, «gli essisti rifiutano l’ideologismo, puntano sulle tecniche deculturali» in modo da «ripulire i pensieri della gente dalle false idee propugnate dalla società», ossia «fare soprattutto opera di decultura contro la cultura con la ‘c’ maiuscola»59; e gli strumenti adottati in questa impresa risultavano giochi di parole, ambiguità fra accaduto e immaginato, détournement di passata consuetudine dadaista. Nel milanese, e più propriamente a Monza nell’estate del ’66 si era inoltre consumata la breve ma intensa esperienza controculturale del Beatnik’s Clan per iniziativa di Anto Mariani e Pucci Paleari; la sede del Clan fu chiusa per un intervento della polizia quando vi si fermarono a dormire alcuni minorenni scappati da casa. Mariani indossava spesso magliette e lunghe sciarpe tramite le quali comunicava direttamente i suoi pensieri; su una di queste magliette vi era scritto ad esempio: «Io porto la zazzera x protesta contro il conformismo che opprime l’attuale società perciò viva i beats»60. Inoltre, i beat monzesi furono gli autori di un attacco circostanziato nei confronti dei partiti politici in generale, accusati

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di voler in qualche modo assecondare subdolamente, in cambio del voto, le richieste di quei giovani prima sempre così malgiudicati: «Quando, poi, verrà il tempo di mettere una croce su certe schede che bianche rimarranno, tutti i sozzoni, i pezzenti, i parassiti, gli esibizionisti, i seminfermi, gli invertiti, gli scansafatiche diverranno tutti dei bravi figlioli, diverranno tutti dei bravi e buoni angioletti»; ma queste blandizie – concludeva l’articolo – a nulla sarebbero servite: «Lei [il partito] è duro a capire, che con noi non attacca»61. La rapida politicizzazione della cultura giovanile, che si imporrà in maniera repentina nel ’68, pone inevitabilmente ai margini dell’ondata protestataria l’incidenza della dimensione meramente controculturale; i beat si trovarono così a fare i conti anche con un movimento, sempre giovanile ma ben più strutturato culturalmente e ideologicamente, che li considera sostanzialmente disimpegnati e per nulla rivoluzionari62. Con il ’68 si fa sempre più ristretto lo spazio di manovra per beat e situazionisti; un certo integralismo ideologico, legato a letture più o meno ortodosse dei classici del marxismo, mira ormai a negare legittimità politica a comportamenti scanzonati e individualistici, e perciò considerati borghesi63. Un esempio di questa sorta di incomunicabilità che si venne a creare fra beat e giovani di sinistra la si può constatare riguardo alla guerra in Vietnam. Nel n. 1 di “Mondo beat” Valcarenghi condannava l’intervento americano bollandolo come “imperialista”, ma negava un appoggio incondizionato ai nord-vietnamiti, richiedendo l’intervento dell’Onu64; sul numero successivo una lettrice, Monica Maimone, lo accusava di mettere così sullo stesso piano aggressori e aggrediti, rivendicando la necessità di sostenere attivamente in Italia la rivoluzione armata vietnamita; ciò non significava avallare sempre l’uso della violenza ma prendere atto che in determinati momenti non vi erano altre alternative65. Nonostante queste importanti differenze, una certa continuità fra movimento beat e futura contestazione sessantottesca è stata più volte messa in luce dalla storiografia; ad esempio da Alberto De Bernardi quando scrive che «con i capelloni siamo alle origini del movimento», notando come punti di contatto soprattutto la critica alla società dei consumi e

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l’internazionalismo pacifista66, o da Peppino Ortoleva quando afferma che, a livello americano ed europeo, «è ovvia la continuità fra linguaggio e stili di vita “underground” con atteggiamenti ribellistici del movimento del ’68»67. Diego Giachetti ha rilevato l’esistenza di un «collante» fra beat e sessantottini nel comune antiautoritarismo; un concetto capace di collegare fra loro esperienze esistenziali diverse: la strada dei beat, l’università degli studenti, la fabbrica degli operai; l’autore ha però sottolineato anche una fondamentale cesura fra i due momenti: «Quella del movimento studentesco […] era una protesta che pur ponendosi per molti aspetti in continuità con quella dei capelloni e dei beat, aveva caratteristiche più marcate, tali da decretare la fine di un periodo e l’inizio di uno nuovo»68. L’underground beat servì sicuramente a creare anche a Milano quell’humus dove crebbe fertile il movimento di protesta studentesco. Un protagonista di quel milieu beat milanese, Gianni De Martino, ha notato che se l’esperienza dei cosiddetti cappelloni fu breve, parziale, quasi ininfluente in quegli anni di rapida modernizzazione della società nel suo complesso, risultò comunque «sintomatica di un clima di malcontento diffuso, di paura, di angoscia», punto di passaggio imprescindibile per comprendere poi la portata della ben più vasta contestazione sessantottina69. Se pertanto risultano evidenti continuità fra beat e sessantottini – nell’abbigliamento, nella scelta dello stile di vita, nella critica alla società consumistica – non sono meno evidenti le rotture: il ’68 fu un movimento di massa e politicizzato, che non disdegnava la violenza – sia pure spesso in chiave difensiva – e non più una ridotta “banda di capelloni”, quale era il movimento beat dedito alla semplice pratica dimostrativa della provocazione e dello scandalo, tenendosi sempre lontano da qualsiasi pratica di violenza. Proprio sul tema della violenza (e il riferimento corre ai fatti romani di Valle Giulia del marzo 1968) avvenne, come ha notato la Casilio, una «prima grande rottura – seppur tacita – tra il movimento studentesco e quello beat», dato che quest’ultimo aveva sempre agito con le sole metodologie non-violente della provocazione situazionista70. Concretamente si può ricordare che se il terreno di via Ripamonti fu regolarmente affittato dai beat, l’anno successivo, nel novembre del ’68, l’ex Albergo Commercio di piazza Fontana fu occupato

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da studenti che vi insediarono la Casa dello studente e del lavoratore, primo esempio di occupazioni di luoghi abbandonati, o comunque disabitati, che caratterizzeranno gli anni settanta. Lo scarto fra l’utopia del poter vivere pacificamente ai margini della società e la concreta pratica dell’occupazione per combattere, anche tramite l’uso dello scontro violento con le istituzioni, quella stessa società, fu sottolineato ai tempi anche da Gianni Emilio Simonetti, nella introduzione alla raccolta di testi della controcultura italiana a cavallo fra gli anni sessanta e i settanta Ma l’amor mio non muore, quando a proposito dello sgombero della tendopoli di Via Ripamonti osservava: «Così, il primo tentativo di comune urbana muore vittima di uno scontro a cui per motivi storici e culturali non aveva saputo militarmente adeguarsi, pagando il lusso che si era presa di non considerarsi una roccaforte d’assalto del paesaggio urbano, ma una dolce, pacifica, un po’ stonata isola giovanile»71. Questo equilibrio fra continuità e rottura tra il movimento underground e quello sessantottino fu così illustrato da uno dei protagonisti del ’68 europeo, Rudy Dutschke che lo paragonò a quello fra filosofia classica tedesca e marxismo: come Marx era partito da quella filosofia per costituire il suo paradigma, così il movimento studentesco si era abbeverato alle fonti dell’underground, pur superandolo, per definire meglio temi e termini della sua protesta72. E una certa continuità nel reciproco influenzarsi e contaminarsi fra controcultura e movimenti politici, destinata a continuare anche dopo il ’68, è stata notata anche da Primo Moroni, quando ha sottolineato come la componente underground – ben espressa dai beat milanesi – rimase «una costante» nei movimenti giovanili degli anni settanta; tale controcultura anche quando andò ad incontrarsi inevitabilmente con la cultura dei movimenti politici, maggiormente strutturati da un punto di vista ideologico, riuscì infatti a mantenere sempre «una sua sorprendente specificità»73. Chi invece ha negato qualsiasi incidenza sociale e culturale al movimento beat è stato Giuseppe Carlo Marino che ha derubricato “pasolinianamente” i giovani contestatori pre-sessantotto a una «moltitudine omologata di conformisti dell’anticonformismo», le cui «elucubrazioni» non potevano certo essere passate per «idealità politiche»74.

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Ma che comunque rimanesse anche una certa diffidenza fra i due mondi è stato ben testimoniato proprio da un beat, Silla Ferrandini, che nel suo romanzo autobiografico sulla «beat generation milanese» scrisse: «Anche se avevamo alcune idee in comune la distanza era abissale, loro [i sessantottini] davano del borghese a noi [i beat] perché dicevano che non avevamo una vera ideologia politica, e noi davamo del borghese a loro perché di rimando dicevamo che volevano instaurare un regime altrettanto autoritario e altrettanto repressivo del capitalista»75. .

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È finito il SESSANTOTTO a cura di

Giorgio Barberis © Edizioni Falsopiano via Bobbio, 14 15121 - ALESSANDRIA www.falsopiano.com Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri Per l’immagine in copertina: © Can Stock Photo/dimaberkut Prima edizione - Luglio 2021


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