Peter Cushing

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Mario Galeotti

(Dalla prefazione di Emanuela Martini) Mario Galeotti (Sestri Levante, 1974) ha conseguito il dottorato di ricerca presso l'Università di Genova. Si occupa di storia del cinema e dello spettacolo e ha una lunga esperienza nel settore degli audiovisivi. Collabora con le testate on line “InsideThe Show” e “Carte di Cinema”. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Immagini e presenze americane nel cinema italiano (Europa Edizioni, 2018), Grande Tony. Little Tony, storia matta di un cuore rock (Arcana, 2018), Lo squadrone bianco. Il cinema coloniale italiano negli anni del fascismo (La Tigulliana, 2019). Per Falsopiano ha pubblicato Dino l'amico italiano. Vita e carriera di Dean Martin (2017). www.falsopiano.com/petercushing.htm

PETERCUSHING

E i mostri dell’inferno

PETERCUSHING E i mostri dell’inferno

Ha dato vita e corpo al ciclo più interessante prodotto dalla Hammer Film (quello dedicato al Barone Frankenstein) e, attraverso il cacciatore di vampiri Van Helsing, il puntiglioso detective Sherlock Holmes e molti altri scienziati, stregoni, studiosi, Peter Cushing ha ben impersonato le contraddizioni dell’epoca vittoriana e, più in generale, della società britannica. Diceva di se stesso: «La gente mi guarda come se fossi una specie di mostro, ma non riesco a capire perché. Nei miei film macabri, sono stato un creatore o un distruttore di mostri, ma mai un mostro. In realtà, sono un tipo gentile. Non ho mai fatto male a una mosca. Amo gli animali e, quando sono in campagna, sono un appassionato bird-watcher». Forse proprio perché era un tipo tanto gentile (e un attore molto bravo), Peter Cushing è stato invece il mostro più pericoloso e inquietante creato dalla Hammer.

Mario Galeotti

PETERCUSHING

E i mostri dell’inferno

Mario Galeotti

€ 20,00

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CINEMA


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A mio padre che ha sempre amato fin da ragazzo le follie d’autore di Peter Cushing e Christopher Lee


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EDIZIONI

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Mario Galeotti

PETERCUSHING

E i mostri dell’inferno


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Un particolare ringraziamento agli amici Ilaria De Caro e Andrea Repetto per la loro disponibilità.


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INDICE

Un tipo gentile di Emanuela Martini

p. 9

Introduzione Saint Peter

p. 13

Capitolo I Hollywood andata e ritorno

p. 19

Capitolo II Hammer, gli artigiani dell’orrore

p. 41

Capitolo III Il Barone e la Creatura

p. 64

Capitolo IV Il cacciatore di vampiri

p. 105


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Capitolo V Peter e Chris

p. 129

Capitolo VI “Ci incontreremo ancora...”

p. 152

Capitolo VII Dalla Hammer a Star Wars

p. 170

Capitolo VIII Peter Cushing lives in Whitstable

p. 188

Filmografia

p. 204

Teatro

p. 208

Televisione

p. 210

Bibliografia

p. 216


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PREFAZIONE Un tipo gentile di Emanuela Martini

Ha dato vita e corpo al ciclo più interessante prodotto dalla Hammer Film (quello dedicato al Barone Frankenstein) e, attraverso il cacciatore di vampiri Van Helsing, il puntiglioso detective Sherlock Holmes e molti altri scienziati, stregoni, studiosi, Peter Cushing ha ben impersonato le contraddizioni dell’epoca vittoriana e, più in generale, della società britannica. Anche se meno iconico dell’arcinemico Christopher Lee (ma in realtà nella vita furono molto amici), Cushing fu certamente attore più raffinato, sottile e ironico, il più importante dei torbidi “eroi” della compagnia che alla fine degli anni Cinquanta rilanciò l’horror richiamandosi alle sue origini gotico-romantiche. Tuttavia, fu meno star di Lee, e la sua figura e la sua impronta recitativa non sono state troppo analizzate, almeno in Italia. Fa piacere, perciò, l’uscita di un libro a lui dedicato, nel quale l’autore, Mario Galeotti, tratteggia, intersecandole, la sua vita e la sua carriera. E il suo temperamento, del quale fortunatamente Cushing ci ha lasciato testimonianza nei suoi due bei libri autobiografici, An Autobiography e Past Forgetting, rieditati (e arricchiti di materiali inediti) nel 2013, centenario della sua nascita, in un unico volume, Peter Cushing: The Complete Memoirs. Era riservato, gentile, mite, rigorosamente professionale, alieno dai riti del divismo, legatissimo alla moglie Helen (della cui morte non si consolò mai), religioso, vegetariano per gran parte della sua vita, una colonna della Vegetarian Society. Elegante, viso affilato e occhi azzurri, Peter Cushing era la quintessenza dell’inglese e infatti diventò famoso in patria intorno ai quarant’anni quando, in due serie Bbc popolarissime nei primi anni Cinquanta, interpretò i ruoli - tipically British - dell’altezzoso, frigido Mr. Darcy in Orgoglio e pregiudizio, da Jane Austen, e quello del solitario, titubante Winston Smith in 1984, da George Orwell. Si era innamorato della recitazione fin da ragazzo e aveva perseguito la sua vocazione con ostinazione, con una tappa, non troppo fortunata, negli States (New York e poi Hollywood) alla fine degli anni Trenta e, al ritorno in patria allo 9


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scoppio della guerra, con tanto teatro e tanta televisione. C’era anche il cinema, con film spesso importanti, ma in ruoli secondari o di deuteragonista, come il cortigiano Osric nell’Amleto di Laurence Olivier, o Marcel de la Voisier in Moulin Rouge di John Huston, o il funzionario marito di Deborah Kerr in La fine dell’avventura di Edward Dmytryk. Nel 1955, era stato il dottor Rollason, il botanico che si unisce alla ricerca del mitico Yeti in The Creature, scritto da Nigel Kneale per la Bbc: lo scienziato buono, quello che non sfrutta la natura e rispetta le ragioni degli altri esseri viventi, un ruolo che riprese poi nel film del 1957 di Val Guest, Il mostruoso uomo delle nevi. Ma, immediatamente prima di questo, era arrivato “il” ruolo, quello che doveva modificare completamente il corso della sua carriera: il Barone Frankenstein, nel primo film della serie Hammer, La maschera di Frankenstein, diretto nel 1957 da Terence Fisher. Un creatore di mostri, un gelido, sprezzante scienziato, che maneggia cervelli e corpi, cadaveri e vite umane, che, nel nome delle sue scoperte, non arretra di fronte a delitti e nefandezze e che, almeno nel primo film del ciclo, si trastulla anche parecchio nei piaceri carnali concessigli dalla doppia moralità vittoriana, gentleman con la fidanzata e seduttore con la cameriera, della quale poi si sbarazza senza nessun rimpianto. Un dandy piuttosto cinico, diretto discendente di Lord Byron, incrociato con l’ossessione scientifica del dottor Knox (l’anatomista coinvolto con Burke e Hare, i ladri di cadaveri e assassini che sconvolsero Edimburgo nel 1828), un ruolo che Cushing interpretò in Le jene di Edimburgo, diretto nel 1959 da John Gilling. La prima Creatura che il Barone “compone” ha la maschera maciullata e dolente di Christopher Lee, con il quale Cushing si confrontò di nuovo l’anno immediatamente successivo, il 1958, in Dracula il vampiro di Fisher. Ancora una volta, Lee è il mostro, il signore della notte, il principe delle tenebre assetato di sangue, sensuale e feroce. Mentre Cushing è il cacciatore di vampiri: il dottor Abraham Van Helsing, con la sua professionale valigetta colma di croci, teste d’aglio, paletti appuntiti e martelli, un ascetico ossessivo, un incrocio acuto di ragione e superstizione. Sotto sotto, ancora uno “scienziato”, dell’occulto. E se nel ciclo Frankenstein (e soprattutto nei cinque film realizzati da Fisher nell’arco di 16 anni) non c’è gara tra il Barone (che si riapproria del suo nome, in qualche maniera usurpato dalla Creatura nei film degli anni Trenta diretti da James Whale e interpretati da Boris Karloff) e i suoi “mostri”, che cambiano sempre, assumendo persino attraenti sembianze femminili, nel ciclo Dracula, invece, lo scontro è tra titani. In pratica, non si sa per chi parteggiare tra il Conte, che certo appartiene alla schiera dei “non morti”, degli esseri maledetti e crudeli, che uccidono e dannano, ma che rappresenta anche (negli anni Sessanta della rivoluzione sessuale, come era stato in parte nell’Ottocento della rivoluzione industriale, e come capì bene Francis Ford Coppola nel suo adattamento del Bram Stoker’s Dracula) la dirompente forza dell’erotismo e della liberazione dalle catene del 10


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perbenismo vittoriano, e Van Helsing, che guida le forze del Bene, ma che non cela un certo freddo cinismo alla Knox, un accanimento “scientifico” che ha poco da spartire con l’apparente pietas verso le vittime del vampirismo. Non si sa bene, cioè, chi sia il vero “mostro” di queste storie, anche se alla fine (almeno in quegli anni), per amor di cinema e di leggenda, è il vampiro a dover soccombere. Per poi risorgere, e richiamare in causa Van Helsing. E così, mentre il dottore attraversa valli, città e castelli europei con il suo armamentario, il Barone invecchia, febbrilmente consumato dalla sua dannata, maniacale ossessione. Se nel tratteggio ambiguo degli eroi delle due saghe giocò molto il personale dualismo di Terence Fisher (un autore sul quale, a parte qualche inglese e soprattutto i francesi, si è studiato poco e con parecchio snobismo), non c’è dubbio che il physique du role e la finezza interpretativa di Peter Cushing abbiano contribuito a tracciare fisionomie assai complesse, non liquidabili come stereotipi, le cui sfaccettature “maligne” s’intrecciano tra loro, lasciando comunque aperte e irrisolte le scambievoli connessioni tra Bene e Male. Lo stesso vale per Sherlock Holmes, altro eroe vittoriano segnato dall’inappuntabile freddezza del suo “metodo”, con cui tiene a bada sotterranee pulsioni e dipendenze (in La furia dei Baskerville, ancora di Fisher), e per tutti gli altri archeologi, studiosi dell’occulto, profanatori di tombe, inquietanti primari di manicomi e ospedali che ha interpretato nel corso della sua carriera. Fino ai misteriosi, talvolta buffi, sempre ironici, esangui anziani cui Cushing diede vita negli horror a episodi dalla Amicus, venditori di profezie infauste (Le cinque chiavi del terrore di Freddie Francis) o di trovarobato maledetto (La bottega che vendeva la morte di Kevin Connor), di storie per non dormire. O agli irreprensibili cattivi a tutto tondo, come il proverbiale Sceriffo di Nottingham, nemico giurato di Robin Hood (in Gli arcieri di Sherwood di Terence Fisher), e il perfido Grand Moff Wilhuff Tarkin, governatore delle Regioni Imperiali e comandante della Morte Nera in Guerre stellari di George Lucas. Diceva di se stesso: «La gente mi guarda come se fossi una specie di mostro, ma non riesco a capire perché. Nei miei film macabri, sono stato un creatore o un distruttore di mostri, ma mai un mostro. In realtà, sono un tipo gentile. Non ho mai fatto male a una mosca. Amo gli animali e, quando sono in campagna, sono un appassionato bird-watcher». Forse proprio perché era un tipo tanto gentile (e un attore molto bravo), Peter Cushing è stato invece il mostro più pericoloso e inquietante creato dalla Hammer.

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Le spose di Dracula (1960)

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INTRODUZIONE Saint Peter

Peter Cushing, attore inglese purosangue, è noto in tutto il mondo per aver interpretato un numero considerevole di film dell’orrore. Nonostante la sua versatilità e le precedenti carriere di interprete teatrale e divo del piccolo schermo, Cushing è universalmente associato al genere horror. Uno strano destino, se così si può dire, visto che i suoi gusti personali erano orientati verso tutt’altro tipo di film e che nella vita privata era un uomo talmente buono e pacifico che la celebre rivista statunitense di cinema di fantascienza e dell’orrore, “Famous Monsters of Filmland”, coniò per lui un soprannome che gli calzava a pennello: Saint Peter. A teatro, a partire dagli anni Trenta, si misurò con allestimenti e ruoli d’ogni sorta. Recitò nella compagnia di Laurence Olivier e prese parte anche al suo adattamento cinematografico dell’Amleto di Shakespeare, nel 1948. Ma già aveva avuto una breve e utile esperienza nell’industria cinematografica, quando con coraggio, determinazione e tanta paura era partito alla volta di Hollywood, nel 1939, per tentare la fortuna e si era ritrovato a lavorare per registi come James Whale e George Stevens e a dividere lo stesso set con i mitici Stanlio e Ollio. La nostalgia per una buona tazza di tè inglese, però, era troppo forte. Peter Cushing è sempre stato orgoglioso di appartenere a una nazione come l’Inghilterra e non ha mai amato molto viaggiare. Così tornò in patria e riprese a esibirsi a teatro. All’inizio degli anni Cinquanta approdò in televisione, recitando in maniera indefessa in una serie di sceneggiati della BBC trasmessi rigorosamente dal vivo. Fu estenuante, ma il pubblicò si affezionò molto a lui, al punto che Peter Cushing divenne sinonimo di TV in Gran Bretagna. Nel 1954 si fece ammirare soprattutto per il suo Winston Smith nel discusso, provocatorio 1984 di George Orwell, che portò addirittura a un dibattimento all’interno della Camera dei Comuni. E qui, in particolare nella sequenza dei topi, c’erano già le prime avvisaglie di ciò che sarebbe accaduto nel giro di pochi anni, quando il nome di Cushing – insieme a quello del collega e amico Christopher Lee – finì con l’essere associato indelebilmente alla Hammer, la piccola casa di produzione cinematografica inglese che a metà degli anni Cinquanta aveva tentato con fortuna la strada della fantascienza e dell’horror. Il primo ruolo affidato a Cushing fu quello del Barone Frankenstein, inaugurando un ciclo di film che rivendicavano la centralità del personaggio - lo scienziato - dopo che invece, a Hollywood, la Universal lo aveva relegato in secondo piano, preferendo privilegiare la mostruosa creatura originata dai suoi esperimenti e resa celebre dal make up di Boris Karloff. Poi 13


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arrivò Van Helsing, il tenace avversario del Dracula magnetico e carnale impersonato da Christopher Lee. Seguirono molti altri ruoli fino a tutti gli anni Settanta, per la Hammer e per altre società di produzione, in coppia con l’amico o singolarmente. Partecipe di una lunga galleria gotica di mostri malinconici, vampiri, vittime incaute, lugubri manieri, laboratori del sadismo, strade buie e deserte, villaggi sperduti, servitori deformi, contadini superstiziosi, ricchi arroganti, Peter Cushing ha rappresentato “invariabilmente l’espressione di demoni culturali, l’uomo di scienza fanatico, l’asceta sapiente o il puritano votato a un’idea, il dandy capace di nettarsi le dita dal sangue di qualche mostruoso esperimento sul panciotto elegante, volto gelido e magari ipocrita di quella stessa società minacciata – ma a quel punto meno meschino della pletora dei ‘normali’ (dame bellocce, amici dal moralismo facile) coi loro progetti di piccolo cabotaggio ai quali sacrificano sogni propri e altrui”1. Meno meschino, ma pur sempre personificazione complessa e ambigua del “finto buono dominato in realtà da egoismo e sessismo di tutta una cultura vittoriana”2. Altre volte, però, si trattava di ruoli di eroe, inequivocabilmente positivi. Non bisogna dimenticare, poi, che con La maschera di Frankenstein, il film della Hammer che nel 1957 segnò i destini professionali di Peter Cushing e Christopher Lee, per la prima volta il sangue si mostrava in tutta l’intensità dell’Eastman Colour. Aberrante per l’epoca, le membra umane maneggiate con disinvoltura da Cushing gettavano il primo seme di quel gusto gore che avrebbe rivoluzionato il genere horror, a partire dagli anni Settanta, con pellicole di una violenza tale che le storie gotiche del cinema inglese erano destinate a impallidire. Peter Cushing rimase disgustato dalla visione de L’esorcista, lo trovò blasfemo e di una truculenza ingiustificabile. Rimpiangeva le atmosfere innocue delle pellicole targate Hammer, dove sì c’era il sangue, ma dove più spesso l’orrore era lasciato all’immaginazione, semplicemente accennato, con sapienti fuori campo che, anziché mostrare, alludevano. Ma più che di film dell’orrore, secondo Cushing bisognava parlare di film ‘fantastici’, perché l’orrore era da ascrivere ai crimini della realtà di tutti i giorni. “Per me un film horror è qualcosa tipo Il Padrino o le storie di guerra”, diceva Peter Cushing, “sono le cose accadute per davvero alla gente, e che ancora accadono, mentre i film cosiddetti dell’orrore sono fantasie che fanno evadere lo spettatore. La gente va a vederli e si diverte... qualcuno può anche ridere di quei film se crede...”3. Dello stesso avviso erano gli amici Christopher Lee e Vincent Price: anche loro hanno voluto sottolineare la necessità di distinguere le favole gotiche e allegoriche del ‘fantastico’ dalle vere storie d’orrore, quelle prese dalla vita quotidiana. Ricordiamoci, però, che Peter Cushing non è mai stato un appassionato del genere horror (continueremo a usare questo termine, per convenzione), neanche di quello vecchio stile. Gli piacevano le commedie, i film d’avventura e i 14


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western. Forse in pochi sanno che la sua più grande ambizione, rimasta inappagata, era quella di lavorare in un western o in un gangster movie. Ma in ogni caso, qualunque fosse stato l’ingaggio, si sarebbe sempre distinto per la meticolosità con cui studiava i suoi personaggi, per la cura maniacale dei dettagli e per la naturalezza con la quale era in grado di dire le proprie battute e contemporaneamente tenersi occupato con i più svariati oggetti di scena, i props. Toccare quegli oggetti e fare concretamente qualcosa mentre recitava gli infondeva più sicurezza. La stessa manualità la impiegava nella vita privata: dipingendo, disegnando, colorando nei minimi particolari i soldatini che amava collezionare, costruendo scenografie teatrali in miniatura. Arriviamo, dunque, al Cushing uomo. Tutti - amici, conoscenti, colleghi, registi - hanno sempre parlato bene di lui, con sincerità. Cordiale e benevolo verso chiunque, i modi di un perfetto gentleman inglese, dolce, raffinato, dotato di uno spassoso senso dell’umorismo che ne evidenziava apprezzabili doti di commediante: basterebbe rivedere le sue sporadiche partecipazioni al Morecambe and Wise Show, un popolare show televisivo inglese condotto dal duo comico Eric Morecambe e Ernie Wise, andato in onda tra il 1968 e il 1983. Ma anche intimamente religioso e molto riservato. Nonostante si dimostrasse sempre squisitamente gentile, infatti, era schivo, non amava la mondanità e si sentiva a disagio nel ricevere troppe attenzioni. Chissà quale fu l’espressione del suo volto quella volta che, come confidò alla sua affezionata segretaria Joyce Broughton, si era addormentato sulla poltrona lasciando la porta di ingresso aperta, nella sua casa di Whitstable nel Kent, e si era risvegliato con uno sconosciuto seduto di fronte a lui che lo fissava aspettando ansiosamente di potergli chiedere un autografo!4. Un altro aspetto del suo carattere era l’umiltà. Nel corso di una lunga carriera che, solo per il grande schermo, conta oltre novanta titoli, Cushing ha recitato in ottimi film ma anche in pellicole minori che non avevano molto da dire sul piano artistico. Ma a chi lo accusava di abbassare in maniera indecorosa i suoi standard, lui rispondeva di non aver mai avuto l’impressione di sprecarsi. “Devi avere un ego smisurato per pretendere di recitare sempre in opere come l’Amleto”, disse in un’occasione, “e io non possiedo un simile ego”5. Molto paziente e tollerante, con una flemma tipicamente britannica, per niente avvezzo alle lamentele o alle maldicenze, riusciva spesso ad assumere un’aria quasi da asceta. Ed ecco che l’epiteto ‘Saint Peter’ assume un chiaro significato. Christopher Lee ha messo bene in luce questo lato di Peter Cushing, raccontando un aneddoto circa la lavorazione del film Horror Express (id., 1972, di Gene Martin). Le riprese si svolgevano in Spagna, in un orrendo teatro di posa nei pressi di Madrid, e il vitto destinato al cast e alla troupe era terribile. Ad un certo punto Lee volle sfogarsi con l’amico, in camerino: “Non ce la faccio più, gli dissi, Che succede amico mio ?, mi rispose. Allora 15


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mi lanciai in una filippica sul mangiare: Credo che morirò per colpa di questo cibo tremendo. Questo studio fa schifo... La mia fu una lamentela prolungata e di proporzioni epiche. Lui continuò a guardarmi mentre sbucciava la sua mela. Poi disse semplicemente: Beh, sai, è inutile lamentarsi – e questo era il suo livello più alto di severità. Detto da lui, fu stroncante”6. Morigerato a un punto ch’è raro riscontrare nel mondo dello show business, l’unico suo vizio di cui si ha memoria erano le sigarette. Ma quando fumava lo faceva indossando guanti bianchi, perché non voleva assolutamente che sullo schermo potessero vedersi i segni gialli della nicotina tra le dita. Appassionato ornitologo fin da bambino, conosceva ogni specie di uccelli. Ma amava gli animali e la natura in genere, tanto che raggiunta l’età adulta aveva deciso di diventare vegetariano. Fu membro onorario della prestigiosa Vegetarian Society, l’organizzazione sorta in Inghilterra nel 1847 e che ancora oggi promuove una capillare campagna di sensibilizzazione sui benefici di un’alimentazione sana senza consumo di carne. Ci si può fare un’idea del profondo rispetto che Cushing nutriva nei confronti del mondo animale sfogliando un copione appartenuto all’attore e venduto all’asta dopo la sua morte. Si tratta di una copia della sceneggiatura di Black Cat (Gatto nero), un film di Lucio Fulci del 1981, liberamente tratto dall’omonimo racconto di Edgar Allan Poe pubblicato nel 1843. Il copione contiene solo le quarantasei scene in cui sarebbe dovuto apparire Peter Cushing, prima di ritirarsi dal progetto e cedere il passo al collega Patrick Magee. Non sappiamo di preciso il motivo per cui scelse di non prendere parte al film. Probabilmente dipese dal fatto che Cushing era legato a un altro modo di fare film di paura e non accettava l’uso gratuito della violenza, anche se va detto che Black Cat è una delle pellicole meno truculente di Fulci. Ciò ch’è interessante, però, sono le numerose annotazioni scritte a penna, che l’attore era solito aggiungere nella sua copia personale di ogni sceneggiatura: dialoghi aggiuntivi, consigli rivolti a se stesso su come costruire gradualmente il carattere del personaggio, appunti sul guardaroba da indossare a seconda della situazione. Dava anche preziosi consigli ai registi su come girare certe scene e alcune trovate particolarmente riuscite furono, più d’una volta, proprio suggerite da lui. Per Cushing era sempre stata una prassi irrinunciabile. Nel caso di Black Cat, anche se all’ultimo momento rinunciò alla parte, nella prima pagina scrisse: “Nessuna violenza sui gatti... deve essere presente un veterinario” 7. Questo la dice lunga sul suo amore per gli animali. Amabile e sensibile nel privato, sullo schermo ha saputo anche dare un volto ottimale alla malvagità, soprattutto quando dall’inizio degli anni Settanta, dopo la scomparsa prematura dell’amatissima moglie Helen, si era fatto sempre più emaciato, di una magrezza sconcertante che ne alterò i lineamenti. Il suo viso scavato e la presenza spigolosa, specchio di una sofferenza interiore, si prestarono alla caratterizzazione di rigidi e spietati ufficiali nazistoidi. Molti lo ricorde16


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ranno nei panni del Grand Moff Wilhuff Tarkin, il comandante dell’Impero Galattico a capo della stazione spaziale Morte Nera, nel primo capitolo di Guerre stellari. Dopo la morte di Helen, Peter Cushing sprofondò in un inferno, più tragico di quello dei mostri che popolavano i suoi film. Molto più tragico, perché non era una semplice allegoria emanata da qualche luogo remoto della Mitteleuropa o dalla nebbia della Londra vittoriana. Era un orrore vero. E si ritorna, quindi, alla distinzione tra ‘horror’ e ‘fantastico’. Leggendo l’autobiografia di Cushing, che citeremo spesso, non si può fare a meno di commuoversi col racconto straziante dei momenti che seguirono alla scomparsa dell’adorata moglie, quando l’attore si mise a correre su e giù per le scale di casa nel tentativo di farsi venire un infarto e meditò più volte il suicidio. La dipartita di Helen ha rappresentato senz’altro un momento di rottura nella vita di Peter Cushing, uno spartiacque, e per certi aspetti ne ha condizionato in parte anche il percorso artistico, non soltanto per la sua sempre più evidente gracilità: alcuni personaggi portati sullo schermo da Cushing nel corso degli anni Settanta riproponevano, con strabiliante analogia, il dolore e la solitudine realmente vissuti dall’attore dopo il grave lutto. Troppo credente per riuscire davvero a suicidarsi, continuò il suo cammino su questa terra da solo per più di vent’anni, dedicandosi al lavoro, ma nella costante e fiduciosa attesa di ricongiungersi con Helen per l’eternità. Preziosa, per superare i momenti difficili, fu la vicinanza degli amici, primo fra tanti Christopher Lee, e della piccola comunità di Whitstable, la deliziosa cittadina di mare che lui adorava e dove visse dalla fine degli anni Cinquanta fino alla morte, sopraggiunta all’età di ottantuno anni. Ma più di tutti, sono stati la segretaria Joyce e suo marito Bernard a stargli vicino e ad assisterlo. Joyce Broughton, ch’è stata al fedele servizio di Peter Cushing per ben trentacinque anni, è la persona che più di ogni altra ha avuto modo di conoscerlo nell’intimo. Si conobbero nel 1959. A quel tempo era la migliore amica di Joyce a svolgere mansioni di segreteria per l’attore, ma stava per sposarsi con uno spagnolo e si sarebbe presto trasferita in Spagna. Così, in procinto di abbandonare il lavoro, Eileen (questo il nome della donna) chiese a Joyce se le sarebbe piaciuto prendere il suo posto. Cushing e sua moglie avevano già preso in esame altre candidature, ma nessuna sembrava essere di loro gradimento. Joyce era sposata da quattro anni e lei e suo marito Bernard desideravano seriamente avere dei bambini. Riteneva che non fosse corretto iniziare a lavorare per Peter Cushing e poi, una volta incinta, lasciarlo nuovamente senza segretaria. Joyce accettò l’impiego solo in via temporanea, per pochi mesi, fino a quando non avesse trovato una persona fissa. Dopo tre mesi, Cushing le chiese se accettava di fargli da segretaria stabilmente. Non gli importava quanti figli avesse deciso di avere. Poteva rimanere incinta tutte le volte che desiderava. Joyce acconsentì e rimase 17


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con lui fino alla fine. Scriveva sotto dettatura, rispondeva alle lettere, riscriveva a macchina le sceneggiature che l’attore aveva l’abitudine di riempire con note aggiuntive, si accertava che i conti fossero regolarmente pagati, controllava che a casa fosse tutto in ordine nei periodi di assenza dei coniugi Cushing. Dopo la scomparsa di Helen e negli anni della malattia, Joyce e suo marito gli assicurarono ogni attenzione di cui aveva bisogno. Ci fu sempre una perfetta sintonia tra i due, fin dall’inizio. Lui aveva insistito per essere chiamato semplicemente Peter. Joyce, molto rispettosa, non voleva farlo perché all’epoca era impensabile rivolgersi al proprio datore di lavoro chiamandolo con il nome di battesimo. Così erano giunti a un simpatico accordo: Cushing sarebbe stato ‘Sir Boss’ e Helen ‘Lady Boss’. “Era tutto ciò che di solito un attore non è”, ha spiegato Joyce Broughton, “terribilmente timido, insicuro, e molto, molto garbato: si alzava sempre in piedi quando una signora entrava nella stanza e, inoltre, tutte le volte che veniva introdotto a una donna si chinava per baciarle la mano”. “È stato un privilegio e anche un onore rimanergli accanto per così tanti anni – cos’altro posso aggiungere?8. Note F. Pezzini, Peter Cushing, l’ambiguità e l’orrore, in: www.carmillaonline.com, 25 maggio 2013. 1

2

Ibidem.

3

J. Brosnan, The Horror People, Macdonald and Jane’s 1976, p. 181.

N. Clements, Whitstable’s gentleman screen star, in “Kent on Sunday”,11 luglio 2004. 4

“Evening News”, 25 marzo 1966, anche in: W. Kinsey e T. Johnson (con Joyce Broughton), The Peter Cushing Scrapbook, Peveril Publishing, Suffolk 2013, p. 130. 5

C. Lee, Lord of Misrule. The Autobiography of Christopher Lee, Orion Books Ltd., London 2004, pp. 358-359. 6

7

M. G. McGlasson, The Unknown Peter Cushing, BearManor Media, 2011, p. 80.

8

Peter Cushing. A Celebration, Whitstable Museum and Gallery, Whitstable 1995.

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Capitolo I Hollywood andata e ritorno

Nel suo libro dal titolo The Unknown Peter Cushing, Michael G. McGlasson si è concentrato su alcuni aspetti meno noti della vita di Cushing, soffermandosi in particolare sulle origini della sua famiglia e sulle vicende di chi, prima di lui, aveva intrapreso la carriera d’attore1. L’aspirazione a calcare le scene, che per il giovane Peter Cushing diventò presto una imprescindibile esigenza, sembrerebbe dipendere da un fattore genetico. L’interesse per la recitazione, infatti, ha accomunato diversi membri della stirpe Cushing. Il cognome ha origini molto lontane, nella contea di Norfolk in Inghilterra. Secondo accurate ricerche genealogiche, già tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo i Cushing risulterebbero essere una delle famiglie nobiliari proprietarie di numerosi castelli nella zona di Norfolk. Era l’epoca di Riccardo Cuor di Leone, Giovanni Senzaterra e del leggendario Robin Hood, periodo storico che curiosamente fa da sfondo a un film targato Hammer, Gli Arcieri di Sherwood (Sword of Sherwood Forest, 1960, di Terence Fisher), dove Peter Cushing interpreta lo Sceriffo di Nottingham. Ma per trovare le prime possibili tracce di un’eredità artistica dobbiamo arrivare al Settecento, quando visse un John Cushing attore. Nato nel 1719 a Hardingham, proprio nella contea di Norfolk, intraprese un’intensa attività teatrale che durò circa un quarantennio, dal 1741 al 1782. In particolare si distinse in rappresentazioni di opere shakespeariane: La Tempesta, Riccardo III, Enrico IV, Amleto, Otello, Romeo e Giulietta, Macbeth, Giulio Cesare, Coriolano. Nell’Amleto aveva interpretato una volta il ruolo di Orazio e poi, nel 1749 al Covent Garden, quello di Osric: lo stesso ruolo assegnato a Peter Cushing nella trasposizione cinematografica di Laurence Olivier del 1948. John Cushing morì a Liverpool nel 1790. Mezzo secolo più tardi, nel 1842, nacque a Londra Henry William Cushing, il nonno paterno di Peter. Da ragazzino aveva iniziato a lavorare come agricoltore insieme al padre, in una fattoria nella contea di Norfolk. Possedeva una bella voce baritonale e le sue ambizioni nel campo dell’arte lo spinsero, all’età di diciannove anni, ad abbandonare quella vita e trasferirsi a Londra, dove avrebbe cominciato a esibirsi come cantante d’opera e, in seguito, come attore. Come si può facilmente immaginare, è alquanto improbabile che suo padre avesse accolto con entusiasmo questa decisione, in un’epoca in cui la gente di spettacolo era ancora tenuta in pessima considerazione. Gli attori erano “rogues and vagabonds”, ladri e vagabondi. Nel 1863 Henry William Cushing sposò la prima moglie, Mary Pearson, che sarebbe morta prematuramente circa dieci anni più tardi. Ebbero due figli: nel 19


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1866 nacque William Henry Cushing e nel 1869 vide la luce Albert Walker Cushing. Il primo avrebbe intrapreso anch’egli la carriera di attore, con il nome d’arte di Wilton Herriot. Recitava nel music hall e scriveva testi. Morì nel 1913, poco prima che nascesse Peter. Il secondo era il misterioso zio Bertie, di cui Peter Cushing fa un breve cenno nella sua autobiografia. All’inizio del secolo si era trasferito in Australia. Peter ne sentì parlare per la prima volta negli anni Quaranta, quando disse a suo padre che stava per andare in tournée con la compagnia di Laurence Olivier proprio in Australia. Si diceva che zio Bertie fosse stato bandito dall’Inghilterra per il suo temperamento troppo artistico e che da allora nessuno ne aveva avuto più notizie, o almeno è quello che il padre di Peter (sempre un po’ diffidente verso la vocazione del figlio a diventare attore di professione) cercò di fargli credere. Di solito erano i criminali ad essere mandati in terre così lontane, e Peter si chiedeva cosa potesse aver fatto di così grave lo zio Bertie per meritarsi l’esilio. In realtà ci andò di sua iniziativa e il suo nome è incluso in una lista di passeggeri giunti a Sidney nel 1901. Di lui si sa ben poco, ma è probabile che si fosse fatto anche una famiglia in Australia. Nel 1873 Henry William Cushing si risposò con Emily Day ed ebbe altri tre figli: George Edward (il padre di Peter) nel 1881, Maude Ethel nel 1884 e Sydney Perceval, morto dopo sole undici settimane di vita nel 1885. Maude fu attrice con il nome d’arte di Maude Ashton e si esibì anche in Sudafrica. Era la “zia preferita” di Peter, come ammise lui stesso nell’autobiografia2, e si ritirò dalle scene quando lui era ancora un bambino. Il nonno paterno di Peter, dunque, era un artista. Dopo aver maturato una discreta esperienza come cantante lirico, esibendosi in opere come il Faust di Gounod, La Traviata di Giuseppe Verdi, il Fra Diavolo di Daniel Auber, nel 1887 Henry William Cushing entrò a far parte della compagnia di attori di Henry Irving, al Lyceum Theatre di Londra. Irving ne aveva preso la direzione nel 1878 e in quel periodo Bram Stoker (proprio lui, l’autore di Dracula) divenne per un ventennio il direttore finanziario del Lyceum, nonché confidente e segretario di Henry Irving. Proprio al Lyceum Theatre, il 18 maggio del 1897, nello stesso anno di pubblicazione del romanzo, ci fu una primissima rappresentazione teatrale del Dracula. Il celebre Conte era impersonato da un attore di nome T. Arthur Jones. Stoker chiese più volte a Irving se era disposto a interpretare il protagonista del suo romanzo, ma lui rifiutò sempre. Durante il lungo sodalizio con la compagnia di Henry Irving, quindi, Cushing nonno ebbe modo di frequentare Bram Stoker. Non poteva certo immaginare che più di mezzo secolo più tardi, il nipote Peter sarebbe diventato celebre anche per il ruolo di Van Helsing, l’antagonista del Dracula stokeriano. Sempre come attore del Lyceum, Henry William Cushing ebbe l’onore di conoscere la Regina Vittoria, che aveva voluto invitare la compagnia al Castello di Windsor per una rappresentazione privata di Becket. Prese parte anche a due 20


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tournée teatrali negli Stati Uniti. L’ultima testimonianza sulla sua carriera di attore risalirebbe al dicembre del 1897, con la messa in scena di Madame Sans Gene al Lyceum. Non è da escludere che avesse ancora recitato in seguito, ma sembra che le sue condizioni di salute si stessero deteriorando. Morì nell’aprile del 1899, a soli 57 anni. Henry Irving, invece, morì nel 1905. Qualche anno prima, Irving aveva avuto una grossa delusione quando tutte le scenografie dei suoi spettacoli al Lyceum, accumulate in oltre vent’anni, erano andate distrutte in uno spaventoso incendio. Si trattava di quasi trecento scene. Gli ultimi anni di vita di Henry William Cushing, sul finire del secolo, coincidevano con un progressivo cambiamento nel modo di fare teatro in Inghilterra. Con il New Drama andava affermandosi un metodo di recitazione diverso, più ‘naturale’, in contrasto con l’enfatizzazione gestuale tipica di Irving, che pensava che il teatro non dovesse essere una mera imitazione della realtà. Per il nonno di Peter Cushing sarebbe stato impensabile approcciarsi al nuovo stile. Inoltre, si può dire che sia stato una figura secondaria nel panorama teatrale dell’epoca. Non ebbe mai ruoli di prim’ordine e non riuscì mai a emergere in maniera evidente sugli altri. E, va aggiunto, la sua paga fu sempre modesta. Ma seppe calcare le scene per un quarto di secolo, come attore e come cantante d’opera. Indubbiamente Peter, pur non avendo potuto conoscerlo di persona, ereditò da lui la stessa passione per il palcoscenico: una passione che, coltivata con ostinata devozione, gli permise di diventare una star dapprima britannica e poi internazionale, ben pagato, icona del cinema horror e con una carriera lunga almeno cinquant’anni. Privo di alcun interesse per la recitazione, invece, era George Edward Cushing, il terzogenito di Henry William. Lui e sua moglie Nellie Maria King, figlia di un mercante di tappeti, ebbero due maschi: David, nato nel 1910, e il nostro Peter, venuto alla luce il 26 maggio del 1913. Peter Wilton nacque a Kenley, nel Surrey, e il suo secondo nome era un omaggio allo zio attore Wilton Herriot, da poco scomparso. Sua madre avrebbe voluto una femmina, perché un maschio già lo avevano. Così, quando nacque Peter, mamma Nellie si sfogò facendogli indossare abiti da femminuccia e lasciandogli crescere in testa lunghi riccioli annodati con nastro rosa. Non stupisce, dunque, che lo scambiassero per una bambina. Ma la donna, grazie al cielo, finì presto col capitolare e accettò con rassegnazione la prole di sesso maschile. Il padre era un uomo molto riservato, di poche parole. Peter non riuscì mai a conoscerlo nel profondo. Ebbe sempre l’impressione che la sua fosse stata un’infanzia difficile, anche perché era cresciuto nel rigido conformismo dell’epoca vittoriana. Di professione era un tecnico che si occupava del computo metrico ed estimativo. I primissimi ricordi d’infanzia di Peter erano legati al villaggio di Dulwich, dove i Cushing si erano momentaneamente trasferiti dal Surrey negli anni della 21


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Grande Guerra. Dopo la guerra tornarono nel Surrey, a Purley per la precisione. Da bambino gli piaceva molto mangiare ed era goloso soprattutto di snack fuori pasto. In età adulta, invece, il suo rapporto col cibo si sarebbe fatto assai complicato, privo di stimoli, reso ancora più difficile dalla decisione di diventare vegetariano. Ebbe sempre una fervida immaginazione. Un anno, per Natale, i genitori lo portarono a teatro, a Londra, a vedere Peter Pan. Dopo quell’entusiasmante esperienza, per molte settimane il piccolo Peter, quando si coricava, lasciava la finestra aperta, nonostante il freddo, pregando che l’eroe arrivasse volando e lo portasse a visitare l’Isola che non c’è. Dall’età di cinque anni cominciò a manifestare un’inclinazione per il disegno. Aveva un certo talento, tanto che qualche anno più tardi a scuola, conoscendo la sua propensione per l’arte, lo accusarono ingiustamente di essere l’autore di un poco decoroso graffito sul muro dei bagni. Si appassionò anche alla lettura di storie a fumetti e, a otto anni circa, iniziò a collezionare soldatini e modellini in miniatura, un hobby che avrebbe continuato a coltivare per tutta la vita. Leggeva le storie a fumetti per bambini create da Charles Edward Hamilton, Puck and the Rainbow, con protagonista Rob the Rover e un gruppo di simpatici animali capitanati da Tim la Tigre e Joey il Pappagallo. Si trattava di storie che, senza dubbio, hanno contribuito a far crescere in lui, fin da piccolo, un profondo rispetto per il mondo animale. Ma il suo eroe a fumetti preferito era Tom Merry: uno studente leale, onesto, senza vizi, con una particolare avversione per il fumo. Si può dire che Peter Cushing si sia ispirato molto a lui, anche per gli anni a venire, prendendone a prestito regole e condotta. Ma per quanto riguarda il fumo, riuscì ad astenersene solo fino a quando non intraprese la carriera di attore. In un’occasione, infatti, dovendo fumare la pipa in scena a teatro, volle prima provare almeno le sigarette, per evitare tosse o vomito in palcoscenico. Così, da quel momento, il demone della nicotina prese il sopravvento su di lui, contravvenendo in parte ai principi morali del suo eroe d’infanzia. Poco grave, se si pensa che il fumo è praticamente l’unico vero vizio attribuibile al morigerato Peter Cushing in tutta la sua esistenza. Un altro personaggio eroico, le cui avventure avevano alimentato la fantasia del piccolo Peter, era quello incarnato da Tom Mix, pseudonimo di Thomas Hezikiah Mix, il primo cowboy di Hollywood nell’epoca del cinema muto, protagonista di quasi trecento pellicole tra il 1909 e il 1935. Quando andava al cinematografo a vedere i suoi film, tornando a casa Peter era ansioso di emularne le gesta. Il giardino di casa sul retro, che correva lungo la scarpata della ferrovia, diventava la grande prateria. La bicicletta di Peter, invece, con un po’ di immaginazione era il fedele cavallo bianco di Tom Mix, Tony. Giocare a riproporre le scene d’azione viste in quei film fu una buona palestra per la sua futura carriera d’attore. Infatti, sarebbe divenuto piuttosto bravo a inscenare duelli o simulare 22


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una caduta, sia sul palco che al cinema, proprio perché era allenato grazie alle prodezze con cui da bambino aveva voluto imitare il leggendario Tom Mix. Una volta provò addirittura a impiccarsi, dopo averlo visto fare in uno di quei film western. Si appese allo stendibiancheria, ma per fortuna sua madre non se ne accorse, altrimenti lo avrebbe riempito di botte. Di certo il piccolo Peter non poteva ancora sapere che un giorno, diventato adulto e intrapresa la carriera di attore a teatro, avrebbe conosciuto di persona il suo eroe poco tempo prima che morisse. L’incontro sarebbe avvenuto verso la fine degli anni Trenta, quando il leggendario cowboy dei film americani giunse in Inghilterra per apparire in uno spettacolo di varietà itinerante e si esibì non lontano dal Royal Theatre di Nottingham, dove Peter Cushing stava lavorando. Peter si complimentò con lui, ringraziandolo per tutte le emozioni che gli aveva regalato da bambino. La cosa divertente è che Tom Mix, molto lusingato, gli chiese la cortesia di leggergli un contratto e fargli da testimone per la firma. Il motivo? L’eroe dei film western era analfabeta! Tom Mix morì nel 1940, all’età di sessant’anni, in un incidente d’auto a Florence, in Arizona. Tra le dive del cinematografo, invece, gli piacevano Loretta Young e Lillian Gish. Amava molto i film epici di David. W. Griffith e cominciò fin da bambino ad appassionarsi alla musica classica dopo aver visto I Nibelunghi di Fritz Lang (Die Nibelungen, 1924) con le musiche di Wagner. Durante la bella stagione la bicicletta, oltre che per emulare le gesta a cavallo di Tom Mix, serviva anche per andare a esplorare la campagna del Surrey insieme al fratello maggiore David. Il fatto di collezionare le figurine di storia naturale li aveva resi entrambi molto curiosi. D’estate partivano al mattino presto e rincasavano la sera. Passavano le belle giornate di sole a osservare la natura che li circondava, cercando di carpirne gli affascinanti segreti. Fu in quei momenti che Peter Cushing cominciò a maturare una passione ornitologica che portò avanti per tutta la vita, diventando quasi un esperto in materia. Infatti, col tempo, sarebbe divenuto un profondo conoscitore di ogni specie di uccelli, nonché membro della Royal Society for the Protection of Birds. Mentre, con ogni probabilità, proprio durante quei giorni trascorsi all’aria aperta, suo fratello David capì cos’avrebbe fatto da grande: l’agricoltore. Sempre con l’aiuto di David, una volta a casa improvvisò spettacoli a pagamento per amici e parenti, utilizzando dei burattini che gli avevano regalato a Natale. Era un tentativo di incrementare la paghetta di sei penny che riceveva ogni settimana, in modo da assecondare al meglio i suoi numerosi interessi. Come ha raccontato lui stesso, si trattò di una rappresentazione in stile Grand Guignol, un po’ troppo macabra per la sua età. Certo non poteva immaginare che quello fosse un inconsapevole preludio a ciò che sarebbe diventato in seguito, e cioè uno dei maggiori interpreti del cinema dell’orrore. Ma la prima vera e propria esperienza su un palco l’aveva avuta all’asilo, in una recita dove indossava 23


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un pagliaccetto verde, che doveva rappresentare con molta probabilità uno gnomo o un folletto, o qualcosa del genere. C’erano anche momenti meno belli. Per tre anni consecutivi si ammalò di polmonite. La terza volta si trattò di polmonite doppia, spesso fatale prima che la scienza medica potesse compiere importanti progressi al riguardo. Più deleterio della malattia, però, era il metodo un po’ sadico con il quale mamma Nelly usava punire suo figlio Peter quando faceva (o stava per fare) qualcosa di sbagliato. Parafrasando i primi versi di una canzone dal titolo Love Will Find a Way, sua madre cambiava le parole e sulla stessa melodia cantava: “I’m going away, away, away, across the ocean blue”, me ne sto andando via, via, via, lungo l’oceano blu... E poi fingeva di essere morta, ferma immobile sulla sedia, con gli occhi chiusi e la testa reclinata all’indietro. Ovviamente il piccolo Peter si spaventava e, piangendo, prometteva di fare il bravo e obbedire. Funzionava, dunque. Senza volerlo, però, questa tattica ebbe forti ripercussioni psicologiche su di lui, infondendogli una patologica paura della morte che si sarebbe trascinato in età adulta. Una paura ch’era, in sostanza, l’angoscioso pensiero di poter perdere per sempre le persone a lui care: triste presagio di quello che avrebbe vissuto, come vedremo, negli ultimi mesi di vita della moglie Helen. Una punizione inflittagli dal padre, invece, fu quella di chiuderlo in uno scantinato, al buio. Anche in questo caso, la penitenza gli procurò una fobia che lo avrebbe accompagnato per molti anni. Cresciuto, cercò di combatterla imponendosi, con fermezza, di fare passeggiate notturne da solo, in sentieri appartati che alla luce del sole erano incantevoli, espressione di una natura variopinta, ma che di notte apparivano oscuri e tenebrosi. Povero Peter Cushing, costretto ad agire in situazioni simili a quelle dei film che lo avrebbero reso famoso! Sempre curioso e con una mente ricca di stimoli, non si può dire però che fosse uno studente modello. Tutt’altro. Se una cosa non lo appassionava, non c’era alcuna speranza di riuscire a catturare la sua attenzione. Per di più, da bambino, aveva grosse difficoltà ad articolare le parole, a causa di un difetto di pronuncia che lo rendeva più propenso a esprimersi a gesti o con il disegno. Oltre al rugby e all’educazione fisica, le uniche discipline per cui provava interesse erano la storia dell’arte e l’annuale recita scolastica. Per i compiti era solito farsi aiutare da David. Per convincerlo, lo inteneriva con occhiate languide e i suoi grandi occhi da cucciolo gli valsero il soprannome di ‘Brighteyes’. I risultati conseguiti a casa, grazie al salvifico intervento del fratello, destavano però comprensibili sospetti negli insegnanti, abituati alla totale incompetenza e alla svogliatezza che Peter dimostrava sempre in classe. In seguito all’incidente del graffito nei bagni della scuola, per punizione fu mandato un trimestre alla Shoreham Grammar School, un collegio a ShorehamBy-Sea, nel Sussex. Aveva undici anni all’epoca. Fu un’esperienza breve ma traumatica. Viveva talmente male quell’esilio forzato che non faceva altro che 24


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piangere e divenne addirittura incontinente a letto. Ma l’appetito continuava a non mancargli. Negli anni seguenti frequentò la Purley County Secondary School, vicino a casa. L’insegnante di fisica, D. J. Davies, era anche l’organizzatore delle recite scolastiche e si può dire che fu la prima persona a dare un serio impulso alle inclinazioni artistiche del giovane Peter Cushing. Sapendo bene, come i suoi colleghi, che a scuola non era una cima, Davies pensò che fosse meglio impiegarlo nelle attività teatrali. Così lo mise a dipingere le scenografie degli spettacoli, sfruttando il suo estro creativo, e gli diede l’opportunità anche di esibirsi. Fu allora, all’età di circa sedici anni, che cominciò a concepire l’idea di intraprendere la carriera di attore a livello professionale. In quel periodo riuscì anche ad approfondire la passione per la pittura e per il disegno, frequentando per quattro anni una scuola serale, al Croydon College of Art. E forse con l’idea di impiegare in modo proficuo questa sua propensione, nel 1933 il padre gli procurò un lavoro nella sala disegnatori nel dipartimento del geometra del Consiglio Distrettuale di Coulsdon e Purley. In pratica era un po’ come il nostro Ufficio del Catasto. George Cushing sfruttò alcune conoscenze per trovare quel lavoro a Peter, e aveva fatto lo stesso con il primogenito David facendolo assumere per breve tempo da una piccola società di assicurazioni a Londra. Come scrive McGlasson nel suo libro, con molta probabilità George aveva amicizie influenti perché (come già Henry William Cushing e come lo zio Wilton Herriot) era membro della massoneria londinese. David, però, riuscì presto a coronare il suo sogno quando il padre finalmente, vedendolo tremendamente insoddisfatto di quell’impiego, acconsentì a comprargli un piccolo terreno a Norwood Hill, Surrey, dove poter creare in proprio un’azienda agricola. Ma difficilmente avrebbe assecondato le aspirazioni di Peter, perché proprio non riusciva a farsi andare a genio l’idea di un figlio attore. Quello al Consiglio Distrettuale di Coulsdon e Purley era un lavoro d’ufficio che non poteva certo soddisfare le ambizioni di Peter. La paga era di 30 scellini la settimana. L’unica cosa che poteva piacergli di quell’impiego era disegnare progetti, data la sua propensione alle arti figurative, ma venivano sempre respinti perché ritenuti troppo fantasiosi, frutto di una fervida immaginazione che non era consona a quel tipo di mansioni. Ogni volta che gli affidavano un compito all’esterno, come controllare la numerazione delle strade o raccogliere gli incassi dei gabinetti pubblici, Peter cercava di prolungare al massimo l’uscita e ritardare così, il più possibile, il rientro in ufficio. La settimana lavorativa andava dal lunedì al sabato. Il sabato si lavorava solo al mattino ma, a turno, ogni dipendente aveva diritto a un sabato libero al mese. Quando toccava a lui, Peter era solito sfruttare la giornata libera recandosi nel West End di Londra, nel quartiere dei teatri. Quando ci riusciva, amava curiosare dietro le quinte per respirare l’atmosfera “intossicante” e gli odori del palcoscenico3. Il lunedì mattina faceva ritorno 25


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in ufficio, ma la sua vera passione restava sempre il teatro. Gli unici momenti di gratificazione li aveva recitando nelle rappresentazioni scolastiche dell’amico professor Davies e in alcuni allestimenti di compagnie filodrammatiche locali. C’è un aneddoto divertente che riguarda la sua partecipazione a una messa in scena di Pygmalion and Galatea di W. S. Gilbert. Credendo che tutti gli antichi Greci avessero gambe senza peli, provò a depilarsi con una crema Veet, simile a quelle che ancora oggi sono in commercio. La spalmò su tutte le gambe, dalla caviglia fino all’anca, pensando che il risultato fosse immediato. Vedendo che non succedeva nulla, provò a sciacquarsi sotto l’acqua calda, con l’unico effetto di indurire talmente tanto l’unguento da farlo sembrare cemento. Per toglierlo usò il rasoio di suo padre provocandosi lacerazioni, soprattutto all’altezza degli stinchi, e sporcando di sangue tutto il bagno. Ogni settimana comprava “The Stage”, un giornale specializzato dove si pubblicavano anche annunci di lavoro in ambito teatrale. Peter era solito leggere gli annunci in cui le compagnie stabili che giravano il paese cercavano attori per ruoli addizionali. Pubblicò anche inserzioni in cui si rendeva disponibile ad un inizio di carriera teatrale, ma non aveva ancora vere e proprie esperienze professionali che potessero rappresentare una buona referenza. In quel periodo spese una piccola fortuna in francobolli per mandare i suoi annunci al giornale. Ma, una volta pubblicati, non riceveva mai risposte. Si fece molto triste e solitario, chiuso in sé stesso, immerso nelle proprie fantasie. Il senso di frustrazione, per un lavoro che non gli piaceva e per il fatto che non si fosse ancora presentata un’occasione adatta a far decollare le sue aspirazioni teatrali, divenne tale che pensò addirittura al suicidio. Era il 1934 e Peter aveva ventun’ anni. Ogni fine settimana i suoi genitori erano soliti andare a trovare David nella sua proprietà di Norwood Hill e volevano che Peter andasse con loro. Quella volta si rifiutò di accompagnarli e, approfittando della loro assenza, preparò il suo azzardato coup de théatre. Scrisse una lettera di addio per papà George e mamma Nellie e la lasciò sulla mensola del caminetto, vicino all’orologio. Poi si recò in treno a Exmouth, contea del Devon, con l’intenzione di buttarsi giù dalla scogliera a strapiombo sul mare dell’Orcombe Point, sulla Jurassic Coast. Fortunatamente cambiò idea. Tornò a casa e sicuramente, anche se nell’autobiografia non ne fa menzione, corse a distruggere la lettera di commiato prima che i genitori potessero vederla. Si era trattato di un momento di sconforto e depressione, ma riuscì a superarlo. Nelle sue continue consultazioni di riviste specializzate, un giorno sul treno lesse che alla Guildhall School of Music and Drama erano disponibili borse per studiare recitazione. Nei giorni seguenti si presentò a colloquio con il direttore Allan Aynesworth (1864-1959), ch’era stato un attore dell’ultimo periodo vittoriano. Questi, appena sentì Peter parlare, lo respinse in malo modo dicendogli che la sua pronuncia era offensiva e non era assolutamente adatta per fare teatro. 26


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Gli consegnò un foglio dove erano scritte alcune frasi su cui esercitarsi e gli disse di tornare soltanto quando avesse imparato la corretta dizione. Così tutte le sere, a casa, si esercitava e, dopo aver fatto piccoli progressi, tornò alla Guildhall. Questa volta fu ammesso ai corsi serali, da frequentare due volte alla settimana dopo il lavoro d’ufficio. L’anno era il 1935 e Peter prese parte anche a due rappresentazioni di fine corso, The Red Umbrella (una commedia di Brenda Girvin e Monica Cosens) e The Torch-Bearers, di George Kelly, che possono essere considerate il suo vero esordio teatrale. Il passo successivo fu tempestare di lettere il Connaught Theatre di Worthing, nel West Sussex, nella speranza di ottenere qualche scrittura. Nella missiva faceva menzione delle sue prime esperienze come attore alla Guildhall. Finalmente, dopo sei mesi, ricevette risposta e fu invitato a recarsi a colloquio con il direttore del Connaught Theatre, William (Bill) Fraser. Preso dall’entusiasmo, Peter abbandonò definitivamente il suo impiego e il giorno dopo, un sabato, si recò a Worthing convinto che si trattasse di un’importante opportunità per diventare un attore di professione. Non poteva immaginare che Bill Fraser lo avesse convocato solo per dirgli di smetterla di assillarlo in continuazione con le sue lettere ! All’eccitazione subentrò lo sconforto. Pensava di essere stato chiamato per una proposta seria e non si aspettava di certo un trattamento simile. Si rattristò, gli occhi trattenevano a malapena le lacrime. A quel punto Fraser si impietosì e gli propose di fare la comparsa in una scena del Cornelius di J. B. Priestley, la pièce che avrebbero rappresentato quella sera al Connaught. Era il giugno del 1936 e Peter, nuovamente preso dall’entusiasmo, considerava quel semplice ruolo da figurante il suo debutto professionale, nonostante non avesse battute e non dovesse fare granché in scena. Comunque non fu un debutto entusiasmante, perché anche come comparsa il ragazzo era ancora piuttosto inesperto per muoversi con disinvoltura sul palco. Dopo quella sera Fraser offrì a Peter Cushing un lavoro come assistente di scena con una paga di 15 scellini a settimana. Era la metà del salario percepito all’ufficio del geometra, ma dopo tanto avvilimento il suo morale si era finalmente risollevato. Inoltre si trattava di una mansione molto utile per chi voleva intraprendere la carriera di attore e di tanto in tanto era anche chiamato a ricoprire qualche piccolo ruolo nelle rappresentazioni. Tutto quello che guadagnava se ne andava per pagare l’affitto della sua stanza. Al mattino era solito consumare un’abbondante colazione, compresa nel prezzo della pigione, e poi stava tutto il giorno a teatro fino a tarda ora, riuscendo a recuperare un po’ di cibo tra le vivande che venivano usate negli allestimenti. Infatti, quello usato in scena era sempre cibo vero. Peter si occupava principalmente degli arredi e degli oggetti di scena, ed è forse proprio durante quell’esperienza che cominciò a svilupparsi in lui un’attenzione particolare per i props, gli oggetti usati in scena per l’appunto. Negli 27


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anni a venire, raggiunto il successo, Peter Cushing sarebbe diventato celebre per l’assoluta spontaneità con cui maneggiava oggetti mentre recitava le sue battute, perfettamente a suo agio nel fare più azioni in contemporanea, al contrario di tanti suoi colleghi che invece si sentivano impacciati nel dover recitare manipolando cose. Dimostrò fin dall’inizio una grande cura per i dettagli, caratteristica che avrebbe conservato per tutta la carriera dal teatro al cinema, e dava molta importanza ai costumi. Riteneva che i costumi fossero importantissimi, soprattutto nel teatro, perché un attore aveva sempre bisogno di sentirsi perfettamente a suo agio in tutti gli abiti che indossava in scena, altrimenti rischiava di essere impacciato, di assumere pose poco naturali, perdendo quindi credibilità. Alla fine dell’estate del 1936 Bill Frasen si concesse una vacanza e fu sostituito da Peter Coleman, che dirigeva il Grand Theatre di Southampton. Finito il momentaneo incarico al Connaught Theatre, Coleman invitò Peter Cushing a seguirlo nel suo teatro, sempre come assistente di scena e attore in piccole parti. La paga era un pochino più alta e i ruoli ch’era chiamato a interpretare si facevano sempre più importanti, compreso quello che potremmo considerare con ogni probabilità il suo primo ruolo da cattivo: Re Ratto nella rappresentazione di Dick Whittington. Una volta dovette indossare baffi e barba finti. Gli consigliarono di spalmarsi sul viso, prima di applicare la peluria, un prodotto speciale. Così fece. A spettacolo finito, quando si tolse tutto, venne via anche un leggero strato di pelle. Da quel momento divenne intollerante a qualsiasi prodotto adesivo e ogni volta che la parte richiedeva barba o baffi, avrebbe dovuto essere avvisato per tempo in modo da farli crescere naturalmente. Una delle attrici della compagnia di Coleman era la sedicenne Doreen Lawrence, di cui Peter Cushing ha parlato nell’autobiografia ricordandola con affetto e dicendo ch’erano divenuti buoni amici. Un giorno si videro per provare una scena e quando lei si accorse di quanto squallido fosse il posto dove Peter alloggiava, insistette perché andasse a stare temporaneamente a casa sua, almeno in attesa di trovare una sistemazione migliore. Lei viveva coi suoi genitori a Southampton. Negli anni Quaranta sarebbe divenuta la moglie dell’attore inglese Jack Hawkins, prendendone il cognome. Ma c’è qualcosa di cui Peter Cushing non fa menzione. Secondo una testimonianza riportata nel libro di McGlasson, quella del collega Sam Brearley, i due all’epoca erano fidanzati4. C’è di più. Secondo quanto riportato dall’attrice stessa nel suo libro di memorie, Drury Lane to Dimapur: Wartime Adventures of an Actress (Dovecote, 2009), lei sarebbe stata la prima vera ossessione femminile dell’attore, il suo primo amore. Verosimilmente i genitori di lei dovevano essere ben disposti verso questa relazione, visto che lo accolsero in casa nonostante la differenza di età (lui aveva almeno ventitre anni a quel tempo). Al contrario, sembra che George Cushing non fosse molto contento di quanto stava succedendo proprio perché mal giudi28


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cava il fatto che la ragazza fosse molto più giovane di suo figlio. Non ne sappiamo il motivo, ma Peter Cushing non ha fatto parola di tutta questa storia. Si è limitato a dire che in quel periodo si prendeva una cotta praticamente per tutte le giovani attrici con le quali gli capitava di lavorare, ma che non aveva il tempo per una relazione stabile. È stato molto evasivo in merito. Probabilmente - ma è solo una supposizione - il pudore con cui raccontava gli anni giovanili era una forma di rispetto per la memoria di Helen, che dal 1942 (anno del loro primo incontro) divenne l’unico grande amore della sua vita, un amore rimasto inalterato anche dopo la morte di lei. Al termine della stagione del Grand Theatre, Peter Cushing cercò qualche piccolo ruolo altrove e, previa consultazione dell’inseparabile “The Stage”, riuscì a prendere parte ad alcuni allestimenti di altre compagnie, tra cui quella di William Brookfield. Poi fu selezionato per entrare nel gruppo teatrale di Harry Hanson, i Court Players, attori girovaghi che portavano in giro per il paese versioni ridotte di grandi successi del West End. La paga, questa volta, era di oltre due sterline a settimana, dettaglio non trascurabile visto che gli consentì di aprire il suo primo libretto di risparmio postale. Stava finalmente maturando una certa esperienza in campo teatrale ed era quello che aveva sempre desiderato. Ma evidentemente non gli bastava. Sentì l’esigenza di spingersi oltre e di tentare la fortuna nel mondo del cinema, ma non in patria: bensì a Hollywood. Curiosità o ambizione? Forse una decisione maturata dopo l’incontro, nel 1938, con il suo idolo Tom Mix? Fatto sta che chiese a suo padre di aiutarlo a pagarsi il viaggio per gli Stati Uniti. Stando alle indiscrezioni contenute nel libro di McGlasson, lui avrebbe acconsentito con il solo scopo di allontanare il figlio dalla giovanissima Doreen Lawrence. Il 18 gennaio del 1939 Peter Cushing salpò da Southampton con destinazione l’America. L’esperienza americana fu senz’altro un importante periodo di formazione, una buona palestra in vista di quello che lo avrebbe atteso in Inghilterra dopo il suo ritorno in patria. A New York si mise subito in contatto con gli uffici delle maggiori compagnie cinematografiche, chiedendo che potessero fornirlo di una lettera di referenze da esibire ai direttori di casting di tutti i più importanti Studios, una volta che si fosse recato a Hollywood. L’unico ad assecondarlo fu Larney Goodkind, un dirigente della Columbia Pictures, il quale si premurò di scrivergli una lettera di presentazione e di dargli un utile contatto con la Edward Small Production di Hollywood, una società di produzione indipendente capitanata dall’ex attore Edward Small. Ma lo avvisò che le probabilità di riuscire erano pochissime, perché almeno una persona su cinque negli Stati Uniti aspirava a entrare nel mondo del cinema. Anche l’attore Robert Morley lo mise subito in guardia. Peter, duran29


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te il soggiorno newyorchese, andò a vederlo a teatro nei panni di Oscar Wilde e volle incontrarlo, nel backstage, per chiedere consigli su come muoversi nell’ambiente. Morley gli disse di non illudersi, che era un’impresa ardua e gli consigliò di andarsene a Los Angeles giusto per una vacanza, niente di più. Peter viaggiò in treno da New York a Los Angeles e dopo cinque giorni, il 10 febbraio, giunse a destinazione. In cerca di una stanza, si recò in un complesso nella North Hudson Avenue, YMCA. Disse che possedeva solo sedici dollari e chiese se gentilmente poteva lasciare in cauzione il suo orologio in attesa di essere nelle condizioni di pagare l’affitto. Il portiere, evidentemente impietosito, gli consegnò una chiave senza battere ciglio, senza dire una parola. Giorni dopo, Peter volle domandargli perché aveva accettato quell’azzardata proposta senza neanche controbattere e il portiere rispose che non aveva avuto il coraggio di rifiutare perché aveva un’aria così onesta e ‘british’. Il problema di riuscire o meno a rispettare l’accordo, però, non si pose, dal momento che nel giro di una quindicina di giorni Peter Cushing sarebbe stato in grado di saldare il debito, più presto di quanto entrambi potessero immaginare. Recatosi negli Edward Small Studios con la lettera di raccomandazioni di Larney Goodking, venne accompagnato nell’ufficio del Casting Director e, sostanzialmente, si può dire che capitò nel posto giusto al momento giusto. Fu davvero un colpo di fortuna. Stavano per cominciare, proprio in quei giorni, le riprese del film La maschera di ferro (The Man in the Iron Mask, 1939), tratto dal celebre romanzo di Alexandre Dumas e diretto da James Whale, con Louis Hayward nel doppio ruolo di Luigi XIV e del fratello gemello buono Philippe. Così gli offrirono di fare da controfigura a Hayward nelle scene dove comparivano entrambe i personaggi. Stentava a crederci! All’indomani del suo arrivo a Hollywood, aveva già due mesi di lavoro garantito, con una paga di ben 75 dollari a settimana. Per lui si trattava di una somma considerevole, non aveva mai guadagnato tanto. Inoltre gli venne anche affidata la piccola parte di un messaggero del Re, in una scena di combattimento a spade con D’Artagnan e i Tre Moschettieri. Fu la sua primissima esperienza con la spada e a cavallo ed aveva dovuto prendere lezione da un maestro d’armi. Solo e inesperto, era spaventatissimo da tutto ciò che lo circondava. Non era mai entrato in uno studio cinematografico e stava lavorando con dei grandi professionisti del settore. Indubbiamente si sentiva intimorito, ma era anche tutto molto eccitante e aveva tanto da imparare. Durante la lavorazione del film Peter Cushing strinse una sincera amicizia con il protagonista Louis Hayward e con sua moglie, Ida Lupino. Trascorse momenti piacevoli nella loro villa, nei weekend. La coppia si affezionò talmente a lui che lo invitarono a trattenersi a casa loro per tutto il tempo che avesse gradito e lei lo presentava a tutti, scherzosamente, come il suo figlio adottivo. Finite le riprese di La maschera di ferro, si trovò nuovamente disoccupato, 30


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almeno fino a quando non venne a sapere che Hal Roach cercava attori in stile british per un film della coppia Stan Laurel e Oliver Hardy, Noi siamo le colonne (A Chump at Oxford, 1940, di Alfred Goulding), dove i due comici ricevono in premio un’iscrizione alla prestigiosa Università di Oxford in Inghilterra. Peter Cushing si mise in contatto con gli Studios e ottenne una scrittura per una parte ch’era poco più di una figurazione: quella dello studente Jones. Il lavoro durò soltanto una settimana ma gli diede l’opportunità di conoscere di persona i due celebri attori, “due dei più grandi comici che il cinema abbia mai sfornato”5, dotati di una professionalità rara. Li ammirava molto e lo facevano impazzire soprattutto le occhiate che Ollio (Oliver Hardy), di fronte alle strambe azioni di Stanlio (Stan Laurel), lanciava in direzione della macchina da presa, come a voler cercare la consolatoria comprensione del pubblico. Ma, pur essendo entrambi due indiscussi geni della comicità, Peter constatò di persona che il vero ideatore delle migliori gag era Stan Laurel. Ebbe modo di conoscere anche altri artisti. Incontrò Loretta Young, per la quale aveva sempre avuto una gran passione, e le baciò la mano, cosa che non avrebbe mai sperato di poter fare. Vide e conobbe molte star: Barbara Stanwyck, Bob Taylor, Douglas Fairbanks Jr., Errol Flynn, Tyrone Power, Peter Lorre, Nigel Bruce, Charles Laughton, George Sanders, Orson Welles, David W. Griffith. Giocò a cricket con David Niven, Basil Rathbone e Boris Karloff. Certo, in quel momento, non poteva pensare che un giorno anche lui, come Karloff, avrebbe legato parte della sua fama a un ciclo di film ispirati al Frankenstein di Mary Shelley, ma (a differenza dell’illustre collega) non nei panni della creatura, bensì in quelli dello scienziato. Oppure non poteva sapere che sia lui che Rathbone avrebbero impersonato con eccellente bravura il mitico investigatore Sherlock Holmes. Mark A Miller ha osservato, a tale proposito, che è davvero intrigante immaginarsi “Rathbone e Cushing - i più grandi interpreti di Sherlock Holmes sullo schermo - e Cushing e Karloff - uno il futuro Barone Frankenstein e l’altro la più grande incarnazione della creatura animata dal Barone che la storia abbia mai visto - dividere la stessa scena, un campo di cricket”6. Successivamente fu scelto per il secondo ruolo maschile in un film drammatico della RKO, Angeli della notte (Vigil in the Night, 1940, di George Stevens), che ebbe un discreto successo di critica e di pubblico. Fu l’unico vero ruolo di un certo rilievo in tutta la sua breve esperienza hollywoodiana. Il “New York Daily News”, in data 2 maggio 1940, scrisse che “Peter Cushing eccelle in due scene drammatiche... la sua recitazione possiede la stessa forza interpretativa che distingue le performance di Spencer Tracy”. Protagoniste femminili erano Carole Lombard e Anne Shirley. L’inizio delle riprese subì un ritardo di circa sei settimane perché la Lombard dovette farsi operare d’urgenza di appendicite. Così, per sfruttare il tempo di questa forzata inattività, Peter si procurò una scrittura teatrale di circa due settimane a Palm Springs, per il ruolo del protagonista in 31


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Love From a Stranger al fianco dell’amica Ida lupino. Dopo piccole parti in altri film, tutti del 1940 (Laddie di Jack Hively, Quelli della Virginia di Frank Lloyd, Women in War di John H. Auer, il cortometraggio della MGM The Passing Parade: Your Hidden Master), lavorò una seconda volta con il regista James Whale, nella pellicola Otto giorni di vita (They Dare Not Love, 1941). “Un uomo molto tranquillo e riservato”, come lo ricordò Peter Cushing in un’intervista7. Era stato Whale, lo ricordiamo, a dirigere il famoso Frankenstein con Boris Karloff all’inizio degli anni Trenta. Che fosse un altro segno premonitore di quello che sarebbe accaduto una quindicina di anni più tardi, quando Peter Cushing si affermò definitivamente a livello internazionale con una nuova trasposizione cinematografica, targata Hammer, del celebre romanzo di Mary Shelley? Di sicuro un giovane attore come lui che, con pochi anni di esperienza teatrale nella madrepatria, era avventurosamente partito alla volta di Hollywood per tentare fortuna nel cinema e si era ritrovato a lavorare con importanti registi e a dividere la scena con divi che fino a quel momento aveva potuto solo ammirare sul grande schermo, doveva considerarsi fortunato. Ma Peter Cushing cominciava ad avere nostalgia della sua Inghilterra. Nel gennaio del 1941 decise di tornare a New York con l’intento di raggiungere il Canada e imbarcarsi per fare ritorno in patria. Dagli Stati Uniti non era più possibile salpare per la Gran Bretagna, per via della guerra ch’era scoppiata in Europa. L’amico Louis Hayward gli aveva prestato dei soldi, ma a New York Peter dovette comunque lavorare prima di riuscire ad andare in Canada. Lavorò per poco tempo come parcheggiatore a Coney Island, in un silos gestito da un tizio che assomigliava a Edward G. Robinson nella sua classica interpretazione del gangster. Poi rispose a un annuncio in cui si cercava un assistente per un illusionista, ingaggio della durata di tre settimane. Sempre in risposta a un annuncio, si propose come interprete di spot pubblicitari radiofonici. Fece amicizia con un certo John Ireland, che lo aveva fermato per strada riconoscendolo dopo averlo visto recitare nel film Angeli della notte. Ireland stava cercando di farsi strada come attore nell’ambiente di Broadway. Lui e sua moglie Elaine alloggiavano nello stesso albergo di Peter Cushing e, come lui, erano piuttosto in bolletta. Tutti e tre riuscirono a inserirsi in una piccola compagnia teatrale, formatasi da poco, che stava organizzando una breve stagione estiva della durata di quattro mesi in una specie di villaggio vacanze a Warrensburg, nelle Adirondack Mountains, sulla linea di confine tra gli States e il Canada. Non c’era salario. Erano previsti solo vitto, alloggio e un piccolo rimborso spese. Ma fu un buon biglietto da visita. Infatti Peter venne notato da un paio di talent scout, che avevano assistito ad alcuni di quegli spettacoli, e ricevette due offerte per recitare a Broadway. Tra le due, scelse di apparire in The Seventh Trumpet, che rimase in cartellone al Mansfield Theatre per due settimane, nonostante un critico avesse duramente 32


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stroncato l’allestimento. Nel febbraio del 1942 Peter fece ingresso in Canada, prima a Montreal e poi a Halifax, in Nova Scotia. Accettò di fare il portiere di notte in un hotel della catena YMCA, in cambio di una stanza e di due pasti al giorno. Nelle ore diurne, invece, faceva la maschera al Lowes State Cinema. Ma il suo animo d’artista era sempre in fermento. Si mise in contatto con uno studio di produzione locale che stava preparando alcuni inserti ed effetti speciali per il film 49° Parallelo (49th Parallel, 1941, di Michael Powell). Data la sua abilità col modellismo e la sua bravura nel dipingere, gli commissionarono di confezionare una mezza dozzina di bandierine in miniatura con il sol levante giapponese e un’altra mezza dozzina con la svastica nazista. La cosa divertente fu che, quando il personale di servizio dell’albergo vide quelle bandierine nella stanza di Peter Cushing, tutti si insospettirono, pensando che potesse trattarsi di una spia. Allarmati, lo segnalarono alle autorità e il poveretto venne arrestato. Ma bastò una telefonata al Film Studio per chiarire tutta la faccenda e farlo rilasciare. A metà marzo del 1942 si imbarcò finalmente per il Vecchio Continente e il 27 dello stesso mese salpò sulle coste inglesi, a Liverpool. Tale era la gioia di tornare a casa, che si inchinò addirittura a baciare terra, come un Papa ! Dopo più di tre anni in America, Peter Cushing poté finalmente gustare una buona tazza di tè inglese sul compartimento di terza classe del treno che da Liverpool lo stava portando a Reigate, per recarsi nella fattoria di suo fratello David, dove ora vivevano anche i suoi genitori. Il treno attraversò Londra e così gli si presentò il triste spettacolo dei segni che i bombardamenti avevano lasciato nella capitale inglese. Senza perdere tempo, dopo pochi giorni cercò di mettersi in contatto con Henry Oscar, un attore che era a capo del dipartimento teatrale dell’ENSA (Entertainments National Services Association). Lo incontrò, parlarono e ottenne un ingaggio per sostituire un altro attore nella parte del protagonista della pièce di Noel Coward Private Lives. L’allestimento doveva girare in tournée presso tutti gli stazionamenti militari delle isole britanniche e anche negli ospedali militari. La paga ammontava a 10 sterline la settimana. La protagonista femminile era Sonia Dresdel, che interpretava il suo ruolo in giro per il paese da oltre un anno. Era molto stanca, anche perché le trasferte da un posto all’altro avvenivano in condizioni spesso precarie. Si decise di rimpiazzarla. Al suo posto fu scelta Helen Beck. Era il maggio del 1942 e quell’incontro avrebbe cambiato per sempre la vita del quasi trentenne Peter. Violet Helen Beck era nata a San Pietroburgo l’8 febbraio del 1905, terza di cinque figli. Il padre, Ernest Beck, era inglese, del Lancashire, ma era nato a San Pietroburgo nel 1875 ed era stato un importante industriale, capo della James Beck Spinning Company, che possedeva i più grandi cotonifici della Russia zarista. La madre, Helen Alexandra Fatima Enckell, era russa di origini scandinave, 33


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nata anche lei a San Pietroburgo, nel 1879. Aveva sangue nobiliare. I due si erano sposati nel 1901. Con la Rivoluzione d’Ottobre tutta la famiglia era stata costretta a fuggire e stabilirsi in Inghilterra, ridimensionando notevolmente il tenore di vita. La giovane Helen cominciò a farsi strada nel mondo dello spettacolo. Anche lei visse un’esperienza a Hollywood, dove prese parte tra l’altro al film Gloria (What Price Glory?, 1926), diretto da Raoul Walsh. Ma poi decise di tornare a casa e stare vicino ai genitori. Si era già sposata ma quel matrimonio si risolse in un fallimento. Dunque, a maggio Helen e Peter si incontrarono per la prima volta a Drury Lane, all’uscita del Theatre Royal. Dovevano condividere la scena per il resto della tournée. Nacque all’istante un sentimento profondo tra i due. Fu quello che si può definire un colpo di fulmine. Ma se fin dall’inizio fu amore vero, da subito Helen palesò anche quei disturbi di salute che l’avrebbero accompagnata per tutta la vita, rendendola fragile e causando, negli ultimi suoi anni, un grave tormento per il suo devoto compagno. Una volta, mentre si trovavano a Bridge, vicino a Canterbury nel Kent, lei ebbe un’emorragia e lui corse in bicicletta in paese a chiamare un dottore. In una delle tappe successive, invece, a Taunton, fu Peter Cushing a sentirsi male. Gli venne diagnostica la congestione di un polmone e fu costretto a fermarsi per un po’ di tempo. Helen dovette recitare al fianco di un altro attore. All’inizio del nuovo anno Peter fu pronto per tornare al lavoro ma lo stress e la stanchezza dovuti a quel tour teatrale così faticoso li costrinsero entrambi ad abbandonare. Il 10 aprile del 1943 si sposarono a Londra. I genitori di Helen fecero da testimoni, mentre la famiglia di Peter non fu informata delle nozze per paura che potessero obiettare su tale scelta. Si concessero una breve vacanza nel Sussex e poi andarono a vivere a Londra, in Pitt Street a Kensington, vicino ai genitori di lei. Se entrambi avessero continuato le loro rispettive carriere artistiche individuali, ciò avrebbe significato inevitabilmente restare separati per lunghi periodi. Ma loro non volevano stare distanti. Così decisero di comune accordo che Peter avrebbe continuato a fare l’attore e Helen, facendo tesoro della sua esperienza e delle sue conoscenze, lo avrebbe sostenuto. All’inizio, certo, non fu facile. In certi momenti bisognava fronteggiare la mancanza di lavoro e di denaro. Helen si trovò a dover vendere quei pochi beni di famiglia che le erano rimasti, mentre lui si rivolse alla National Assistance e all’Actor’s Benevolent Fund per ottenere un sussidio. E quando a Natale o in altre ricorrenze non c’erano abbastanza soldi, Peter ricorreva al proprio talento creativo e alla sua abile manualità per disegnare e confezionare lui stesso oggetti da regalare alla moglie, come orecchini o una sciarpa di seta dipinta a mano con i personaggi delle storie di Dickens. Messosi sotto contratto con l’agenzia di Albert Parker, a settembre del 1943 Peter Cushing debuttò nel West End londinese con un adattamento di Guerra e 34


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Pace, dove interpretava due ruoli: Alessandro I di Russia e un ufficiale francese. Si trattava di una produzione imponente e un tantino stravagante, con un cast di più di cinquanta attori e una durata di quasi cinque ore. Era chiaro che un simile allestimento non poteva sopravvivere e, infatti, Peter Cushing si ritrovò subito disoccupato. Riuscì a trovare qualche lavoro alla radio BBC e, verso la fine dell’anno, avviò una collaborazione con il Q Theatre, un piccolo teatro indipendente situato nei pressi del Kew Bridge, a Ovest di Londra. Sorto nel 1924 e rimasto attivo fino al 1958, questo teatro promuoveva soprattutto spettacoli sperimentali. Nel frattempo i neo sposi si trasferirono in una casa con giardino in Campden Hill Road, Airlie Gardens, non lontano dalla famiglia di Helen. Non era stato difficile trovare una sistemazione in affitto a buon mercato, tre sterline a settimana, dal momento che molta gente aveva preferito abbandonare la capitale per sfuggire ai ripetuti bombardamenti. Quando era scoppiata la guerra in Europa Peter Cushing, come abbiamo visto, era negli Stati Uniti ma, come tutti i cittadini britannici che si trovavano all’estero, anche lui si sottopose alla visita medica per l’arruolamento. Fu riformato a causa di un problema al legamento del ginocchio sinistro e di un timpano perforato, strascichi di vecchie partite di rugby. Verso la fine del 1942 era stato sottoposto a una nuova visita medica, questa volta in Inghilterra, che aveva confermato gli impedimenti già riscontrati la prima volta. La salute di Helen, come sarà sempre per tutti gli anni a venire, aveva i suoi alti e bassi. In quel periodo, ricoverata al Samaritan Free Hospital di Marylebone Road, fu costretta a subire un’isterectomia, dove si evidenziarono tracce di un aborto spontaneo. Peter Cushing volle stare al fianco della moglie e rinunciò al lavoro. Tornò al Q Theatre solo quando Helen fu dimessa e cominciò a recitare in uno spettacolo diverso ogni mese. Della sua attività teatrale tra il 1944 e il 1948 occorre menzionare assolutamente due spettacoli che, senza volerlo, erano destinati ad avere un peso determinante per gli sviluppi della sua carriera. Il primo è Happy Few di Paul Anthony, messo in scena a partire dall’ottobre del 1944 al Cambridge Theatre, dove Peter Cushing interpretava un soldato francese. Per quel ruolo doveva recitare con accento francese e Helen, che conosceva diverse lingue, lo aiutò ad esercitarsi. Il secondo è While the Sun Shines di Terence Rattigan, in scena al Globe Theatre di Shaftesbury Avenue già dal 1943. Uno dei personaggi di questa commedia era il tenente francese Colbert, impersonato dall’attore Eugene Deckers. Ma dopo circa un anno e mezzo di recite Deckers volle prendersi una pausa e così il produttore Elsie Beyer, che aveva visto Happy Few, pensò che Peter Cushing fosse adatto per subentrare, a dicembre del 1944, nel ruolo di Colbert. Perché mai queste due rappresentazioni sarebbero così importanti ? Per il fatto che fu proprio per essersi cimentato (non senza un’iniziale apprensione da parte sua) con ruoli di francese, che Peter Cushing riuscì a far parte del cast della 35


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versione cinematografica dell’Amleto, diretta e interpretata da Laurence Olivier. Già nell’autunno del 1946 Cushing aveva avuto un fugace incontro con Olivier, al Garrick Theatre, quando si sottopose a un provino per la parte di Paul Verrall in Born Yesterday, nell’allestimento di Olivier per l’appunto. Ma dato che bisognava parlare con accento americano, non se la sentì e, per onestà, rinunciò a quel ruolo. Quando, però, nel 1947 stavano per cominciare le riprese del film Amleto di Laurence Olivier, il suo braccio destro Anthony Bushell, ch’era stato presente all’audizione al Garrick Theatre, si ricordò di aver notato la bravura di Cushing nel recitare con accento francese in While the Sun Shines e pensò che fosse adatto per il personaggio apparentemente frivolo di Osric, uomo della corte Danese. Si trattò di un traguardo importante per l’attore. Quando era bambino, con la scuola aveva assistito a una rappresentazione dell’Amleto a teatro. Pur non capendone il senso, era rimasto completamente rapito da quell’atmosfera, più in generale dalla magia del palcoscenico, tanto che si dimenticò di mangiare il sandwich che la mamma gli aveva preparato per la pausa tra un atto e l’altro. Amleto fu girato nei Denham Studios, con una bella fotografia in bianco e nero e l’impiego del panfocus8, e si trattava della seconda regia cinematografica di Laurence Olivier, dopo Enrico V (Henry V, 1944). Il personaggio del cortigiano Osric, che chiama il principe danese a duello con Laerte, è tratteggiato con una cura minuziosa per i dettagli, dai baffetti all’orecchino all’impeccabilità del costume. È un personaggio strano, presentato con un capitombolo comico e spettacolare quando, nell’atto di fare un inchino, si rovescia all’indietro e cade. Ed è reso ancora più divertente dal modo con cui Peter Cushing lo fa parlare, a labbra strette, tutto lezioso. È quasi un effeminato dandy. Ma se a prima vista sembra solo un carattere di contorno con una funzionalità umoristica, in realtà si rivela poi essere uno dei cospiratori che portano alla morte di Amleto. Per ricreare la chioma ondulata di Osric, Cushing era costretto a mettersi in posa con dei bigodini. La cosa curiosa, come si legge nella sua autobiografia, era che, sia lui nei panni di Osric che Laurence Olivier in quelli di Amleto, usavano la loro vera capigliatura per il make up, senza ricorrere a nulla di finto. Ma, paradossalmente, erano gli unici due del cast che sembravano indossare la parrucca ! Peter Cushing si fece subito benvolere da Olivier. Un giorno, durante la lavorazione del film, in camerino il regista gli propose di unirsi alla sua compagnia teatrale dell’Old Vic, nei mesi successivi, per una tournée in Australia e Nuova Zelanda. Era un’offerta allettante, che non si poteva rifiutare. Ma l’unico cruccio di Cushing era quello di non voler stare lontano da Helen. Olivier lo rincuorò subito dicendogli che Helen avrebbe potuto aggiungersi a loro senza nessun problema e, anzi, si sarebbe resa utile alla compagnia. Poi lo baciò sulla testa e lo salutò, dandogli appuntamento sul set. Nel film fece una piccola apparizione anche Christopher Lee, nelle vesti di un 36


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Amleto (1948)

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anonimo lanciere. Come ha raccontato lui stesso, l’esperienza fu del tutto casuale. Un amico che stava lavorando nel film gli propose di recarsi sul set a dare un’occhiata. Dopo tutto si trattava di Laurence Olivier che dirigeva l’Amleto, un’occasione da non perdere. Data l’esitazione di Lee, ch’era convinto che non gli avrebbero mai permesso di restare sul set, l’amico gli suggerì di arrivare negli studi e, facendo finta di niente, prendere un’uniforme da guardia e una lancia, in modo da potersi muovere liberamente negli studi senza il rischio di essere allontanato. Così fece e finì col fare la comparsa, pronunciando anche una battuta: “Luci!”. Ovviamente, trattandosi di una partecipazione fugace e imprevista, il nome di Lee non viene citato nei titoli di coda. Ma si trattò di una preziosa opportunità, perché come disse l’attore, “potei vedere al lavoro un grande maestro mentre filmava Shakespeare, una cosa che fino a quel momento non avevo mai avuto l’occasione di vedere”9. Inoltre, è il primo film in cui le vite artistiche di Peter Cushing e Christopher Lee in qualche modo si incrociarono, senza però potersi ancora conoscere. Come ricordo di quella bellissima esperienza, Peter Cushing disegnò un foulard dove erano ritratti tutti i principali interpreti dell’Amleto nel costume di scena, che poi fu donato alla Regina, la consorte del Re Giorgio VI, durante la prima del film all’Odeon Theatre di Londra. Il programmato tour australiano dell’Old Vic prevedeva tre diverse rappresentazioni: The School For Scandal di Richard Brinsley, The Skin of Our Teeth di Thornton Wilder e Riccardo III di Shakespeare. Si imbarcarono a Liverpool il 14 febbraio del 1948 e dopo un mese di viaggio attraccarono a Fremantle. C’erano grande coesione e affiatamento nel gruppo. Laurence Olivier e sua moglie Vivien Leigh erano sempre gentili e rispettosi verso tutti i membri della compagnia. Conoscendo bene la passione di Peter Cushing per i soldatini, a maggio i coniugi Olivier, molto carinamente, gli prepararono una sorpresa per il suo compleanno facendogli trovare in camerino un set completo di Ussari a cavallo che lui, giorni prima, aveva ammirato dalla vetrina di un negozio in una delle tappe del tour. E il 10 aprile avevano organizzato una festa per il quinto anniversario di matrimonio di Peter e Helen. Cushing interpretò molti ruoli. Nell’opera shakespeariana, ad esempio, impersonava il Duca di Clarence e il Cardinale Bouchier. Durante la permanenza a Sidney, fu anche chiamato a partecipare a due trasmissioni radiofoniche della NBC australiana. Furono sei mesi davvero impegnativi. A ottobre, esausti, gli attori cominciarono il viaggio di ritorno. In patria, la stagione dell’Old Vic sarebbe proseguita nel West End di Londra con l’aggiunta di Antigone di Jean Anouilh (dove recitava anche Helen nel ruolo di Euridice), preceduto dalla breve commedia di Chekhov The Proposal. in scena al New Theatre, in cui Cushing interpretò con successo il protagonista Ivan Vasilyevitch Lomov. 38


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Dopo un intenso periodo di attività, la stanchezza non tardò a farsi sentire. Peter Cushing stava lavorando ininterrottamente da prima delle riprese del film e ad un certo punto, letteralmente stremato, ebbe un tracollo. Successe quando, all’inizio del 1950, Laurence Olivier assunse la direzione del St. James’ Theatre, a King Street. Il primo spettacolo in produzione era The Damascus Blade, di Bridget Boland, un dramma sulla Resistenza francese nell’ultima guerra. Memore delle sue precedenti buone prove, Olivier offerse la parte di un francese a Cushing. Questi, pur consapevole del fatto di non essere in piena forma, accettò. Ma fu subito chiaro che non poteva assumersi l’impegno. Durante la prima prova, infatti, continuò a sbagliare il suo ingresso in scena e, coi nervi a pezzi, scoppiò in lacrime. Era il principio di un esaurimento che lo obbligò a stare fermo per almeno un semestre. Come sempre, Laurence Olivier fu molto comprensivo e disponibile e continuò a pagarlo anche nei mesi in cui non poteva lavorare. Un gesto difficile da dimenticare. Inutile dire che Helen gli stette accanto con il solito amorevole sostegno. Ogni volta che uno dei due stava male o era in crisi, l’altro si prodigava in tutti i modi per aiutarlo. Solo così fu possibile uscire indenni dai periodi più bui. Il loro era un rapporto speciale. Nell’autunno dello stesso anno, dopo un lungo riposo, Peter si sentì in grado di tornare a calcare le scene, dapprima in un adattamento musicale de Il malato immaginario di Moliere, The Gay Invalid, e poi in due nuovi allestimenti di Laurence Olivier per un festival teatrale al St. James: Cesare e Cleopatra di Bernard Shaw e Antonio e Cleopatra di William Shakespeare. In entrambe le produzioni Vivien Leigh era destinata al ruolo della regina egizia. A Cushing furono assegnate parti poco impegnative, considerato che stava uscendo da un periodo difficile e le sue condizioni di salute erano ancora un po’ fragili. Con ogni probabilità fu per questa ragione che si decise di escluderlo dall’imminente trasferta americana che avrebbe portato la compagnia a Broadway. Così, nell’autunno del 1951 Peter Cushing, che si avvicinava ormai ai quarant’anni, era per l’ennesima volta senza lavoro e fortemente preoccupato per il futuro. Ma la svolta stava dietro l’angolo, grazie all’operosa attività di pubbliche relazioni del suo angelo custode in vita: Helen.

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Note 1

M. G. McGlasson, The Unknown Peter Cushing, cit.

2

P. Cushing, An Autobiography, Weidenfeld and Nicolson, London 1986, p. 10.

3

Ivi, p. 42.

4

M. G. McGlasson, The Unknown Peter Cushing, cit., p. 60.

5

P. Cushing, An Autobiography, cit., p. 67.

M. A. Miller, Christopher Lee and Peter Cushing and Horror Cinema. A Filmography of Their 22 Collaborations, McFarland & Company, 1995, p. 22.

6

J. Exshaw, From Beyond the Grave: A Conversation with Peter Cushing, in “Cinema Retro”, vol. 9 , n. 27, 2013. 7

Tecnica cinematografica con la quale è possibile mantenere a fuoco tutte le componenti dell’inquadratura, anche sullo sfondo. 8

9

M. A. Miller, Christopher Lee and Peter Cushing, cit., p. 14.

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Mario Galeotti

PETERCUSHING

E i mostri dell’inferno

© Edizioni Falsopiano via Bobbio, 14 15121 - ALESSANDRIA www.falsopiano.com Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri In copertina La maschera di Frankenstein (1957) In quarta di copertina: La maledizione di Frankenstein (1967) Prima edizione - Novembre 2020


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