Kim ki duk

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Rita Ricucci

FALSOPIANO

LO SPAZIO DELL’ANIMA IL CINEMA DI KIM KI-DUK

Rita Ricucci

Rita Ricucci

Con una prefazione di Silvano Petrosino e una postfazione di Roberto Lasagna

«Kim Ki-duk è senza alcun dubbio un artista. Non tutti i suoi film sono dello stesso livello artistico, così almeno a me sembra; ma tutti suoi film sono delle autentiche opere d’arte. È questo, quello dell’autenticità artistica, un aspetto che è quasi impossibile non riconoscere. Il regista coreano lavora con l’immagine attraverso un’immediatezza che non ha nulla di teorico, che non rispecchia e non rispetta alcuna teoria estetica: si tratta di un arte che agisce senza alcuna preoccupazione estetica, di un arte, se così ci si può esprimere, che non vuole “fare l’arte”, così come di un artista che lo è proprio perché e nell’istante stesso in cui non vuole “fare l’artista”. Come da più parti si è sottolineato, Kim Ki-duk non è un intellettuale, non ha frequentato alcuna accademia d’arte e le circostanze della sua vita lo hanno tenuto ben lontano da qualsiasi scuola di cinema. Questo, forse, lo ha escluso da alcune raffinatezze del miglior cinema europeo, ma al tempo stesso gli ha fatto guadagnare una forza drammatica che non cessa di interrogare lo spettatore come se lo guardasse direttamente negli occhi». Rita Ricucci, laureata presso l’Issr di Milano, è docente di!religione nei licei. Ha lavorato nel teatro, per il cinema!e ha pubblicato numerosi racconti. Scrive per!cinema4stelle.it!e!silenzioinsala.com.

LO SPAZIO DELL’ANIMA IL CINEMA DI KIM KI-DUK

Io racconto esperienza tratte dalla vita reale. La cinepresa cattura il mondo com’è. Ecco quello che penso che siano i film: una verità. (Kim Ki-duk)

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LO SPAZIO DELL’ANIMA IL CINEMA DI KIM KI-DUK


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Indice

Prefazione

di Silvano Petrosino

p. 9

Introduzione

p. 13

PRIMA PARTE: KIM KI-DUK E IL SUO CINEMA La personalità artistica di Kim Ki-duk

p. 18

Cenni biografici Cronologia filmografica

p. 18 p. 23

Proposta per una visione antropologica del cinema di Kim Ki-duk

p. 60

Religione e religiosità nel cinema di Kim Ki-duk

p. 60

Il vivente come categoria dell’essere Il volto del vivente: Time L’agire del vivente, il conatus essendi: The Isle La psyché del vivente: Pietà Gang-Do e il suo essere gettato nel mondo Il venire al mondo di Gang-Do L’Esserci di Gang-Do e il suo morire nel mondo

p. 63 p. 65 p. 71 p. 79 p. 81 p. 85 p. 89


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SECONDA PARTE: L’UOMO NEL CINEMA DI KIM KI-DUK L’uomo in due film di Kim Ki-duk: Arirang e Ferro 3

p. 100

L’uomo fuori dal mondo: Arirang Il regista “ri-flette” sull’uomo Kim Ki-duk L’esperienza della tenda come la “caverna”

p. 100 p. 105 p. 106

L’abitare dell’uomo in Ferro 3

p. 109

Il luogo dell’abitare: la casa Orizzontalità: la cura dell’uomo verso l’uomo Profondità: la cella come dimora dell’anima Sullo spazio Sulla vista Sul linguaggio Il giardino: l’incontro con l’Altro

p. 110 p. 113 p. 125 p. 126 p. 128 p. 134 p. 136

Conclusioni

p. 144

Postfazione di Roberto Lasagna

p. 158

Bibliografia

p. 161

Filmografia

p. 169


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Lo spazio dell’anima. Il cinema di Kim Ki-duk

Prefazione di Silvano Petrosino

Quando si parla di esperienza estetica e di arte non si capisce mai bene di che cosa precisamente si stia parlando. Lo stesso accade quando si parla di religiosità e di religione. In entrambi i casi, fin da subito, ci si trova invischiati in termini e categorie che prendono il largo in un mare tumultuoso e incerto all’interno del quale non si riesce ad intravedere alcun approdo sicuro. Qui tutto si muove, tutto s’intreccia, tutto si complica. ll grande pittore americano Rothko, riflettendo sulla natura dell’arte, afferma: Sembra che il ruolo dell’artista sia quello di indagare e di incitare, rischiando la distruzione, il prezzo da pagare per aver violato una terra proibita. Pochi sfuggirono all’annientamento e tornarono indietro per raccontare quanto accaduto. (...) E va ricordato che quanto si può strappare [illeggibile] agli dèi dipende da stratagemmi, i quali non possono essere né trasmessi né appresi, perché non ci si può prendere gioco due volte allo stesso modo degli dèi. Spero che questo spieghi la mia infatuazione. Chiedersi cosa possa essere strappato e in che modo possa essere reso disponibile - perché come un gioiello rubato di gran valore, può essere esposto solo sotto alcuni travestimenti e condizioni...1.

L’artista sa che deve rispondere all’appello che lo sorprende e di conseguenza sa anche che non può esimersi dal concreto operare (in questo senso l’arte ha sempre a che fare con la materia, è sempre materialistica), ma al tempo stesso egli è pure cosciente della dramma-

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ticità di un simile gesto, è cosciente – contro ogni sentimentalismo e romanticismo, contro i facili entusiasmi che accompagnano le molte retoriche sull’arte – che l’eccedenza che lo abita e inquieta (si tratta del «demone» di cui parlano gli antichi), e che proprio attraverso la sua opera egli si sforza in qualche modo di abitare, è «una terra proibita» la cui violazione implica sempre un «prezzo da pagare». Siamo agli antipodi della consolante e narcisistica concezione dell’opera d’arte come espressione di una supposta interiorità sicura di se stessa all’interno della quale ci si trastulla con termini come «intuizione», «ispirazione», «espressione», «emozione», «empatia», ecc.; ancora Rothko: Non ho mai pensato che dipingere abbia niente a che vedere con l’espressione di sé. È una comunicazione sul mondo a qualcun altro. (...) Ogni insegnamento incentrato sull’espressione di sé in arte è sbagliato e ha a che vedere piuttosto con la terapia. Conoscere se stessi è prezioso affinché il sé possa essere rimosso dal processo. Insisto su questo punto perché è ancora diffusa l’idea secondo cui il processo stesso dell’espressione di sé comporti molti pregi. Ma produrre un’opera d’arte è un’altra questione. (...) L’espressione di sé veicola spesso valori inumani2.

Kim Ki-duk è senza alcun dubbio un artista. Non tutti i suoi film sono dello stesso livello artistico, così almeno a me sembra; ma tutti suoi film sono delle autentiche opere d’arte. È questo, quello dell’autenticità artistica, un aspetto che è quasi impossibile non riconoscere. Il regista coreano lavora con l’immagine attraverso un’immediatezza che non ha nulla di teorico, che non rispecchia e non rispetta alcuna teoria estetica: si tratta di un arte che agisce senza alcuna preoccupazione estetica, di un arte, se così ci si può esprimere, che non vuole «fare l’arte», così come di un artista che lo è proprio perché e nell’istante stesso in cui non vuole «fare l’artista». Come da più parti si è sottolineato, Kim Kiduk non è un intellettuale, non ha frequentato alcuna accademia d’arte

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Lo spazio dell’anima. Il cinema di Kim Ki-duk

e le circostanze della sua vita lo hanno tenuto ben lontano da qualsiasi scuola di cinema. Questo, forse, lo ha escluso da alcune raffinatezze del miglior cinema europeo, ma al tempo stesso gli ha fatto guadagnare una forza drammatica che non cessa di interrogare lo spettatore come se lo guardasse direttamente negli occhi. La visione di un film del regista coreano non lascia mai indifferenti. È per questa ragione che la riflessione di Rothko sull’arte mi sembra particolarmente preziosa per comprendere il senso dei suoi film: altro che consolazione, gratificazione o più banalmente divertimento (arte come passatempo delle classi colte: così come lo sport gratifica/consola il popolo, l’arte gratifica/consola l’elités), qui si tratta sempre di rischiare la distruzione, di strappare qualcosa agli dei, di violare una terra proibita e soprattutto di dare forma al poco, talvolta pochissimo, che si è riusciti ad afferrare tornando indietro per raccontanrlo. A tale riguardo, proprio in riferimento all’opera d’arte come luogo del «dare forma» a un’eccedenza/alterità che investe il soggetto con una forza inevitabile e incontrollabile, un’altra espressione del pittore americano, che non a caso si riferisce alla luce, chiarisce bene il punto della questione: Apollo potrebbe essere il Dio della Scultura. Ma egli è anche sommamente il Dio della Luce; in un lampo di splendore non solo ogni cosa viene illuminata ma, come l’intensità aumenta, ogni cosa è allo stesso modo annientata. È questo il segreto di cui mi servo per contenere il Dionisiaco in una vampata di luce3.

Si può forse definire «immagine» - e ciò vale evidentemente anche per l’immagine cinematografica - il luogo del contenimento della luce, il luogo in cui il dionisiaco della luce viene trattenuto all’interno di una forma che ci permette di guardare, di prendere visione, senza tuttavia essere presi, senza restare abbagliati e distrutti. Il cinema di Kim Ki-duk ha il merito di non mentire al suo spettatore senza tuttavia abbagliarlo e distruggerlo, ha il merito di mettere in scena (mettere in forma) una ve-

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rità spesso dura ed inquietante offendo allo spettatore un luogo in cui lo spettatore, volendolo, può comunque «prenderne visione». Il merito e la specificità del saggio di Ricucci sta precisamente nel prestare attenzione a questo «dare forma» ancorando il puntuale esame di alcuni dei principali film del regista coreano al tema, antropologicamente essenziale e ben più ampio della stessa dimensione cinematografica, dell’«abitare». In tal senso le pagine che seguono, pur essendo attraversate da un’evidente tensione religiosa, non cadono nella trappola di un certo spiritualismo metafisico, riuscendo così a dare voce a un’anima che si esalta, invece di umiliarsi, nell’incontro con le immagini del quotidiano vivere umano dello «spazio» e della «porta». D’altra parte, come opportunamente ricorda l’Autrice, lo stesso regista, opponendosi a un certo gigantismo estetico che si nutre di vette e di abissi, lo ha più volte sottolineato: Preferisco fare un film significativo girato con pochi soldi. Spesso si spendono enormi some per casting, location, tecniche di ripresa ed effetti speciali sofisticati e costosi, ma io penso che qualunque luogo dove vive l’uomo può essere un buon set cinematografico, qualunque uomo possa essere un buon attore e la macchina da presa è già uno strumento sufficientemente valido.

Note M. Rothko, Écrits sur l’art. 1934-1969, Flammarion, Paris 2005, trad. it. di R. Venturi, Scritti sull’arte. 1934-1969, Donzelli, Roma 2007, pp. 153-154. 1

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Ibi, pp. 177-180.

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Ibi, p. 200.

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Introduzione Negli ultimi anni il cinema dell’Estremo Oriente ha suscitato interesse non solo presso gli addetti ai lavori come i critici e gli studiosi, ma anche presso un pubblico più vasto, spettatori colpiti dalla “diversità” rispetto alla situazione culturale del mondo occidentale. Tra i registi che hanno sorpreso per l’originalità di temi e di stile, c’è il sudcoreano Kim Ki-duk, nato nel 1960 a Bonghwa, nella provincia del Kyungsang del Nord. Autore di ventidue film, che sono stati presenti ai più importanti festival di cinema europei, Kim Ki-duk è stato premiato in più occasioni: ricordiamo il Leone d’Oro alla 69a Mostra del Cinema di Venezia (2012), per la migliore regia con Pietà, un film audace e poetico. In particolare in Italia il cinema del regista sudcoreano è stato oggetto d’indagine da parte di alcuni critici: la bibliografia su di lui è ancora relativamente limitata nonostante la ricchezza e la profondità dei temi che emergono dalla sua produzione. Infatti, come evidenzia Andrea Bellavita: Questo ragazzo selvaggio è totalmente analfabeta di cinema e non ha stabilito nessun rapporto con la generazione di cineasti che si sta formando e che caratterizzerà il cinema coreano contemporaneo, né alcuna frequentazione o conoscenza delle generazioni precedenti: è totalmente eccentrico ed esorbitante rispetto al “sistema cinema”, inteso come mezzo artistico, come espressione di una cultura nazionale e come linguaggio internazionale. Eppure, nello stesso modo naïf con cui ha deciso di “farsi” regista, in pochi anni Kim Ki-duk si trova a costruire un’estetica e una poetica perfettamente riconoscibile e coerente fino all’ossessione, e a diventare uno dei più conosciuti registi coreani all’estero. Apprezzato e premiato in Occidente, criticato e attaccato in patria, ma comunque sempre “considerato”: magari un corpo estraneo da espellere, ma mai oggetto di indifferenza1.

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Tra i temi che caratterizzano l’opera di Kim Ki-duk ricopre un ruolo di primo piano la sensibilità “religiosa”2 che permea alcuni suoi film, senza parlare direttamente del “sistema” religione. Quasi all’unanimità, la critica cinematografica, infatti, ha riconosciuto un filone, a volte esplicito, a volte più carsico, che dichiara allo spettatore una prospettiva della religione, come interpretata da Kim Ki-duk: penso che la religione sia sostanzialmente un costume popolare: una cosa di cui andiamo in cerca quando abbiamo bisogno di un punto fermo nella nostra esistenza, che ci sostenga in tutti quei momenti in cui siamo stanchi di vivere. Un perno intorno al quale far girare le altre cose: malgrado ciò credo che in quel perno ci sia davvero un mondo trascendente, ma del tutto inimmaginabile per noi3.

Nel considerare la produzione complessiva, altri si sono soffermati soprattutto su tre film, secondo l’approccio voluto dallo stesso regista: non ho nessun pregiudizio di fronte a nessuna delle religioni. Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera era specificatamente buddista, La samaritana si rifaceva alla fede protestante, questo film (Pietà) è stato definito di ispirazione cattolica, ma non ho cercato questo elemento4.

I temi specifici di natura religiosa nelle pellicole menzionate sono rispettivamente: in Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, la ciclicità della vita attraverso la scansione dell’età dell’uomo, pubertà, adolescenza e maturità; in La samaritana, il peccato come condizione dell’uomo che necessità di una purificazione; in Pietà, il sacrificio e il perdono come prerogativa della misericordia umana. Su questi temi ritorneremo in maniera più dettagliata nel capitolo Temi ricorrenti.

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Lo stesso Kim Ki-duk afferma: Preferisco fare un film significativo girato con pochi soldi. Spesso si spendono enormi some per casting, location, tecniche di ripresa ed effetti speciali sofisticati e costosi, ma io penso che qualunque luogo dove vive l’uomo può essere un buon set cinematografico, qualunque uomo possa essere un buon attore e la macchina da presa è già uno strumento sufficientemente valido5.

Alla luce delle brevi considerazioni in apertura, ho scelto di occuparmi specificatamente di una delle problematiche fondamentali sulla quale l’uomo si interroga da sempre: qual è il luogo dove vive l’essere umano, tralasciando gli elementi più esplicitamente e dichiaratamente legati alla religione. Per questa mia indagine6 ho deciso di proporre un successivo passaggio per presentare la ricchezza, la complessità e la sensibilità del cinema di Kim Ki-duk, attraverso il filtro di alcune categorie filosofiche mutuate dal pensiero di Heidegger, Lévinas, Ries e rielaborate da Silvano Petrosino. Il presente lavoro tiene conto dell’esplicitazione di una sintesi sistematica degli anni di studio delle scienze religiose, in particolare dell’antropologia del sacro e della filosofia, attraverso il cinema, la settima arte, il cui linguaggio è per personale background il più vicino alla mia capacità di lettura e interpretazione del soggetto umano. Questo libro è diviso in due parti: la prima presenta la figura del regista sudcoreano e il suo cinema; la seconda entra nello specifico, ovvero intende mettere in risalto la categoria concettuale dell’umano sviluppata da Petrosino attraverso Heidegger, Lévinas e Ries. La prima parte è composta da un capitolo introduttivo La personalità artistica di Kim Ki-duk. A partire dal primo paragrafo sulla biografia, il registro adottato è quello narrativo perché meglio si addice al contesto artistico di cui parleremo che è quello cinematografico.

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Gli stessi Cenni biografici riprendono la narrazione personale dell’autore nel suo docufilm Arirang di cui si parlerà in seguito più approfonditamente (nel capitolo nella seconda parte L’uomo in due film di Kim Ki-duk: Arirang e Ferro 3). Segue una sintetica cronologia filmografica che sarà successivamente ripresa nel dettaglio di ciascuna sinossi dei film per sottolineare i Temi ricorrenti nella produzione di Kim Ki-duk. Con il secondo capitolo comincia una Proposta per una visione antropologica del cinema di Kim Ki-duk che ci introduce al tema che sarà ampiamente sviluppato delle categorie proposte e dettagliatamente esplicitate da Petrosino in Capovolgimenti...: l’esistente, il vivente e l’umano. La categoria di vivente è declinata a partire dal volto che l’individuo assume, dal suo agire e dalla sua anima (psiché) attraverso alcuni film che, a nostro avviso, meglio aiutano a illustrarli. Questi sono Time, The Isle e Pietà. Per poter meglio gestire la scrittura e via via la comprensione delle citazioni, si è ritenuto opportuno citare i film nella traduzione dei titoli italiani, così come sono reperibili in dvd o streaming. La seconda parte, come anticipato, è costituita da una proposta di illustrazione della categoria di uomo attraverso la visione di due particolare film: il primo è Arirang, ritenuto dalla critica cinematografica un documentario che lo stesso Kim Ki-duk propone al pubblico per parlare se stesso. Molto vicino all’espressione più conosciuta della confessione, Arirang descrive un uomo alla ricerca del suo fine come senso, telos. Kim Ki-duk è l’uomo deluso dal modus vivendi degli esseri umani, in particolare del comportamento dei suoi amici che lo hanno tradito e abbandonato professionalmente. Inoltre, rimasto sconvolto dal rischio di morte per una scena di impiccagione nel film Dream della protagonista, reputandosi responsabile della vita dei propri attori, Kim Ki-duk abbandona la scena in tutti i sensi: per tre anni sta lontano dal set cinematografico, dai contatti con i produttori e gli attori, ritirandosi in una tenda

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dentro una baracca. Vive in solitudine, riflettendo sul significato della sua vita e del suo lavoro. È un dialogo con la propria coscienza di essere umano e questo gli permette di renderlo visibile e ascoltabile per le auto-riprese che Kim Ki-duk fa di se stesso e che riproduce nello schermo televisivo dove lui stesso si osserva e giudica. Proprio in questo senso abbiamo definito L’esperienza della tenda come la “caverna”. Nel percorso conoscitivo che Kim Ki-duk fa di stesso e dell’umano la visione di Ferro 3 è resa come in continuità, nonostante questo film sia precedente all’accaduto di quattro anni (Ferro 3, 2004; Dream, 2008; Arirang, 2011). Ferro 3-La casa vuota è il film che permette, nell’ultimo capitolo, di approfondire la categoria di nostro interesse, quella dell’umano attraverso il concetto chiave dell’abitare che Petrosino approfondisce nel suo studio.

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LO SPAZIO DELL’ANIMA IL CINEMA DI KIM KI-DUK © Edizioni Falsopiano via Bobbio, 14 15121 - ALESSANDRIA www.falsopiano.com Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri In copertina: Kim Ki-duk, Birdcage Inn (1998) Prima edizione - Dicembre 2020


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