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Null’altro che una lieve increspatura

LUCA SARACHO, 5F

Mai come in queste settimane il clima politico a livello mondiale si è rivelato così caotico, teso e ricco di colpi di scena. Nell’ultimo mese solamente un numero sorprendente di paesi, chi caratterizzato da una cronica debolezza del sistema istituzionale, chi contraddistinto invece da una secolare stabilità e periodicità del processo democratico, hanno aperto le proprie urne: in molte nazioni, dal Brasile ad Israele, dall’Italia agli stessi Stati Uniti, i cittadini hanno fatto valere la propria voce rinnovando le loro rispettive camere parlamentari; negli stati federali gli elettori hanno designato i propri governatori e proprio in Brasile, in concomitanza con questa immane tornata elettorale, si sono svolti i ballottaggi che hanno segnato il ritorno di Luiz Inàcio Lula da Silva, leader della sinistra brasiliana, alla carica più alta della nazione. Si potrebbe parlare di un trionfo della democrazia, di una gelida primavera dei popoli, che tanto più è significativa quanto più si continua a combattere sul suolo ucraino una battaglia per la libertà, per i diritti, per la dignità di un popolo di non essere assoggettato arbitrariamente da alcuna altra potenza, a prescindere dai deliri imperialistici che quest’ultima possa nutrire. E mentre il conflitto sul fronte orientale si fa sempre più drammatico, adombrando costantemente la possibilità di un’escalation militare a livello internazionale (vedasi l’inciden-

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te missilistico avvenuto pochi giorni fa in Polonia), la popolazione mondiale ha infine raggiunto la soglia (da alcuni osservata con preoccupazione) degli 8 miliardi di individui. Saprà la democrazia far fronte ad una così rapida crescita demografica e vincere la sua scommessa di diritti e libertà in tutto il mondo? Solo il tempo sarà in grado di rispondere a tale quesito. Tuttavia, ciò che siamo in grado di fare, ora come ora, è indagare sullo stato di salute della democrazia nella superpotenza che intraprese un interminabile ciclo di guerre proprio col pretesto di “esportarla in tutto il mondo”: stiamo parlando ovviamente degli Stati Uniti d’America. Lo scorso 8 Novembre, infatti, si sono tenute le celebri Midterm Elections, ovvero le “Elezioni di metà mandato” che si tengono categoricamente nel martedì successivo al primo lunedì del mese di Novembre, a metà del mandato presidenziale. Esse sono l’occasione di rinnovamento della Camera dei Rappresentanti americana, che, con i suoi 435 membri, si scioglie automaticamente ogni due anni; dell’elezione di un terzo dei senatori al Congresso; e dell’elezione dei governatori e dei membri delle assemblee legislative biennali nei vari stati federali. I Midterms rappresentano un importante punto di forza per la democrazia americana: attraverso il proprio voto, prima della scadenza del mandato presidenziale, i singoli cittadini hanno concretamente il potere di esprimere la loro opinione riguardo all’operato del Presidente in carica, potendo premiare o fortemente penalizzare la politica da lui condotta ed influenzare in maniera consistente la direzione politica del secondo biennio del suo mandato. Senza l’appoggio di anche una sola delle camere del Congresso, l’iter legislativo per l’agenda presidenziale diviene assai più arduo, costringendo il Commander in Chief ad una posizione di compromesso ed inevitabile trattativa col partito a lui avversario; si osservi a tal merito l’elezione del 2018 sotto l’ultima presidenza Trump, quella del 2014 durante il secondo mandato Obama, o ancora quella del 1982 ai tempi dell’amministrazione Reagan. Ebbene come si è concluso l’ultimo appuntamento democratico statunitense

prima delle presidenziali del 2024? Il risultato macroscopico obiettivo è uno: la Camera dei Rappresentanti è destinata a passare in mano Repubblicana, mentre il Senato, seppur pendendo dal voto spartiacque della Vicepresidente Harris, dovrebbe mantenersi sotto il controllo dei Democratici. Per i risultati finali per la corsa al Senato si dovrà ancora attendere il ballottaggio in Georgia, che vedrà tra un mese contrapporsi il democratico uscente Raphael Warnock e il repubblicano Herschel Walker. La posta in gioco? Un senato sospeso nell’incertezza con una maggioranza di 50 membri o una maggioranza senatoria più solida, di 51 membri. Da questo punto di vista Biden dovrebbe risultare come il grande sconfitto della serata di martedì scorso, un presidente ormai menomato nella propria strategia amministrativa. Eppure se si leggono i titoli di tutte le testate giornalistiche e le reazioni degli analisti politici, quella di martedì è stata una nottata tutt’altro che negativa per l’attuale Presidente. Come in tutti i campi della vita, volenti o nolenti, nessun dato ha importanza nel suo valore assoluto: tutto può essere letto, e con importanza anche maggiore, in valore relativo. L’ondata rossa, la schiacciante vittoria repubblicana pronosticata da molti, non è avvenuta: gli oceani non si sono aperti impetuosamente erigendo un colossale muro d’acqua e la flotta democratica non è stata travolta da uno sconvolgimento dei mari di proporzioni poseidoniche, bensì da null’altro che una lieve increspatura della superficie. Terminate le intemperie del voto, Biden si è trovato sul misterioso ed irrazionale pelago della politica come il pio uomo di mare che, avendo superato il momento più buio della tempesta, tirando imprecazioni con la medesima cadenza dei suoi respiri, ringrazia il cielo, e la Provvidenza, e i venti di non avergli ribaltato il vascello. La sua è una sconfitta, sì, ma una sconfitta di misura: non è l’uomo che ha perso il controllo del Congresso, ma l’uomo che ha evitato la catastrofe. Il proiettile che doveva porre fine alla sua agenda politica, più che colpirlo nel mezzo della sua fronte, ha sfiorato gli ormai canuti capelli che l’anziano, per usare un eufemismo, Presidente degli Stati Uniti d’America si ritrova. Una

così contenuta sconfitta pare paradossalmente accreditare e rafforzare la sua futura candidatura elettorale nel 2024, dimostrando ulteriormente che la possibilità di interpretare la realtà secondo letture così caleidoscopicamente diverse tra loro porta a situazioni così anormalmente controintuitive. Eppure il grande sconfitto della giornata possiede un nome e un cognome: Donald Trump. Aveva predetto una “notte fantastica”, e l’unico risultato che è riuscito ad ottenere è stata una risicatissima maggioranza alla Camera (si parla di appena 220 onorevoli su una soglia di minimo 218); un risultato ancora più deludente considerato l’indice di gradimento posseduto dal presidente Biden al momento attuale. Trump ha visto i suoi più agguerriti candidati perdere in massa uno dopo l’altro, da Mehmet Oz per il seggio senatoriale della Pennsylvania a Kari Lake per il governatorato dell’Arizona. E all’indomani di una così grande disfatta, anche sul fronte interno al partito Repubblicano (l’enfant prodige Ron DeSantis, avendo registrato una vittoria di quasi 20 punti percentuali nella sua rielezione a governatore della Florida, ormai minaccia la nomination dell’ex Presidente), l’unica scusa, l’unica spiegazione che riesce a fornire di un tale evento è la stessa, fallimentare, del 2020: brogli elettorali su larga scala, una vittoria rubata fraudolentemente dagli avversari. Non ho mai sposato la narrativa che la gran parte della stampa liberal offriva dell’operato del 45° Presidente degli Stati Uniti, denunciando a suo tempo sulle pagine di questo stesso giornalino il processo di assurda demonizzazione portato avanti contro di lui. Tuttavia non ho mai altresì taciuto la mia condanna davanti ad un così grave ed infondato messaggio di sfiducia nelle nostre istituzioni democratiche, di mancanza di onestà intellettuale e di dignità di fronte alla sconfitta. Chi sei tu, uomo o divinità, per poter pretendere di aver vinto sempre e comunque di fronte alla cruda realtà della sconfitta? Chi sei tu, folle e scellerato, per poter mettere in dubbio, senza la minima parvenza di una prova, il funzionamento stesso del nostro vivere civile? Con l’annuncio di martedì scorso presso la sua ormai nota villa di Mar-a-Lago,

Trump ha lanciato la sua ricandidatura a Presidente degli Stati Uniti d’America nel 2024, mentre Biden aveva già espresso la sua volontà di riconfermare il suo mandato. La campagna elettorale è ormai iniziata, ed entrambe i partiti iniziano a riscaldare i propri motori verso la conquista della Casa Bianca. Quali sviluppi futuri, quali colpi di scena il destino avrà in serbo per noi? Vi sarà un rematch epocale Trump-Biden, oppure l’astro nascente DeSantis prenderà le redini del partito Repubblicano? Come sempre vi terremo aggiornati su tutto, sempre e comunque. Qui da Washington è tutto, linea allo studio.