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L’invito al silenzio per celebrare un esempio. Il rifiuto dell’indifferenza per rendere presenza un’assenza
L’EDITORIALE L’INVITO AL SILENZIO PER CELEBRARE UN ESEMPIO IL RIFIUTO DELL’INDIFFEREN ZA PER RENDERE PRESENZA UN’ASSENZA
GIACOMO LONGONI, 5bb “E quando gli dissero di andare avanti/troppo lontano si spinse a cercare la verità/ora che è morto la patria si gloria/d’un altro eroe alla memoria”. Prendo in prestito le parole di De Andrè per ricordare la figura del nostro ambasciatore ucciso in Congo. E lo faccio perché riassumono al meglio quello che per me ha rappresentato la morte dei nostri due connazionali.
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Nel nostro secondo lavoro, quello di liceali che perdono tempo a scrivere saltuariamente articoli per il giornalino scolastico, capitano molti imprevisti a cui far fronte con rapidità ed efficienza. Certo non perché mossi da chissà quale ideale e neppure per ottemperare a quel patto di fedeltà stipulato a suo tempo coi lettori, giacchè lettori nel nostro caso non ve ne sono. E comunque anche se ve ne fossero me li immagino uomini e donne forti, abituati a leggere di tutto, individui temerari e oltremodo misericordiosi, pronti a perdonare eventuali mancanze.
Così è accaduto anche questa volta. Un imprevisto, qualcosa di non preventivato e che tuttavia è capitato. Nella vita di una redazione studentesca tutto avviene di fretta. E anche le notizie, una volta sentite, in men che non si dica devono trasformarsi in articoli. Così anche in questo caso, appena compresa realmente la gravità della notizia delle morti di Attanasio e Iacovacci, uno dei primi pensieri comuni – credo - in tutta la redazione, ma che certamente ha colto il sottoscritto, è stato questo: “Dobbiamo farci un articoletto!” Perché sì, perché lo si deve fare, perché è cronaca e perché, nella sua immane tragicità, è la notizia del momento. Appunto, un imprevisto. Eppure questa volta, pur arrangiando in corso d’opera la disposizione degli articoli nel numero che avete tra le mani, qualcosa di diverso c’è. La morte di tre persone non può definirsi “imprevisto”. Anche se giornalisticamente lo è. Si tratta di un dissidio che non è banale e che, anche se doloroso, vergognosamente irrispettoso e amorale, chiama in causa un po’ tutti. Come reagire ad una tragedia? Come dolersi della perdita di qualcuno che non si conosceva? Un eroe che si spinge a cercare la verità, facendo ben oltre quello che le sue mansioni da ambasciatore richiedono di fare. Un eroe morto e che, tornato a casa, trova tutta la patria pronta a glorificarlo, come peraltro giusto che sia. Eppure quel “si gloria” veicola non un’idea di dolore ma, tuttalpiù, un sentimento di velata ammirazione verso l’eroe, quasi di distacco.
Dunque, come si reagisce ad una tragedia? Così ho reagito io: Lunedì 22 febbraio. Sono nella settimana in cui la Didi mi offre lo spasso di starmene a letto fino alle 08:09 e sono all’incirca le 11:15. Mentre aspetto che il prof entri a lezione aggiorno la home di Instagram ma, avendoci passato le precedenti tre ore, non trovo nulla. Dunque istintivamente vado sulla pagina del Corriere per leggere i titoli degli articoli ed ecco che qui mi imbatto in un punto esclamativo rosso recante l’ansiogena espressione “Ultim’ora”. C’è una foto, due anzi. La prima raffigura un uomo che se lo guardi non gli dai più di trentacinque anni, sorridente e ben vestito. La seconda invece riproduce una carta geografica che non mi dice nulla. Solo dopo aver guardato le immagini leggo il titolo: “Agguato in Congo: ucciso l’Ambasciatore italiano”. Sento intanto che il prof è arrivato e inizia a fare l’appello, chiudo la pagina e apro il quaderno di matematica.
La mia prima reazione alla notizia dell’assassinio dell’Ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci (non citato nel titolo della flash-news del mio giornale di fiducia) è proprio questa, indifferenza. Certo, non che potessi fare qualcosa lì per lì ma a ripensarci me ne vergogno. Le lezioni finiscono, mangio e mi butto sul letto per riprendermi un attimo. Apro Instagram e mi ritrovo una storia della pagina del Majo. Scopro allora che quell’ambasciatore ucciso in uno stato di cui conosco solo il nome e suppergiù la collocazione geografica, quel volto anonimo in realtà molto anonimo non è dato che ha passato cinque anni della sua troppo breve vita in quegli stessi corridoi in cui ogni tanto da qualche tempo (e speriamo ancora per poco) metto piede anche io.
Realizzo che forse un telegiornale ogni tanto potrei anche guardarlo e il Tg3, l’ultimo nei palinsesti Rai prima delle trasmissioni pomeridiane, mi offre la possibilità di redimermi. Il resto è ormai noto a tutti. In un vile agguato nella regione congolese del Nord Kivu un gruppo armato ha ucciso l’autista di un convoglio Onu, Mustapha Milambo, su cui viaggiavano due nostri connazionali, l’Ambasciatore italiano a Kinshasa, la capitale della Repubblica Democratica del Congo, il limbiatese Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci, carabiniere dell’Arma preposto alla sicurezza del diplomatico.
È a questo punto che scopro di non avere più parole. Non so cosa dire perché ogni cosa risulta essere banale e futile, inutile di fronte all’irreversibilità della morte, nulla di fronte al sacrificio di due giovani vite, niente di fronte al dolore dei cari e allo sconforto di chi ha potuto condividere con i due nostri connazionali tratti della propria esperienza. Eppure il silenzio è di per sé una melodia. Di certo non segnale di indifferenza. Ma nel silenzio scopro di essere
ignorante, di non sapere neppure che la Repubblica Italiana avesse un ambasciatore in Congo, di ignorare che, scopro poi guardando vecchie interviste ad Attanasio, in Congo gli italiani hanno iniziato ad emigrare già nei primi anni ’50 per motivi economici, sperando di trovare terreno fertile per le proprie aspettative di vita e trovandolo effettivamente, almeno per qualche decennio.
Così una notizia di fronte alla quale mi ero dimostrato indifferente ha assunto un significato ed un colore. Di quel volto ora ho conosciuto la voce. In quel sorriso ho trovato la passione per il ruolo che ricopriva e nei suoi discorsi rintracciabili su YouTube ho colto l’amore profondo per il suo, il nostro, Paese, da tutti molto spesso bistrattato e per il quale il nostro “collega” Luca Attanasio, insieme all’agente Vittorio Iacovacci e ad una serie sterminata di eroi, ha dato la vita.
Nessuno ci ha chiesto di dire qualcosa e trovo encomiabile la scelta di stare zitti, demandando ad altri le parole, ovvero a chi lo ha conosciuto e di Attanasio ha potuto apprezzarne lo spessore umano. Vi invito dunque a leggere l’articolo che segue, contenente le parole di alcuni suoi amici, compagni di classe e di una docente. Eppure vorrei porre sommessamente una semplice considerazione. La nostra lontananza col Congo e l’ininfluenza di questa notizia nel nostro vissuto quotidiano non possono costituire alibi all’indifferenza che in questo caso il sottoscritto e mi auguro pochi altri hanno manifestato al riguardo. Anzi… “Viene poi il momento in cui ciascuno sta solo, alla presenza del Signore. Finiscono i clamori, tacciono le parole, la gente radunata si disperde e ciascuno sta, solo, alla presenza del Signore. Sono dimenticate le imprese, risultano insignificanti gli onori, i titoli, i riconoscimenti e ciascuno sta, solo, alla presenza del Signore. Perde interesse la cronaca, le parole buone e le parole amare, la retorica e le celebrazioni e ciascuno sta, solo, alla presenza del Signore.” Così esordisce Mons. Delpini nell’omelia dei funerali di Attanasio, tenutisi sabato scorso a Limbiate. Tutto passa. Forse, è inutile fare gli ipocriti, per molti tra qualche tempo questo tragico evento sarà cancellato persino dalla memoria. Eppure tre vite sono irrimediabilmente spezzate. Cosa posso fare? Non esiste antidoto all’oblio, così almeno pare. Tuttavia, forse per espiare il pegno dell’ignoranza e dell’indifferenza manifestata, una cosa posso fare, anche per non rendere vano il sangue ingiustamente versato: prendere l’impegno di informarmi su quella parte del mondo che, non nascondiamolo, da tutti viene ignorata, ad alcuni fa paura, da troppi odiata e da molti, troppi anche inconsapevolmente, sfruttata. Potrebbe essere il modo migliore per celebrare degli uomini che hanno perso la vita, impegno certamente più proficuo di targhe, funerali di Stato o altre celebrazioni che, banalizzando e sminuendo il ben più profondo messaggio dell’Arcivescovo, lasciano il tempo che trovano. Affinchè Luca, Vittorio e Mustapha vivano.