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Vedem e i ragazzi della stanza n.1

GIORGIA TIRALONGO, 4bb

Da quando è nato, il giornalismo ha sempre avuto un ruolo chiave nella vita delle persone: ci aiuta a rimanere in contatto con il mondo esterno e ci ricorda che non possiamo vivere curando solo il nostro orto; ci apre una finestra sulla vita di altre persone, e dà voce a coloro che vogliono raccontare la loro storia. E il giornale Vedem è fondamentale per comprendere il valore del giornalismo, oltre ad essere un esempio di grandissimo coraggio e voglia di vivere. Ci troviamo in Cecoslovacchia, nel 1942, nella città-ghetto di Theresienstadt, ormai un vero e proprio campo di concentramento nazista, il più grande dello stato, a sessanta chilometri di Praga. I Prominenten, qui, sono soprattutto artisti noti anche in ambito internazionale, che non potevano essere eliminati subito o la loro scomparsa avrebbe fatto chiacchierare molto. In questo campo, infatti, al contrario di molti altri, si cercava di mantenere una parvenza di normalità, soprattutto per i bambini e i ragazzi internati, la cui istruzione era molto curata – nei limiti del possibile: Walter Freud, responsabile dell’edificio femminile, creò il teatro delle marionette; Friedl Brandeis, una giovane artista di Berlino, affascinava i suoi studenti con l’arte e, attraverso questa, li spingeva a combattere la paura e non perdere la speranza; Otto Krauss che, come la sua collega, aiutava i bambini con la musica. Insomma, a tutti gli effetti sembrerebbe solo un campo di rieducazione, e si potrebbe pensare che i suoi prigionieri, in realtà, fossero stati davvero fortunati.

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Addirittura il campo, soprannominato Terezìn, veniva definito “la città che Hitler regalò agli ebrei”. Ma era tutta propaganda: era l’anticamera di Auschwitz, una “comoda” sala d’attesa prima della totale distruzione di tutte le speranze. Terezìn causò la morte di 33.419 persone per malattia e malnutrizione; 84.934 furono deportate nei campi di sterminio ad Est; dei totali 15.000 bambini che vi furono rinchiusi, solo 1.000 sopravvissero all’olocausto. La testimonianza più vera di ciò che i prigionieri vivevano ogni giorno ci arriva, ancora una volta, da un giornale, ma non uno qualunque: il Vedem – Andiamo avanti o Avanguardia – un settimanale redatto da dei ragazzini internati nel campo. Il giornale fu pubblicato per ben due anni – tra il 1942 e il 1944 – sotto la supervisione del professor Valtr Eisinger, che si occupava dei ragazzini tra i quattordici e i quindici anni confinati nel Block L417, nella stanza n. 1, dove vivevano al riparo dal rischio di malattie e incidenti, ricevendo un’istruzione che era l’unica parvenza di una vita ancora normale. Grazie al ritrovamento di una vecchia macchina da scrivere, riuscirono a stampare almeno i primi trenta numeri; i successivi cinquantatré furono scritti a mano. Per ogni numero usciva solo una copia per la scarsità dei materiali a disposizione, che veniva poi letta davanti a tutti il venerdì sera. Essendo un giornale clandestino, la redazione doveva fare molta attenzione: un ragazzino fungeva da vedetta, mentre tutti gli altri lavoravano intorno al tavolo di legno e al segnale di arrivo di una sentinella nascondevano tutto in fretta e furia. Il contenuto era molto vario: poesie, saggi, battute, dialoghi, recensioni letterarie, molto spesso rispecchiavano la realtà che questi ragazzini avevano sotto gli occhi quotidianamente. Ad esempio, in una recensione del libro “La capanna dello zio Tom” di Harriet Beecher Stowe, veniva paragonato il destino degli schiavi afroamericani con quello degli ebrei. Una prova che questi ragazzini non solo avevano compreso la verità dei fatti, ma che hanno avuto anche il coraggio di esporla, seppur sotto pseudonimi e simpatici soprannomi, molto spesso le uniche firme che ci sono giunte, senza la corrispondente identità. In totale, tra anonime e firmate, sono ottocento le pagine originali che si sono salvate, rese pub-

bliche solo nel 2012 in un unico volume, “We are childern just the same”. La produzione fu drammaticamente interrotta nel 1944 quando, per attuare “la soluzione finale”, gran parte della popolazione di Terezìn fu deportata in massa ad Auschwitz e assassinata. Dei novantadue bambini e ragazzi coinvolti nella stesura del giornale, solo quindici sopravvissero. Tra le vittime di questa barbarie, spicca un nome, Petr Ginz, caporedattore di Vedem e uno dei più brillanti e capaci scrittori della redazione. Nato il 1° febbraio 1928 a Praga da un matrimonio misto, fin da piccolo si dedicò alla scrittura, producendo di sua mano almeno cinque racconti ispirati a Jules Verne, di cui ce n’è giunto solo uno. A quattordici anni fu condotto e imprigionato a Terezìn dove, grazie al suo spirito di iniziativa e alla sua straordinaria creatività, fondò Vedem e ne divenne caporedattore. Destinato alle camere a gas, fu condotto ad Auschwitz, dove morì il 28 settembre 1944. Le sue parole, però, lo hanno reso immortale:

...Siamo abituati a piantarci in lunghe file alle sette del mattino, a mezzogiorno, alle sette di sera, con la gavetta in pugno, per un po’ di acqua tiepida dal sapore di sale o di caffè o, se va bene, per qualche patata. Ci siamo abituati a dormire senza letto, a salutare ogni uniforme scendendo dal marciapiede e risalendo poi sul marciapiede.... Ci siamo abituati agli schiaffi senza motivo, alle botte... Ci siamo abituati a vedere la gente morire nei propri escrementi... ...all’arrivo periodico di un migliaio di infelici e alla corrispondente partenza di un altro migliaio di esseri ancora più infelici.......

Vedem aveva anche un logo, ispirato ancora a Verne: una navicella che sorvola un libro sopra una stella, simbolo della speranza in un futuro che, per molti di loro, non è mai arrivato.

“Ci hanno strappati dal terreno fertile del lavoro, della gioia, della cultura che doveva nutrire la nostra gioventù. Lo fanno con un solo scopo: distruggerci non fisicamente, ma spiritualmente e moralmente. Otterranno il loro scopo? Mai! Privati delle nostre vecchie fon-

ti di cultura, ne creeremo di nuove. Separati dalle nostre vecchie sorgenti di gioia, creeremo per noi una gioiosamente radiante vita nuova” Petr Ginz