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In difesa dell’arte

LUCA SARACHO, 5F

“You use a glass mirror to see your face; you use works of art to see your soul” George Bernard Shaw

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C’è qualcosa che trascende la condizione umana quando ci si trova davanti ad un capolavoro. Le differenze intersoggettive si assottigliano fino a scomparire, l’aria si fa sempre più rarefatta fino a divenire etere, la matericità della sostanza corporea sublima senza che si possa avere alcuna percezione di quanto stia accadendo, e, prima che ce ne si possa accorgere, ci si ritrova tutti riuniti in una dimensione metafisica superiore, infinita, silenziosa, inesorabilmente vuota, con l’unica mirabile eccezione dell’opera che si sta osservando. In un singolo frangente ci ritroviamo tutti silenziosi spettatori, in contemplazione estatica dinanzi al tripudio di emozioni, agitate in noi da quelle forme, da quelle line, da quelle irripetibili tonalità di colore. In quel fugace frangente l’uomo si ritrova veramente uguale al suo simile, trascendendo provenienza, fede e moralità. In quell’effimero frangente l’uomo si eleva spiritualmente, raggiungendo la sua forma più compiuta. Non nego che ciò potrebbe suonare all’orecchio più scettico come una straordinaria idealizzazione utopistica, all’orecchio più malevolo come il furioso delirio di un ubriaco. E non stenterei a crederci io stesso se solo non mi trovassi nella penombra, ricurvo sul piano della mia scrivania, a dilaniare con solchi di inchiostro sempre più indecifrabili la superficie di questo

foglio che mi ritrovo per mano. Il tutto per il più futile dei motivi: difendere uno degli insegnamenti più bistrattati e meno valorizzati nel nostro quinquennio liceale: Storia dell’Arte. Non me ne voglia chi le attribuisce una pari dignità a scienze motorie, se non addirittura inferiore, o chi la considera come un semplice orpello da liquidare sbrigativamente; ma c’è un mondo intero che così facendo viene indebitamente deprezzato, anzi a dir poco infamato. Son ben certo che la probabilità che nei nostri corridoi si aggiri un futuro critico d’arte sia incredibilmente esigua, ma nessuno richiede questo da noi. Non tutto deve possedere una finalità pratica di stringente urgenza nell’applicazione, non tutto deve essere visto attraverso le fredde e algoritmiche lenti dell’utilità immediata, non tutto per questo deve essere classificato come degno o indegno di essere appreso, o per lo meno analizzato. Se ci si dovesse attenere a questa logica interi indirizzi scolastici, costitutivi anche della nostra stessa comunità, dovrebbero essere aboliti senza remore, assieme a metà del programma scolastico dei rimanenti, tutto in nome dell’immediato interesse materiale. Eppure ci ritroviamo qui a tradurre Tacito o Virgilio, Platone o Isocrate, ad analizzare la Nike di Samotracia o la Venere di Milo, La Vergine delle Rocce di Leonardo o Il ratto di Proserpina del Bernini, I papaveri di Monet o ancora Il Bacio di Klimt. Nulla di tutto ciò, se non per pochissimi fra noi, dovrebbe essere veramente “utile”, ma eccoci qui comunque a studiarli senza tregua. Pazzia direte voi? Ma sicuramente! E dunque siamo assolutamente certi che la pazzia risieda nel fatto stesso di studiare Arte? La mia risposta è “No, risiede

altrove”. L’Arte possiede l’impareggiabile pregio di nutrire la nostra anima, ristorare il nostro essere, forgiare la nostra identità. Non è la mera ricerca del bello, fine a sé stesso, sterile quanto le minuziose e nozionistiche descrizioni facilmente rintracciabili negli esorbitantemente pesanti manuali di scuola, bensì la costante ricerca e ridefinizione di se stessi nell’altro, in ciò che a noi è esterno. È il perdersi in noi, lo scontrarsi con qualcosa di esterno a noi e il sopravvivere a tale confronto per arrivare a una definizione più ricca di sé, come i pochissimi ma veri hegeliani tra i miei lettori avranno modo di confermare. L’Arte non è quindi solo il prodotto inerte del creatore, bensì uno strumento costantemente vivo, vitale e palpitante, rispetto al quale misurarsi, dialogare, discutere, combattere animosamente o fondersi edonisticamente, davanti al quale poter affermare la propria posizione di soggetto pensante e libero, di fronte al quale costruire la propria identità in antitesi o in consonanza con esso, senza il timore di poter contraddire qualche pedante erudito. L’Arte è la costante rielaborazione della nostra realtà, interiore ed esteriore, sia da parte del soggetto artistico sia da parte dello spettatore, secondo un processo creativo assolutamente libero da qualsiasi imposizione esterna alla propria volontà. A questo merito che vi siano da guida le parole che troneggiano sulla facciata del palazzo della Secessione a Vienna: “Al tempo la sua arte, all’arte la sua libertà”. L’Arte è la dimensione in cui l’uomo può esser davvero creatore del reale, divino demiurgo di mondi, personaggi, sentimenti e ideali sempre nuovi e sempre diversi. L’Arte è il testamento spirituale di popoli e di grandi uomini. È la firma, indelebile nell’intenzione eppure così terribilmente fragile nella realtà, di intere esperienze di vita, affidata sommessamente ai posteri con un’unica preghiera: “Ricordateci”. Prodotto di un ego troppo ingombrante o umanissima negazione della morte, un’opera d’arte è la testimonianza che nel millenario percorso della nostra specie altri uomini hanno condiviso le nostre stesse paure, le nostre stesse ambizioni, che altri uomini hanno patito gli stessi dolori

e goduto delle stesse gioie. E lontano da qualsiasi barriera linguistica o culturale, geografica o religiosa, altri uomini hanno deciso di incidere i loro nomi, sottrarre la loro esistenza dall’oblio e renderla immortale, mediante il più universale dei linguaggi: l’immagine, l’impressione visiva. Nonostante ciò, qualsiasi cosa in questo disgraziato mondo è soggetta a degradazione, e l’insegnamento di Storia dell’Arte non ne è esente: soffocato dalla nozione più sistematica ed impalpabile, il messaggio artistico stenta a distendere le proprie ali e spiccare il volo nelle nostre aule, fondali oceanici di apatia ed indifferenza. Ma non commettiamo l’errore grossolano di confondere metodo con oggetto didattico: si chiedano le teste di quanti abbiano creato e convintamente somministrato un tale nozionismo alienante, non le teste degli innumerevoli uomini e donne che hanno contribuito, col loro lavoro e la loro fatica, al patrimonio umano. Fermatevi un attimo davanti alle loro opere e tacete: ascoltate le loro flebili voci, tentate di decifrare l’eco ovattata che filtra attraverso i loro marmi, le loro tele, i loro colori. Lasciatevi commuovere o infervorare dai loro racconti - ricordateli. Non è saccenza, la loro, ma un messaggio impronunciabile ed immortale, che sta ad ognuno di noi tradurre ed interiorizzare. Senza l’Arte sopravviveremmo sicuramente, ma sopravvivere non significa Vivere. Dormiremmo, ci nutriremmo e torneremmo a giacere come degli automi, senza felicità, aspirazioni o coscienza della propria identità. Ed è senza l’identità che l’uomo è destinato ad essere schiacciato dal peso della generale mediocrità, trasportato senza possibilità di opporsi dalle vicissitudini della nostra società. Il mio augurio a tutti voi per questo anno appena cominciato è dunque questo: ricercate la Vita, non la monotona sopravvivenza.