2 minute read

veglie che allietavano le serate d’inverno

La “Veja de Natà” era una vera e propria festa che imponeva la presenza di tutti i componenti della famiglia, tanto che gli assenti venivano ricordati quasi come scomparsi

DI UGO BELLESI La civiltà contadina, quando era ancora fiorente nelle Marche, per antica tradizione era solita fare le veje d’inverno. Infatti nelle case di campagna, subito dopo cena, attorno al focolare della spaziosa cucina si raccoglievano intere famiglie amiche del vicinato. Alla luce della fiamma del camino e a quella un po’ fioca del lume ad olio le donne più anziane filavano la lana, le giovani spose rammendavano i vestiti dei mariti, oppure sferruzzavano calze e maglie, mentre le giovani fidanzate preparavano il loro corredo di future spose. Invece i vergari e gli uomini si riunivano nella stalla dei bovini (dove si stava più caldi) e impagliavano sedie, intrecciavano canestri di vimini, fabbricavano zoccoli o riparavano attrezzi agricoli.

Advertisement

Si creavano così due ambienti, quello della cucina e quello della stalla, «entrambi – ci ricorda Giovanni Ginobili nei suoi scritti – ricchi di serenità, di confidenza e di festosa attrattiva, portata dalla narrativa popolare». Infatti mentre le nonne raccontavano favole e leg- gende popolari i più anziani commentavano quanto accadeva in paese e le dicerie che circolavano su qualche personaggio. E questa tradizione era diffusa in tutte le Marche.

La prima era quella della notte tra il 9 e il 10 dicembre, quando in campagna si accendevano i fuochi che, per tradizione, dovevano illuminare il cammino della Madonna con Gesù bambino verso Loreto. Ma la veglia più piacevole era laVeja de Natà perché si trattava di una vera e propria festa familiare in quanto tutti i componenti della famiglia dovevano trovarsi insieme, tanto che gli assenti venivano ricordati quasi come scomparsi. Consumato il cenone infatti iniziava la veglia durante la quale i giovani e le donne giocavano a tombola men- tre gli uomini giocavano a carte. E il divertimento andava avanti fino all’ora della “Messa di mezzanotte” alla quale tutti dovevano partecipare. E la tradizione voleva che la veglia natalizia si ripetesse tutte le sere fino all’Epifania. Si giocava anche a carte ma non per soldi. Infatti chi perdeva doveva fare una “penitenza” che era decisa dai vincitori. E queste penitenze costituivano proprio il godimento migliore della serata. A volte poi qualcuno intonava un canto e gli altri lo seguivano. Erano canti popolari come gli stornelli, oppure canti di trincea (di chi aveva fatto la prima grande guerra) ma anche canzonette ballabili. E la veglia cessava solo quando il vergaro annunciava “Ragazzi è mezzanotte!”. Le veglie si svolgevano soltanto d’in- verno perché d’estate bisognava alzarsi presto per andare al lavoro nei campi o nella stalla. Altre veglie avevano luogo certamente a carnevale, ma anche quando si doveva cuocere il vino per tutta la notte per fare il vino cotto, oppure quando doveva nascere un vitellino, per non parlare di quelle famiglie in cui, proprio di notte prendevano vino e alambicco, perché attraverso la fiamma ne scaturisse il mistrà. Ma non si può dimenticare una veglia estiva che si svolgeva quando si doveva scartocciare il granturco. Spesso si iniziava dopo cena (a base di pasta e fagioli o pasta e cece) e c’era sempre un suonatore di organetto, per cui si lavorava, ma si cantava pure e si chiacchierava. Terminato il lavoro, c’era sempre tempo anche per ballare fino a tardi.

Le opere dell’artista maceratese del ‘900 (19011981) tendono un filo ideale che unisce il Museo del Novecento di Palazzo Ricci e i Musei Civici di Palazzo Buonaccorsi

This article is from: