
13 minute read
PRIMO PIANO
LA GRANDE SFIDA: IL TERZO SETTORE ALLA PROVA DEL COVID-19
di Italo Bassotto
PAROLE CHIAVE: PANDEMIA, DIDATTICA A DISTANZA (DaD), VOLONTARIATO, DISTANZIAMENTO SOCIALE
Nella prima parte viene presentata la situazione di disagio sociale causata dalla regola del “distanziamento” imposta dalla diffusione pandemica del virus definito COVID-19. Si segnalano in seguito i rischi di una sudditanza della politica dalla scienza, in particolare quando si tratta di governare processi sociali complessi come quelli che chiedono ai cittadini cambiamenti radicali nella loro esistenza. Siamo in presenza di un grave rischio per la democrazia che può essere superato con la creazione di una “intercapedine” tra il potere politico e quello della scienza e tecnologia costituita da un sistema reticolare di partecipazione alla governance della complessità sociale, basata sul coinvolgimento del terzo settore in azioni mirate allo sviluppo delle “buone pratiche” di convivenza e di solidarietà.
1. La solidarietà in tempi di pandemia
Tra i tanti paradossi e le tante incognite di questa tragica crisi sanitaria certamente quella che più crea disagio e ansia è il vincolo stringente e indiscutibile del distanziamento sociale. Dobbiamo stare da soli, senza alcuna possibilità di prender parte a gruppi o assembramenti di nessun genere: privati della possibilità di comunicare con le espressioni emotive del volto a causa di una mascherina protettiva delle prime vie respiratorie (naso e bocca).Impediti del rapporto fisico con chi solitamente stringiamo in un abbraccio, salutiamo con una carezza o un bacio, sosteniamo per aiutare nei movimenti e nell’espletamento delle funzioni basilari del vivere,( mangiare, lavarsi, curare la propria persona….). Isolati dalle persone a noi care, al punto da non poterle neppure accompagnare verso il traguardo estremo e persino nell’ultimo viaggio terreno. Costretti a una convivenza forzata con la propria famiglia per intere settimane, ma a esserne allontanati e messi “in quarantena”, qualora veniamo contagiati, senza il conforto di nessuno che non sia il personale sanitario, fino alla più completa guarigione o alla sconfitta definitiva. In questo scenario da apocalisse, la voglia di vivere e la speranza di uscirne indenni hanno dato la stura a tre grandi scelte esistenziali, che mai nessuno avrebbe pensato si potessero porre in essere in così breve tempo e cosi diffusamente. La prima è il ricorso massiccio alle
tecnologie della informazione e della comunicazione. Ha cominciato per prima la “politica” con il Presidente del Consiglio che, anziché usare i tradizionali canali con cui ci si rivolge al popolo (leggi e decreti scritti e pubblicati in Gazzetta Ufficiale), ha cominciato a utilizzare i social media, i diversi canali televisivi, le forme più disparate di relazione “virtuale” rese possibili dai devices che le ICT hanno creato in questi primi vent’anni del nuovo millennio. Sulla falsariga della politica, si è messo parte del mondo del lavoro (banche e sistemi amministrativi delle grandi e piccole aziende) che, non potendo fruire dei propri lavoratori in presenza, li ha tenuti ancorati ai loro compiti produttivi, utilizzando quello che si chiama lo smart working, ovvero il
lavoro da casa mediante i sistemi intelligenti messi a disposizione dalla tecnologia. Questa prima modalità di creare risorse funzionali “a distanza” è stata adottata dalla scuola fin da subito, dopo il lancio dell’hastag #iorestoacasa, che segnava lo spartiacque tra la vita normale e l’inizio della lotta per la sopravvivenza agli attacchi mortali del Covid-19. Un po’ per l’assenza di regole al riguardo dell’uso dei media e delle tecnologie informatiche, un po’ per l’abbandono degli Istituti scolastici a se stessi da parte dell’amministrazione centrale, che, con cervellotica decisione, aveva sospeso le lezioni, senza chiudere le scuole, ma moltissimo per la sensibilità professionale e il forte senso di responsabilità di tutto il personale docente e dirigente, ma anche ATA, nei riguardi di circa otto milioni e mezzo di studenti dai 3 ai 19 anni, compresi quelli delle cosiddette “paritarie”. Cavalcando le dune friabili di una autonomia proclamata in Costituzione, ma avversata quotidianamente dalla amministrazione e accerchiata da infiniti veti e lacci frapposti da organizzazioni sindacali, sempre più alla ricerca di uno spazio di controllo e gestione contrattuale di ogni piega del rapporto di lavoro del personale docente, le scuole si sono organizzate al meglio per fare in modo che il distanziamento sociale imposto dalla pandemia non diventasse un vero e proprio esilio, con l’abbandono di qualsiasi forma di relazione educativa e didattica nei riguardi degli studenti e la conseguente inadempienza dell’istituzione rispetto a quanto dovuto ai cittadini minori in età scolare secondo il dettato dell’art. 34 della Costituzione. Con tutte le difficoltà, i disagi, le precarietà degli strumenti tecnologici, le laceranti discussioni tra le varie fazioni e posizioni di Dirigenti, docenti e associazioni sindacali, più del 70% delle scuole italiane ha
messo in moto quella grande macchina, che, dopo circa un mese di “volontariato” e di libera iniziativa, il Ministero, con una preziosa, quanto attenta e documentata Nota n. 388, definiva Didattica a Distanza (DaD), tracciandone alcune essenziali linee guida relativamente agli “stili” di insegnamento con l’uso delle TIC, alle modalità di relazione con studenti e famiglie e infine alle modalità della valutazione degli apprendimenti in contesti di presenza-assenza. Ancor più recentemente (il 6 aprile) nell’ambito dei provvedimenti economici e normativi che andranno a costituire la prima parte di un complesso lavoro di rilancio del Paese nella prospettiva di una uscita, sia pure lenta e prudente, dalla pandemia, quelle che erano delle considerazioni di orientamento professionale e tecnico volte a supportare il lavoro prezioso delle migliaia di insegnanti impegnati nel “ridurre la distanza” (almeno virtuale) tra loro e i loro studenti, sono diventate vere e proprie norme legislative, che hanno trasformato la DaD da un gesto di generosa disponibilità e sensibilità sociale della scuola in un vero e proprio sistema al servizio della istruzione e della formazione dei bambini, adolescenti e giovani, da perfezionare certo, ma da mantenere anche quando i tempi della grande tragedia del Coronavirus si saranno allontanati. La seconda scelta esistenziale con cui abbiamo cercato di sopravvivere all’isolamento forzato è stata quella di costruire intorno a noi un mondo virtuale a immagine e somiglianza di quello reale, in cui vivevamo prima di entrare nel tunnel del distanziamento sociale: aiutati dagli strumenti che ci mettono a disposizione le TIC ci troviamo immersi in un mondo di pensieri, emozioni narrazioni, a volte intrise di rabbia, altre di fatalismo, ma moltissime permeate dal senso della speranza; tanto è vero che lo slogan scritto sui muri, sulla tela, sugli arcobaleni dipinti e appesi ai balconi di moltissime case degli italiani recita: ANDRA’ TUTTO BENE! Di questa strategia di sopravvivenza fanno parte tutti gli sforzi per “continuare” a mantenere gli aspetti essenziali della vita di prima della tragedia che ci coinvolge, magari, ancora una volta, ricostruendo in maniera virtuale quello che prima era reale. Così avviene per i riti religiosi trasmessi nelle nostre case, diventate le nostre prigioni, con i più svariati sistemi di comunicazione di massa offerti dalle nuove tecnologie; così avviene con la partecipazione alle Festività Pasquali, e ancora per le due ricorrenze laiche della Festa della Liberazione (25 aprile) e dei Lavoratori (1 maggio) tutte quante “ricostruite” in una sorta di “second life” virtuale, affinchè siano delocalizzate e rese fruibili da tutti nel chiuso delle loro case, attraverso gli schermi dei più svariati devices. La terza forma di continuità della nostra esistenza, così tragicamente interrotta dalla peste del COVID-19 è rappresentata dalla testimonianza della solidarietà, che prende forma nel volontariato sociale e personale. Non passa giorno che non ci vengano raccontati, attraverso i canali della informa-
zione, che hanno invaso i tempi e gli spazi delle nostre esistenze casalinghe, episodi di generosità e di dedizione al prossimo in difficoltà in ogni parte del Paese. Associazioni no profit, gruppi organizzati di volontari, singole persone spinte dal desiderio di aiutare anche a costo di mettere a rischio la propria salute, si sono messe a disposizione dei cittadini isolati e impauriti per alleviarne le sofferenze e soddisfarne i bisogni più elementari. Spesso coordinati dalle amministrazioni pubbliche, ma anche per iniziativa e slancio umano personale, abbiamo avuto notizia di un esercito di volontari che hanno costruito ospedali da campo, distribuito cibo e mascherine, trasportato malati, confortato e sostenuto persone sconvolte dalla paura o dal dolore, e continuano a farlo…. Non sto parlando delle grandi “macchine organizzative” del volontariato nazionale, come la Protezione Civile o la Croce Rossa, o internazionale, come Emergency e Medici senza Frontiere, i quali tutti meritano un plauso di infinita gratitudine per quello che hanno fatto e continuano a fare in tempi di pandemia, ma delle piccole associazioni locali e dei singoli, che aiutano a rendere la vita meno difficile a quelli che, nel gergo diffuso da queste circostanze, vengono definiti “persone fragili”: vecchi, poveri, ammalati ….
2. “…sortirne tutti insieme è politica”…
Il tempo sospeso che stiamo vivendo chiama continuamente in causa un tratto imprescindibile della nostra esistenza, che è quello dell’attesa che “tutto finisca” e dei progetti per quando ciò avverrà. È quel tempo cui noi diamo il nome di futuro: nel quale sono riposte le speranze residue di superare questa condizione di isolamento e inedia sociale, nel quale dislochiamo i nostri progetti di una “ripresa” umana e civile, grazie al quale anche il presente ci appare più sopportabile e vivibile. Ma è proprio il presente, il problema che ci angoscia: è il qui e ora quotidiano che sembra non finire mai e che denuncia a ogni istante la nostra impotenza a contrastare un nemico invisibile che ci assedia. La pandemia sembra mettere in discussione tutto il sistema dei valori intorno al quale abbiamo costruito la nostra convivenza civile e Massimo Cacciari arriva a paventare seri rischi di attacco alla democrazia e alle sue regole costitutive, come la condivisione, la partecipazione, la solidarietà e l’uguaglianza dei e fra i cittadini. Certamente viviamo un momento di “sospensione” dei rapporti umani e sociali e in questo limbo inusitato si insinuano le angosce, le paure e le speranze dei singoli, mentre la salvaguardia delle ragioni della speran

za è affidata alla politica, mai così presente e sollecita nei riguardi dei cittadini. Ma la cosa che più stupisce di questa situazione di drammatico attacco al valore fondamentale per la vita che è la salute è il consolidarsi di una sorta di schizofrenia del sistema sociale: da una parte una catena di governo che si allea, in maniera assolutamente acritica fino al punto da diventarne succube, con le “scienze mediche” e il loro apparato di professionalità di indubbio valore e dall’altra la popolazione, costretta al distanziamento sociale e, quindi impossibilitata a far sentire i propri bisogni reali in un contesto di attacco al bene più prezioso che ognuno ha, ovvero la propria vita. Queste due “realtà” (la politica alleata con la scienza e i cittadini costretti a stare chiusi in casa angosciati dal nemico mortale che li assedia) non si parlano, non hanno “luoghi” di incontro e di ascolto reciproci: chi governa consulta gli scienziati e, in base a quello, che dicono ordina, legifera, regola la vita della “società civile”. I cittadini ovviamente si adeguano ai nuovi standard di vita imposti dalla invasività del virus, solo che, facendo questo, accumulano enormi quantità di problemi di ogni tipo: morali, sociali, psicologici, economici, cui la politica non può o non sa dare risposta, se non parziale e indifferenziata. La politica guarda al
futuro, mentre le persone, rinchiuse nelle loro case (chi ce l’ha!) cercano di sopravvivere al presente e ai suoi bisogni: a queste domande può rispondere solo un “corpo intermedio” che sia collocato nello spazio sociale che si crea tra le decisioni politiche e le condizioni di vita reale delle comunità. Si tratta del grande patrimonio del volontariato, che nel nostro Paese coinvolge circa un decimo della popolazione, con quattro milioni e mezzo circa di persone che operano all’interno di associazioni no profit e un altro milione e mezzo che svolge attività di aiuto e di cura individualmente. Ebbene in questo frangente in cui è a rischio la tenuta del tessuto sociale questa massa di volontari progetta, interviene e opera in ordine sparso, a seconda delle proprie vocazioni e delle legittimazioni istituzionali che, a macchia di leopardo (come sempre in questo Paese), i responsabili delle amministrazioni e dei governi (centrale e periferici) conferiscono a questa o quella associazione. Una delle prime cose che avrebbe dovuto fare il governo doveva essere la creazione di una cabina di regia dei servizi alle persone e ai gruppi sociali che non rientrano tra quelli istituzionalmente dovuti e che derivano dalle decisioni che di volta in volta vengono prese per fronteggiare gli attacchi della pandemia. Si decide per l’isolamento delle popolazioni? Non basta dire: lasciamo aperti tutti i servizi di approvvigionamento alimentare e farmaceutico, il distanziamento sociale genera problemi anche in termini di approvvigionamento e ci sono reti di volontariato che sanno aiutare in questa direzione. La gestione dei trasporti da e per gli ospedali ha una sua lunga tradizione di servizi di volontariato, così come l’assistenza alle persone anziane e disabili. La chiusura delle scuole ha creato problemi non indifferenti alle famiglie nella gestione dei figli per intere giornate per più di due mesi, non si possono pensare servizi di aiuto in tal senso, sempre facendo ricorso alle reti della solidarietà? E le decine di associazioni di volontariato della salute che operano nei paesi del cosiddetto terzo mondo non potevano, in questa circostanza straordinaria integrare a pieno titolo il lavoro degli operatori del sistema sanita
rio pubblico (come è accaduto per Medici Senza Frontiere)? Tra i tanti insegnamenti che dovremo trarre da questa tragica circostanza in particolare dovrebbe essere valorizzata proprio la consapevolezza delle istituzioni circa la necessità di fare del terzo settore un sistema permanente di sostegno: · alle politiche di “cura” basate sul principio dell’intervento di base e non sul ricorso ossessivo alla ospedalizzazione dei malati; · all’aiuto alle persone anziane per trattenerle il più possibile nei loro ambienti di vita (il 78% di loro vive da solo), il che significa ridurre il ricorso alle RSA e aumentare i servizi anche attraverso l’intervento del terzo settore; · al recupero dei valori della convivenza e della vita di comunità: quando usciremo da questo disastro saremo tutti impauriti e straniti di fronte a un mondo che faticheremo a riconoscere e a abitare di nuovo; · alle pratiche di “cittadinanza attiva”, ovvero di corresponsabilizzazione e condivisione anche nel campo della prevenzione sanitaria e della salvaguardia del pianeta, nella speranza che la prossima pandemia non ci colga impreparati e distratti. … e chi se non la politica può e deve sviluppare queste strategie di coinvolgimento nella prevenzione?
ITALO BASSOTTO

Abita a Piubega (MN), ha 70 anni ed è laureato in Filosofia e Pedagogia presso l’Università Cattolica di Milano. Maestro elementare, professore di Filosofia e di Storia nei Licei, Direttore Didattico, professore incaricato di Pedagogia generale e di Storia dello Sport, presso l’Università Cattolica di Brescia e infine Ispettore Tecnico. Ha partecipato a scambi culturali con le strutture scolastiche di diversi paesi europei, si è dedicato come volontario alla cura e al sostegno di scuole create nel Maranhao (BR) in collaborazione con la Fondazione Senza Frontiere di Castelgoffredo (MN). Ha pubblicato numerosi saggi e articoli, per riviste specializzate nella ricerca didattica e pedagogica.