IN VIAGGIO CON
Il tuo rapporto con il viaggio? Cinematografico (Maurizio guarda fuori dal finestrino scorrere fotogrammi ad alta velocità, ndr). Il finestrino è un fotogramma grandissimo che mostra paesaggi e sfondi. Il treno è cinema in movimento. Si creano momenti quasi intimi, ricordo un viaggio sul Frecciarossa durante il quale giocava l’Italia. Ci siamo ritrovati in 20, senza conoscerci, intorno a un iPad per seguire la partita. Poi tutti al bar a bere insieme. E poi, ti dico la verità, il treno è davvero la rappresentazione del nostro Paese, dalle littorine che portavano gente dal Sud al Nord fino a oggi. Sul treno ci si osserva, ci si ascolta, c’è tanta umanità, favorita anche dai vagoni open space. Quando hai cominciato a viaggiare in treno? Andavo a scuola a Firenze partendo da Pontassieve. Anche le prime tournée con l’Arca Azzurra di Ugo Chiti le facevo in treno. Da Firenze a Udine o Venezia, quanti viaggi, quanti incontri, alcuni bellissimi. Colpi di fulmine? Una volta sulla linea per Genova, complici le numerose gallerie, ci scappò un bacio. Finì subito, durò il tempo di un treno. Come sei diventato attore? A Pontassieve, dove sono nato e cresciuto, grazie a Giuliano, un signore che riuniva noi ragazzi al Circolino. Alla porta accanto abitava Alessandro Benvenuti. Io ero pischello e tutte le volte che lo vedevo uscire, caricare la macchina e partire per Roma, mi dicevo: «Voglio diventare come lui», ma non pensavo che l’avrei fatto davvero. Poi, durante i primi spettacoli per la parrocchia, mi venne a vedere il vesco-
vo. Una ragazza bionda dai capelli lunghi mi disse: «Andiamo a San Casciano, al laboratorio teatrale di Ugo Chiti», e cominciò tutto, con Quattro bombe in tasca. Ora sto tampinando Chiti perché voglio tornare a lavorare con lui, diretto da lui. Sei partito dal teatro, ci tornerai? Devo, assolutamente, per un attore è come i live per un musicista. Sul palco hai libertà, c’è il pubblico che vuole lo show, devi dare tutto te stesso, niente elucubrazioni mentali da pseudointellettuali, soltanto energia e forza. Un teatro da frontman come Gigi Proietti e Dario Fo, addirittura teatro-canzone come quello di Giorgio Gaber: canto, ballo e recitazione, uno spettacolo completo. Quanto talento e quanta tecnica servono per essere attore? Follia, quindi anarchia, e disciplina sono le due parole che regolano questo mestiere. L’attore è un folle, si met-
Maurizio Lombardi sul Frecciarossa con il giornalista Andrea Radic
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te costantemente in gioco, ma deve avere disciplina. Viaggia moltissimo, dorme in luoghi assurdi, raggiunge paesini di cui ignorava l’esistenza. Ma quando entra nel piccolo teatro di un piccolo paese e trova le persone che hanno scelto di venire a vederlo, lascia loro un messaggio e un pezzetto di sé. Si finisce di fare l’attore solo quando si muore veramente. L’epitaffio di uno dei più celebri histriones fu “sono morto tante volte, ma così bene mai”. Tu sei mai morto? Tante volte. Una grande morte, quasi hollywoodiana, in 1994: galleggiavo nel mare smeraldo della Sardegna. Ero io, niente controfigura, nuotavo con i droni che mi seguivano a 50 centimetri. Recitare è un fatto fisico, si fatica. Il corpo è importantissimo, tenerlo allenato è un dovere e allunga la carriera. Anche la curiosità è una fondamentale fonte d’ispirazione, chi la stimola di più sono i giovani. Come quelli che frequentano la mia Action class, la mia palestra dell’attore a Firenze, mi tengono aggiornato, mi danno la temperatura del gusto dei tempi contemporanei. Vesti volentieri panni storici nei film in costume? Vorrei girare un film di cappa e spada, con grandi mantelli e cappelli a tirare di spada come un dannato. Oppure un film di pirati, di abbordaggi... ma in Italia non li girano. O i western, pensa che meraviglia. Sorride, con ai piedi un paio di stivali anni ’70.