Economy Marzo 2020

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di cui l’Italia vanta ben 171 prodotti sui 780 riconosciuti in Europa, a cosa servono? «Non a molto fuori continente, perché l’art. 29 del codice della proprietà intellettuale non è stato recepito in America». Dove, appunto, l’italian sounding è un mercato decisamente ricco. Ma quanto costa la registrazione? Dipende. Perché esistono 45 classi merceologiche diverse (stabilite dalla cosiddetta “classificazione di Nizza” (che vanno dai prodotti chimici ai servizi legali, dagli utensili ai cosmetici, dalle bevande alcoliche ai prodotti lattiero-caseari, per citarne alcune) e circa 200 Paesi nel mondo in cui farlo. Ognuno con le proprie regole. «In Italia registrare un marchio in una sola classe costa circa 500 euro, ed è possibile depositare per più classi», spiega Volontè; «registrare un marchio in luoghi extra Ue che hanno familiarità con il gusto italiano, come Giappone, Corea del Sud, Federazione degli Stati Russi e Norvegia è nell’ordine degli 8mila euro. Ma i Paesi più cari sono quelli arabi, dove il deposito costa quasi dieci volte tanto e va fatto per ogni singola classe di prodotto, come in Brasile, oltre al fatto che all’estero ci si deve interfacciare con un partner locale». Fatti due conti, significa magari spendere 180mila euro per tutelarsi solo negli Emirati. Figuriamoci un brand come Armani, che va dal tessile all’arredamento, dall’hotellerie alla ristorazione: «Depositare tutti i prodotti in tutte le classi dappertutto costerà almeno un milione di euro». Salvo complicazioni, perché, come nel caso del

Da sinistra: Gianluigi Volontè, trademark attorney dello studio Rapisardi, e l’avvocato Elena Cristofori

prosciutto di Parma canadese, qualcuno potrebbe anche fare opposizione. Per fortuna ci sono le convenzioni internazionali, che con un solo deposito tutelano in più nazioni: c’è il marchio europeo, valido per tutti i 28 Stati dell’Unione, quello internazionale, che fa capo agli oltre 100 Paesi aderenti al Trattato di Madrid, quello dell’Organizzazione centro africana della proprietà intellettuale, valido nei 27 (post Brexit) Stati membri. «E volendo aggiungere altri Paesi, basta pagare qualche tassa in più», spiega ancora Cristofori. «Nel frattempo stanno uscendo bandi ottimi, come il Marchi+ del Mise, per il quale occorre depositare domanda entro il 30 marzo e che ripaga fino all’80% dei costi per la registrazione o la creazione grafica del marchio a livello europeo o internazionale». Ma registrare non basta: «esiste un sistema di sorveglianza, sia per marchi che per settori. Lo monitoriamo in continuazione per conto dei nostri clienti, anche per controllare cosa stanno facendo i loro competitor. Quando qualcuno cerca di registrarne un marchio che richiami il proprio, si fa opposizione: la pubblicazione serve proprio a questo, come per i matrimoni». Quando, nel 2016, la Popcorn Design llc ha depositato il marchio “Calpolicella” in California, per un vino locale, il Consorzio di Tutela del Valpolicella Doc ha presentato opposizione, impedendo la registrazione del nome del vino. Più recentemente, nell’aprile dello scorso anno, Kraft Foods ha depositato la domanda di marchio “Kraft Parmesan Cheese”, per esempio, il Consorzio Parmigiano Reggiano si è opposto. L’Ufficio Marchi Neozelandese non ha ancora presa una decisione, e nel frattempo il Parmesan di Kraft è già sugli

scaffali. Secondo il Consorzio, il turnover di Parmigiano reggiano falso fuori dall’Ue è pari a circa 2 bilioni di euro, circa 15 volte il volume di formaggio orginale esportato. E se si arriva tardi, a registrazione effettuata? «Resta solo l’azione legale. Fare un causa in Italia costa poco e abbiamo sezioni specializzate efficientissime e veloci. In America conviene rinunciare: le cause costano milioni. Meglio tentare una chiusura extragiudiziale, magari proponendo il proprio marchio in licenza o il proprio prodotto in distribuzione».

LA NORMA PERNIGOTTI

Quando, sei anni fa, Averna cedette alla turca Toksoz la Pernigotti, storica dolciaria piemontese fondata nel 1927, non ritenne di impegnare l’acquirente a mantenere la produzione nel sito di Novi Ligure. Che infatti finì in Turchia. Così, il aprile 2019, nel Decreto Crescita è stata introdotta la tutela del “Marchio storico di interesse nazionale”. Una sorta di golden share sulla proprietà intellettuale. I titolari o i licenziatari esclusivi di marchi d’impresa registrati o utilizzati (in modo dimostrabile) da almeno 50 anni da un’impresa di eccellenza storicamente collegata al territorio nazionale potranno essere iscritti nel registro speciale dei marchi storici che verrà istituito presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi. E se l’impresa si dovesse trovare in difficoltà, invece di chiudere o delocalizzare, potrà accedere al fondo del Mise per la tutela dei marchi storici di interesse nazionale.

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