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Ritratto di Umberto Di Marino

In che modo le gallerie lavoreranno nei prossimi anni? Non è semplice dare una prospettiva chiara in questo senso. Le gallerie come d’altra parte succede anche per le aziende e le altre realtà gestite dai privati devono dotarsi di grande tenacia per continuare a essere vitali sul mercato e a parare i colpi inflitti da accadimenti come questo che ci ha colpiti nell’ultimo anno. Anche delle crisi bisogna imparare a fare buon uso. Il nostro settore si è mostrato molto vulnerabile ma anche capace di rispondere con slancio, sia da parte delle gallerie che degli artisti. Partendo da una revisione generale e strutturale del settore dobbiamo puntare alla ricerca di nuovi modelli di sostenibilità. È importante innanzitutto riappropriarci di una stabilità finanziaria e di investimenti, senza la quale le gallerie e ogni settore del mercato dell’arte non possono andare avanti e da lì mettere in campo con un approccio creativo oltre che di business per creare un’offerta diversificata sul mercato e adattarsi a quelle che saranno le richieste e i bisogni nati dal post-pandemia.

UMBERTO DI MARINO

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GALLERIA UMBERTO DI MARINO

Onestamente credo che sia ancora prematuro pensare di analizzare quanto stia succedendo ipotizzando probabili conseguenze che siano esse sociali, economiche o sanitarie. Siamo ancora nel mezzo di un evento senza precedenti e non abbiamo a disposizione gli strumenti per comprenderlo o storicizzarlo. Quello che riesco a intravedere dalla prospettiva del gallerista è sicuramente un momento di transizione. Certamente a seguito di questo periodo vedremo una sempre più frequente digitalizzazione di tanti aspetti legati al nostro settore, come studio visit, seminarî, conferenze ed eventi varî, ma resto molto scettico sul fatto che questa rappresenti l’unica strada verso il futuro, soprattutto per quanto riguarda le fiere. Abbiamo avuto modo di constatare che queste sono un modello ancora fondamentale, non solo per le nostre economie, ma per il nostro lavoro in generale. L’attuale configurazione del mercato online e il modo “digitale” di fruire l’arte hanno mostrato in questa occasione tutta la loro limitatezza. Sicuramente per dei fenomeni strettamente commerciali o per linguaggi più semplici, le viewing rooms e le fiere online possono essere degli strumenti estremamente efficaci, ma per una galleria di ricerca come la nostra questi modelli risultano inadeguati. La complessità dei nostri artisti e della nostra galleria va in cortocircuito con le strategie digitali viste negli ultimi mesi. Ritengo sia molto ingenuo pensare che il peso delle fiere “in presenza” verrà rapidamente ridimensionato, soprattutto quando è palpabile la voglia un po’ di tutti di poter tornare a prendervi parte. Questo è dovuto, in parte, al fatto che le fiere si costituiscono su un clima di convivialità, su un rapporto diretto di amicizia e fiducia con i collezionisti, gli artisti, i curatori e col pubblico in generale, su un principio di relazione al quale non siamo ancora pronti a rinunciare. Questo slancio “positivista” nei confronti di una massiccia trasformazione digitale si trascina dietro numerose problematiche. Non riesco a smettere di pensare che lo sviluppo tecnologico non ci stia fornendo degli strumenti innovativi per il nostro settore, bensì si stia configurando come una tendenza, un iper-concetto costantemente alimentato da “novità” gettate un po’ a caso in un calderone globale. Mi pare che tutti questi contenuti provenienti da ogni dove, tutte queste possibilità, ci stiano facendo perdere la percezione del contesto specifico nel quale ognuno di noi si trova, adeguandoci così ad un linguaggio globalizzato, spersonalizzato e completamente appiattito, e questo mi spaventa molto. Per il futuro, non credo di essere in grado di definire un’univoca traiettoria per la struttura “galleria”. Personalmente noi stiamo riprendendo una sorta di programmazione “normale”, come immagino stiano facendo tanti altri colleghi, vedremo a tempo debito quanto e come sarà cambiato il mondo, il sistema, il mercato. Mi chiedo però se abbiamo tutti ben chiaro qual è la “posta in gioco”. Possiamo definirci un meccanismo di potere collettivo costituito da individui in grado di pensarsi e definirsi in quanto tali? Credo sia su questo che dovremo lavorare nel nostro presente: individuare sfide e obiettivi comuni e comprendere la no-

stra posta in gioco, solo questo ci restituirà un sistema dell’arte, che è in fin dei conti quello che è palesemente venuto a mancare con questa crisi.

EMANUELA FADALTI, MATILDE CADENTI

MARIGNANA ARTE

Per poter prendere in considerazione i dati riguardanti il mercato dell’arte e la sua possibile evoluzione, è necessario fare alcune riflessioni sul cambiamento delle nostre vite e della nostra città. All’improvviso la Serenissima è diventata cupa. Un silenzio inquietante l’ha avvolta, mancano il vociare allegro dei turisti, gli innamorati sui ponti, i sorrisi (nascosti adesso, giustamente, dalle maschere) e mancano le domeniche ai musei, il poter scoprirla nei suoi labirinti di bellezza, ne manca quasi il respiro. Ciò nonostante, l’eterna Atlantide è viva. Ovviamente è molto difficile pensare al futuro in un momento in cui anche le certezze più banali sono state messe in discussione, e in cui anche libertà fondamentali come uscire a passeggiare sono state cancellate. Se dobbiamo usare per forza la parola “mercato”, diventa chiaro che in un clima di isolamento, quasi di apatia, e di giustificate preoccupazioni, dobbiamo per forza pensare a un mercato di esseri silenziosi, schivi, distanti – e forzatamente distanziati. Non è l’agorà della parola pubblica, del vociare, dei commerci vivaci, della piazza nel suo essere punto di incontro e di parola, quella che vediamo dalle finestre della galleria. È piuttosto un aggirarsi sospetto e silenzioso, perché è chiaro: nessuno è stato risparmiato. In primis gli artisti e anche tutti coloro che operano e si dedicano alla cultura, ma in secondo luogo (e non per importanza) anche coloro che sostengono la produzione culturale e artistica, dagli enti pubblici ai privati. È un crollo sistemico che ha bisogno di una risposta sistemica. Per questo, in piena pandemia, Marignana Arte, insieme e in accordo con altre importanti gallerie veneziane, ha pensato che una delle soluzioni fosse intraprendere un percorso comune e condiviso, unire le forze, resistere con uno slancio a quello che si prospetta, per il nostro paese, come il momento più difficile dal dopo-guerra in poi. Venice Galleries View è un’associazione nata con questo spirito e riassume la logica di quello che stiamo pensando per affrontare le difficili sfide che abbiamo davanti. Ci sono alcune questioni centrali. La prima: unire le forze, perché non si tratta di un cambiamento irrilevante e di poco conto. Si tratta piuttosto di una trasformazione epocale che riguarda ogni modalità consolidata di lavoro. Nello specifico, la sfida è unire le possibilità offerte dalle nuove tecnologie (mostre online, lavoro a distanza per i dipendenti, ampliamento delle attività di comunicazione sui social network ecc.) senza mortificare quella che riteniamo essere un elemento assolutamente indiscutibile della nostra attività, ossia l’incontro diretto tra lo spettatore e l’opera d’arte, momento particolarmente sentito nell’ambito del contemporaneo. Su questo incontro fondamentale, reso quasi impossibile al momento, si gioca il cuore del nostro lavoro. L’eventuale acquisizione è un passo successivo. C’è anche una terza questione, che crediamo non sia meno importante: nell’arte e nella cultura possiamo trovare gli strumenti per uscire da questa situazione. Non importa quale sarà la direzione intrapresa: il mondo dell’arte contemporanea è estremamente affascinante proprio per la sua varietà, complessità e imprevedibilità ma di certo in questo percorso, in un mondo che prima del Covid è stato a volte letteralmente “bombardato” di eventi, di immagini e di fiere, un ripensamento è necessario. Chi opera in questo settore è chiamato a riflettere sulla qualità e sulla profondità della propria ricerca artistica, innescando connessioni nuove con il territorio, con i musei, con le fondazioni.

LIDIJA KHACHATOURIAN

AKKA PROJECT

Il 2020 è stato senza dubbio un anno che si ricorderà nel tempo: Europa bloccata, commerci in ginocchio e varî settori congelati. Nonostante ciò, il mondo dell’arte è riuscito a rimanere a galla e sono state registrate vendite record anche quest’anno: giugno, Sotheby’s vende il trittico di Francis Bacon, Oresteia of Aeschylus (1981) per 74 milioni di dollari (84,5 milioni con il buyers premium); ottobre, Beijing’s Poly Auction vende l’opera cinese Ten Views of Lingbi Rock del 1610 circa per 73,4 milioni di dollari, che si aggiudica il primato di opera d’arte classica cinese più costosa mai venduta all’asta. E la lista potrebbe andare avanti così ancora molto. La situazione sanitaria ha obbligato molti a prendere provvedimenti rapidi e a trasformarsi in realtà online per poter essere “parte del giro”. All’improvviso, le email box si sono riempite di inviti a prendere parte alle viewing room e i profili Instagram si sono affollati di Instagram lives. Personalmente, come proprietaria di una galleria d’arte, questo approccio non mi ha entusiasmato. Nonostante AKKA Project fosse già presente online, pre-pandemia tramite il nostro partner Artsy.net e attraverso le private rooms, la galleria è stata fortemente penalizzata dalla trasformazione di una serie di fiere ad eventi unicamente online come Art Dubai a marzo, Photo London a maggio, Photo Basel a giugno e Artissima a novembre. Occupandomi di arte contemporanea proveniente dal continente africano e trattandosi di un mercato emergente, molti artisti non sono ancora noti e necessiterebbero di un primo approccio più intimo, in presenza, per poter essere ammirati e compresi. Credo che acquisti e vendite online avvengano più facilmente per artisti già conosciuti e presenti sul mercato da più tempo. Questi mesi sono stati, tuttavia, un’occasione per portare a termine una serie di progetti sviluppatisi nel corso del 2019 che, con la nostra giovane età e la nostra flessibilità, ci hanno permesso di concludere il 2020 in positivo contando all’attivo una serie di successi. Abbiamo voluto focalizzarci ulteriormente sul processo creativo dei nostri artisti e da questo intento abbiamo sviluppato e prodotto Lipiko, un cortometraggio che nasce dall’analisi del processo creativo e dei retroscena dei lavori di Filipe Branquinho (Mozambico, 1977). Il cortometraggio è stato diretto da Martina Margaux Cozzi (vincitrice del premio “Best Director” con il documentario artistico Under the Skin, dedicato al grande artista Anish Kapoor) che ha saputo comunicare le tecniche e le storie che hanno ispirato e continuano ad ispirare Filipe. Il risultato è un quadro generale, intimo e pungente, delle problematiche e dinamiche sociali, economiche e culturali del Mozambico. Tra i progetti che hanno visto la luce nel 2020, spicca ArtAndAboutAfrica, piattaforma virtuale studiata per un mondo pre-Covid, o meglio, per un mondo post-Covid, dedicato a viaggiatori ed amanti dell’arte africana, desiderosi di connettersi con artisti, gallerie e centri culturali disseminati sull’intero continente africano. Una piattaforma online che, fin da subito e nonostante i limiti immaginabili causati della pandemia, è riuscita a riscuotere un enorme successo permettendo a numerosi artisti di essere trovati e di interagire con acquirenti da tutto il mondo. Grazie alla nostra presenza online con www.artandaboutafrica.com, durante il primo lockdown, siamo stati in grado di coinvolgere diverse organizzazioni e privati in una raccolta fondi dedicata a supportare economicamente gli artisti che maggiormente hanno subito le conseguenze delle chiusure di fiere ed esposizioni. La tendenza comune, in questa profonda crisi, è stata quella di unire le forze, tra gallerie e tra artisti; abbiamo assistito a diverse iniziative dove grandi gallerie hanno aperto le porte a realtà artistiche più piccole. Ne è un esempio il gallerista David Zwirner che in marzo lanciò la “Platform: New York” invitando una dozzina di gallerie newyorkesi più piccole a far parte della sua viewing room; come anche NADA FAIR apportando un approccio nuovo alla fiera d’arte. Considerando che gli spostamenti intercontinentali,

e forse anche quelli nazionali, saranno limitati ancora un po’, è sicuramente il momento di seguire l’esempio di Zwirner e lavorare insieme. Nel mio caso specifico, collaborare con altre gallerie, creare un network e coinvolgere il più possibile le persone che vivono nelle immediate vicinanze, offrendo loro un’esperienza artistico-culturale unica. Il “periodo Covid” è l’occasione per unirsi in favore della promozione della cultura e dell’arte, ognuno con le proprie specializzazioni. Guidata da un ottimismo di natura, sono sicura che il mondo tornerà alla normalità, una normalità rinnovata che profumerà più del solito; si potrà tornare non solo ad abbracciarsi ma a nutrirsi di cultura visitando musei, fiere e gallerie. Sono veramente curiosa di attendere la produzione artistica dei prossimi anni, sicuramente influenzata dai cambiamenti sociali dell’ultimo anno e, ancor più, dall’isolamento prolungato e dalle sue conseguenze.

NICOLA MAGGI

COLLEZIONEDATIFFANY.COM, FONDATORE

Lo shock economico causato dalla pandemia ha impattato su un settore, quello delle gallerie d’arte, già indebolito da una serie di fragilità strutturali che si trascinano da tempo. In primo luogo, un business model ormai superato e una certa arretratezza diffusa in ambito tecnologico. Tutto ciò ha fatto sì che la crisi economica cogliesse praticamente impreparato il settore, in larga parte arroccato sul business as usual (pensate che ancora nel 2017 circa il 40% delle gallerie intervistate per l’Art Market Report: Online Focus di TEFAF dichiarava di operare esclusivamente offline), ponendolo, una volta per tutte, davanti ad un bivio perché, come ha ben spiegato anche Marc Spiegler, direttore globale di ArtBasel, parlando con The Art Newspaper, «in una situazione come questa hai due scelte: una è chiudere completamente, l’altra è pensare a come potrebbe essere il futuro e iniziare a pianificarlo». Questo sforzo di immaginazione, a dire il vero, le gallerie avevano già iniziato in parte a farlo. Sono anni che in forum internazionali come il Talking Galleries di Barcellona si discute di best practice, di nuovi possibili modelli di business e si ipotizzano soluzioni senza però giungere ad un momento di sintesi. La pandemia ha dato dunque una scossa ad un comparto dove si stima che già in “tempi di pace” il 30% delle gallerie avesse i conti in rosso e che ha visto, negli ultimi dieci-quindici anni, un crollo verticale della nascita di nuove realtà, ma che è ancora privo di una ricetta per il rilancio. Come per altri settori, la sfida in corso è adesso quella di riuscire a cogliere, al di là delle perdite che ci saranno inevitabilmente, le opportunità che nella sua tragicità questa pandemia offre per accelerare il processo di innovazione di un settore, in particolare piccole e medie gallerie, che, all’interno del mondo dell’arte, si è aperto più lentamente alle nuove tecnologie. Per capire cosa sta succedendo si potrebbe fare un paragone con quello che è accaduto nel settore dell’automotive che, sospinto da una crisi ambientale e climatica non più ignorabile, ha virato in modo deciso verso il motore ibrido, ossia un motore elettrico sostenuto da uno termico. La stessa cosa sta facendo il settore delle gallerie che, dopo una prima fase di soluzioni un po’ improvvisate, sembra adesso puntare in modo deciso verso un modello sempre più, come si dice in gergo, click and brick che, se sapientemente strutturato, potrebbe permettere di colmare il ritardo accumulato in questi anni e di sfruttare al massimo le opportunità offerte dalle nuove tecnologie. Questo sia in termini di nuove modalità di fruizione dell’arte che di acquisto, così da aiutare le gallerie ad intercettare le nuove generazioni di collezionisti (molto più connesse rispetto ai baby boomers e alla generazione X) e, allo stesso tempo, metterle in grado di rispondere alle esigenze peculiari di questo settore dove il rapporto diretto col collezionista e il contatto “fisico” con l’opera giocano ancora (e si spera continuino a farlo per lungo tempo) un ruolo di primo piano. Non si tratta di una vera e propria rivoluzione. Quello che

viene introdotto, infatti, esiste ed è utilizzato già da tempo e nasce, spesso, dalle sperimentazioni e dagli investimenti dei player più grandi. Le online viewing room, ad esempio, venivano già impiegate da David Zwirner e Gagosian nel 2018. Parlerei più di una accelerazione di quel cambiamento di postura mentale a cui le gallerie sarebbero dovute arrivare già da tempo. In questa fase di transizione, a mio avviso, le fiere e le associazioni di categoria, come la nostra ANGAMC, avranno un ruolo ancora più importante di guida e di sostegno ad un settore che ha a disposizione tempi di manovra molto ristretti e poche risorse. In particolare, le fiere, oltre a rimanere un canale di vendita strategico, potranno servire da “incubatori” che aiutino le gallerie ad approcciarsi con decisione ed in modo serio alle nuove tecnologie e a sperimentare il più possibile; valutando magari anche la possibilità di mettere in rete le competenze e guardando con maggior interesse ai frutti più avanzati delle ricerche portate avanti in settori strategici come l’informatica umanistica. Così da riuscire a tener testa, in un futuro necessariamente prossimo, anche ad un mondo delle case d’asta che oggi a livello di engagement online e di e-commerce ha una leadership incontrastata. Nell’analizzare questo processo di accelerazione del rimodellamento del sistema delle gallerie, impresso dalla pandemia, va poi tenuta in debita considerazione anche la risposta economica dei mercati. Perché la crisi in atto è sì generata da uno stesso fattore (l’epidemia da Covid-19), ma sta avendo ripercussioni diverse in tutto il globo con tempi di ripresa che saranno, a seconda delle politiche di gestione dell’emergenza adottate dai singoli governi, molto variabili. Tanto da rendere oggi prematuro, ad esempio, cercare di capire cosa ne sarà di alcune delle tendenze che hanno caratterizzato gli ultimi anni, come l’ascesa del mercato asiatico, di quello africano e di quello mediorientale. Insomma, il mercato che troveremo alla fine del tunnel sarà certamente un po’ diverso da quello che conoscevamo. Diverso nell’uso della tecnologia, anche se molte delle sue ritualità rimarranno invariate, ma anche diverso nei numeri e nella geografia, perlomeno in parte e per un periodo di tempo che oggi è difficile prevedere, ma saprà tornare a brillare forse anche in modo più limpido che in passato. .

GIANCARLO POLITI

FLASH ART

Non ho la sfera di cristallo per prevedere il futuro né dell’arte né tantomeno del mercato dell'arte. In genere le mie osservazioni sul mercato si basano su dati di fatto. Cioè i risultati delle aste e rilevazioni, per quanto possibili, sulle vendite delle gallerie e gli acquisti dei collezionisti con cui sono in contatto o che amici esperti mi riferiscono. Sul piano internazionale non prevedo grandi mutamenti: certamente cambieranno i protagonisti (sono già cambiati?) provenienti dall’Africa, Indonesia, Filippine, ecc. al posto dei varî Cattelan, Jeff Koons, Damien Hirst, Gerhard Richter. Ma ci saranno sempre un Gagosian o una Hauser & Wirth o Zwirner a dominare e manipolare il mercato. Il nuovo Gagosian magari arriverà presto dall’Asia. Ma il sistema dell'arte sarà più o meno lo stesso. Ci saranno collezionisti che per accaparrarsi delle opere contribuiranno a tenere elevati i prezzi delle star, che a certi livelli non saranno più di 100 in tutto il mondo. Con sole tre o quattro superstar. Si prevede (ma questo sembra che sia matematico) che nel 2050 tutti i grandi protagonisti dell’arte e della cultura saranno cinesi. Dai musei di tutto il mondo scompariranno quelli che oggi consideriamo grandi artisti per lasciare spazio ai nuovi artisti cinesi. Dura realtà per la cultura occidentale ma questa sarà la realtà: la Storia non ha recriminazioni. Speriamo che ci lascino almeno Picasso. E il nostro Rinascimento. In Italia? Soffrirà il mercato mediobasso che è quello italiano, ma la maggior parte delle gallerie resisterà, perché hanno una struttura (escluse tre o quattro) agile e poco onerosa rispetto alle gallerie internazionali. E poi storicamente le gallerie italiane sono sostenute da una rete di protezione formata da parenti e amici e amici degli amici. Lo stesso accadrà per la maggior parte degli artisti italiani, che

da sempre sono sopravvissuti non grazie al mercato ma alle loro conoscenze personali e dirette. Non vedo all'orizzonte nessun artista italiano protagonista a livello internazionale come è avvenuto con Maurizio Cattelan. Il quale, super intelligente, avendo capito dove sta andando l’arte, ha cambiato campo dedicandosi alla moda e al design, primo suo amore. Mentre i collezionisti ambiziosi si rivolgeranno come sempre all’estero. Il nostro mercato non offre opere di rilievo di artisti ambiti. I musei italiani soffriranno in modo particolare e non avranno mezzi per progetti e mostre, perché il loro budget è assorbito dai costi del personale (nel 70% dei casi in sovrabbondanza). Prevedo la chiusura di numerosi musei spuntati come funghi e senza un pubblico che li segue. Anche se lo Stato o le Regioni continueranno a finanziarne alcuni solo per evitare licenziamenti. Come avviene per Alitalia. In realtà dunque non cambierà quasi nulla, eccetto i protagonisti. Ma come si dice, morto un papa ne subentra un altro. In genere sempre all’altezza dei tempi.

BARBARA TAGLIAFERRI

DELOITTE ITALIA, COORDINATRICE SETTORE ART&FINANCE

L’attuale panorama globale e l’incertezza sulle tempistiche per raggiungere una situazione in cui non saranno più necessarie le misure di distanziamento sociale continuano a rendere complesso effettuare previsioni significative. Solo la “normalizzazione” della situazione potrà permettere infatti al mondo del mercato dell’arte di tornare a livelli di introiti soddisfacenti e quindi di prevedere quanto questa lunga crisi abbia realmente impattato le abitudini dei fruitori d’arte e di conseguenza i modelli di business in atto. La seconda edizione del nostro studio Lo stato dell’Arte. Una fotografia del settore Art & Finance al tempo del Covid, condotta da Deloitte Private tra l’11 e il 29 gennaio e di cui qui presentiamo alcuni dati in anteprima (sarà presentato il 18 marzo in diretta streaming su tutti gli account social di Deloitte), analizza i risultati del business del settore, il percepito e le previsioni dei principali stakeholder appartenenti al mondo artistico-culturale: gallerie d’arte, musei pubblici e privati, fruitori e appassionati, collezionisti, dealers e art advisor, private banker e family office, artisti e imprese che operano sia in ambito legale-fiscale sia in applicazioni tecnologiche per l’arte. Il settore artistico-culturale sta ancora faticando a riprendersi dalla forte crisi che lo ha colpito a causa della pandemia, crisi ben delineata dalle principali statistiche nazionali e internazionali. Sin dall’inizio della pandemia si è assistito a un incremento senza precedenti nel numero di proposte e iniziative virtuali. Anche le gallerie nel periodo del lockdown si sono dovute adattare al mondo digitale, promuovendo i propri artisti attraverso online viewing room e pagine web dedicate, sfruttando spesso anche gli spazî garantiti da svariate fiere d’arte proposte per quest’anno soltanto in veste virtuale. Molte gallerie hanno inoltre implementato strategie di comunicazione volte a mantenere vivi il dialogo e la relazione con il pubblico, rendendo disponibili contenuti artistico-culturali connessi agli artisti promossi dalla galleria stessa, sia attraverso newsletter periodiche, sia attraverso i proprî canali social. Tuttavia, se da un lato il virtuale ha aiutato il settore a mantenere vive le relazioni con i proprî stakeholder, dall’altro permane indiscussa la volontà degli appassionati e collezionisti di prendere parte fisicamente a mostre ed esposizioni. Tutto sommato positivi i risultati relativi all’efficacia degli strumenti online nell’acquisto di opere d’arte: 8 rispondenti su 10 hanno attribuito media o elevata efficacia alle piattaforme virtuali implementate o rafforzate da parte di case d’asta, gallerie e fiere d’arte nel periodo del lockdown, che hanno consentito al mercato di mantenersi vivo, pur se “a porte chiuse”. Il settore delle gallerie ha registrato una crescita nella quota di vendite realizzate su canali online, ma questo è valso principalmente per le grandi gallerie internazionali. Le gallerie di minori dimensioni, infatti, nonostante abbiano realizzato alcune vendite da remoto, han-

no incontrato maggiori difficoltà a trovare spazio sul mercato virtuale, trovatosi improvvisamente saturo d’offerta. Queste realtà hanno attraversato un periodo di grave crisi, che in molti casi si protrae tutt’oggi. La relazione personale e il contatto fisico restano infatti fondamentali nel mercato dell’arte primario, in cui il ruolo del gallerista è l’elemento cardine della promozione e valorizzazione degli artisti. Deloitte ha indagato la percezione dei rispondenti in merito alla probabilità che le piattaforme online prendano il posto dei canali di vendita o dei servizî tradizionali del settore artistico-culturale. Solo il 4% dei rispondenti sostiene che l’online sostituirà i servizî dal vivo per una quota superiore al 50%, mentre prevalgono coloro che sostengono che i servizî online potrebbero sostituire parzialmente le proposte dal vivo in una forbice tra il 25% e il 50%. È interessante notare come questa percezione sia aumentata nel corso dei cinque mesi trascorsi dalla prima edizione del nostro studio, quando gli intervistati dichiaravano per la maggior parte che l’online non avrebbe sostituito i servizî dal vivo per più del 25%. Infine la quasi totalità degli intervistati ha dichiarato di aspettarsi che la sostituzione dei servizî dal vivo da parte di quelli online avverrà entro due anni. Quali sono le aspettative per un futuro che possa favorire la ripartenza e un ulteriore sviluppo del settore artistico-culturale? L’implementazione di nuovi strumenti normativi volti a favorire il supporto dei privati al settore artistico-culturale, come ad esempio le agevolazioni fiscali, è la variabile che secondo i rispondenti potrebbe dare maggiore impulso al settore. Altra possibile leva per la ripartenza può essere la creazione di nuovi market-place per realtà piccole e medie che confermano come la collaborazione e la sinergia tra diverse organizzazioni risultino elementi chiave per il futuro del settore. La collaborazione, soprattutto tra enti di piccole-medie dimensioni, può favorire l’ottimizzazione dei costi e l’ampliamento di pubblico a cui rivolgere la propria offerta. Anche in quest’ambito sono stati fatti grandi passi avanti soprattutto nel settore delle gallerie d’arte. Guardando al contesto italiano, per esempio, è possibile menzionare la collaborazione di 17 tra le gallerie più attive e influenti di Milano, che hanno lanciato Milan Gallery Community, progetto online avviato in partnership con Artsy, importante piattaforma virtuale dedicata al mercato online di opere d’arte che ha scelto proprio l’Italia per inaugurare il lancio delle proprie Artsy Community. È interessante inoltre rilevare una corrispondenza tra le risposte fornite dagli utenti delle piattaforme di vendita digitali e gli operatori che hanno “abbracciato” il canale digitale: in linea con il 47% dei rispondenti che hanno affermato di aver trovato efficaci le piattaforme online per l’acquisto di opere d’arte, il 62% degli operatori ha infatti confermato che gli strumenti online sono risultati molto efficaci per sopperire all’impossibilità di offrire servizi dal vivo. Guardando al fatturato e ai possibili dati di chiusura di mercato di questo anno molto complesso per tutti i sistemi socio-economici internazionali, la Pulse Survey ha riportato un sentiment per il futuro non roseo. Nonostante le organizzazioni si siano ormai abituate a nuovi standard lavorativi il 44% dei rispondenti prevede che per il fatturato 2021 permarrà una contrazione di circa il 25% rispetto a quanto registrato a fine anno 2019, in preoccupante aumento chi prevede una riduzione pari al 50% del fatturato (44%). Come per altri settori, probabilmente si dovrà attendere il 2022 per vedere una ripresa, ma è fondamentale sin da ora porre le basi perché ciò possa avvenire, attraverso una continua innovazione degli strumenti per mantenere viva la propria presenza sul mercato.

OPERE E ARTISTI | Il valore del tempo

Nel processo creativo di Giorgio Morandi

testo di Lorenzo Balbi

«Ci vogliono venti minuti per dipingerlo, ma per quei venti minuti passo giorni e giorni a pensarci»: così Giorgio Morandi (Bologna, 1890 - 1964) rispose a chi gli chiedeva quanto tempo impiegasse per dipingere un suo quadro. Processualità e performatività nell’azione artistica: ecco come nascevano le sue opere.

Pochissime persone hanno visto Giorgio Morandi dipingere, ancora meno possono affermare di aver potuto seguire i tempi, i procedimenti e le fasi della sua tecnica compositiva. Le informazioni relative al suo modo di “fare arte”, così unico e particolare, derivano da alcune risposte date dall’artista nelle rarissime interviste rilasciate e da poche testimonianze contenute in alcuni saggi. Sembra che la ricostruzione della sua “discendenza artistica”

Giorgio Morandi nel suo studio

FOTO SOPRA: Giorgio Morandi nel suo studio in via Fondazza con una sigaretta in mano (foto di Leo Lionni)

dai grandi maestri del passato (Giotto, Piero della Francesca, Rembrandt) o la sua vicinanza alle avanguardie storiche (Cézanne e il Cubismo, la Metafisica), abbiano interessato la critica d’arte in maniera decisamente maggiore rispetto a quello che a noi, storici dell’arte contemporanea e curatori impegnati nell’indagine sulla pratica artistica di oggi, pare uno dei più importanti aspetti dell’eredità dell’artista, universalmente considerato come uno dei più grandi del XX secolo. Giorgio Morandi si dedicava alla pittura quasi esclusivamente nel suo studio di Bologna. Una stanza al primo piano di una tipica casa borghese, in via Fondazza, con portico esterno, cortile e giardino interno. Uno spazio abbastanza spoglio che possiamo ricostruire grazie a diverse testimonianze fotografiche, soprattutto le bellissime foto di Luigi Ghirri1 , utilizzate anche per ripristinare lo studio e musealizzarlo aprendolo al pubblico. Le pareti gialline dell’atelier sono ingrigite dal fumo delle sigarette2 , il pavimento è in cotto rosso, una grande finestra si affaccia sul giardino. Nella stanza c’è il letto riservato ai momenti di riposo dal lavoro, che il pittore usa anche per sedersi a osservare a distanza i dipinti in lavorazione; ci sono i due cavalletti, uno dei quali mostra ancora le “incrostazioni” di pittura a olio, la sedia su cui era solito posare la giacca con le maniche sporche di colore, tre diversi tavoli da posa e molti oggetti pronti per essere presi, guardati, soppesati, considerati per le nature morte. Al muro pochissime cose: dipinti messi “a riposare”3, ritagli di giornale, alcuni biglietti da visita e numeri di telefono utili, un cornetto portafortuna. Appese dietro i tavoli da posa, ci sono le carte che fungevano da sfondo delle composizioni, con i residui di colore a olio, tracce dell’abitudine del pittore di liberare i pennelli dall’eccesso di materia. Un ambiente così intimo, così peculiare, pensato e allestito appositamente per essere luogo esclusivo di produzione artistica, è considerabile oggi quasi

Lo studio di Morandi

FOTO SOPRA: Lo studio di Morandi in via Fondazza a

Bologna, a destra il telaio usato per modulare la luce in entrata dalla finestra, (foto di Paolo Ferrari), circa 1980

come un medium, un elemento inscindibile dalla pratica pittorica. «Lo studio», spiega Marilena Pasquali, «è uno spazio che respira e si dilata attorno a Morandi, è la proiezione della sua mente, è l’unità di misura a cui tutto viene rapportato, è la controprova fisica della ricerca delle leggi segrete della natura – su basi teorico-matematiche – che l’artista persegue per tutta la vita, è il luogo dello svelamento ove il logos prende corpo di immagine»4 . Sappiamo che il processo creativo di Morandi inizia con la composizione del modello su uno dei tre tavoli da posa presenti nello studio. Come ha riportato Francesco Paolo Ingrao, la pittura di Morandi potrebbe sembrare una pittura di memoria, ma così non è: Morandi dipingeva dal vero; anzi, per le nature morte costruiva, metteva in posa materialmente il modello5. In particolare, la disposizione degli oggetti sugli altissimi tavoli da posa modificati artigianalmente6 (Morandi era un uomo molto alto, un metro e novanta o più, come si può constatare dalle foto in cui, in visita alla Biennale di Venezia,

“svetta” tra i suoi colleghi7), il tempo passato a trovare l’equilibrio perfetto e le giuste distanze, la preparazione degli oggetti spesso ridipinti, lasciati impolverati o riempiti di gesso per aumentarne la presenza scultorea8 e diminuirne i riflessi, la modulazione della luce attentamente calibrata in momenti precisi della giornata e ottenuta attraverso il minuzioso posizionamento del telaio realizzato su misura sulla finestra9, la definizione della posizione stessa dell’artista in relazione alla luce, al modello e al cavalletto10 paiono azioni cruciali. Sono azioni che svelano il processo creativo e la performatività dell’atto artistico, come potremmo dire, utilizzando categorie proprie della critica dell’arte contemporanea. Non si hanno informazioni precise riguardo a quanto tempo richiedesse questo processo creativo, questa relazione cruciale tra corpo, oggetto e spazio, che, per noi contemporanei, può evocare la fisicità, la concentrazione, l’impegno, la resistenza propri della danza e della performance. Il critico che

ne descrive con più precisione i dettagli è Giuseppe Raimondi: «Nessuno può dire quanto durasse il tempo dell’osservazione di Morandi davanti al modello che egli aveva composto con infiniti scrupoli e misure, in un lavoro paziente o impaziente, di spostamento, di rimozione e di ricollocazione finale degli oggetti nel posto da lui trovato. Il posto loro predestinato. Che cosa poteva farlo convinto di questo. Il senso, forse, non solo di un’armonia, di un equilibrio nella scelta estetica, nella giustezza del complesso costruttivo: ed egli pensava e vedeva questi risultati nella forma che il colore proponeva o definiva. Questa sarebbe palesemente l’opera e lo studio del pittore. Ma, direi, in un senso superiore

Giorgio Morandi alla Biennale di Venezia

FOTO SOTTO: Venezia, Giardini della Biennale, 1930: da

sinistra Enrico Falqui, Amerigo Bartoli, Sandro Volta,

Leo Longanesi, Giovanni Battista Angioletti e Aurelio

Saffi. Dietro di loro: Giorgio Morandi di perfezione e quasi di bellezza, mosso dentro di lui da un motivo morale»11. «Questa sarebbe palesemente l’opera e lo studio del pittore», dice Raimondi, intuendo la potenza e la portata di quei semplici gesti, di quella ritualità privata, fatta di tempi precisi: «Disposti gli oggetti, sul piano predisposto, il pittore ne studia la composizione nello spazio, speculando su ogni effetto della luce, per stabilirvi la positura definitiva. È un tempo di attesa, di osservazione lenta, nei riguardi dei trapassi di luce, di ora in ora, di giorno in giorno. Giunge un momento, un’ora precisa, in cui la composizione si manifesta a lui perfetta di spazî, di vani, di distanze e di intervalli, maturata nel tempo, come un frutto che ha raggiunto la propria stagione, colma di un senso riposto di poesia, che le deriva dall’attesa calcolata e dalla fiducia di raggiungerla. Realizzare il quadro vorrà dire per lui niente altro che lasciarsi condurre dall’emozione di quell’ora, di quel momento lungamente preparato»12 . Sebbene di questo processo rimangano pochi racconti, possiamo disporre di “testimoni” silenziosi ed eccezionali: i grandi fogli che Morandi disponeva

Lo studio di Morandi

FOTO PAGINA A FIANCO, SOPRA: Lo studio di Morandi in

via Fondazza a Bologna, particolare di un modello di natura morta con le bottiglie impolverate, (foto di Paolo Ferrari), circa 1980

Lo studio di Morandi

FOTO PAGINA A FIANCO, SOTTO: Lo studio di Morandi in

via Fondazza a Bologna, particolare di un modello di

natura morta con le bottiglie dipinte e la carta con i segni preparatori, (foto di Paolo Ferrari), circa 1980

sui tavoli di posa e su cui annotava, con tratti di matita, la posizione esatta degli oggetti, le sagome dei fondi delle bottiglie con lettere che indicavano quelle scelte per il modello definitivo. Le carte sono custodite nel patrimonio del Museo Morandi di Bologna e sono visibili nella loro collocazione originale, se15, fino a spingersi a paragoni con il cosmo in cui si dispongono i corpi celesti o con una composizione musicale in cui i volumi diventano note colorate e i diversi toni esprimono la musicalità del colore morandiano16 . Una volta che la composizione era decisa e il processo di relazione con gli oggetti e con la luce si era concluso, tutto era pronto per l’esecuzione del dipinto. Morandi era un virtuoso della pittura e la realizzazione materiale del dipinto poteva richiedergli anche pochissimo tempo; in alcune opere si possono quasi “contare” le pennellate, precise e controllate. In un racconto di Efrem Tavoni si legge: «A Paola Ghiringhelli, figlia di Gino, l’amico e il mercante di tutta la vita, che gli chiedeva quanto tempo impiegava per fare un quadro, Morandi rispose: «Ci vogliono venti minuti per dipingerlo, ma per quei venti minuti passo giorni e giorni a pensarci, a scegliere gli oggetti, a disporli insieme; a volte mi tocca ridipingere il quadro e aspettare la giusta luce, che capita solo a una certa ora del giorno. Quando il

La pittura di Morandi potrebbe sembrare una pittura di memoria, ma così non è: Morandi dipingeva dal vero; anzi, per le nature morte costruiva, metteva in posa materialmente il modello.

all’interno dello studio a Casa Morandi. Sono stati la fonte d’ispirazione per il film Still Life (2009), girato in bianco e nero dall’artista inglese Tacita Dean. Nel film, su quei fogli di lavoro appaiono le linee che si intersecano fitte, registrando minuziosamente le possibili variazioni e combinazioni della composizione, con i contorni che si sovrappongono e si incrociano, dando vita a un disegno complessivo e stratificato, tanto straordinario quanto involontario. Se pochi critici hanno dato importanza a questa minuziosa ritualità fatta di gesti ripetuti e di scelte precise, molti (se non tutti) tra coloro che hanno scritto di Morandi hanno avanzato metafore sui modelli delle nature morte che così precisamente, «come un giocatore di scacchi»13, l’artista muoveva e disponeva sui suoi tavoli da posa. Alcuni hanno parlato di palcoscenici su cui si muovono attori con protagonisti e comprimari14, altri di modelli architettonici in scala ridotta di città immaginarie con piazze ed edifici metafisici, altri ancora di luoghi di incontro in cui si incrociano caratteri umani e persone divercolore ha raggiunto la sua intensità, la forma è nella sua pienezza. Lo diceva anche Cézanne”»17 . Spesso i dipinti erano preceduti da una serie di disegni che contribuivano a quella “lenta e meditata assimilazione del soggetto”, considerati essi stessi opere e realizzati quando il quadro era già maturo nella mente di Morandi. Come confessò una volta a Lamberto Vitali, «impostava e risolveva quasi sempre in una sola seduta, senza pentimenti, con una padronanza assoluta dei toni e delle forme»18. Questa accelerazione nella realizzazione delle opere, successiva e rispondente alla lenta e riflessiva fase di composizione del modello, veniva poi seguita da un nuovo rallentamento, una successiva necessaria fase di sedimentazione dell’opera che poteva nuovamente richiedere un tempo lungo e dilatato. Una volta Ingrao domandò a Morandi: «Professore, quanto tempo ha impiegato a fare questo dipinto?». Si accorse che a Morandi non era piaciuta la domanda. «Tre ore», rispose. «Ma l’avevo cancellato tre vol-

Lo studio di Morandi

Lo studio di Morandi in via Fondazza a Bologna,

particolare con il letto, la sedia e la grande finestra sul giardino, (foto di Paolo Ferrari), circa 1980

Lo studio di Morandi oggi

FOTO SOPRA: Lo studio di Morandi in Casa Morandi oggi (foto di Roberto Serra)

Sbuffi di olio

FOTO A SINISTRA: Lo studio di Morandi in via Fondazza

a Bologna, (foto di Luigi Ghirri), 1990, particolare degli

sbuffi di olio sulla carta a parete

te». Per Morandi cancellare un dipinto voleva dire che il quadro non era soddisfacente e così lo raschiava, lasciando sulla tela solo una sorta di sinopia. D’altra parte, non consegnava un dipinto prima che passassero almeno tre mesi dalla sua esecuzione. Un’altra volta, ricorda sempre Ingrao, Morandi disse: «Il quadro può venire fuori in tre ore o in tre mesi. A volte, se non è venuto fuori in tre mesi, non viene fuori più»19 . Sono le lettere risentite con cui Morandi risponde a Cesare Brandi, che impaziente avrebbe vo-

Foglio di lavoro

FOTO SOPRA: Foglio di lavoro di Morandi con le

indicazioni a matita delle posizioni degli oggetti delle sue nature morte (Bologna, Istituzione Bologna Musei | Museo Morandi)

Natura morta

FOTO PAGINE PRECEDENTI: Giorgio Morandi, Natura morta (V.534; 1943; olio su tela; Bologna, Istituzione Bologna Musei | Museo Morandi)

luto ricevere la propria opera, in questo caso un’ incisione: «Caro Brandi, ho ricevuto il Suo espresso. Io farò quanto posso ma non l’impossibile. E tenga presente che il mio dubbio che Le ho detto che cioè l’acquaforte non mi soddisfi. […] Per vedere questo non c’è altro [che] da aspettare un poco per vedere se risulta qualche difetto. Non l’ho lasciata da parte per capriccio. Faccio sempre così quando dipingo od incido»20 . Alcuni testimoni, come Giuseppe Raimondi, scrivono che Morandi non ammetteva mai di aver finito un dipinto, la sua pittura non poteva affidarsi a improvvisati commenti, anche se di ammirazione. Solo il pittore ne era giudice21. La pratica artistica di Morandi rivela inequivocabilmente un processo di alternanza nei tempi del processo creativo: un’alternanza di «meditazione e immediatezza»22, in cui gestualità, azioni, progetti, composizione e realizzazione si intersecano, liberando valori e possibilità espressive nuove, intense, uniche e ancora profondamente attuali. ◊

1 - Nel 1990 Luigi Ghirri andò a visitare con lo scrittore Giorgio Messori i luoghi in cui Giorgio Morandi aveva vissuto e lavorato: in particolare lo studio di Bologna, dove abitava con la madre e le sorelle, e la casa di Grizzana, in cui trascorreva i mesi estivi. Per questa serie fotografica si guardi: Luigi Ghirri, Atelier Morandi, Contrejour, Parigi e Palomar, Bari, 1992 o Il senso delle cose. Luigi Ghirri Giorgio Morandi, catalogo della mostra (Carpi, dal 16 settembre al 1 novembre 2005), Diabasis editore, Parma 2005. 2 - Si racconta come Morandi fosse un fumatore assiduo. «Afferma di fumare quindici sigarette al giorno, e, nell’ora del colloquio che mi ha concesso, ha già accumulato cinque cicche nel portace-

nere», riporta Leonida Repaci al termine della sua intervista del maggio 1958, in Leonida Repaci, Dio può essere chiuso in un tubetto di colore, Tempo, Milano 20 maggio 1958, p. 79. 3 - «Ci son due cavalletti nello studio, e sopra di essi, due nature morte di piccolo formato, appena abbozzate. È tutto quello che, di dipinti, Morandi può mostrare. Esse sono impegnate non so da quanti mesi. […] Chiedo se è vero ch'egli lavora faticosamente e che, troppo spesso, egli gira il dipinto contro il muro per farlo riposare, e quasi castigare. Lui mi risponde che non c'è una regola nel suo lavoro». Leonida Repaci, ibidem. 4 - Marilena Pasquali, Lo studio e il metodo, in Giorgio Morandi. Studi e ricerche 1990-2007, Noèdizioni, Firenze 2007, p. 148. 5 - Francesco Paolo Ingrao, Ricordo di Giorgio Morandi, in Morandi e il suo Tempo, I Incontro internazionale di studî su Giorgio Morandi, Bologna, 16-17 novembre 1984, Quaderni morandiani n.1, Galleria Comunale d'Arte Moderna di Bologna, Archivio e Centro Studi “Giorgio Morandi”, p. 52. 6 - «Morandi si avvale come base per le sue composizioni di tre ripiani di forma, materia e ampiezza differenti: costruiti da lui stesso assemblando pezzi di mobili diversi: il piano di un tavolo rotondo, di cui, dietro uno schermo di cartone, viene nascosto il piede tornito; un’asse sagomata a trapezio con il lato più stretto verso il fondo, quasi a mimare una fuga prospettica, e alzata sulle gambe di un vecchio tavolino, a sua volta posto sopra uno sgabello; un terzo tavolo appoggiato al muro presso il cavalletto, questa volta di altezza normale ma su cui è stato inchiodato un altro, più largo ripiano». Marilena Pasquali, Lo studio e il metodo, in Giorgio Morandi. Studi e ricerche 1990-2007, Noèdizioni, Firenze 2007, p. 151. 7 - Si veda, ad esempio, la foto scattata nel 1930 a Venezia, ai Giardini, all’inaugurazione della Biennale, in cui Giorgio Morandi è il più alto al centro. Gli altri sono Enrico Falqui, Amerigo Bartoli, Sandro Volta, Leo Longanesi, Giovan Battista Angioletti e Aurelio Saffi. Pubblicata anche in Leonida Repaci, cit., p. 31. 8 - Molti critici e frequentatori dello studio hanno scritto riguardo alla polvere che Morandi lasciava depositare sugli oggetti nel suo studio. A titolo di esempio riporto un passo del testo di John Rewald che descriveva la sua visita allo studio di Giorgio Morandi nel catalogo della mostra monografica alla galleria Loeb & Krugier di New York del 1967: «Dovevano [gli oggetti] essere lì da tempo: sulle superfici degli scaffali e dei tavoli, come su scatole, barattoli e simili, si stendeva uno spesso strato di polvere. Era una polvere densa, antica e vellutata, simile ad una morbida coltre di feltro; il suo colore forniva in apparenza l’elemento unificante per quelle alte bottiglie e coppe profonde, vecchie brocche e caffettiere, strani vasi e scatole piatte. Era una polvere che non era il risultato di negligenza o disordine ma di pazienza, testimonianza di una pace perfettamente realizzata». John Rewald, Visit to Morandi, in Morandi, catalogo della mostra (New York, Alberto Loeb & Krugier Gallery, dal 18 maggio al 17 giugno 1967), ripubblicato in Maria Mimita Lamberti, Giorgio Morandi: tempi e antinomie di una leggenda, in Maria Cristina Bandera e Renato Miracco (a cura di), Morandi 1890-1964, catalogo della mostra (New York, The Metropolitan Museum of Art, dal 16 settembre al 14 dicembre 2008), p. 247. 9 - Morandi dipingeva soprattutto al pomeriggio, momento in cui la luce creava gli effetti migliori da lui desiderati, come dichiara nella già citata intervista a Leonida Repaci del 1958. «Lavoro qualche ora al pomeriggio... Il mattino non ho idee... è come se si stentasse a rimettersi in onda». Leonida Repaci, cit., p. 34. 10 - Alcuni critici sostengono che Morandi segnasse a terra la posizione dei proprî piedi per non perdere questa importante definizione spaziale, a titolo di esempio cito un passo di Ragghianti a riguardo: «Morandi fissava anche la sua stessa posizione di attore come invariabile provandola prima, nella valenza ottica come in quella gestuale, e mantenendola eguale col circoscrivere col lapis a terra i piedi dentro le impronte marcate, egli poteva garantirsi attraverso il tempo il massimo di parità o di costanza di condizioni, di cui sentiva il bisogno per dare alle sue nature morte (ma analoghi metodi esercitava per il paesaggio) un carattere basilare e indissolubile di visione architettonica». Carlo Ludovico Ragghianti, Arte, fare e vedere. Dall’arte al museo, Vallecchi, Firenze 1989, p. 102. 11 - Giuseppe Raimondi, Anni con Giorgio Morandi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1970, p. 30. 12 - Giuseppe Raimondi, da Cartella di disegni – Giorgio Morandi in Le Arti, a. III, fasc. III, Roma, febbraio-marzo 1941, pp. 164-165, ripubblicato in L’opera di Giorgio Morandi, catalogo della mostra (Bologna, Palazzo dell’Archiginnasio, dal 30 ottobre al 15 dicembre 1966), Edizioni Alfa, Bologna 1966. 13 - Giuliano Briganti, Ester Coen, I paesaggi di Morandi, Società Editrice Umberto Allemandi & C., Torino 1984, p. 11. 14 - Ad esempio Marilena Pasquali in Lo studio e il metodo, in Giorgio Morandi. Studi e ricerche 1990-2007, Noèdizioni, Firenze 2007, p. 152.

15 - Giuseppe Raimondi, Anni con Giorgio Morandi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1970, p. 30. 16 - Francesco Paolo Ingrao, Ricordo di Giorgio Morandi, in Morandi e il suo Tempo, I Incontro internazionale di studî su Giorgio Morandi, Bologna, 16-17 novembre 1984, Quaderni morandiani n.1, Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, Archivio e Centro Studi “Giorgio Morandi”, 1966, p. 54. 17 - Efrem Tavoni, Giorgio Ruggeri, Morandi, amico mio, Charta, Milano 1995, p. 98. 18 - Giuliano Briganti, Ester Coen, I paesaggi di Morandi, Società Editrice Umberto Allemandi & C., Torino 1984, p. 10. 19 - Francesco Paolo Ingrao, Ricordo di Giorgio Morandi, in Morandi e il suo Tempo, I Incontro internazionale di studî su Giorgio Morandi, Bologna, 16-17 novembre 1984, Quaderni morandiani n.1, Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, Archivio e Centro Studi “Giorgio Morandi”, 1984 ,p. 54. 20 - Lettera da Giorgio Morandi, Bologna a Cesare Brandi, Istituto Centrale del Restauro, Roma, 27 luglio 1947, in Cesare Brandi, Morandi, a cura di Marilena Pasquali, Gli Ori, Prato 2008, p. 289. 21 - Giuseppe Raimondi, Anni con Giorgio Morandi, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1970, p. 28. 22 - Giuliano Briganti, Ester Coen, I paesaggi di Morandi, Società Editrice Umberto Allemandi & C., Torino 1984, p. 7.

RENDEZ-VOUS |

TORINO

Collezione Sandretto Re Rebaudengo

Una raccolta aperta alla società

testo di Stella Cattaneo

Frutto della propensione alla pratica collezionistica della sua fondatrice, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, la collezione che porta il suo nome, gestita dalla Fondazione che ha sede a Torino, è uno dei migliori esempî italiani di collezioni d’arte contemporanea. Portato avanti con passione e un lavoro continuo fatto di mostre, prestiti, mediazione.

Patrizia Sandretto Re Rebaudengo

Ritratto di Patrizia Sandretto

Re Rebaudengo

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