L’intervista Gianni Canova: «In Italia manca una democrazia culturale» _ p.14
Il declino della politica Cosa ci insegna il continuo ricorso ai governi tecnici _ p.10
| SEZIONE Contro laARGOMENTO povertà Inter-realtà un lavoro non basta I confini Il via libera tra mondo fisico al salario minimo e digitale sono divide l’UE sempre più sfumati _ p.18 _ p.24
Anno XX | Numero I1 | Luglio 2022 | www.masterx.iulm.it
MasterX Periodico del Master in Giornalismo dell’Università IULM Facoltà di comunicazione
FINE
CRISI
MAI
COLOPHON
SOMMARIO
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LUGLIO 2022 - N° II - ANNO XX
Diretto da: DANIELE MANCA (responsabile) Progetto grafico: ADRIANO ATTUS In redazione: Alessandro Bergonzi, Kevin Bertoni, Nicola Bracci, Gianluca Brambilla, Priscilla Bruno, Luca Carrello, Giorgia Colucci, Greta Dall’Acqua, Valeria de March, Viola Francini, Francesco Lo Torto, Sonia Maura Garcia, Maria Oberti, Umberto Maria Porreca, Chiara Zennaro, Carlotta Bocchi, Francesca Daria Boldo, Valeria Boraldi, Andrea Achille Dell’Oro, Eleonora di Nonno, Pasquale Febbraro, Claudia Maria Franchini, Elisa Campisi, Stefano Gigliotti, Gabriele Lussu, Oscar Maresca, Valeriano Musiu, Leonardo Rossetti, Gabriella Siciliano, Giulia Zamponi Registrazione: Tribunale di Milano n.477 del 20/09/2002 Stampa: RS Print Time S.r.l Master in Giornalismo Iulm Direttore strategico: Daniele Manca Coordinatrice organizzativa: Marta Zanichelli Coordinatore didattico: Ugo Savoia Responsabile laboratorio digitale: Paolo Liguori Tutor: Sara Foglieni Docenti: Anthony Adornato (Mobile Journalism) Adriano Attus (Art director e grafica digitale) Federico Badaloni (Architettura dell’informazione) Luca Barnabé (Giornalismo, cinema e spettacolo) Simone Bemporad (Comunicazione istituzionale) Ivan Berni (Storia del giornalismo) Silvia Brasca (Fact checking and Fake news) Federico Calamante (Giornalismo e narrazione) Marco Capovilla (Fotogiornalismo) Marco Castelnuovo (Social Media curation) Maria Piera Ceci (Giornalismo radiofonico) Mario Consani (Deontologia) Cipriana Dall’Orto (Giornalismo periodico) Giovanni Delbecchi (Critica giornalismo Tv) Andrea Delogu (Gestione dell’impresa editoriale) Luca De Vito (Videoediting) Stefano Draghi (Statistica e demoscopia) Guido Formigoni (Storia contemporanea) Alessandro Galimberti (Diritto d’autore) Paolo Giovannetti (Critica del linguaggio giornalistico II) Alessio Lasta (Reportage televisivo) Nino Luca (Videogiornalismo) Bruno Luverà (Giornalismo Tv) Caterina Malavenda (Diritto penale e Diritto del giornalismo) Matteo Marani (Giornalismo sportivo) Anna Meldolesi (Giornalismo scientifico) Alberto Mingardi (Giornalismo e politica) Micaela Nasca (Laboratorio di pratica televisiva) Elisa Pasino (Tecniche dell’ufficio stampa) Aldo Preda (Giornalismo radiofonico II) Davide Preti (Tecniche di montaggio) Roberto Rho (Giornalismo economico Giornalismo quotidiano) Giuseppe Rossi (Diritto dei media e della riservatezza) Federica Seneghini (Prodotti editoriali) Gabriele Tacchini (Giornalismo d’agenzia) Marta Zanichelli (Publishing digitale) 2
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Editoriale Come si esce dalla crisi permanente? di Gianluca Brambilla, Viola Francini
Ritorno alla storia L’Europa s’è desta di Alessandro Bergonzi
Sull’energia l’Italia sceglie il piano B di Elisa Campisi, Valeriano Musiu
Il declino della politica passa dai governi tecnici di Luca Carrello, Stefano Gigliotti
«In Italia manca una democrazia culturale» Intervista a Gianni Canova di Priscilla Bruno, Valeria de March
Dieci crisi nel mondo A cura di Andrea Dell’Oro, Pasquale Febbraro, Gabriele Lussu, Oscar Maresca, Giulia Zamponi
Contro la povertà Un lavoro solo non basta di Nicola Bracci, Francesco Lo Torto
Scientist rebellion In mille per salvare il clima Di Giorgia Colucci, Valeriano Musiu
«I giovani di oggi? Sempre meno ribelli e più disillusi» Intervista a Matteo Lancini di Gianluca Brambilla, Viola Francini
Inter-realtà Il like che cambia la socialità di Kevin Bertoni, Maria Oberti
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Siamo nel pallone
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Benvenuto Iulm 8
di Kevin Bertoni, Umberto Porreca
di Valeria Boraldi
EDITORIALE
Credits: Pixabay
Gianluca Brambilla e Viola Francini Master in Giornalismo
COME SI PUÒ SCAPPARE DALLA CRISI PERMANENTE? «L’universo è solo un vuoto crudele e indifferente. La chiave per la felicità non è trovare un significato, ma tenersi occupati con idiozie varie, finché è il momento di tirare le cuoia». Si chiude così la prima stagione di BoJack Horseman, la serie animata creata da Raphael Bob-Waksberg per Netflix. Sei stagioni che ruotano attorno alla vita di un cavallo in piena crisi esistenziale, con alle spalle un passato da star della tv. Se BoJack ha ottenuto un tale successo – di pubblico, ma anche di critica – è per la sua capacità di dare forma ad alcuni dei sentimenti più diffusi oggi: l’impossibilità di definirsi, la difficoltà di dare un senso alla propria vita, il senso di impotenza verso il mondo. Ovunque si giri, Bojack si trova ad affrontare situazioni più grandi di lui: problemi esterni, demoni interiori, depressione, alcolismo. Una sensazione costante di smarrimento, in cui ogni situazione della vita sembra trasformarsi in un ostacolo insuperabile. Ed è questo il motivo per cui abbiamo scelto lui, BoJack Horseman, per rappresentare il fil rouge che lega ogni pagina di questo giornale: il concetto di crisi. Ma non una crisi passeggera o destinata a durare poco nel tempo. Un fenomeno dai contorni indefiniti e dai volti molteplici. Una crisi talmente pervasiva da diventare simbolo di un’intera epoca. Per questo è necessario riflettere su come il concetto è mutato nel corso dei secoli fino a raggiungere lo stadio della nostra contemporaneità. Se per definizione la crisi si manifesta come un evento straordinario che irrompe nella vita
di una comunità, facendone saltare i meccanismi e gli equilibri, oggi ci troviamo di fronte a un mutamento. I fenomeni legati a questo processo sono ormai talmente frequenti e quotidiani nei nostri contesti da diventare la nuova normalità. E mentre alterano il normale flusso del mondo contemporaneo, tra aspetti economici e fattori politici, le crisi non si vanno esaurendo. In questa edizione di MasterX ci è sembrato fondamentale analizzarne gli aspetti, declinati in tutte le sfere in cui l’uomo agisce e fruisce. In apertura (pag. 4), la crisi come «conflitto»: gli scenari geopolitici del mondo e dell’Europa sono in una fase di veloce transizione, che non è altro che il culmine di tensioni preesistenti fra il blocco russo, ucraino, europeo e americano. All’interno del numero anche le tantissime domande sulla crisi sanitaria: la pandemia è davvero finita? Chi ne decreta il termine, la politica o la scienza? E se su questi aspetti avanza ancora tanta incertezza, sembravano più definiti gli obiettivi e le scadenze dei provvedimenti del clima (pag.20), soprattutto dopo la Cop-26 a Glasgow sul tema. E invece sulla questione ambientale il mondo ancora fatica, senza trovare risposte concrete al problema. Un lento trascinamento è quello che subisce anche il mondo del lavoro, in cui si dibatte attorno al salario minimo e si cerca di porre l’accento sulle cose che ancora non funzionano (pag.18). È attorno al concetto di permanenza delle crisi che ruota questa edizione, alla loro durata e persistenza.
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RITORNO ALLA STORIA
L’EUROPA S’È DESTA L’invasione dell’Ucraina lanciata da Putin ha rinvigorito sentimenti appassiti e provocato reazioni inaspettate tra i leader a Bruxelles. Ma il ritorno della guerra nel Vecchio continente potrebbe essere il primo passo verso una crisi diplomatica europea e globale
CRISI GEOPOLITICA
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ESTERI
Di Alessandro Bergonzi _ Il 24 febbraio 2022 resterà una data indelebile per chi è cresciuto nella bolla post-storica. Dopo un’ondata di globalizzazione apparentemente irreversibile, al punto da rendere pronosticabile la fine del modello westfaliano su cui si basa la società internazionale, tre eventi hanno cambiato l’ordine degli addendi. La crisi economica del 2008, quella sanitaria del 2020 e quella della pace tuttora in corso, costituiscono la crepa tra un’epoca di illusioni e temporeggiamenti e un futuro di sfide da affrontare. Prima lo scoppio dei mutui subprime ha portato all’attivazione di misure economiche non convenzionali all’interno dei sistemi bancari. Poi la pandemia di Coronavirus ha costretto le persone ad accettare restrizioni straordinarie. Adesso la guerra tra Mosca e Kiev sta spostando gli equilibri internazionali, con la riaccensione, qua e là, di allarmanti spie rosse, segnale di dilagante instabilità.
24 febbraio 2022. Vladimir Putin dà il via all’invasione dell’Ucraina
Allarme russo In particolare, l’ultimo evento pone il futuro europeo di fronte a molteplici rischi. E allora, per affrontare il ritorno alla storia, occorre partire dall’analisi delle tre principali motivazioni che hanno spinto Putin a invadere l’Ucraina. La prima è geostrategica: la necessità per la Russia di avere uno Stato compiacente che faccia da cuscinetto con l’Occidente. Basta inquadrare il gigante euroasiatico in una cartina per rendersi conto del senso di accerchiamento patito dai russi. A Nord l’Artico rimane conteso e gli Stati Uniti premono su tutta la fascia fino ad Est. Senza soluzione di continuità, il confine con il Giappone è luogo di diatribe storiche e da Sud-Est incombe la presenza cinese. A Sud-Ovest Mosca deve fare i conti con il nemico jihadista, mentre aumenta l’inquietudine tra gli ex alleati (Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan). A Ovest, non è un segreto che sorga il principale timore per Mosca: la vicinanza della Nato. Una posizione geografica scomoda per una nazione che ha sempre avuto l’ossessione di controllare i rapporti di vicinato. La seconda spinta, spesso sottovalutata, è di natura economica: la Russia è il primo Stato al mondo per estensione, ma occupa solo il dodicesimo posto per Pil nella classifica del Fondo monetario internazionale. Con 1.439 miliardi di euro l’Orso nel 2021 ha registrato un Prodotto interno lordo inferiore a Italia (1.781 miliardi) e Corea del Sud (1.583 miliardi), non esattamente sinonimo di successo per chi ragiona da superpotenza. Dato mascherato, tra l’altro, dalla sproporzione con cui la ricchezza è distribuita sul territorio. Tra pochi e arricchiti centri urbani e sconfinate e arretrate periferie, il Pil pro capite medio dei russi è di poco superiore ai 26.000 euro all’anno. Per farsi un’idea, i greci guadagnano circa 100 euro in meno, mentre nel nostro Paese il dato supera i 35.000 euro. In quest’ottica, l’Ucraina rappresenta per il Cremlino il rubinetto da maneggiare per far salire i prezzi della princi> pale risorsa economica russa: il gas. LUGLIO 2022
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La terza molla che ha fatto scattare “l’opera- Stoccolma nel contrastare il Partito popolare zione speciale”, forse la più incomprensibile curdo (Pkk). per gli occidentali, è quella ideologica. Nonostante Putin goda di un diffuso consenso inter- Berlino indossa l’elmetto no per la riorganizzazione post-sovietica dello Chi, dopo tre lustri targati Angela Merkel, è Stato, i movimenti di opposizione e la povertà nuovamente e convintamente atlantista è la diffusa, ma anche il mancato riconoscimento Germania di Olaf Scholz, che per comunicainternazionale, hanno mortificato le ambi- re il rinnovato entusiasmo ha annunciato un zioni dell’ex funzionario del Kgb, portandolo riarmo da 100 miliardi di euro. Tuttavia, i tea una dimostrazione di forza rivolta anche al deschi non intendono contribuire a una nuova proprio popolo. produzione europea. Il primo contratto l’hanQuesto spiega i continui riferimenti agli even- no infatti firmato a Washington con l’acquisto ti gloriosi del passato con cui il capo del Crem- di 35 F-35 americani, mentre per il secondo aflino tenta di risvegliare quell’anima che ha fare hanno chiamato Israele, dal quale hanno tenuto insieme il popolo russo fatto rifornimento di sistemi in passaggi ben più complicaantimissile di ultima generaL’Ucraina ti della storia. «I vostri padri zione Arrow 3. non hanno combattuto per la Una delusione doppia per la rappresenta per il madrepatria affinché i neonaFrancia che dal progettare un Cremlino il rubinetto futuro esercito europeo basazisti prendessero il potere in Ucraina», rugliava Putin il 24 to sulla tecnologia franco-teda maneggiare per febbraio. Sulla scia di queste desca, si è ritrovata a fare i far salire i prezzi parole, nel tempo che separa conti con le storiche diffidenla notte dal mattino, gli occize riservate a Berlino. Ma il della principale dentali, ormai distanti da certe presidente Macron è anche risorsa economica logiche, sono stati riportati a passato dal disegnare un’Eufare i conti con le ombre del ropa indipendente e unita russa: il gas passato. sotto il drapeau tricolore, al Un ritorno alla storia che semdover digerire l’allargamento bra coinvolgere un’Europa nuovamente pron- Nato a Est, apparentemente unico binario perta a riconoscere gli elementi fondamentali di corribile per la sicurezza occidentale di fronte uno Stato, ma allo stesso tempo destinata a alla minaccia russa. subire antiche rivalità, da tempo accantonate Allora, in un momento in cui si è più propensi in nome del libero scambio e dello sviluppo al passo in avanti che alla riflessione, fanno rueconomico. more le parole dell’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger. «Dovrebbe essere la Acque mosse nell’Egeo missione della diplomazia, sia occidentale che Ne è un esempio la rinnovata tensione dei russa, tornare al corso storico per cui la Russia rapporti tra turchi e greci nel Mediterraneo. è parte del sistema europeo». Una visione inDopo il discorso tenuto a maggio davanti al trisa di realismo politico che tuttavia non semCongresso degli Stati Uniti dal primo mini- bra fare breccia nei cuori di chi sta al vertice. stro greco Kyriakos Mitsotakis, il suo omologo Chissà se dopo i bollori estivi non interverranturco, Recep Tayyip Erdogan, ha minacciato no i freddi venti invernali a favorire il ritorno direttamente i greci su Twitter, utilizzando la a un concerto europeo capace di garantire un loro lingua. «Suggeriamo ancora una volta alla futuro di pace. Grecia di utilizzare prudenza, di stare lontana dai sogni, dalla retorica e da azioni che la porterebbero a risultati di cui pentirsi, come accaduto un secolo fa», ha twittato Erdogan Resistenza. Soldati ucraini in riferendosi alla guerra d’indipendenza turca, difesa del Paese, 2022 combattuta proprio a spese di Atene. Oggi l’obiettivo di Ankara è la smilitarizzazione delle isole greche vicine alla Turchia. Per CORSA AL RIARMO gli ellenici il mantenimento dell’esercito in quelle zone serve invece a bilanciare le truppe turche stanziate a Smirne, dall’altra parte dell’Egeo. Una questione fisicamente interna all’Europa e politicamente inserita nella Nato, visto Di A.B. che entrambi i Paesi fanno parte della stessa _ alleanza militare internazionale. Una situazione che crea malumori soprattutto a Erdogan, Lo scontro tra Russia e Occidente ha riirritato dal fatto che la Grecia sfrutti proprio svegliato una delle preoccupazioni magl’ombrello atlantico nelle sue relazioni con giori per l’umanità dalla fine della SeconAnkara. Il risultato è una Turchia sempre più da guerra mondiale: doversi confrontare membro autonomo nello scenario internaziocon un conflitto nucleare. Dopo la dimonale, che ben sa sfruttare la Nato in funzione strazione di forza degli Sati Uniti a Hirodei propri interessi, come dimostra il ritiro del shima e Nagasaki nel 1945, sono diversi veto su Finlandia e Svezia, arrivato solo dopo i Paesi che hanno deciso di sviluppare il l’annuncio dell’ufficio della presidenza turca che Ankara «ha ottenuto quello che chiedeva», ovvero la «piena cooperazione» di Helsinki e
Il rischio atomico
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proprio arsenale atomico. Se fino al 1949 il monopolio spettava alla Casa Bianca, oggi prima fra tutte è la Russia che con 6.225 testate batte anche gli States, fermi a 5.550. A seguire ci sono Cina (350), Francia (290), Regno Unito (215), Pakistan (165) e India (156). Ma armi atomiche sono in possesso anche di Israele (90) e Corea del Nord (40). Una proliferazione che spaventa, soprattutto dopo i fatti del 24 febbraio. Ma se è vero che la corsa agli armamenti funziona da deterrente, allora, almeno per quanto riguarda lo scoppio di una guerra nucleare, possiamo dormire sonni tranquilli.
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ESTERI
Il tormento ucraino Guerra senza fine Politica instabile, errori e conflitti con la Russia hanno messo in grave difficoltà Kiev dal 1991 in poi Di Umberto Porreca _ 24 agosto 1991. L’Ucraina adotta l’Atto d’Indipendenza dell’Ucraina e si dichiara stato sovrano. Da quel momento in poi, una volta distaccatosi dalla morente Unione Sovietica, il Paese si è trovato a dover affrontare diverse situazioni di crisi. la rivoluzione arancione
Il personal brand non è più solo appannaggio delle celebrità. Sempre più giornalisti sviluppano una reputazione online al di fuori della propria testata
La vera svolta per la storia dell’Ucraina, però, arriva nel 2004. All’indomani delle elezioni che vedevano contendenti Viktor Jušcenko e Viktor Janukovyc, il primo contestò gravemente i risultati accusando di brogli e invitando i suoi elettori a scendere in massa in piazza per protestare. Fu l’origine della storica Rivoluzione Arancione. L’occasione di buttare giù il regime imposto dal Presidente della Repubblica Leonid Kucma, che fu contraddistinto da abusi di potere, corruzione e dal sempre più ridotto spazio concesso ai media e alla stampa. Tutti gli oppositori, da Julia Tymoszenko al movimento giovanile non violento PORA, scelsero la dissidenza e si schierarono a favore della richiesta di Viktor Jušcenko. Le elezioni vennero ripetute e lo sfidante ne uscì vincitore. Il blocco arancione, però, ebbe vita breve e dopo appena un anno entrò in crisi con le dimissioni della Tymoszenko da primo ministro e di Jušcenko da Presidente. Furono indette altre elezioni nel 2006, nel 2007
e nel 2010, quando il periodo colorato arrivò al termine. una decade senza pace
Proprio il 2010, che vide la vittoria di Janukovyc sulla Tymoszenko, diede origine a nuovi periodi di crisi. La donna, ex primo ministro, fu arrestata nel 2011 con l’accusa di abuso di ufficio per aver stretto con il gigante russo del gas Gazprom un accordo eccessivamente costoso: venne condannata a sette anni di carcere. Fu l’inizio di numerose rivolte nel paese che portarono alla cacciata nel 2014 di Janukovyc. Intanto, a livello internazionale, l’Ucraina era sempre più distante dalla Russia, sempre più vicina alla UE. L’unico filo di collegamento tra i due paesi rimase proprio il presidente in carica: per favorire la Russia, sospese l’accordo di associazione con la UE che l’Ucraina portava avanti da molto tempo. Fu la scintilla che incendiò la situazione. euromaidan e ritorno del conflitto con la russia
L’accordo di associazione dell’Ucraina alla UE era visto da gran parte del popolo ucraino, e le manifestazioni lo dimostrano, come una via di fuga dall’opprimente gigante russo. La sua sospensione vide la risposta in massa della popolazione, che venne assalita dalle forze dell’ordine mentre era scesa in piazza per protestare. Il vero problema però esplose in seguito ai moti di piazza: la Russia, vista la situazione instabile, inviò numerose truppe in Crimea prendendo il controllo del governo locale e annettendo al proprio territorio la zona. Fu indetto un referendum di autodeterminazione, disconosciuto in massa dalla comunità internazionale, in cui vinse il sì con il 95% dei voti. oggi, la guerra in casa
Il resto, come si dice spesso, è storia. Il 24 febbraio 2022, con una “operazione militare speciale”, come l’ha definita il presidente Putin, la Russia dichiara guerra all’Ucraina e invade il suo territorio. Da quel momento in poi tutti i timori degli ultimi trent’anni dell’Ucraina, contraddistinti da scontri interni, instabilità e una vita politica travagliata, sono diventati realtà. Il conflitto interno, la richiesta di indipendenza del Donbass e le questioni politiche ucraine sono stati travolti dalla vicina Russia, facendo ripiombare il Paese in una situazione di totale incertezza. Un destino diviso tra la voglia di UE e il bisogno di garantirsi un futuro respingendo l’assalto russo.
Bucha. La città simbolo dei massacri contro i civili ucraini
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Energia, l’Italia sceglie il Con la crisi nel cuore dell’Europa, il Governo punta a ridurre la sua dipendenza dal gas russo, stringendo accordi con altri paesi ma dimenticando le rinnovabili Di Elisa Campisi e Valeriano Musiu _ La Russia è il primo paese da cui l’Italia dipende per soddisfare il proprio consumo di fonti fossili e per affrancarsi sta cercando di diversificare il proprio approvvigionamento. Il piano a breve termine prevede, quindi, di aumentare sia le forniture energetiche da altri paesi che la produzione interna. gli accordi italiani per l’affrancamento
Il governo ha raggiunto un’intesa con diversi fornitori, per aumentare lo sfruttamento dei gasdotti già esistenti. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha ottenuto per quest’anno un aumento del 35% delle forniture azere, passando dai 7 miliardi di metri cubi di gas all’anno, che riceviamo attualmente, a 9,5. Con l’Algeria si è raggiunto un accordo per 9 miliardi di metri cubi di gas in più all’anno, a partire dal 2024.
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Parallelamente il Governo sta stringendo accordi con i maggiori fornitori di gas liquido, per aumentarne i flussi. Oltre agli Stati Uniti, che si sono impegnati a fornire più Gnl, c’è l’Eni, che produce gas liquido in Egitto, Congo e Qatar e ne indirizzerà 8 miliardi di metri cubi in più verso l’Europa. Per convertire il Gnl dallo stato liquido a quello gassoso, l’Italia punta a noleggiare o comprare nuovi rigassificatori, da collegare alle navi metaniere che trasportano le forniture allo stato liquido. Altri 2-3 miliardi di gas in più dovrebbero, infine, arrivare dall’autoproduzione. Per quanto riguarda il carbone, invece, se da una parte negli ultimi anni è aumentata l’importazione, dall’altra è diminuita la produzione interna e il nostro Paese prevede di fermare anche le ultime sei centrali attive, entro il 2025. In caso di emergenza, però, si può aumentare la produzione interna europea, andando anche contro i piani di decarbonizzazione. Intanto sono aumentate le importazioni di petrolio dalla Russia. Si tratta di una conseguenza indiretta delle sanzioni per la guerra in Ucraina, che costringe per esempio una raffineria russa sul nostro territorio a comprare greggio esclusivamente da Mosca. Se l’embargo al greggio russo non avrà successo, l’Italia potrebbe diventare presto il maggior importatore europeo di petrolio russo trasportato via mare. Per far fronte agli scenari di crisi energetica aperti dalla guerra in Ucraina, però, l’Italia dovrebbe lavorare anche su strategie a
lungo termine. Come sottolinea l’ISPI, infatti, quella di trovare altri paesi esportatori di combustibili fossili può essere una soluzione per evitare tempestivamente una crisi energetica, ma si pone il tema di come rendere il nostro Paese energeticamente indipendente. Non ha infatti molto senso cercare alternative al gas russo rivolgendosi ad altri regimi illiberali che in futuro potrebbero usare le loro risorse come arma di ricatto. puntare sull’efficienza: la strategia ue
Secondo il think tank ECCO Climate, la strategia italiana messa a punto per far fronte ad un’eventuale crisi non include la parte di efficienza energetica. Una componente che però sarebbe fondamentale per una strategia di lungo termine e che soprattutto fa già parte del Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC). Puntare sull’efficienza andrebbe anche in direzione della nuova strategia REPowerEU presentata dalla Commissione Europea. Gli obiettivi principali sono due: da una parte rendersi indipendenti dai combustibili fossili russi e dall’altra raggiungere entro il 2030 il 45% di copertura energetica da fonti rinnovabili. Entro l’anno l’Europa punta a tagliare i due terzi delle forniture, per arrivare a zero entro il 2027. Il piano, aggiornato a metà maggio, invita a ridurre ulteriormente i consumi energetici, passando dal -9% previsto al -13% entro
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ESTERI
«Meno burocrazia per le rinnovabili» Davide Chiaroni (PoliMi): «La strategia italiana per la sicurezza energetica è in linea con gli obiettivi europei. Sul lungo periodo, però, è fondamentale investire nelle fonti verdi»
Gas naturale. Il governo studia soluzioni per affrancarsi dalle forniture russe
piano B il 2030. Stando alle stime di ECCO, i contributi di efficienza energetica permetterebbero al nostro Paese di risparmiare 2,3 miliardi di metri cubi di gas già entro il 2025. Aggiungendo ulteriori misure di efficienza, inoltre, si potrebbe arrivare a un totale di 6,9 miliardi di smc di gas risparmiati. Le energie rinnovabili sono l’altro elemento su cui l’Italia dovrebbe puntare. L’idea di investire in nuove infrastrutture del gas, infatti, rischia di allontanarci dagli obiettivi fissati nel Green Deal europeo. Come sottolineato da ECCO Climate, «il rischio della strategia del Governo è la duplicazione dei costi delle infrastrutture, un’ulteriore instabilità del sistema energetico e una contraddizione rispetto al raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione». Lo sviluppo delle energie rinnovabili potrebbe essere invece funzionale al superamento di una possibile crisi del gas russo, permettendo all’Italia di sostituirne tra i 9 e i 15 miliardi di metri cubi entro il 2025. Il pacchetto di misure europeo, ribattezzato “Fit for 55”, richiede che le rinnovabili arrivino a coprire il 70% del sistema elettrico italiano. Ma ci sono diversi ostacoli: secondo il Gestore dei Servizi Energetici, gli impianti di produzione elettrica rinnovabili sono cresciuti solo di 1,5 GW nel 2021 rispetto al 2020. Troppo poco per essere in linea con i diktat dell’Europa, che richiederebbero una crescita di circa 7-8 GW all’anno.
Di E.C. e V.M. _
prossimi 10-15 anni e ci accompagnerà verso la transizione ecologica».
Davide Chiaroni è Professore ordinario di Strategia & Marketing al Politecnico di Milano. È co-fondatore e vicedirettore di Energy & Strategy, dove gestisce gli Osservatori permanenti su rinnovabili, efficienza energetica ed ecosistemi intelligenti.
La strategia italiana per trovare sostituti del gas russo non rischia di renderci dipendenti da Paesi altrettanto illiberali e instabili? «La nuova strategia energetica italiana si basa su due obiettivi complementari: diversificare le fonti di approvvigionamento, ma anche il rischio. Se negli ultimi vent’anni, infatti, l’Europa ha puntato esclusivamente su Russia e Norvegia per le forniture di gas, adesso siamo disposti a pagare un prezzo più alto pur di diversificare le forniture. È vero che paesi come Angola e Algeria non sono “campioni di democrazia”, ma la nuova strategia ci permette di non dipendere più per il 40% da un unico paese, ma per il 10% da quattro paesi diversi, facendo diminuire i rischi».
Qual è la strategia italiana per la sicurezza energetica? «Bisogna distinguere due orizzonti temporali. Nel breve termine, entro il 2023/2024, la soluzione che possiamo mettere in campo è diversificare l’approvvigionamento del gas, rivolgendoci ad altri Paesi, come Algeria, Angola e Azerbaijan, per sostituire il gas russo. In poco tempo non è possibile realizzare una capacità energetica da fonti rinnovabili sufficiente al nostro fabbisogno. Bisogna implementare la quantità di gas che passa dai gasdotti del 20-30%, raggiungendo così la loro massima capacità. Sul lungo termine, invece, la soluzione è nelle rinnovabili. Se vogliamo davvero essere indipendenti, il 2030 è la data verso cui muovere gli investimenti».
Di quanto aumenteranno i costi per l’energia? «Le contrattualizzazioni sono I rigassificatori riservate. Tuttavia, possiamo stimare un aumento dei prezsono importanti zi che va dal 20 al 50%, perché perché ci permettono accanto ai contratti a prezzo c’è anche il “mercato di ottenere forniture fisso spot”, a pagamento immediato, dove i prezzi risentono da più Paesi Costruire nuove infrastrutdell’andamento delle borse. DAVIDE CHIARONI ture per il trasporto del gas Pesa poi sui costi anche un non rallenta la transizione certo nervosismo del mercaverso le rinnovabili? to, influenzato dall’incertezza «I rigassificatori, che l’Italia sta acquistando o del futuro. Comunque si risolva il conflitto in noleggiando, sono strategicamente importanUcraina, però, possiamo prevedere che il merti, perché permettono di rifornirsi con il Gnl cato si stabilizzerà, facendo tornare i prezzi in in più Paesi. È vero che ci saranno molti inlinea con i valori del passato: dai 200/250 euro vestimenti, ma si tratta di un intervento pubattuali ai 70/80 euro del 2017». blico di transizione. Dal punto di vista tecnico, per costruire un rigassificatore ci vuole circa Come giudica la nuova strategia energetiun anno e mezzo, mentre per realizzare un ca italiana? impianto fotovoltaico o eolico ci vogliono 6-8 «A mio parere, il disegno strategico dell’Italia mesi. Alla fine dei conti, però, questi impianti è in linea con gli obiettivi europei. Tuttavia, richiedono più tempo a causa della burocrazia ora che abbiamo una strategia, dobbiamo ane dei ricorsi, che possono bloccare i lavori. È che essere capaci di sveltire le autorizzazioni chiaro che se noi consideriamo 10 anni per e i processi burocratici per la costruzione dei costruire un rigassificatore – come è stato per nuovi impianti. È fondamentale che passiamo l’ultimo – non ce ne facciamo niente. Se invevelocemente dalla fase strategica a quella di ce siamo in grado di farlo in un anno e mezzo implementazione, che dev’essere monitorata al massimo, questo potrà essere sfruttato per i affinché avvenga nei tempi previsti».
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Il declino della politica passa dai governi tecnici Quattro “esecutivi del Presidente” dal 1996 ad oggi non sembrano un’anomalia. Il continuo ricorso a figure tecniche, però, rischia di mettere in discussione la fiducia degli elettori nella democrazia e rinviare il cambiamento interno dei partiti
“Papi stranieri”. Mario Draghi (sinistra) e Mario Monti (destra) sono gli ultimi due tecnici chiamati a guidare la presidenza del Consiglio
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Di Luca Carrello, Stefano Gigliotti _ Quattro governi tecnici dal 1946 a oggi, in numeri, non rappresentano un’anomalia. Gli esecutivi di Carlo Azeglio Ciampi (1993), Lamberto Dini (1995), Mario Monti (2011) e Mario Draghi (2021), del resto, hanno governato in totale per circa cinque anni: la durata di appena una legislatura. Ma quella che può sembrare una breve parentesi nella storia repubblicana, in realtà, è espressione della crisi della politica. «L’elemento che accomuna i governi tecnici italiani è la rottura della precedente maggioranza», spiega Guido Formigoni, professore di Storia contemporanea all’Università IULM.
«Il Parlamento entra in una fase di difficoltà e i partiti non riescono più a governare insieme. Allora deve intervenire il Presidente della Repubblica», aggiunge Formigoni, che precisa: «Più che tecnici, dovremmo chiamarli governi del Presidente». Quando la maggioranza va in crisi, infatti, il Capo dello Stato non indice nuove elezioni. Piuttosto, preferisce sospendere la dialettica parlamentare e formare un “suo” esecutivo, che mantiene una componente politica: «Nelle squadre di Ciampi e Monti c’erano ministri eletti tra le file dei partiti, così come vediamo oggi nel governo Draghi - chiarisce il professore -. Solo l’esecutivo Dini era formato interamente da tecnici, che però avevano ricoperto ruoli politici o istituzionali in passato».
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POLITICA
Ecco perché i governi tecnici, in Italia, non rappresentano una negazione della politica. All’opposto, si formano nei momenti di crisi del sistema parlamentare per permettergli di ripartire. «L’emergenza viene sospesa - spiega Formigoni -. Si crea un limbo, in cui i partiti possono ricostruire i rapporti e creare nuove intese in vista delle successive elezioni». Un meccanismo fisiologico della politica, dunque: è questo quel che appaiono i governi tecnici. Se non fosse che a guidarli è un soggetto esterno al Parlamento. «Palazzo Chigi viene affidato a figure istituzionali non parlamentari o a economisti, perché le crisi sono generalmente legate a emergenze economiche», spiega il professore, che aggiunge: «Così, però, si rischia di mettere in discussione la fiducia
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INTERNI
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CRISI POLITICA
FRANCIA
Alle urne scontro fra élite e vinti della globalizzazione
Di Stefano Gigliotti A Parigi, Emmanuel Macron (foto) trionfa con l’85% dei voti contro Marine Le Pen. È il risultato nella capitale al secondo turno delle ultime presidenziali francesi. Nelle periferie il distacco è molto più ridotto, se non addirittura di segno opposto. In larga parte del mondo occidentale, è ormai evidente una spaccatura tra la cosiddetta élite e il popolo, tra il voto delle periferie e quello dei grandi centri. Macron e Le Pen non fanno eccezione. «È un processo che va avanti dagli anni novanta del secolo scorso», spiega Paolo Natale, Professore al Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano e autore di diversi saggi di comunicazione politica. «Tendenzialmente ci sono gli sconfitti della globalizzazione, che vedono con maggior difficoltà il proprio futuro e così si affidano alle parole d’ordine dei partiti di destra, o generalmente populisti. Dall’altra parte ci sono le classi più ricche, che hanno meno paura del futuro e della globalizzazione, e si rivolgono alle forze moderate di sinistra». Tra gli altri esempi recenti, ci sono anche il voto per la Brexit, voluta principalmente nelle zone rurali, e il caso Trump, osteggiato nella New York democratica ma capace di fare incetta di voti nell’America profonda. «All’interno di questo processo - nota sempre Natale - tendono a diventare prevalenti i governi più tecnocratici, come in Italia con Draghi, o lo stesso Macron in Francia, che rappresenta un sostanziale cambiamento di paradigma legato all’establishment e alla finanza, più che ai vecchi partiti socialisti e gollisti». Ed è molto spesso il motivo dell’abbandono nelle periferie, che si rifugiano nell’astensionismo («a Milano per esempio nelle ultime amministrative si è visto come le periferie hanno votato molto meno delle zone centrali») o nel voto ai partiti antiestablishment. In Italia, secondo Natale, l’esempio più eclatante di questo fenomeno è stato rappresentato dal Movimento 5 Stelle, ma la recente svolta governista dei pentastellati rischia ora di svuotare questo serbatoio di voti di protesta.
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> nella democrazia. Se i cittadini si abituano a far gestire le emergenze a un non politico, poi, sarà dura convincerli ad andare a votare. Crederanno che la dialettica politica non sia più necessaria per affrontare i problemi e preferiranno affidarsi a un tecnico, che faccia la scelta migliore». Ma perché i governi tecnici nascono solo dopo il 1993? «Nella Prima Repubblica le maggioranze democristiane svolgevano una funzione analoga», ricorda Formigoni. «La Democrazia Cristiana era il partito egemone, perno di qualunque possibile esecutivo. Quando il sistema entrava in crisi, si assumeva il compito di gestire la transizione indicando un Presidente del Consiglio tra le sue file». I democristiani, infatti, fornivano personale politico meno schierato su singole posizioni. Al loro interno avevano figure istituzionali, che potevano guidare maggioranze trasversali. «Con la fine della Dc questa possibilità è venuta meno spiega invece Formigoni -. Nessun partito è in grado di rappresentare da solo una parentesi della dialettica politica: guardare fuori dal Parlamento, quindi, è diventata la soluzione più credibile». È d’accordo Alberto Mingardi, professore di Storia del pensiero politico all’Università IULM: «Purtroppo la tendenza è sempre più alla personalizzazione della politica. Un leader personale, il cui consenso è frutto di un rapporto diretto con gli elettori, tende a considerare un impedimento le liturgie dei partiti, la divisione del lavoro all’interno degli stessi e l’esistenza di apparati strutturati». Non aiuta poi l’attuale sistema di voto. «In qualche modo siamo in un limbo», dice Mingardi riprendendo le parole di Formigoni. «Abbiamo partiti personali come nella Seconda Repubblica aggiunge -, ma una legge in larga parte proporzionale, più simile a quella della Prima che a un maggioritario. Questo intorbida la competizione politica, perché gli italiani votano i partiti, mentre gli eletti sono scelti dai leader». Da qui il suo giudizio diventa più critico: «Noi abbiamo brevettato, nel nostro Paese, un sistema che consente una sorta di periodico ricorso a colpi di Stato democratici. Cioè, innanzi a
Montecitorio. Sede della Camera dei Deputati della Repubblica
sfide molto rilevanti i partiti non se la sentono di prendere il toro per le corna e nominano qualcuno fuori dal loro perimetro perché faccia il lavoro sporco». Dunque, per risolvere le crisi in Italia c’è bisogno di chiamare personalità esterne di grande rilievo tecnico, perché la politica da sola non è più in grado di affrontare i grandi problemi. Anzi, secondo Mingardi l’obiettivo dei partiti è proprio quello «di caricare la colpa di riforme impopolari su figure che hanno un’altra storia». E cita il caso della Fornero, la discussa riforma delle pensioni durante il governo Monti: prima votata da tutti i partiti in Parlamento, poi diventata terreno di scontro politico nelle campagne elettorali seguenti. Più che a cercare soluzioni per il Paese, fa notare Mingardi, «i partiti se la danno di santa ragione sui giornali, ma poi governano assieme». L’ultima legislatura è esemplare da questo punto di vista. Dal 2018 si sono alternate tre maggioranze diverse, le prime due guidate da Giuseppe Conte - un indipendente vicino al Movimento 5 Stelle, anche lui con un passato estraneo a quello parlamentare - che ha guidato un governo di destra con la Lega e in seguito uno di sinistra con il Partito Democratico. «Questa legge elettorale e questo sistema dei partiti», ripete Mingardi, «tendono a suggerire alla gente che il loro voto conti poco o nulla. Chi alle ultime elezioni ha votato 5 Stelle contro il Pd, poi se li è ritrovati al governo assieme. Chi ha votato Lega contro l’Europa dei banchieri, oggi vede il suo partito sostenere Draghi. Chi ha scelto il Pd contro i populismi l’ha visto allearsi prima coi populisti di sinistra e poi anche con quelli di destra». Il paradosso finale è trovare tutti i partiti insieme nell’ampia maggioranza che sostiene Mario Draghi, con l’eccezione di Fratelli d’Italia, non a caso l’unica forza politica che continua a crescere nei sondaggi. Infatti, conclude Mingardi, la nascita di governi tecnici, più che portare benefici ai partiti, «in un certo senso ne prolunga la crisi: danno l’impressione che non serva tentare strategie di rinnovamento interno e reclutare personale politico migliore. Tanto, si può sempre chiamare un Papa straniero».
CRISI SANITARIA
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COVID
11 marzo 2020. L’Oms dichiara l’inizio della pandemia da Sars-Cov-2
Quando finisce una pandemia? Non chiedetelo alla scienza Il declino del dibattito sulla diffusione di un virus spesso non va di pari passo con la sua fine biologica. E gli stessi criteri dell’Oms seguono più la sociologia che la scienza Di Gianluca Brambilla _ Era l’11 marzo 2020 quando il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus dichiarò per la prima volta che la diffusione del Sars-Cov-2 era da considerarsi a tutti gli effetti una pandemia. Oggi, a due anni di distanza da quel momento, i paesi di tutto il mondo hanno abbandonato gradualmente le misure di contenimento del virus. Tanto che ci si inizia a chiedere, sia nei dibattiti tra esperti che per le strade: «Quando finirà la pandemia?». Come spiega Meredith Wadman su Science, sono tre i criteri che rendono la diffusione di una malattia una “PHEIC”, vale a dire un’Emergenza sanitaria pubblica di portata internazionale. L’evento deve essere «grave, improvviso, insolito o inaspettato»; deve comportare «implicazioni per la salute pubblica oltre i confini nazionali dello Stato colpito»; e infine deve richiedere «un’azione internazionale immediata». A valutare questi tre criteri sono i diciotto membri del comitato preposto dall’Oms, che ogni tre mesi si riuniscono per
stabilire se la pandemia può ancora definirsi tale. «I criteri hanno più a che fare con la sociologia e la politica piuttosto che con la scienza», commenta Caroline Buckee, epidemiologa dell’Università di Cambridge. «Non ci sarà nessuna soglia scientifica (a determinare la fine della pandemia - ndr). Ci sarà, piuttosto, un consenso basato sull’opinione».
A dimostrarlo sono anche i dati di questi mesi. A giugno l’indice dei contagi e il numero dei decessi è tornato a salire. A differenza dello scorso anno, però, questa tendenza non ha portato a nuove limitazioni e chiusure. Anzi, dal 16 giugno il governo ha deciso di revocare l’obbligo di mascherina in diversi luoghi al chiuso, come cinema e teatri e alcuni mezzi pubblici.
Una prospettiva condivisa Secondo gli esperti anche da David Robertson e C’è poi un ultimo elemento dovremmo iniziare Peter Doshi nell’articolo “The da tenere in considerazione. end of the pandemic will not esperienze passate, infatti, a considerare il Covid Le be televised”. Secondo i due insegnano che il lasso tempocome un’era autori, la pandemia da Corale che divide due pandemie vid-19 ha una particolarità: non è mai netto. La scomparsa e non una crisi il costante aggiornamento definitiva di una malattia è un dell’indice dei contagi e dei processo incredibilmente lundecessi in (quasi) tutti i paesi del mondo. La go, che spesso va a sovrapporsi con la comparconseguenza? Tra i cittadini si è diffusa la consa di una nuova malattia altrettanto virale. Ed vinzione che la pandemia sarebbe finita solo è proprio in quest’ottica che va letta la possibiquando tutti questi indicatori – numero di le trasformazione del Covid-19 da pandemia a nuove infezioni, ricoveri in terapia intensiva endemia, vale a dire in una malattia che mane decessi – avrebbero raggiunto lo zero. Epputiene una presenza costante in una popolaziore, spiegano Robertson e Doshi, le pandemie ne o in un territorio. Per dirla con le parole respiratorie del passato mostrano che la fine usate dalla giornalista scientifica Gina Kolata non è mai così semplice da individuare e spessul New York Times, dovremmo abituarci a so ha a che fare più «con la ripresa della vita considerare il Covid-19 «un’era, non una crisi». sociale piuttosto che con il raggiungimento di Secondo la giornalista americana, infatti, «non determinati target epidemiologici». Anche in finirà tutto quando la malattia fisica si sarà questo caso, dunque, risulta piuttosto evidente ridotta significativamente. La pandemia – socome la fine della pandemia non sia un fenostiene Kolata – potrebbe continuare ad essere meno strettamente legato alla curva dei contapresente anche mentre l’economia cresce e i gi, quanto ad aspetti sociologici di percezione cittadini tornano a vivere in uno stato di norcollettiva. malità».
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INTERVISTA
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CRISI CULTURALE
«In Italia manca una democrazia culturale» Gianni Canova sulla crisi che ha colpito i settori della cultura: «La società dovrebbe garantire a tutti pari accesso all’arte, ma nel nostro Paese questo non succede». Un fenomeno che, secondo il rettore della IULM, ha responsabilità politiche, giornalistiche e accademiche
Di Priscilla Bruno, Valeria de March _ Se c’è un risultato di cui l’Italia non può dirsi fiera è quello relativo all’istruzione e all’impiego dei giovani. Nel nostro Paese i NEET, ovvero gli appartenenti alla fascia 15-34 anni che non lavorano, non studiano e non sono coinvolti in un percorso formativo, sono il 25,1% del totale. Dopo di noi ci sono solo Turchia, Montenegro e Macedonia. «La situazione è drammatica», commenta il Rettore dell’Università IULM Gianni Canova, «il quadro delineato è davvero sconfortante».
la cooptazione, mi prendo la responsabilità di scegliere quelli che ritengo i migliori. Se sbaglio o faccio questa cosa in modo fraudolento, mettetemi in galera. Ma trovo che i concorsi così come sono congegnati oggi siano uno dei problemi fondamentali». Rispetto al passato in cui la cultura era appannaggio di pochi, oggi tutti hanno accesso a fonti inesauribili di dati. Eppure il sapere è sempre all’ultimo posto. «È un paradosso. È stata trasmessa l’idea che la cultura sia qualcosa di faticoso, noioso, inutile. In effetti in alcuni casi è oggettivamente così. Perché la società non la valorizza e non la apprezza. Quindi si scelgono altre strade».
Chi ha la responsabilità di questa crisi culturale? «In primo luogo la politica. C’è un problema di remunerazione dei giovani laureati. Non sopporto le Invece di distribuire a pioggia distinzioni fra cultura i fondi del Pnrr bisognerebbe fare una cosa semplicissialta e bassa: sono ma: defiscalizzare le imprese figlie dell’elitarismo che li assumono. Così invece di guadagnare 1.200 euro al di alcuni intellettuali mese ne guadagneranno 2 GIANNI CANOVA mila. Cambia il mondo». E poi? «Ci sono anche grandi responsabilità accademiche e giornalistiche. Le università hanno formato malissimo le persone che andranno a insegnare nelle scuole, senza trasmettere la passione per la cultura e la bellezza. I giornalisti hanno continuato a diffondere la fake news secondo cui studiare è inutile e offre poche prospettive lavorative. Il risultato è che tutto viene vissuto come una cosa noiosa calata dall’alto. Gli effetti sono disastrosi». Il mondo dell’istruzione può fare di più? «Il problema di fondo è la selezione dei docenti. Dirò una cosa molto impopolare: sono per
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Come mai accade? «Credo che una delle differenze fondamentali nella vita di ogni essere umano sia il luogo di nascita. Non è la stessa cosa nascere nel centro di Milano o in una piccola periferia. Un altro elemento decisivo è avere la fortuna di incontrare nel proprio percorso formativo almeno un insegnante che porta il fuoco. Se hai avuto questa possibilità, ovunque tu sia nato, ti salvi. Altrimenti, puoi anche essere il figlio del più ricco degli imprenditori ma arrivi a perderti. Bisogna puntare su docenti che siano appassionati. Se fai questo mestiere, ti deve piacere da morire. Se lo fai per prendere lo stipendio, cambia lavoro». Nel suo libro “Ignorantocrazia” denuncia la mancanza di una democrazia culturale. A cosa è dovuta? «Per parlare di democrazia culturale la società deve garantire a tutti pari accesso alla conoscenza, alla cultura e all’arte. In Italia tutto ciò non esiste. Manca un lavoro pubblico che tra-
Gianni Canova. Rettore dell’Università IULM e critico cinematografico
smetta l’importanza del sapere: è da vent’anni che si celebra l’incompetenza con formule facili, secondo le quali chiunque può dire qualsiasi cosa su ogni argomento pur non avendo competenze. È un’illusione che nega la democrazia della conoscenza ma soprattutto quella politica: se i cittadini non hanno strumenti per capire la realtà, il consenso si costruisce su basi discutibili». Oggi però si è diffuso un certo snobismo verso i prodotti commerciali, che rispecchia una visione poco democratica della cultura. È solo un pregiudizio? «Io mangio e bevo di tutto, a volte ho voglia di un’acqua minerale, altre di un gin tonic. Con la cultura è la stessa cosa: c’è il giorno in cui hai voglia di leggere Musil e il giorno in cui ti va bene vedere un film di Zalone. La cultura non è un monolite a una sola faccia. È un dispositivo poliedrico fatto di tante possibilità. Non sopporto le distinzioni fra cultura alta e bassa che sono una convenzione delle lobby accademiche e provengono dall’élitarismo di alcuni intellettuali». Cosa non accetta la cultura alta?
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«Una delle vittime di questi pregiudizi è il comico: viene ritenuto un genere basso e poco praticabile quando invece è una forma straordinaria di tutta la cultura occidentale, dalla commedia di Plauto fino ai giorni nostri. Il problema è che intercetta il corpo prima della mente, quindi risulta troppo emozionale. La stessa cosa accade per l’horror che produce paura, per il patetico che fa piangere, per l’erotico che eccita. Non è un caso che questi generi raramente entrino in concorso al Festival di Venezia o agli Oscar». Però sono i prodotti che vendono di più… «Sì e in Italia c’è un altro pregiudizio: che qualità e successo non vadano d’accordo. Perché ritenere che ciò che piace a tanti debba avere meno valore di ciò che piace a pochi? Non sono d’accordo: è un atto di arroganza intellettuale ritenere che la propria capacità di coinvolgere il pubblico sia superiore a quella di qualcun altro. Ognuno prova le emozioni dove vuole». C’è chi per emozionarsi sceglie il cinema. Pensa che questo settore saprà risollevarsi dopo i danni della pandemia o serve un intervento mirato della politica?
«Dico una cosa scandalosa. Vorrei che non ci fossero più interventi della politica sul cinema. È soffocato da troppi aiuti, distribuiti a pioggia per film che nessuno va a vedere mentre il produttore incassa i soldi dello Stato. Sarebbe meglio realizzare qualche film in meno e investire le risorse sulla distribuzione e l’uscita nelle sale. Bisognerebbe rovesciare l’approccio assistenzialista che ad oggi prevale: se i soldi arrivano dallo Stato chi sarebbe pronto a rischiare per un progetto in cui crede? Se non c’è un produttore che si innamora di un’idea ed è coinvolto in prima persona viene meno anche la voglia di impegnarsi affinché la cosa funzioni». Così si frena anche la sperimentazione. «Sì, perché è cinema di Stato che non finanzierà mai le idee più estreme o radicali. È un cinema costretto a stare dentro categorie che non prevedono lo scandalo, la provocazione, il turbamento. La grande arte ha sempre dato fastidio a qualcuno, l’idea che non debba offendere mi fa accapponare la pelle. Il politicamente corretto ha invaso anche gli Oscar, eppure ha senso di esistere nella società, non nell’arte».
C’è un Paese al mondo al quale dovremmo ispirarci perché è riuscito ad affermare una democrazia culturale? «Credo ci siano paesi messi un po’ meglio di noi, la Francia ne è un esempio: lì il cinema ha una frequentazione di massa per noi impensabile. Anche in alcuni paesi del Nord Europa, come Svezia, Finlandia, Danimarca, la partecipazione culturale è alta. C’è un approccio diverso: in Italia siamo del tutto analfabeti in due discipline che trovo fondamentali per capire il mondo contemporaneo, ovvero l’economia e la media literacy (alfabetizzazione mediatica - ndr). Noi siamo stati sanzionati più volte dall’Unione Europea perché non prevediamo questo insegnamento nelle scuole superiori. Per quattro volte i nostri governi, di destra o di sinistra che fossero, hanno pagato delle multe salate ma si sono guardati bene dall’introdurre un minimo di alfabetizzazione all’economia e ai media». Secondo lei perché? «Forse perché un popolo di incompetenti che credono di sapere tutto si governa e si manipola meglio di un popolo di competenti? A me il dubbio viene».
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MAPPA
DIECI CRISI NEL MONDO A cura di Andrea Dell’Oro, Pasquale Febbraro, Gabriele Lussu, Oscar Maresca, Giulia Zamponi _ SAHEL Scontri tra bande armate La regione del Sahel centrale, comprendente il Burkina Faso, il Mali e il Niger, è da anni teatro di violenza armata e degrado ambientale. L’UNHCR, l’Agenzia ONU per i Rifugiati, ha chiesto un’azione internazionale per porre fine agli scontri tra gruppi criminali, responsabili di 800 attacchi mortali e dello sfollamento di 2,5 milioni di persone. A complicare la situazione ci sono anche i cambiamenti climatici, che rischiano di sconvolgere ancora di più i fragili sistemi socioeconomici. NIGERIA Senza elettricità A fine marzo la Nigeria si è trovata costretta ad affrontare una gravissima crisi energetica, con il collasso della rete elettrica pubblica nazionale. Quasi 200 milioni di persone
si sono trovate senza luce, aggravando un contesto già segnato dall’esplosione dei prezzi dei carburanti e dalla scarsità di benzina in tutto il Paese. Ad aumentare sono anche i prezzi dell’acqua potabile, fenomeno che colpisce direttamente le famiglie più indigenti. SUDAN Esercito al potere Il 25 ottobre 2021 l’esercito del Sudan ha preso in mano il potere con un colpo di stato. Prima che questo avvenisse, il Sudan rappresentava uno degli ultimi tentativi di democratizzazione ancora in corso nel mondo arabo. La mossa ha scatenato manifestazioni di protesta in tutto il Paese, che sono state
HAITI Tentato colpo di stato A febbraio 2021, il governo di Haiti ha sventato un colpo di stato che aveva l’obiettivo di rimuovere il presidente Jovenel Moïse. Nella notte tra il 6 e il 7 luglio, Moïse è stato assassinato da un gruppo armato. Appare probabile che il delitto sia stato organizzato con la complicità di alcune persone a lui vicine. In questi mesi, inoltre, il costo di cibi essenziali come riso, farina, mais, fagioli, zucchero e olio vegetale è aumentato del 34%. L’ennesimo duro colpo per le fasce più deboli della popolazione.
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represse con l’uso della forza. I militari hanno arrestato il primo ministro Abdalla Hamdok e la moglie, oltre ad alcuni ministri e diversi funzionari del governo. Nel frattempo, vaste aree di confine, come il Darfur, sono oggetto di scontri di potere tra le forze armate ufficiali e gruppi armati locali di vario genere.
sanitaria. A combattere sono l’esercito federale e i ribelli, che da quasi un anno e mezzo stanno devastando non solo il Tigray ma anche le regioni Amhara, Afar, Benishangul-Gumuz e Wollega. Si parla anche di stupri e violenze di gruppo su donne e bambini.
ETIOPIA La guerra dimenticata Nella regione del Tigray, la più settentrionale delle dieci presenti nel Paese, si combatte da quasi due anni. È scoppiata una guerra civile che nessuno racconta: migliaia di morti, oltre due milioni di sfollati e nove milioni di persone che necessitano di assistenza
LIBANO Il ritorno del baratto Il Libano sta vivendo una drammatica crisi economicofinanziaria: per anni il Paese ha pagato gli interessi sul proprio debito pubblico attraverso altri prestiti, in un vortice progressivo di debito pubblico crescente. Fino al 2019, quando tale meccanismo ha iniziato a crollare e ha portato il Paese all’insolvenza nel marzo 2020. La dimensione della crisi economica è diventata così grande che molte famiglie sono tornate al baratto, vedendo il potere d’acquisto dei propri stipendi contrarsi di oltre il 90%. Oltre a questo, ha influito molto la pandemia da Covid-19, che ha generato anche una crisi umanitaria. Periodiche manifestazioni di protesta scoppiano in tutto il Paese e spesso sfociano in scontri armati contro le forze di sicurezza governative. Se la situazione non dovesse migliorare, è possibile lo scoppio di un conflitto interno.
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LAVORO
L’OROLOGIO
YEMEN Si continua a combattere Il Paese vive da otto anni una guerra civile in cui sono coinvolte forze locali in lotta per il potere, potenze regionali (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran) e anche internazionali. Quelli regionali e internazionali sono interessati al controllo, diretto o indiretto, dello stretto di Bab el-Mandeb (che collega il Golfo di Aden e il Mar Rosso). La carenza di cibo, acqua potabile e assistenza sanitaria, nonché la diffusione di colera e difterite, gravano sulle condizioni di vita dei civili e privano le famiglie dei bisogni primari. MADAGASCAR Il climate change è già qui È tra i Paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici con una siccità di proporzioni catastrofiche che miete vittime. Secondo le ultime stime, circa un milione di persone si trovano sull’orlo della carestia. Nel suo rapporto “Sarà troppo tardi per aiutarci una volta morti”, Amnesty International evidenzia l’impatto della siccità sul godimento dei diritti umani nel profondo sud del Madagascar, dove il 91% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. In vista della Cop26, l’organizzazione esorta i leader mondiali ad accelerare i lavori per
ridurre drasticamente le emissioni di gas serra e aiutare i Paesi in via di sviluppo.
SRI LANKA Default economico Il Paese asiatico è entrato ufficialmente in default, annunciando che avrebbe sospeso i pagamenti sui 35 miliardi di dollari che il governo deve ai creditori stranieri. In una nazione in cui il turismo rappresenta la più importante fonte di reddito, e quindi già fortemente penalizzata dalla pandemia, l’impennata dei prezzi dei generi alimentari e dell’energia, unito al risultato della perturbazione dei mercati delle materie prime causati dalla guerra in Ucraina, hanno inferto un altro gravissimo colpo, decretandone il fallimento.
FILIPPINE La furia del tifone Il super-tifone Rai, che ha colpito le Filippine il 16 e 17 dicembre 2021, ha provocato quasi 400 morti e oltre quattro milioni di sfollati e distrutto circa 482mila abitazioni. Il governo ha inoltre messo in guardia contro il rischio di malattie nelle zone colpite legato alle precarie condizioni igienico sanitarie: finora almeno centoquaranta persone si sono ammalate a causa di una sospetta contaminazione dell’acqua potabile.
La scadenza del Pianeta Terra
AAA cercasi risk manager
Di Gabriella Siciliano
Di Gabriella Siciliano
Da 75 anni il Doomsday Clock offre le sue valutazioni. L’Orologio dell’Apocalisse, ideato nel 1947 dagli scienziati dell’Università di Chicago, misura il tempo che resta da vivere all’umanità: più ci si avvicina alla mezzanotte, più si è prossimi alla fine del mondo. Questa clessidra metaforica ha annunciato più volte una catastrofe globale. In circostanze di rischio nucleare, in passato, siamo arrivati molto vicini alle 24. Il Bollettino degli Scienziati Atomici si occupa ogni anno di tenere il polso di questi eventi. Al momento della sua creazione, l’orologio fu impostato alle ore 23:53, sette minuti prima della mezzanotte; da allora, le lancette sono state spostate 22 volte. La massima vicinanza alla mezzanotte è stata raggiunta nel 2020, con appena 100 secondi dalla fatidica ora. Il continuo riarmo nucleare e la mancanza di azioni nel contrastare i cambiamenti climatici segnano un nuovo record verso la mezzanotte. Dal 2007, infatti, lo spostamento delle lancette è condizionato anche dai pericoli derivati dai cambiamenti climatici, dall’effetto serra, dall’inquinamento e dai nuovi sviluppi delle armi biologiche e dell’ingegneria genetica. A gennaio, l’organizzazione ha fissato il rischio a cento secondi da Armageddon. «L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e il controllo delle centrali nucleari fanno sì che l’umanità sia arrivata al punto più vicino di sempre alla autodistruzione nucleare», ha spiegato un portavoce.
Una crisi rischia di danneggiare la performance e la reputazione di un marchio. Per questo il “crisis management” diviene necessario per affrontare i problemi che si verificano durante il normale funzionamento di un’azienda. Un esempio? Difficoltà di comunicazione sui social o nei rapporti tra i dipendenti. Ci sono dei tratti di personalità e delle soft skills essenziali per avere successo nella gestione delle crisi, che sono richieste anche ai neoassunti. In primis: l’umiltà, che ci ricorda che non possiamo conoscere o comprendere tutto. Il crisis manager, o risk manager, lavora spesso in circostanze imprevedibili, per questo deve essere focalizzato non su se stesso ma sull’organizzazione. Date queste circostanze dovrebbe inoltre mettersi in gioco e chiedere aiuto se necessario. In secondo luogo, l’empatia: immedesimarsi nei panni degli altri per vedere le cose da una prospettiva diversa, ma anche rendere la propria posizione più valida. Così è più facile essere flessibili e capaci di riunire diversi fattori sotto un’unica soluzione. Necessaria, poi, anche l’abilità di mettere in discussione altri punti di vista con autonomia, sicurezza, riflessività e integrità. Tutto questo cercando di non ricadere nei propri bias esperienziali. La perseveranza, invece, viene richiesta soprattutto ai neoassunti, perché permette di fare esperienza e aiuta a risolvere i problemi attraversando le difficoltà che sorgono naturalmente in un’azienda.
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LAVORO
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CRISI ECONOMICA
Contro la povertà un lavoro solo non basta Il salario minimo può rappresentare una tappa sociale importante in Europa per far fronte alle fragilità del mercato del lavoro? Lo strumento non sarà obbligatorio e la sua efficacia nel quadro italiano è tutta da dimostrare Di Nicola Bracci, Francesco Lo Torto _ In Italia una persona su dieci non può permettersi le spese minime per condurre una vita accettabile. Il rapporto Istat pubblicato il 15 giugno parla di 5,6 milioni di individui che vivono sotto la soglia di povertà assoluta. Il dato fa riferimento al 2021 e conferma il massimo storico registrato nell’anno precedente. In linguaggio statistico si legge stabilità, in termini economici e sociali significa stagnazione. Il crescente disagio economico dei lavoratori e delle loro famiglie non sono solo una conseguenza contingente degli ultimi due anni di crisi. Alla precarietà dell’occupazione si sommano le scelte di quelle aziende che, nonostante il forte potere di mercato, hanno scaricato il contenimento dei costi soprattutto sui salari dei lavoratori. il salario minimo nel quadro italiano
Secondo un rapporto della Fondazione Di Vittorio Cgil, le retribuzioni in Italia nel 2021, seppur in crescita rispetto al 2020, non hanno ancora recuperato il livello pre-pandemico. Questo nonostante il balzo del Pil. Se nell’Eurozona il salario lordo annuale medio si attesta a 37,4 mila euro, +2,4%, quello italiano è di 29,4 mila euro. Confrontandolo con gli altri Paesi dell’Unione Europea, il dato italiano è inferiore di 10,7 mila euro rispetto a quello della Francia (40,1 mila euro) e di 15 mila rispetto a quello tedesco (44,5 mila euro). Anche alla luce di questi dati, la bozza della direttiva Ue sul salario minimo è stata accolta con entusiasmo da quella parte della popolazione che da anni si batte per ridurre le disuguaglianze economiche e sociali nel nostro Paese. L’intesa, che dovrà ora essere approvata in via definitiva da Parlamento e Consiglio Ue, ha l’obiettivo di favorire salari minimi adeguati nell’Unione e di dare nuova linfa alla contrattazione collettiva, rispettando le peculiarità nazionali. La bozza, infatti, non prevede l’obbligo di introdurre un salario minimo in tutti i Paesi Ue. Il Consiglio ha spiegato che
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la direttiva stabilisce le modalità per fissare e aggiornare un salario minimo adeguato per gli Stati che già lo hanno nel loro ordinamento. Al momento, il salario minimo legale esiste in 21 dei 27 paesi membri. Quelli che non ce l’hanno sono anche molto diversi tra loro: Italia, Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Svezia. «L’Ue suggerisce di introdurre il salario minimo associandolo alla contrattazione collettiva: qui, nel caso dell’Italia, si annida il principale problema», commenta Nicola Rossi, professore dell’Università di Tor Vergata. «Introdurre per legge un salario minimo creerebbe ridondanza a livello monetario - non normativo - con la contrattazione collettiva. Per come la vedo, si tratta di due approcci alternativi». La maggior parte dei lavoratori italiani è già coperta dal minimo salariale previsto dai CCNL di categoria, sottoscritti dai sindacati più importanti. Secondo le stime, i soggetti interessati da un’eventuale introduzione del salario minimo nel nostro Paese sarebbero il 20% degli occupati, la maggior parte dei quali operano in settori dove proliferano i contratti pirata. Stipulati con sindacati minori, questi accordi consentono al datore di lavoro di ottenere condizioni favorevoli nelle trattative. «Istituire il salario minimo legale significa dare alla politica il potere di stabilire il livello dei salari», ci spiega Lidia Undiemi, dottoressa di ricerca in Diritto dell’economia e consulente tecnico in materia di outsourcing e societarizzazioni. «Un potere che non gli spetta e che limiterebbe fortemente la capacità dei lavoratori di negoziare qualcosa di più rispetto a quel minimo. Potremmo assistere alla sostituzione della contrattazione collettiva». ingredienti di una crisi
Seppur presentato come strumento risolutivo nella diminuzione del disagio economico, il salario minimo, attorno al quale si è acceso un partecipato dibattito, difficilmente potrà avere un impatto decisivo sulle dinamiche strutturali della crisi italiana. Una crisi che riguarda l’intero sistema Paese, colpito da un forte aumento dell’inflazione che non trova
Il Quarto Stato. Giuseppe Pellizza da Volpedo (1901) Sotto: un’addetta alle pulizie a Montecitorio e un artigiano al lavoro (credits: Pexels)
CRISI ECONOMICA
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LAVORO
SCUOLA
Vittime dell’alternanza A cura di Greta Dall’Acqua
Lorenzo Parelli 18 anni, morto mentre svolgeva l’apprendistato in una ditta di termoidraulica
Due studenti morti da inizio anno. Nel 2022 ci sono state due nuove vittime dell’alternanza scuola-lavoro, un progetto introdotto dal governo Renzi nella riforma “Buona Scuola”. Gli studenti sono obbligati a seguire un percorso di formazione professionale, con l’obiettivo di arricchire l’aspetto didattico attraverso un’esperienza di lavoro sul campo. Tuttavia, i morti durante questi periodi di stage aumentano: gli ultimi due casi sono stati Giuseppe Lenoci, 16 anni, morto in un’incidente stradale mentre svolgeva l’apprendistato in una ditta di termoidraulica, e Lorenzo Parelli, diciottenne morto durante il suo ultimo giorno in un’azienda meccanica. Nelle principali città italiane gli studenti sono scesi in piazza per protestare contro l’alternanza scuola-lavoro in assenza di sicurezza. Tra le richieste anche le dimissioni del ministro dell’Istruzione.
SPETTACOLI risposta in una reale crescita dell’occupazione né tantomeno dei salari. E se il costo della vita aumenta e non si attivano adeguati contrappesi, la crisi è scritta. Il costo dell’energia, spinto prima dalla crisi pandemica poi dal conflitto in Ucraina, genera un effetto a catena per cui il maggior costo sostenuto dalle imprese per produrre viene scaricato a valle, erodendo risparmi e stipendi dei lavoratori. A maggio 2022 l’inflazione, già da mesi ben oltre livelli fisiologici, è tornata a crescere registrando un +6,8% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Un picco che non veniva raggiunto da novembre del 1990. Ad aprile 2022 il livello di occupazione arriva a sfiorare il 60%, con una crescita di 670mila unità sull’anno precedente. Un quadro in apparenza incoraggiante, ma scorporando i dati si ha piuttosto l’impressione che si tratti di un falso positivo. Tra i nuovi occupati oltre la metà è impiegata con contratti a termine. Sul totale della forza lavoro i contratti a tempo determinato superano i 3 milioni e 150mila toccando il valore più alto dal 1977. È dunque il precariato a trainare la ripartenza di un mercato del lavoro che si colloca agli ultimi posti in Europa per occupazione e tra i primi per percentuale di disoccupati che non cercano lavoro. Se infine si guarda alle retribuzioni, oggi il salario medio annuale italiano è inferiore a quello del 1990. I dati Ocse 2021 parlano di un calo del 2,9% che letto in relazione al contesto europeo assume un peso specifico ancora maggiore: l’Italia è l’unico Paese che presenta una curva negativa, a fronte di economie come quella francese o tedesca che registrano una crescita superiore al 30%. Nonostante la povertà e l’emarginazione sociale siano comunemente associate alla disoccupazione e all’inattività, negli ultimi anni sono aumentate le esperienze occupazionali per le quali il salario non è in grado di sollevare l’individuo dal disagio economico. Avere un impiego non basta per evitare la povertà.
L’ultimo concerto A cura di G.D’A.
L’Ultimo Concerto Flashmob per la ripresa della musica dal vivo
“L’ultimo concerto?” Si chiamava così il primo flash mob dedicato al settore della musica dal vivo, paralizzato dall’inizio della pandemia. Sulle pagine social dei club italiani hanno cominciato a comparire le facciate dei locali chiusi e un grande punto interrogativo sulla loro apertura. A distanza di poco più di un anno da quella protesta, il settore dello spettacolo fa ancora fatica a stabilizzarsi: all’inizio del 2022 le restrizioni Covid sono state allentate per permettere una graduale ripartenza, ma il governo non ha previsto più alcun sostegno economico emergenziale. Nonostante sia stato uno dei contesti più danneggiati dalla pandemia, questo settore non sembra essere più menzionato nell’elenco delle categorie destinatarie del Pnrr. I lavoratori hanno protestato perché si sono sentiti “sacrificabili”, tanto quanto l’intero sistema culturale italiano, ma la musica dal vivo continuerà a lottare per riavere il suo pubblico.
TRASPORTI
Lo sciopero della strada A cura di G.D’A.
Protesta degli autotrasportatori Autostrada Salerno-Reggio Calabria
Dalla Sicilia alla Puglia, lungo tutta la Salerno-Reggio Calabria, gli autotrasportatori hanno bloccato il traffico stradale per protestare contro l’aumento del costo del carburante. Si definiscono “professionisti della strada”, coloro che durante tutta la pandemia non hanno mai interrotto il loro lavoro e hanno continuato a rifornire gli italiani dei beni di prima necessità. Con l’aumento del prezzo del gasolio, i camionisti sono stati costretti a fermarsi e chiedere l’attenzione del governo. Oltre al costo della benzina andava sommato anche quello delle autostrade e della mancanza di continuità territoriale tra la Sicilia e la Calabria. Un rincaro che non ha tenuto conto del costo della vita e delle spese individuali di ogni lavoratore. Una condizione lavorativa che li ha spinti a protestare e a chiedere una riforma del settore degli autotrasporti.
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Scientist Rebellion
In mille per salvare il clima
Nato nel Regno Unito nel 2020, il movimento oggi raduna alcuni fra i migliori esperti di tutto il mondo. Il biologo Lorenzo Marini: «Facciamo le azioni in camice per rivendicare l’autorevolezza della scienza» Di Giorgia Colucci, Valeriano Musiu _ 6 aprile 2020. Un gruppo di scienziati, studenti e ricercatori ha occupato il piazzale davanti ai cancelli della raffineria Eni di Porto Marghera, a Venezia. L’obiettivo della protesta era mettere in discussione la strategia di decarbonizzazione dell’azienda. Alcuni di loro hanno incollato ricerche e studi scientifici sui muri della struttura. Altri si sono incatenati vicino ai cancelli d’ingresso, mostrando degli striscioni contro il cambiamento climatico. Altri ancora hanno messo in scena la morte della scienza: uno dei ricercatori, accasciato a terra, tentava di parlare mentre gli altri gli danzavano attorno, ignorandolo. «Gli operai volevano entrare, ma Eni aveva chiuso i cancelli - racconta il biologo Lorenzo Masin, uno dei partecipanti all’azione - Hanno iniziato a prendersela con noi. Ci hanno detto che quello che facciamo non serve a niente. È stato sconfortante». Questa è stata una delle prime azioni in Italia di Scientist Rebellion, un movimento che raduna più di 1000 scienziati e accademici in tutto il mondo. La loro filosofia è agire per dare voce a tutti quegli studi, paper e ricerche sul clima e sulla crisi ecologica che finora sono stati ignorati dalla politica. «Una delle cose più belle del movimento è che facciamo le azioni in camice - racconta Masini - È il simbolo che ci distingue: dà credibilità al nostro messaggio». Ad oggi, la temperatura media globale è aumentata di 1,2°C rispetto ai livelli preindustriali. Ma è solo apparentemente una buona notizia, perché la crisi climatica e il riscaldamento globale stanno già causando effetti devastanti. Come in India e Pakistan, colpiti da un’ondata di caldo che ha portato le temperature a sfiorare i 50 gradi, causando almeno 25 morti. Nel suo ultimo rapporto, Stato del clima globale nel 2021, l’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) ha sottolineato che il 2021 ha battuto ogni tipo di record negativo. Gli ultimi sette anni, inoltre, sono stati i più caldi mai registrati.
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Uno degli obiettivi principali di Scientist Rebellion è sensibilizzare sulla gravità della crisi climatica che sta colpendo il pianeta. Il movimento nasce nel 2020 nel Regno Unito su iniziativa di un gruppo ristretto di persone. Nella loro prima azione, gli attivisti hanno imbrattato la sede della Royal Society di Londra attaccando sui muri una serie di richieste. «Ma la prima azione vera e propria», racconta Masini, «è stata in occasione della COP26, quando alcune persone si sono incatenate a un ponte bloccandolo per cinque ore». Da quel momento, Scientist Rebellion si è diffuso a livello mondiale, anche grazie a personaggi di spicco come lo scienziato californiano Peter Kalmus. Sono stati coinvolti anche otto paesi africani: «SR si impegna per dare spazio e risorse ai gruppi che vengono da paesi con meno possibilità e che stanno già subendo gli effetti più gravi della crisi climatica», aggiunge Masini. Le iniziative concrete e dimostrative intraprese da Scientist Rebellion vogliono superare la barriera che c’è tra gli avvertimenti della comunità scientifica e l’azione politica. Perché se è vero che da una parte, come sostiene Masini, «i report scientifici sono spesso difficili da comprendere e questo allontana le persone, che a loro volta tendono a rifiutare le comunicazioni negative», dall’altra è altrettanto vero che la politica è restia ad ascoltare la scienza. «Il vero problema non è che la comunità scientifica ha difficoltà a comunicare, ma che la politica è sorda alle nostre richieste perché tutela interessi economici che poco hanno a che vedere con il benessere del pianeta», afferma Francesca Mezzenzana, 34 anni, antropologa sociale e ambientale all’Università di Monaco. «I rapporti scientifici si scontrano anche con il fatto che non siamo in grado di capire fino in fondo le conseguenze di questa crisi climatica. Ma a pesare è soprattutto il fallimento della politica, che nonostante gli avvertimenti non prende le misure necessarie per affrontare l’emergenza. Qualunque report sarà inutile se non riusciremo a superare questo muro»,
La protesta. Centinaia di scienziati e accademici di tutto il mondo si sono uniti agli scioperi per il clima
IPCC
Cosa succederà se continuiamo a non agire? Di G.C. e V.M. _ L’Ipcc (Intergovernamental Panel on Climate) lancia ancora una volta l’allarme riguardo al futuro che ci aspetta. Negli scorsi mesi, è stata pubblicata l’ultima edizione del report - il sesto dell’organismo scientifico delle Nazioni Unite - che traccia diversi scenari ai quali la Terra andrà incontro se non si dovessero rispettare gli Accordi di Parigi del 2015.
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continua Mezzenzana. Di qui, la necessità di aderire a un movimento come quello di Scientist Rebellion. «Lo scienziato dovrebbe avere il dovere morale di agire - spiega Masini - Se nemmeno noi diamo l’esempio, come possono farlo le persone là fuori?». L’amore per la natura minacciata, sviluppato anche grazie agli studi al circolo polare artico, e «conoscenze per capire la gravità della situazione» hanno trovato uno sfogo nell’attivismo. Una storia simile a quella di Mezzenzana: «Mi sono unita a Scientist Rebellion dopo aver assistito a cambiamenti ambientali piuttosto grossi: alluvioni e un degrado generale della fauna e della flora». Per dieci anni infatti ha lavorato in Ecuador e ha visto come il cambiamento climatico e le industrie petrolifere minacciano la Foresta Amazzonica e le popolazioni che la abitano. «Quando è stato pubblicato il primo report delle Nazioni Unite mi sono chiesto come una prova scientifica così chiara potesse passare inosservata - racconta - Non sapevo cosa fare. Poi attraverso un collega ho iniziato a partecipare agli incontri di SR. Mi è sembrata la sola maniera di dare il mio contributo». L’ultima azione del gruppo tedesco di Scientist Rebellion è stata alla Deutsche Bank. «Ha investito 85 milioni di euro in imprese petrolifere, ma sta cercando di convincere l’opinione pubblica a finanziare solo energie rinnovabili». Gli scienziati sono entrati in una filiale e hanno ricoperto una mappa, all’entrata, con studi e articoli che contraddicevano le dichiarazioni della banca. «Non abbiamo dati quantitativi per comprendere l’impatto delle nostre campagne», afferma Mezzenzana. «Ovviamente preferiremmo restare a lavorare e studiare, al posto di rischiare l’arresto. Ma lottiamo per quello in cui crediamo». Il gruppo non si limita solo alla disobbedienza civile. Organizza anche lezioni in biblioteche e università: «Dobbiamo coinvolgere più persone possibili», soprattutto tra le nuove generazioni che subiranno in misura maggiore le conseguenze del cambiamento climatico.
1. SCIOGLIMENTO DELL’ARTICO
2. ONDATE DI CALDO ESTREMO E SICCITÀ
3. CORALLI E ALTRE SPECIE A RISCHIO
Con un aumento delle temperature oltre i 2 °C al Polo Nord, sarà dieci volte più probabile che i ghiacci si sciolgano completamente durante il periodo estivo. Numerose specie come balene, foche, orsi polari e uccelli marini saranno in pericolo. Si prevede anche un innalzamento medio di 10 centimetri degli oceani, che potrebbe spazzare via migliaia di isole nell’Oceano Pacifico e sommergere intere città come Jakarta. Il governo indonesiano sta già correndo ai ripari per “spostare” la capitale e i suoi 10 milioni di abitanti.
Le ondate di caldo saranno sempre più frequenti e prolungate. Saranno più estesi anche i periodi di siccità. Molti paesi del Mediterraneo potrebbero avere una riduzione del 9% dell’acqua disponibile con un aumento delle temperature a 1,5 °C, mentre nel caso di un aumento di 2 °C, si arriverebbe addirittura al 17% di acqua in meno. Le conseguenze riguarderanno anche l’agricoltura: i processi di desertificazione dei terreni saranno tra le 10 e le 100 volte più veloci rispetto a quelli per ottenere nuove terre coltivabili.
Già nello scenario attuale si sta verificando una scomparsa di massa dei coralli e degli organismi che popolano il loro habitat. Molte altre specie - in mare e a terra - saranno penalizzate, a causa delle condizioni climatiche sempre più estreme. Sono a rischio scomparsa il 6% degli insetti, l’8% delle piante e il 4% dei vertebrati. Tra questi, anche alcuni esemplari presenti da millenni sul nostro pianeta. Se la temperatura dovesse aumentare di 2 °C rispetto al periodo pre-industriale, queste percentuali potrebbero addirittura raddoppiare.
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Di Gianluca Brambilla, Viola Francini _ Nel 2021, un adolescente su quattro ha sperimentato sintomi depressivi. Uno su cinque manifesta problemi legati all’ansia o al panico sociale. È questa la fotografia fornita dall’ultimo rapporto dell’Osservatorio nazionale sull’adolescenza. Questi dati non rappresentano certo una novità, ma confermano una tesi che da anni ormai si fa largo tra gli esperti: i disturbi legati alla salute mentale sono in continuo aumento, soprattutto tra i giovani. Professor Lancini, tutte le ricerche sembrano dimostrare un continuo aumento delle richieste di terapia, soprattutto tra i più giovani. È colpa della pandemia? «Non del tutto. Credo sia importante sottolineare che la pandemia ha esacerbato e reso evidenti segnali che già erano presenti. Altrimenti si finisce per legittimare la tendenza degli adulti di individuare prima in internet e ora nel Covid la responsabilità di una sofferenza generazionale. L’aumento di richieste di supporto psicologico da parte dei giovani e dei giovani adulti era evidente sia nei servizi pubblici che privati già diversi anni prima dello scoppio della pandemia».
MATTEO LANCINI È psicologo, psicoterapeuta e docente all’Università Milano-Bicocca. Presidente della Fondazione Minotauro, è direttore del Master “Prevenzione e trattamento della dipendenza da internet in adolescenza”. È autore di numerose pubblicazioni sull’adolescenza. L’ultimo suo libro è “L’età tradita” (Cortina editore, 2021).
a fenomeni come il cyberbullismo, il sexting o la sovraesposizione in rete. La maggioranza, invece, rivolge tutto verso l’interno: oggi è più difficile trovare adolescenti ribelli. Se cresci in una società in cui i sensi di colpa e la sessualità repressa diventano la norma, i problemi sono evidenti». È per questo che parla di “età tradita”? «Il tradimento consiste in parte sul fatto che costruiamo, durante l’infanzia, modelli ideali che poi con l’arrivo dell’adolescenza vengono totalmente disattesi. Il vero problema però è un altro e ha a che fare con un doppio processo: l’adultizzazione dell’infanzia e l’infantilizzazione dell’adolescenza. In altre parole, trattiamo i bambini come se fossero degli adulti, ma – una volta che diventano adolescenti – torniamo a trattarli come bambini. Nel post pandemia tutto questo è ancora più evidente. Per due anni si sono fatte lezioni tramite pc e smartphone. Oggi, con il ritorno in presenza, si è tornato a chiedere ai ragazzi di non portare a scuola i propri cellulari e computer, che oggi sono strumenti indispensabili per entrare nel mondo del lavoro. Se io trattassi i miei studenti universitari come vengono trattati al liceo, il rettore mi caccerebbe».
Come si esce da questa situazione? «Dobbiamo abbandonare Quali sono i disturbi più modelli educativi stereotifrequenti oggi? pati e iniziare a farci carico «In genere si tratta di didei problemi di questa genesturbi che hanno a che fare razione. Altrimenti i risultati Intervista a con l’attacco al corpo, che è sono evidenti: il suicidio è Matteo Lancini diventato il megafono di un diventata la seconda causa di dolore che non trova espresmorte giovanile in Italia. Se la sione altrove. Nelle ragazze si scuola torna alla normalità di nota soprattutto un aumento prima, vedremo un aumento dei disturbi del comportadell’abbandono scolastico. La mento alimentare. L’equivascuola dovrebbe essere aperlente maschile, invece, è il ta 24 ore al giorno e diventare ritiro sociale, collegato anche un luogo di ritrovo, anche per al fenomeno degli hikikomocombattere la povertà eduri. Poi ci sono i tagli, i gesti cativa e digitale. Le famiglie, autolesivi e i tentativi di suipoi, dovrebbero interessarsi cidio. Gli adolescenti di oggi alle scelte virtuali dei propri non sono più trasgressivi. Di figli e parlare con loro del dofronte al senso di inadeguatezza che provano, preferisco- lore e del fallimento. Oggi c’è grande difficoltà da parte dei no attaccare se stessi. Io mi auguro che si arrabbino e ci genitori nel vedere i figli per chi sono veramente. Bisogna taglino la testa. Fino ad ora, però, riversano tutto su di sé». togliere l’idealità e spiegare loro che esistono gli inciampi, i fallimenti, la morte. Per quanto riguarda la politica, infine, Lei sostiene che oggi gli adolescenti abbiano sostitui- sono ancora troppo pochi i ragazzi che vengono coinvolti to la rabbia con la delusione. Come è successo? attivamente nei processi politici, anche a livello locale. «Tutto nasce dal processo di identificazione con i propri genitori, che gli hanno sempre chiesto di essere bambini L’impressione è che le nuove generazioni si stiano abirelazionali, socievoli, espressivi. Fino a qualche decennio tuando a vivere in uno stato di crisi su più fronti. fa, in famiglia, la norma era la sottomissione all’altro. Oggi «Non so se si stanno davvero abituando. È certo che la defiinvece la società prevede che bisogna avere tanti amici fin nizione dell’identità è cambiata: i giovani di oggi dovranno dall’asilo nido. È un modello che spinge – fin dalla più te- crescere in una società liquida, in cui definirsi non è più nenera età – a cercare il successo personale, anche a costo di cessario. Oggi la nuova normalità è essere fluidi. La capacità prevaricare l’altro». di adattarsi, non solo nel mondo del lavoro ma nella vita, è il modo in cui i ragazzi sopravvivono. La difficoltà più granE cosa succede con l’arrivo dell’adolescenza? de credo che non sia dover crescere in una crisi continua, «Succede che, raggiunta una certa età, sviluppano una for- quanto il fatto di doversi sempre modificare per stare al te delusione rispetto alla mancanza di successo. Alcuni ma- passo con una società che si muove a una velocità inarrenifestano questa sensazione verso l’esterno, contribuendo stabile verso obiettivi che ancora non conosciamo».
«I GIOVANI? SEMPRE MENO RIBELLI E PIÙ DISILLUSI»
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IL FENOMENO
Fear of missing out: quando restare esclusi diventa più di una paura Di Carlotta Bocchi e Eleonora Di Nonno “Con i se e con i ma la storia non si fa”. Il proverbio è chiaro: non si può cambiare il corso degli eventi facendo delle ipotesi. Inutile rimuginare sul passato o piangersi addosso. Nel nostro mondo tutto social, però, è difficile. Rimanere a casa, scrollare il feed di Instagram e accorgersi che quasi tutti i nostri amici sono a un evento - mentre noi invece no - potrebbe trasformarsi in qualcosa di ben più grave che una tristezza passeggera. FOMO - Fear Of Missing Out, letteralmente “paura di perdersi qualcosa” - è il nome di quella sensazione che rimane addosso quando ci si rende conto che tutti fanno qualcosa, tutti mostrano qualcosa a differenza tua. Nel palcoscenico dei social rimanere dietro le quinte non è un’opzione contemplabile, così molto spesso ci si autoimpone di uscire per poi pentirsene e voler tornare a casa. Il termine venne coniato da Patrick J. McGinnis nel 2004, nel libro “FOMO Sapiens”, che spiega esattamente quali siano i meccanismi che si innescano nella mente delle persone che si trovano ad affrontare questo disagio. Depressione, sensazione di “star perdendo qualcosa”, ripensamenti. In altre parole, la paura di essere tagliati fuori. Il termine “FOMO” è stato coniato da Patrick J. McGinnis nel 2004
Da un punto di vista scientifico le componenti sono duplici: l’ansia relativa alla possibilità che gli altri possano avere delle esperienze piacevoli e gratificanti dalle quali si è assenti e il desiderio persistente di essere in contatto con gli altri attraverso il social network.
C’è una personaggio, Blitz, che nella serie tv “How I met your mother” si avvicina molto alla perfetta incarnazione della FOMO. La maledizione di Blitz è uno stigma che porta le vittime a perdersi eventi epici, strabilianti, miracolosi, che accadono subito dopo il loro allontanamento. La differenza tra Blitz e FOMO, però, consiste nel fatto che, mentre in “How I met your mother” gli eventi clou accadono quando il personaggio è assente, nella vita reale queste situazioni ci scorrono davanti agli occhi attraverso lo schermo piatto dei nostri smartphone. Secondo il Censis - Istituto italiano di ricerca socioeconomica - l’89% dei giovani usa un telefono cellulare e la FOMO affligge più della metà degli utenti dei social network, cioè proprio quella fascia di popolazione compresa tra i 18 e i 33 anni. Un sondaggio della Australian Psychological Society ha rilevato che circa i due terzi delle persone di quest’età hanno ammesso di sperimentare regolarmente la FOMO.
Il sondaggio. Secondo il Censis, la “Fear of Missing Out” affligge più della metà degli utenti dei social network
Mens sana in corpore sano. La salute mentale è, al pari della salute fisica, parte essenziale della nostra vita. Due facce della stessa medaglia: quella del benessere. Per questo motivo, dato il senso di finzione, alienazione e dipendenza che creano i social network, sono in molti a promuovere la JOMO, l’opposto della FOMO. Joy of Missing Out, ovvero la “gioia di essere tagliati fuori”. Un invito a disconnettersi, a lasciare il telefono a casa e a perdersi i momenti di vita degli altri per crearne di propri e di originali. Tutto questo senza il timore di non essere “social”.
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Inter-realtà, dove il like sta cambiando la socialità Per gli psicologi questo nuovo mondo è il prodotto dell’unione tra dimensione fisica e digitale. A farne le spese sono gli elementi cardine della quotidianità Di Kevin Bertoni, Maria Oberti _ Nella storia dell’umanità le crisi sono sempre state un momento di profondo cambiamento che in un modo o nell’altro si riversa in tutte le strutture umane modificando l’ordine fino ad allora costituito. L’effetto è molto visibile nel grado di evoluzione tecnologica che caratterizza una determinata società, prima e dopo una crisi. In reazione a un evento di difficoltà l’innovazione subisce una forte accelerazione perché lo stato di necessità e urgenza ha bisogno di soluzioni e invenzioni immediate a cui contribuiscono contemporaneamente tutti gli attori sociali. Questo è esattamente ciò che è avvenuto anche durante la pandemia da Covid-19 dove la situazione emergenziale ha modificato profondamente, e forse irreversibilmente, il nostro rapporto con la realtà. I frequenti lockdown, la necessità di isolamento e la mancanza di contatto fisico hanno potenziato l’utilizzo del digitale in tutti gli ambiti e trasportato le nostre attività nel mondo virtuale con una velocità mai vista prima. Dunque, l’isolamento forzato ha obbligato miliardi di persone a reinventare la propria socializzazione tra le mura domestiche. La realtà fisica ha La previsione. Secondo gli esperti, realtà fisica e virtuale diventeranno quasi indistinguibili
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così continuato a perdere appeal fino a diven- crisi che colpisce le basi concettuali dei luoghi tare una parte marginale della nostra giorna- e l’importanza che questi hanno per le persota. Per le aziende Big Tech (Microsoft, Apple, ne: «I luoghi hanno due funzioni principali Facebook, ecc) si è trattato un assist colto al per l’esperienza dell’individuo: sono la base volo: lo sviluppo della produttività su tutto della memoria fotografica e generano comuciò che riguarda la realtà virtuale è aumenta- nità. Le persone sono i luoghi che frequentano to vertiginosamente. Si è arrivati a un punto e dal momento in cui non è stato più possibile dove «la distinzione netta tra andarci fisicamente è diventarealtà virtuale e reale è, di to difficile definire la specififatto, caduta», come spiega cità di ogni persona. Nelle coGiuseppe Riva, professore Ormunità fisiche - analizza Riva Il mondo fisico dinario di Psicologia Generale - ci sono dei meccanismi di all’università Cattolica di Misincronizzazione che permetfacilita l’incontro lano. Secondo Riva si è sviluptono a soggetti molto diversi con il diverso, pato un nuovo mondo con un tra loro di instaurare delle nome specifico: «Da noi psirelazioni. Invece online si inmentre online cologi è chiamato inter-realtà, contrano persone che condiparliamo solo perché digitale e fisico sono vidono la stessa visione». Data strettamente correlati. Porta la specificità delle piattaforme con i nostri simili con sé una serie di trasformasocial, di smartworking, del zioni anche dal punto di vista metaverso, si genera una polaantropologico, si sono modificate le modalità rizzazione di persone che stanno insieme soladi interazione con gli altri e della propria iden- mente per una motivazione condivisa. Si entra tità». in un’echo chamber che, al contrario di ridurre le distanze tra gruppi sociali, porta solo a uno la crisi concettuale dei luoghi stato di isolamento ideologico degli individui. Nell’antica Grecia l’Agorà era il cuore pulsan- La visione d’insieme di Riva è chiara: «Siamo te della città. Il luogo di aggregazione per ec- in un paradosso. L’aumento delle connessioni cellenza, dove si formavano le comunità. Per non ha migliorato la qualità delle relazioni». anni il concetto di piazza e, in particolare, di luogo si è rivelato centrale per lo sviluppo e io reale vs io virtuale l’intreccio di relazioni umane. Con l’ingresso La costruzione dell’identità personale non didella società nell’inter-realtà, ovvero il com- pende solo dal contesto geografico e sociale di binato disposto di realtà fisica e virtuale, il provenienza, ma anche da come e quali media senso di luogo è quello entrato più in crisi. La utilizziamo per esprimere noi stessi. Come tepandemia e la relativa impossibilità di recarsi orizzava il sociologo Marshall McLuhan ne “Il fisicamente nei luoghi ha accentuato lo «spo- medium è il messaggio” i mezzi di comunicastamento digitale», come definito da Riva. Una zione, alterando l’ambiente, alterano il modo
CRISI DELLA REALTÀ FISICA
in cui pensiamo e agiamo, quindi se questi rapporti cambiano, cambiano anche gli uomini. Rapportarsi con l’altro in una dimensione teoricamente infinita e impalpabile come il web causa una mediazione continua con la propria identità, volta alla massimizzazione della propria piacevolezza. Come spiega il professor Giuseppe Riva, infatti, «io posso essere chi voglio nella realtà virtuale. Il grande successo di piattaforme come Instagram o TikTok è il fatto di poter presentare sé stessi nel miglior modo possibile tramite i filtri. Questo può spingere le persone a preferire la possibilità di essere sempre online dove poter controllare maggiormente come apparire». Una delle caratteristiche strutturali dei social network inoltre è il confronto sociale. Qualunque azione online porta sempre a una comparazione con gli altri utenti, basti pensare all’utilizzo del like. Per Giuseppe Riva il vero problema delle
WALL-E. Il film di animazione Disney Pixar racconta le vicende di un robot che in un lontano futuro è l’unico abitante del pianeta Terra
comunità digitali è che «il confronto sociale prevale sull’azione sociale: sulle piattaforme è più importante avere un feedback positivo dalle persone che guardano quello che faccio piuttosto che fare cose insieme a loro». Questo meccanismo può creare ansia e ritiro sociale quanto più si è esposti al giudizio online. Il bilanciamento tra spontaneità e conoscenza dei mezzi di rappresentazione diventa quindi fondamentale per un’esperienza virtuale positiva. Secondo gli esperti, l’utilizzo della realtà aumentata verrà incrementato notevolmente in futuro fino a creare una realtà comune tra fisico e virtuale, quasi indistinguibile. Un’inter-realtà più ricca, più coinvolgente, ma più incontrollabile. Se diventassimo incapaci di disconnetterci il rischio sarebbe quello di non riuscire più ad accettare anche la realtà semplice, fisica e finita, vivendo alla ricerca continua dell’apparente realtà perfetta.
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IL CASO
AI senziente: normalità o degenerazione?
Di Maria Oberti _ «La cosa triste dell’intelligenza artificiale è che manca di artificio e quindi di intelligenza». È ciò che pensava il sociologo Jean Baudrillard all’inizio degli anni duemila. Un’affermazione più che condivisibile dal momento che l’intelligenza è una dote assolutamente umana e si fonda su fattori intrinseci alla nostra natura civilizzata, come l’empatia. Comportamenti spontanei che non si possono insegnare a una macchina, nella quale si possono solo immettere dati e indurre una rielaborazione. Tutto vero, ma cosa succede se un ingegnere di Google ammette pubblicamente che un chatbot interno ha dimostrato la capacità senziente di un bambino di 8 anni? Blake Lemoine è stato messo in sospensione retribuita dal colosso tech per aver tentato in tutti i modi di dimostrare questa allarmante, ma non così imprevedibile, tesi. Lemoine ha affermato che le sue interazioni con il software gli hanno dato l’impressione che le risposte ricevute non fossero solo il risultato di un processo di machine learning (una macchina impara continuamente rielaborando i comportamenti che le vengono mostrati). Il chatbot sarebbe invece in grado di rielaborare le informazioni per creare un pensiero cosciente e manifestare una volontà. Google ha smentito ogni dichiarazione, ma l’episodio ha dato il via a un dibattito internazionale sull’effettivo avanzamento della tecnologia in ambito di coscienza artificiale. Non mancano ovviamente poli estremisti, da chi prevede l’arrivo del nuovo Terminator a chi ridimensiona l’episodio nel quadro del più basilare funzionamento dell’intelligenza artificiale. Fuori dal contesto specifico le affermazioni di Lemoine possono apparire rivoluzionarie, ma nella pratica accompagnano il processo di umanizzazione che le aziende tecnologiche stanno sviluppando per rendere le macchine sempre più collaborative e compatibili con l’essere umano. D’altro canto non si chiama proprio intelligenza artificiale?
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CRISI SPORTIVA
Siamo nel pallone La sconfitta contro la Macedonia ha messo a nudo, ancora una volta, i problemi del calcio italiano. Una crisi che, secondo Riccardo Trevisani, è iniziata con la vittoria del mondiale nel 2006 Di Kevin Bertoni, Umberto Porreca _ Il calcio italiano è in crisi. Al triplice fischio di Italia-Macedonia, che ha sancito l’addio al Mondiale di Qatar, il pensiero di ogni appassionato è stato lo stesso: un ciclo è finito, un altro deve cominciare. Non solo un problema di campo, ma qualcosa di ben più capillare e diffuso. Dalle stanze del potere fino a quelle della politica, il movimento attraversa da anni un periodo nero. Nonostante qualcuno faccia finta di niente. dalle stelle alle stalle
I vari aspetti della crisi del pallone vanno analizzati uno per uno, pur essendo tutti collegati. Il calcio non è mai stato uno sport redditizio per gli investitori e fino al 2010 è rimasto nella sua zona franca di “giocattolo per ricchi”. Negli anni ‘80, golden age del calcio italiano,
gli investimenti furono colossali. Il primo fu Silvio Berlusconi che, alla guida del Milan, riversò enormi capitali sul mercato portando in Italia campioni come Gullit e Van Basten. Non solo lui, ma tutte le società italiane dalle big alle piccole acquistarono i migliori calciatori del mondo. Basti pensare all’approdo di Maradona al Napoli, di Zico all’Udinese e Falcao alla Roma. Durante questo periodo altri campionati come Bundesliga e la neonata Premier League idearono progetti ultraventennali per la promozione e la crescita del loro calcio. In Inghilterra ogni squadra si dotò di un proprio stadio, la Germania propose riforme innovative che coinvolsero i tifosi nelle proprietà e obbligarono investimenti nei giovani calciatori tedeschi.
si è dato peso al fatto che tante società avessero stadi fatiscenti e altre faticassero a iscriversi. Tutto questo ci rendeva molto diversi dai maggiori campionati europei». Quindi, la vittoria della Champions di Milan nel 2007 e il triplete dell’Inter nel 2010 furono solo miseri palliativi. Dall’inizio del XXI secolo, infatti, il paragone tra Italia e altri maggiori campionati è diventato umiliante: i club iberici hanno conquistato 33 trofei continentali, l’Inghilterra 13, l’Italia solo 6. Un divario abissale. la drammatica situazione attuale
Oggi il calcio italiano è un movimento che vive di successi estemporanei e di continui fallimenti. I soldi sono pochi, le infrastrutture sono quasi tutte pessime, la burocrazia e la politica bloccano Da lì a qualche anno gli ogni tentativo di costruire nuoequilibri iniziarono lentavi impianti. Secondo Trevisani In Italia mente a ribaltarsi in maniequesto momento rischia di pernon sappiamo ra inesorabile. Per Riccardo durare: «Quello che mi preoccuTrevisani, giornalista e teleè che nessuno metta un freno dimetterci e ripartire. pa cronista sportivo, il punto di alla situazione attuale. Abbiamo Negli altri Paesi rottura ha una data precisa: vinto l’Europeo, quindi se poi «Il 2006. È iniziato tutto con la Macedonia vince in casa tua il ricambio la vittoria del Mondiale. Il nello spareggio mondiale si sorè la normalità calcio italiano arrivava da un ride dicendo “Va bene perché periodo florido, dove Milan, è iniziato un nuovo percorso”? Juve e Inter erano protagoSembra un paese dove nessuniste in Europa. Con la vittoria del Mondiale no molla la poltrona e non ci si sa dimettere, c’è stato un pensiero comune che andasse tut- azzerando e ripartendo. Siamo molto indietro to bene. In realtà, a livello di nazionale non ci rispetto agli altri paesi. Molto». si è resi conto che Spagna, Francia e Germania ci stavano superando. Mentre in Serie A non Il quadro si aggrava ancora di più. Storicamente il calcio nostrano non ha mai imparato dai propri sbagli. A tal proposito Trevisani ricorda: «Si fanno sempre gli stessi errori. Ad esempio, nel 1982 vinciamo il Mondiale di Spagna, nel 1986 Bearzot si presenta con gli stessi in Messico e facciamo una figura barbina. Stesso discorso per il Mondiale del 2010, dopo la vittoria nel 2006. Nel 2021 vinciamo l’Europeo, ma la programmazione del nuovo ciclo non è iniziata subito cambiando quello che non funzionava. Si è concesso un altro anno a una squadra che ha palesato difficoltà sia contro la Spagna che contro l’Inghilterra, vincendo due volte ai rigori. C’erano tante cose da cambiare e poco da conservare in quella Nazionale». Dagli anni Ottanta ad oggi, quindi, la situazione del calcio italiano è andata via via peggiorando: sono rimasti alcuni colpi di coda, ma i problemi strutturali hanno preso il sopravvento scavando l’attuale solco esistente con gli altri top campionati europei. Servono interventi decisi a tutti i livelli: infrastrutturali, economici e di riforme. Altrimenti l’abisso qualitativo che ci separa dagli altri maggiori tornei nazionali andrà sempre più espandendosi fino a diventare incolmabile. Flop. Nonostante la vittoria agli Europei del 2021, il sistema calcio italiano è ancora in crisi
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MASTERX
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LUGLIO 2022
EVENTI
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IULM
L’INCONTRO
Favino, Martone e la nostalgia A cura di V.B. _
Il rendering. Nel 2024 il campus si arricchirà di un nuovo edificio innovativo di 5 mila metri quadrati
BENVENUTO IULM 8 Un investimento di 20 milioni di euro per ampliare il Campus universitario. Il rettore Canova: «Sarà un edificio iconico, ricoperto di porcellana bianca e sollevato dal suolo»
Di Valeria Boraldi _
Iulm 8, l’innovativo blocco che farà parte del Campus dell’Università IULM a Milano, sorgerà all’incrocio tra via Santander e via Svevo. Il disegno della nuova struttura è stato mostrato dal Rettore dell’Ateneo, il Professore Gianni Canova, durante la cerimonia d’inaugurazione dell’anno accademico, tenutasi il 28 febbraio 2022. Il progetto, ancora sotto forma di proposta, dovrebbe svilupparsi su cinque piani e ospitare anche spazi per il co-working, oltre a un’ampia terrazza pronta per accogliere l’organizzazione di lezioni a cielo aperto, eventi rivolti alla città e mostre, coinvolgendo anche lo scalone ideato per il primo piano e pensato come un anfiteatro. Queste elaborazioni sono state messe su carta dopo l’esperienza pandemica da Covid-19. Il nuovo edificio è stato concepito anche per accogliere nuove tipologie di corsi che il mercato richiede, come Moda e Industrie Creative: «Abbiamo bisogno di nuovi spazi», dichiara il Rettore, «Puntiamo ad aprire IULM 8 nel 2024». Spazio come nuova merce rara anche per l’Università IULM, che sta portando avanti riflessioni dettagliate, insieme al personale
tecnico del Comune di Milano, per capire la possibile ed effettiva realizzazione del disegno proposto per l’ampliamento del Campus universitario. «L’investimento complessivo dovrebbe aggirarsi intorno ai 20 milioni di euro», racconta Gianni Canova. L’opera, affidata allo Studio Citterio Viel, dovrebbe occupare cinquemila metri quadrati - nella stessa area in cui già sorge l’intera Università - di cui 3.200 calpestabili, che si svilupperebbero su due piani con tre aule da 300 posti ciascuna, più un terzo piano in cui si implementerebbero dei laboratori. Il nuovo edificio sarebbe collegato al giardino del complesso esistente attraverso Piazza Pivano e via Calindri. Un blocco dalle caratteristiche spaziali e altamente moderne, concepito anche per rispondere a quel + 8% di iscrizioni del 2022, all’aumento del 48% - dal 2015 - degli studenti delle Lauree Triennali e al raddoppio di quelli delle Magistrali. «Siamo in una drammatica crisi logistica, non sappiamo più dove mettere gli studenti», spiega il Rettore Canova, il cui operato prende in considerazione già più di 7.000 iscritti. Restiamo in attesa dell’anno 2024 per assistere all’inaugurazione dell’edificio sospeso, sicuri che contribuirà a mantenere alte l’immagine e la reputazione dell’Università di cui farà parte.
L’attore Pierfrancesco Favino (foto) e il regista Mario Martone hanno incontrato, giovedì 9 giugno, gli studenti dell’Università IULM per raccontare il loro ultimo film, “Nostalgia”. In Auditorium una platea di oltre 350 persone. Nostalgia, presentato in concorso a Cannes 2022, è sia un thriller che una lettera d’amore per Napoli, città d’origine di Martone – il quale l’osserva e l’esplora attraverso l’omonimo sentimento - e del protagonista Felice, interpretato proprio da Favino.
LA FESTA
Dopo due anni torna il Gala A cura di V.B. _ Martedì 14 giugno 2022, alle ore 19.30, è tornato il Gala IULM. La Rappresentanza Studentesca e Youlmovement hanno accolto i partecipanti in Ateneo, a un aperitivo di benvenuto, seguito da un buffet. Il tutto è stato accompagnato da musica live, che ha portato in scena anche alcuni tra i migliori artisti IULM. Cornice del magico evento tanto atteso, terminato alle ore 23, le fontane di IULM 1. L’After Gala ufficiale si è tenuto al Just Cavalli.
GENNAIO LUGLIO 2016 2022 | LABIULM | MASTERX | 20
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Marco Capovilla docente al Master in giornalismo IULM
©Archivio storico Fondazione Corriere della Sera
Déjà-vu “Non bastano le apprensioni per la crisi alimentare, le difficoltà per la nostra pace, le richieste della Francia, il tira e molla dei quattro “grandi”, ecc. Ci voleva anche la minaccia delle cavallette…”. Inizia così l’articolo intitolato “Il flagello delle cavallette”, pubblicato il 2 giugno 1946 a pagina 3 de La Domenica del Corriere, tema già anticipato nella copertina. Dunque, ciò che sta accadendo in queste ultime settimane in Sardegna, accolto dallo sfogo corale “Ci mancava solo l’invasione delle cavallette!” (ottava delle dieci piaghe d’Egitto di biblica memoria), non è poi una novità assoluta. Questo déjà-vu non dovrebbe ovviamente portare a sottovalutare la gravità del fenomeno, ma sicuramente induce a riflettere sulla scarsità o l’inefficacia degli interventi volti a prevenire questa ennesima, prevedibile recrudescenza. (Nella foto in basso a destra, un esemplare di Dociostaurus sp. di Gilles San Martin, Wikimedia Commons)