Ciro Pinto
L’uomo che correva vicino al mare
Prima Edizione: 2014
ISBN 9788898037483 © 2014 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di xxxxxxxx 2014 in Italia da xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)
I luoghi descritti, i nomi delle persone citate e le vicende narrate non hanno alcun riferimento con la realtĂ .
INDICE
Prefazione I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV XV XVI XVII XVIII XIX XX XXI
7 15 27 37 43 53 59 67 75 85 93 101 109 121 129 137 139 147 151 157 163 169
XXII XXIII XXIV XXV XXVI XXVII XXVIII XXIX XXX XXXI XXXII XXXIII XXXIV XXXV XXXVI XXXVII XXXVIII
175 179 183 189 193 205 209 213 219 223 227 229 233 237 241 245 249
PREFAZIONE
L’uomo che correva vicino al mare non è un libro qualunque, ma un libro che ti lascia diverso da come ti ha trovato, sicché anche il lettore più distratto non può non convenire che ha davanti un testo di eccezione, che tocca le corde più intime e risveglia da quel sopore emotivo nel quale talora ci sembra di scivolare. In un secolo superbo e sciocco quale il nostro, con Pinto si ritorna ai valori sani della vita, incorniciati entro quadri familiari di profondo spessore umano e sentimentale. Il testo esprime tutto il vitalismo dell’autore, e la consapevolezza del dolore legato al “mestiere di vivere” non spegne l’ardore dei personaggi che non si danno per vinti, nonostante il rimpianto o la nostalgia o forse proprio grazie a questi. Il tema del mare accompagna il romanzo come archetipo a cui si cerca disperatamente di tornare, come se nel mare il personaggio, Giorgio Perna, inseguisse il mito dell’immortalità. Questo elemento fa da collante in una narrazione che come il mare fluisce; correndo lungo di esso il protagonista sfida il tempo, aspirando ad una rigenerazione della vita. Il mare tuttavia non si lascia domare, ma anzi s’impone con la sua forza, anche infida, perché il tempo è tiranno e ci strappa 7
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a noi stessi, sottraendoci gli affetti più cari. Ciò nonostante Giorgio combatte, contro la morte della moglie Eva, contro la sua stessa malattia e cerca di piegare il mare alle sue volontà. Tenta, come un novello Odisseo, di trasformare il mare infecondo in mare navigabile e cavalcare così l’onda. Lo sforzo dell’impresa lo rende un eroe tragico, perché, benché sia circondato da amicizie consolidate e rapporti parentali forti, titanicamente si trova solo ad elaborare il dolore per la morte prematurissima della madre, per quella del padre poi, per quella della moglie Eva, per i problemi del nipote. L’uomo Giorgio è solo davanti al suo destino, solo a combattere la sua ardimentosa e ardua impresa di resistenza alla vita. Fino ad arrivare al crollo, quando si rende conto che ha bisogno di aiuto; di qui il tentativo di crearsi una seconda opportunità di vita che tuttavia non sortirà gli effetti desiderati per disavventure di varia natura e per il suo stato di salute molto precario. Ciro Pinto alterna parti descrittive, narrative e dialogiche perfettamente dosate e ne viene fuori un personaggio molto ben delineato e approfondito psicologicamente in un plot articolato, che si snoda in diversi ambienti (Rimini, Bologna, Ferrara, Napoli) che diventano vivi e vegeti davanti ai nostri occhi di spettatori. Leggere Pinto è come trovarsi nel mezzo del gran palcoscenico che è questa vita, dove si può pirandellianamente dire che i personaggi hanno davvero trovato l’autore in grado di dare loro vita. Vero è Giorgio, forte nella disperazione, vera è sua figlia, tutta assorbita nella cura del figlio e nell’ansia per il padre malato, ma più in generale sono smascherati tutti i personaggi o le comparse di questo romanzo che fa
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ricorso anche all’idioletto napoletano per conferire verità, cuore, forza, potenza ad un romanzo che trasuda umanità da tutti i pori. Il destino di Giorgio, per quanto infelice, ha un senso alto su questa terra. C’è della religiosità in tutta l’opera, in cui forte e pungolante è il rispetto per la vita e per le tradizioni da tramandare. La missione dell’uomo pellegrino sulla nera terra non si esaurisce con la sua esistenza, ma la supera in una dimensione altra in cui c’è qualcuno che afferra il testimone che abbiamo voluto passare. Sta a noi lettori abbracciare questa eredità che lo scrittore artisticamente elabora in una prosa che tragicamente commuove e liricamente stupisce. Giovanna Albi
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Parte Prima
Ognuno sta solo sul cuore della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera.
Salvatore Quasimodo
CAPITOLO I
Rimini, 12 gennaio 2011 Il gabbiano si staccò dal mare e cominciò a salire in alto con potenti battiti d’ali, a una certa quota si assestò e continuò nel volo orizzontale. Avanzava nel cielo terso di quel mattino d’inverno con l’abnegazione e il sacrificio della fatica e con l’armonia del movimento. Alternava vigorosi colpi d’ali che apparivano leggere e delicate, a pose immobili quando smetteva la fatica e godendo dell’abbrivio s’incuneava nell’aria. Allora il suo corpo poderoso si assottigliava fino a diventare una linea continua tra il becco e la coda, mentre le ali ampie e distese parevano enormi. A vederlo volare così, sembrava felice come il gabbiano Jonathan, il suo volo racchiudeva il segreto di tutte le vite. Sofferenza, dolore e gioia sembravano alternarsi in ogni suo movimento. Persino l’aria prendeva corpo attorno al suo volo. Sotto di lui, un uomo correva con un’andatura media di 8 km l’ora. Era partito da casa, in via Curzio Malaparte, intorno alle 7.00 del mattino, aveva girato su via Aleardi e im15
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boccato varie strade fino a risalire il Corso di Augusto, poi aveva oltrepassato l’Arco e di lì era arrivato in piazza Cavour dopo circa mezz’ora, proprio sotto la traiettoria di volo del gabbiano. Fece un giro lento della piazza, il gabbiano lo vide scomparire sotto i portici del Palazzo dell’Arengo. Incuriosito, si abbassò tenendo il becco inclinato all’ingiù e arrivò quasi a sfiorare i merli ghibellini del palazzo medievale. Poi l’uomo riapparve, fiancheggiò il Palazzo del Podestà, girò intorno alla fontana della Pigna e si addentrò nella Pescheria; il gabbiano sorvolò in tondo la piazza in attesa che l’uomo rispuntasse. Quando riapparve, continuò sul Corso fino alla Darsena, poi scese per i Bastioni e arrivò alla via Destra del Porto, diretto sul lungomare Tintori. Il gabbiano lo seguì per un po’, poi lo lasciò raggiungere il mare, mentre lui virava in un ampio giro puntando verso il ponte di Tiberio. L’uomo arrivò in una ventina di minuti, imboccò il lungomare Di Vittorio, passò davanti alla sua vecchia villa e subito dopo deviò in spiaggia. Appena arrivò a ridosso del mare, sentì i piedi affondare nella sabbia e provò un senso di liberazione, come se davanti a sé si schiudesse una visuale diversa e ogni volta nuova, come se la vita potesse regalargli inaspettatamente qualcosa. Quell’uomo si chiamava Giorgio Perna e correva vicino al mare tutte le mattine, ormai da due anni. Quella mattina di gennaio si sentiva strano. Si era svegliato elettrizzato, come in preda a una smania. Aveva affrettato tutti i preparativi. Aveva indossato in fretta la tuta, messo le scarpe da corsa, calato il cappellino di lana sulla testa, chiuso la porta e iniziato a correre.
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Aveva subito accelerato, sperando di sedare un po’ la frenesia che lo aveva invaso sin da quando aveva aperto gli occhi. Appena aveva sentito il fiato appesantirsi, aveva rallentato e verso l’Arco finalmente si era sentito più tranquillo. Nella piazza aveva ripreso fiducia. Raggiunta la spiaggia, ritrovò tutta la sua forza; la salsedine gli riempì le narici e lo iodio gli rinfrancò la gola. Avrebbe dovuto smettere di fumare ma non era il momento, non era mai il momento negli ultimi tempi, pensò. Controllò il monitor al polso, 90 battiti, 6 km l’ora. Incominciò a sudare, prese dalla tasca un paio di mentine e se le infilò in bocca per liberare la gola e poter ingoiare tutto lo iodio dell’Adriatico. Gli salirono un po’ di muchi, li sputò sulla sabbia e si diresse all’altezza del bagnasciuga, continuò a correre a distanza dall’acqua per non bagnare le scarpe, a un mezzo metro circa dalla risacca. Rivolse lo sguardo al mare, lo carezzò fino all’orizzonte, mare aperto, placido e infido, si poteva camminarci dentro per più di cento passi, poi d’improvviso sprofondava e diventava una trappola e quando si alzava il vento, le onde s’increspavano e d’un tratto si gonfiavano fino a diventare altissime. Quella mattina faceva freddo, rinforzato da raffiche di tramontana, lungo il suo percorso qualche gabbiano sostava sulla spiaggia a leccarsi, quello che aveva appena incrociato si era allontanato all’ultimo minuto lasciandogli il passo. Visti volteggiare nel cielo, i gabbiani sembrano creature leggere e innocue, da vicino sono poderosi e minacciosi. Giorgio li temeva. Qualche anno prima l’avevano attaccato in acqua, durante un bagno d’inizio autunno; li aveva visti scendere in picchiata, due o forse tre, diritti verso la sua testa; si era immerso immediatamente scendendo fino a tre metri e 17
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quando era risalito, si era affrettato a raggiungere la riva. Correva lungo la battigia e, visto che la gola gli pareva libera, cominciò ad aprire la falcata accelerando. Si sentiva sempre più leggero, si sentiva sempre più giovane e il corpo gli rispondeva, gli rispondeva alla perfezione. Faceva scatti per circa un minuto raggiungendo e superando i 10 km l’ora, i piedi si alzavano sempre più da terra, a volte aveva la sensazione di restare sospeso e questo gli creava un senso di onnipotenza. Correva e aveva sempre corso, dovunque la vita lo avesse portato, nei suoi viaggi di lavoro e in quelli di piacere. Aveva corso nei posti più disparati del mondo: a New York, lungo i Docks di Long Island, sul lungomare di Valencia, in salita sulle Ramblas di Barcellona, vicino al mare di Napoli, a Parigi, lungo gli Champs, sulla sabbia rossa di Casablanca. Correre era il suo talismano mattutino, la sua risposta a tutte le angosce della vita, ogni falcata gli ridava fiducia. Al diavolo la malattia, la vecchiaia e la morte, lui era più forte di tutto. Corse fin giù a Miramare, fece una sequenza di scatti e falcate lunghe fino al bagno le Sirene; davanti alla casupola chiusa del bar e al capannone serrato degli attrezzi, si trastullò un po’ a trotterellare intorno alla pedana vuota che stazionava sulla sabbia per scaricare la fatica. Poi tornò indietro, questa volta senza scatti ma con la faccia rivolta al mare, sbuffando e sputando nell’acqua, con gli occhi fissi sull’orizzonte ad andatura costante di 6/7 km l’ora. Era arrivato quasi a un chilometro dal punto dove solitamente usciva dalla spiaggia per continuare sul lungomare, quando il cuore cominciò ad accelerare e ricominciò a sentirsi elettrizzato, guardò il suo monitor al polso: 120, 125,
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130 battiti al minuto. Provò a rallentare ma non servì, iniziò a vedere l’aria di un colore azzurro, tolse gli occhiali da sole, ma l’effetto non mutava. Sbuffò, riguardò il monitor: 125, rallentò o almeno tentò di farlo; gli vennero dei crampi al polpaccio sinistro, si arrestò subito e si stese sulla sabbia tendendo la gamba sinistra in alto con il piede a martello. La testa iniziò a girargli, non era stato opportuno fermarsi di scatto; si rialzò, provò una forte nausea, riprese lentamente a correre respirando profondamente e premendosi le orbite degli occhi con le dita, ricontrollò il monitor: 125. Si sentiva strano. Improvvisamente qualcosa di caldo si diffuse nel petto e nelle viscere, come una bevanda che scendendo giù dalla gola riscalda il corpo e l’anima; guardò il monitor: il cuore aveva ripreso l’andatura normale per quello sforzo: 105, 106, 103. L’aria non era più azzurrina, il polpaccio sinistro era di nuovo elastico. Giorgio sorrise, anche la frenesia era passata, in pratica si sentiva un incanto. Correva da quasi due ore quando uscì dalla spiaggia saltando il muretto per ritrovarsi sul marciapiede del lungomare. L’aria cominciava a riscaldarsi, un sole tenue e incoraggiante bucava la coltre di nebbia e portava delicatamente il suo calore in giro a sbrinare i tetti delle auto e a riscaldare il cuore della gente. Lentamente rallentò l’andatura fino a circa 4/5 km l’ora, il monitor indicava 90 battiti; continuò corricchiando, battendo i piedi a terra ed espirando quasi come se soffiasse. Ora si sentiva rilassato, stanco ma di una stanchezza sana, liberatoria. Diede uno sguardo alla strada: non sopraggiungevano macchine, attraversò ed entrò da Fred. 19
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«Ehilà, puzzi come una capra e sei una zuppa di sudore, lo vuoi capire che lo sport fa male?» lo apostrofò Alfredo, ridendo in quel suo modo strano, senza far rumore ma scuotendo le spalle e facendo sobbalzare la grossa pancia che gli gonfiava la camicia. «Ehi, rottame, se stessi ad ascoltarti sarei ridotto come te, dammi le mie solite brioche e il giornale, e pensa alla tua puzza.» I due amici parlarono per un po’, erano della stessa età, cresciuti assieme sin dalla scuola. «Alfredo, ti stai rincitrullendo? Non ti sei accorto che hai messo una sola brioche in busta?» «Perché? Quante ne vuoi?» «Due, no?» L’altro lo guardò stranito, stava per aggiungere qualcosa quando il suo cellulare squillò, si fece prendere dalla discussione con il figlio, che non poteva raggiungerlo al bar; infilò la seconda brioche nella busta, la diede a Giorgio insieme al giornale e gli fece un cenno di saluto, rimandandolo alla partitina a carte della sera. Giorgio uscì e riprese la strada passeggiando, diede una sbirciata al giornale, ricontrollò il monitor: 65 battiti, guardò l’ora: 9.10; sospirò e affrettò il passo, aveva voglia di un bel caffè e di fare colazione sotto il portico con Eva, che forse si era già alzata. Da quando Paola era andata a vivere a Bologna con Ugo, avevano tanti momenti da vivere insieme da soli, qualche volta un po’ tristi e nostalgici, ma insieme. Eva era la sua vita, il suo traguardo sempre rincorso e sempre raggiunto. Mille viaggi di lavoro lo staccavano da lei e mille rientri lo riportavano felice ai suoi occhi verdi, alla
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sua faccia severa e alla pelle morbida del suo corpo che il tempo non si era permesso di offendere. Eva, mille volte desiderata, cercata in innumerevoli stanze d’albergo, attesa in estenuanti code al casello. Eva, la vita che lui aveva sempre voluto. Eva, la sua donna! Poggiò la mano sulla maniglia della porta di mogano scuro, l’abbassò, ma la porta non si aprì, spinse con l’altra mano sul legno, ma la mano si schiacciò e l’uscio non si aprì. Cavolo! La porta è chiusa, com’è possibile? Giorgio l’accostava ogni mattina senza girare la chiave per non portarla con sé, lì in città non aveva timori, conosceva tutti e sapeva che non c’erano pericoli. Mah! Che sarà successo? Eva sarà uscita, perché? Sussurrò guardando di lato, nella pianta di rododendro dove erano soliti lasciarsi le chiavi, ma non c’era niente. Alzò lo zerbino, ancora niente. In preda all’inquietudine bussò una, due, tre volte, diavolo sono rimasto fuori di casa, imprecò. Sentì finalmente girare la chiave. Perché Eva avrà chiuso? Proprio non capiva. «Eva, ma che ti è preso...» si zittì di colpo, un giovane in pigiama, con i capelli spettinati e gli occhi ancora gonfi di sonno, comparve sulla soglia e lo guardava stranito. «Giorgio, che succede? Come mai a quest’ora?» gli chiese il giovane chiamandolo per nome e con l’aria di conoscerlo da un bel po’. «Chi diavolo sei e che ci fai in casa mia? Eva dov’è?» Spinse letteralmente da parte il giovane che appariva ormai spaventato e si catapultò in casa, ma non sembrava la sua. Non c’era la consolle di lato alla porta, i mobili erano diversi, moderni e di colore nero. I divani bianchi, chi ha messo quei divani bianchi lì, al centro della sala? 21
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Giorgio incominciò a innervosirsi, girava lo sguardo tutt’intorno alla ricerca di qualcosa di familiare, finché intravide l’orologio a pendolo d’intarsio veneziano, regalo del Drudi e si calmò. Entrò nella stanza da letto, le tapparelle ancora abbassate non gli permettevano di vedere bene, scosse la spalla di Eva che dormiva su un lato, rivolgendogli la schiena; la chiamò per svegliarla. Qualcuno dietro di lui accese la luce, la donna si girò; il volto terrorizzato che lo guardava non era di Eva, ma di una giovane bionda che iniziò a strillare. Giorgio aveva le pupille dilatate, il cuore schizzava, il suo monitor al polso chissà quanto segnava; gli sembrava d’impazzire. Non riusciva a ritrovare il suo mondo di sempre, eppure la casa era quella; un’ansia violenta gli scosse il petto. Qualcuno lo afferrò alle spalle e con un braccio stretto attorno al collo cercava di tirarlo via dal letto, chiamandolo per nome e pregandolo di stare calmo, di farla finita. Giorgio aveva un fisico asciutto e i muscoli ancora saldi, puntò le gambe, si liberò della stretta e si girò, vide di nuovo lo sguardo stralunato del giovane che gli aveva aperto. Lo spinse all’indietro, poi gli disse infuriato, avventandosi contro: «Basta! Cosa fate in casa mia? Dov’è mia moglie? Cosa le avete fat...» non finì la frase, vide girare tutt’intorno, gli occhi stralunati di quello sconosciuto si moltiplicarono e lo strinsero come in un assedio; ricadde all’indietro sul pavimento, si accorse che non c’era più il parquet, poi perse i sensi. Aveva la testa tonda e bianca con una screziatura grigia che, partendo giusto al centro, sopra il becco, saliva come una striscia su per la testa e riscendeva sulla nuca, gli occhi
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distanti tra loro erano di un grigio metallico ed erano tristi, di una tristezza indicibile. Il gabbiano era intento a scavare con il becco nel ventre di un piccione steso sulla spiaggia, con le ali aperte e il torace sconquassato; il ventre all’insù era rovistato dal famelico becco lungo e giallo dell’animale dagli occhi tristi. Quando il gabbiano si accorse che lo stava osservando, si girò verso di lui, declinò la testa e lo inquadrò. Per un lungo momento rimasero a fissarsi, dal suo becco penzolava un pezzo d’intestino del piccione e il sangue gli colava lungo il collo. Giorgio era rimasto impalato, la scena era nauseabonda e la mole dell’uccello era spaventosa, il becco aveva un’apertura molto larga; quando d’improvviso l’animale garrì, la poté vedere in tutta la sua ampiezza. Rimase impietrito. Poi Giorgio si scosse, lo guardò con aria di sfida, abbassò la testa e con il becco prese anch’egli a strappare brandelli di carne e di piume dal corpo del piccione; l’altro si fece da parte, garrì di nuovo e con un poderoso colpo d’ali si librò nell’aria, volando basso sulle creste delle onde davanti a lui. Giorgio lo vide andar via, riabbassò la testa e continuò il pasto. Il sangue acre gli pizzicava la gola, alzò la testa e si trovò dinanzi agli occhi lo sguardo triste di sua figlia: due occhi nocciola che lacrimavano e lo spiavano. «Papà, finalmente ti sei svegliato. Oh papà, che ti è successo?» La voce accorata di Paola lo ridestò del tutto, volse lo sguardo intorno e vide delle pareti bianche, un piccolo quadro raffigurante una madonna col bambino, un calendario dell’anno precedente, un carrello ricolmo di lenzuola e di 23
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asciugamani. La donna che stava spingendo il carrello fuori dalla stanza si rivolse alla figlia, le disse che avrebbe avvertito il medico di guardia. Ma che ci faceva lì? Giorgio aveva la bocca impastata e l’ovatta nel cervello, si guardò una mano e vide che era macchiata di sangue; rivolse uno sguardo interrogativo alla figlia, mostrandole la mano. «Hai perso sangue dal naso, ma niente di grave, per fortuna, mi ha assicurato il medico.» Giorgio farfugliò qualcosa che Paola interpretò come un’espressione di meraviglia e subito si affrettò a spiegargli. «Sono corsa da Bologna, ho lasciato tutto e sono venuta qui, Ugo andrà a prendere Filippo a scuola, almeno spero. Quando Stefano mi ha telefonato per dirmi dell’accaduto, non potevo crederci, ma insomma che ti è preso papà?» La voce calda di Paola e il biancore delle pareti lo convinsero che non era un gabbiano, che non stava facendo nessun macabro pranzo. Probabilmente era in ospedale ma non riusciva a capire cosa gli fosse capitato, riuscì a sbiascicare poche parole: «Paola che ci facciamo qui? Dove siamo?» La figlia ebbe un’espressione preoccupata e gli rispose con molta cautela: «Siamo in ospedale, hai avuto un malore a casa di Stefano, sei come svenuto e ti sei ripreso solo ora.» Giorgio cominciò ad agitarsi, lo stato di torpore sembrò attenuarsi, si protese verso la figlia: «Malore? Che significa? A casa di Stefano? Ma di chi parli?» «Di Stefano Accorsi, papà. Il figlio di Gemma, la proprietaria del bagno le Sirene, che ha comprato la nostra casa; hai capito?» «E perché sarei andato da lui? Perché? Ma cosa cavolo
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stai dicendo?» Paola sbuffò mentre gli occhi apparivano sempre più preoccupati. Prese a carezzargli il dorso della mano che teneva tra le sue, gli disse di non agitarsi ché poi gli avrebbe spiegato.
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