CALIBRO 9 gialli & noir
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direzione editoriale: Calogero Garlisi
redazione e comunicazione: Veronica Bonalumi responsabile commerciale: Andrea Molinari
progetto grafico: Veronica Bonalumi
ISBN 978-88-31984-48-5 Laurana Editore è un marchio Novecento media s.r.l. Š 2020 Novecento media s.r.l. Milano via Carlo Tenca, 7 - 20124 Milano www.laurana.it - info@laurana.it
Ciro Pinto
Senza dolore
A Stefano
Quando vendi qualcosa che sai che non ritroverai mai più, fatti pagare il dolore. Alberto Vigevani Difficilmente la felicità serve ad altri scopi che non quello di rendere possibile l’infelicità. Marcel Proust Tutti portiamo in noi il nostro ergastolo, i nostri delitti e le nostre devastazioni. Albert Camus
Delitto al Naviglio Grande 15 novembre 1948
1. A quell’ora il traffico dei battelli diminuiva. Le acque del canale smettevano di mulinare al passaggio continuo delle imbarcazioni stracolme di sabbia, legname, ghiaia e tutto quanto potesse servire per ricostruire la città. Finalmente si chetavano e per pochi momenti restavano ferme e grigie come il metallo. Qua e là un luccichio si accendeva sull’acqua o sulle impalcature di lavoro ogni volta che il sole perdeva il suo pallore e la luce diventava più intensa. Tutta la Darsena si svuotava per un po’ della chiassosa umanità che solitamente riempiva le banchine e le strade circostanti. Le grida e le bestemmie dei facchini pian piano si spegnevano, la fatica lasciava il posto a un sommesso brusio. Qualche risata proveniva dai capannelli di operai che, seduti sui carrelli ormai vuoti, divoravano il pasto nelle gavette che avevano portato via dal fronte o in un foglio di giornale. Masticavano, ridevano e calavano giù bestemmie tra una ciancia e l’altra, mentre continuavano a guardare il serpente d’acqua gelida che gli dava da mangiare. Un travet con la lobbia calata sulla testa, fino a coprire le orecchie per proteggersi dal freddo, sfilava con la cartella sotto il braccio e il “Corriere” ripiegato nella tasca del paltò. Due giovani barcaioli accovacciati vicino all’alzaia fumavano una cicca con gli occhi fissi sull’acqua, parlavano fitto fitto e ogni tanto lanciavano una pietruzza nel canale. 9
Isa avanzava lungo il marciapiedi opposto cercando nel fianco dei palazzi un po’ di protezione dal vento gelido. Il freddo la costringeva a tenere le labbra serrate e il mento schiacciato sul petto. I suoi capelli rossi sbucavano a ciocche sulla fronte dal cappellino di lana. Alta e sottile, muoveva i passi con una certa determinazione, aveva sotto un braccio un paio di libri e nell’altra mano una sacca di tela ripiegata. Camminava a passo svelto in direzione di Porta Ticinese. Quando era arrivata a Milano con Ludovico, tutta la città pareva morta. Le macerie dei bombardamenti ingombravano le strade sotto il cielo grigio e parevano gridare in faccia a ognuno la vergogna della disfatta. Le facce della gente mostravano i patimenti subiti e negli occhi c’erano soltanto la voglia di dimenticare e l’attesa di un tempo migliore. Avevano girato in lungo e in largo la città in cerca di un lavoro finché Ludovico non aveva trovato una sistemazione. Avevano preso in fitto un piccolo appartamento in Ripa di Porta Ticinese, in quel quartiere che di giorno sembrava un porto di mare, brulicava di persone e fremeva di attività attorno all’acqua gelida del Naviglio. E di notte diventava un pozzo umido infestato da tipi loschi, sfuggenti come topi, intenti nei loro traffici con gli occhi assatanati e pronti a far scattare la lama dei coltelli. Pronti a contrabbandare la loro anima che tenevano nascosta sotto i visi tagliati dai baveri alzati delle giacche, come gli sfrosador una volta celavano sotto le vesti la mercanzia di contrabbando. Isa si era rimessa a studiare, ogni cosa che avrebbe imparato sarebbe servita a cancellare un giorno di guerra o un brutto ricordo. Ludovico aveva trovato un lavoro a mezza giornata in una tipografia e nel pomeriggio scriveva. Non avevano molto per vivere, ma a loro non importava. Qualcosa di imperscrutabile li aveva uniti su quelle montagne dove si erano consu10
mati gli ultimi drammi della guerra, e quel qualcosa bastava a entrambi per riprendere a vivere. Si guardava intorno in continuazione. Più che un’abitudine era una reminiscenza, una sorta di riflesso condizionato ereditato dagli anni della Resistenza. Andava su e giù con la bicicletta dal Comando agli accampamenti dei partigiani e non faceva altro che roteare gli occhi tutto intorno a lei. Spiava tra gli alberi ai lati della strada, guardava sotto di sé lungo i fossati, si girava indietro per accertarsi che non ci fossero tedeschi o repubblichini nelle vicinanze. Ora che la guerra non c’era più, continuava a studiare le facce che la circondavano, a controllare i movimenti di chi seguiva i suoi passi o di quelli che incrociava. Erano tali la fatica e la tensione che quella continua attenzione le procurava, che spesso tornava a casa con il mal di testa. A Milano, poi, con le strade piene di persone, per lei passeggiare a volte era un vero tormento. Non si era ancora abituata a quella grande città, lei che veniva da un paesino tra i monti dell’Appennino Emiliano. Il posto più grande che aveva visto era stato Bologna, quando c’era andata qualche volta con suo padre. Era appena una bambina. Passeggiavano sotto i portici per proteggersi dal vento, anche se all’ombra il freddo era ancora più intenso. Niente, non c’è che dire, qui sotto fa troppo freddo. Meglio uscire dai portici, almeno fuori c’è un po’ di luce e forse di calore. Vieni, tanto non abbiamo incontrato i begli occhi che esaltarono l’anima di Stendhal, o forse sì, ma non me ne sono accorto. E nemmeno tu, vero? La voce di suo padre ogni tanto le faceva compagnia, come i ricordi che le si riaffacciavano nella mente. Stralci di una vita passata che sembrava non appartenerle più, tagliata via da quelle linee insormontabili che erano state la morte del padre e poi la guerra. Tornava a casa dall’università, dove frequentava il primo anno del corso di filosofia, ogni tanto accennava un sorriso 11
malizioso per un pensiero segreto che si affacciava nella mente e la faceva trepidare. Si diresse ai banchi del mercato per comprare un po’ di verdure, di quelle che piacevano a Ludovico. Continuava a guardarsi intorno, nonostante il vento freddo le gelasse gli occhi. Avrebbe voluto rilassarsi, smettere di essere così guardinga. Per quella sua smania di tenere ogni cosa sotto controllo, qualche giorno prima si era ficcata in una situazione incresciosa. Era successo alla fine delle lezioni. Un tipo, un giovane elegante con un cappotto grigio di buona fattura, dei guanti di pelle nera e un paio di scarponi militari, se ne sta dinanzi all’uscita della sua facoltà e la osserva come se la stesse aspettando. Ha un’aria familiare, ci pensa e ci ripensa ma non riesce a ricordare se l’abbia già visto. Quasi rallenta il passo, convinta che le rivolga la parola, ma l’uomo rimane lì dov’è, limitandosi a guardarla. Allora smette di pensarci e si dirige spedita verso la fermata del tram. Dopo alcuni passi si volta e si accorge che le sta venendo dietro. Si sente nervosa, anche se non c’è alcun motivo per esserlo. Il tram sopraggiunge, accelera il passo e ci sale sopra, quasi di corsa. È pieno di gente, si è fatta strada a stento per portarsi avanti. Si rasserena per quell’inutile ansia, respira. Poi si accorge che anche quel tizio è salito. La sua faccia è a pochi centimetri, ma il giovane elegante guarda fuori, non sembra più badare a lei. Più lo osserva e più s’inquieta, le viene in mente qualcosa che non riesce a collocare in un tempo e in un luogo. Si dice che è una sciocca, e così, quasi per sfidare se stessa e le sue prudenze, gli rivolge la parola: “Ci siamo già incontrati?” Lo sconosciuto ha un lampo negli occhi, quasi di spavento, poi riprende un’aria distratta. “Je ne sais pas”, le risponde scuotendo la testa. E aggiunge, sempre in francese, che un viso come il suo lo ricorderebbe di certo. Si maledice, in prati12
ca ha fatto la figura dell’adescatrice. Appena il tram si ferma e apre le porte scende, anche se non è la sua fermata. Tra i banchi del mercato, la gente si affrettava a comprare. Qualcuno commentava i fatti recenti dell’attentato a Togliatti e i tafferugli che ne erano scaturiti, ma erano conversazioni che morivano subito in frasi di circostanza. Nessuno aveva più voglia di resuscitare l’odio o di rinfocolare vecchi rancori. Non era più il caso di scaldarsi, non era più tempo. Isa si accostò alle ceste di verdure. Ludovico ce l’avrebbe fatta? Ma sì, avrebbe vinto, ne era sicura. Il suo Ludovico sapeva trovare parole e idee che sembravano sempre nuove, le metteva assieme come una magia e gliele offriva come primizie. Ce l’avrebbe fatta sì, pensava mentre esaminava con cura dei fasci di broccoli, prendendoli, tastandoli, riponendoli sotto lo sguardo irritato del verduraio. Ma poco importava se non sarebbe successo. Non abbiamo bisogno di niente noi, e sulla faccia le spuntò indomita la ragazzina delle montagne. Scelse i suoi fasci di broccoli, mentre cercava gli spiccioli nella tasca del cappotto una sensazione di nausea le salì dallo stomaco. Forse era il freddo o quella nuova presenza che cominciava a farsi sentire dentro di lei. Il sorriso malizioso riaffiorò sulle labbra. Una figura più in là, in disparte, la osservava senza mai distogliere l’attenzione. Si allontanò ancora di qualche passo appena lei ripose la verdura nella sacca e uscì dai banchi per avviarsi a passo veloce verso la Porta. La seguì, tenendosi a distanza. Era una figura alta e magra, un giovane dal portamento elegante. Si muoveva con fare disinvolto. A osservarlo si sarebbe detto che si stesse godendo la passeggiata lungo il Naviglio, come una persona che non ha premura. Indossava un cappotto grigio, di buona fattura. Ai piedi, dei vecchi scar13
poni militari, tirati a lucido con il grasso. Teneva le mani nelle tasche del paltò per il freddo. Portava ben stretto sotto il braccio qualcosa, arrotolato in un foglio di giornale. Un lembo di stoffa celeste spuntava da un lato.
2. Erano seduti tutti in prima fila, le seggiole erano scomode e cigolavano sotto la loro impazienza. Davanti a loro, una pedana, e sopra, un lungo banco. Dietro il banco c’erano i due professori che componevano la Giuria. L’aula era situata in un imponente edificio, nello stile architettonico d’inizio secolo, che prima della guerra dava il suo contributo all’eleganza della strada che sbucava nella piazza del Duomo. Ora il palazzo era stretto nei tubi innocenti e in buona parte disabitato. Le facciate sverniciate erano ricoperte dagli escrementi dei piccioni che bivaccavano sui tubi delle impalcature. Al suo interno, molte stanze erano chiuse e in disuso, un’ala intera dello stabile era addirittura vietata al pubblico perché dava segni di instabilità. Le prove, una scritta e una manuale, si svolgevano in uno dei pochi ambienti agibili: una grande sala, con drappi rossi e affreschi alle pareti. Il pavimento era sconnesso. La polvere assorbiva la luce filtrata dalle tende socchiuse, che pendevano pesanti e sformate dai finestroni, alti fino al soffitto. Il tema della competizione era scarno ma chiaro: rappresentare un soggetto marino. Ognuno di loro ricevette un tappo di sughero grande più o meno come il pollice di una mano, uno stuzzicadenti e un fogliettino quadrato di stagnola, di colore azzurro, con i lati della stessa lunghezza dello stuzzicadenti. 14