Il problema di Ivana, di Ciro Pinto anteprima

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Collana Elite


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Il problema di Ivana di Ciro Pinto Proprietà letteraria riservata

©2012 Edizioni DrawUp Latina (LT) - Viale Le Corbusier, 421 Email: redazione@edizionidrawup.it Sito: www.edizionidrawup.it Progetto editoriale: Edizioni DrawUp Grafica di copertina: RDM per Edizioni DrawUp Direttore editoriale: Alessandro Vizzino

I diritti di riproduzione e traduzione sono riservati. Nessuna parte di questo libro può essere utilizzata, riprodotta o diffusa, con qualsiasi mezzo, senza alcuna autorizzazione scritta. I nomi delle persone e le vicende narrate non hanno alcun riferimento con la realtà.

ISBN 978-88-98017-00-3


Ciro Pinto

Il problema di Ivana



Nella famiglia l’anima trova ristoro e il cuore s’appaga. Ciro Pinto



Prefazione

Il problema di Ivana è un romanzo magistrale. Un romanzo profondo e tridimensionale, in cui percezioni, odori e sapori hanno la forza di emergere come se vissuti realmente, quasi che un bicchiere di vino uscisse dalle parole di Pinto e si andasse a posizionare direttamente sotto le narici e nel palato del lettore. La prima parte scorre tra le campagne senesi, dove il tempo assume ancora ritmi rarefatti e la genuinità della vita rimane un bene prezioso e protetto. Si sente quel ritmo, ci si affeziona ai luoghi e alle persone, alle loro sfumature abilmente trattate, ci si pente di non essere in quel posto e in quel momento. La cadenza è quella di un thriller romantico, dove non esistono morti e sangue ma il mistero e il desiderio di dipanarlo rendono difficile sospendere la lettura, staccarsi dalle pagine. Nella seconda parte Pinto ci riporta nella vita di oggi, nelle sue storture, nell’apatica routine di un mondo in crisi all’interno di una crisi ancor più contingente, analizzata attraverso gli occhi sensibili, smarriti ma lucidi, del protagonista, alla ricerca di un’altrui verità che, in realtà, non è altro che la propria. La terza e ultima parte ci svela il mistero, ci conferma le intuizioni o distorce i programmi fatti, con un epilogo che è degna chiusura di un romanzo dall’intensità straordinaria e costante. Un romanzo che cattura, che si legge in un giorno, accompagnati da un linguaggio importante ma mai pesante, ricercato ma mai eccessivo: in una parola, elegante. Scorrevolezza e riflessioni degne di un grande scrittore, che talvolta lasciano persino sgomenti per la loro bellezza. Attraverso un testo, quindi, d’indubbio pregio e attrattiva,


Pinto analizza tanti temi della vita, attuale e non, utilizzando a tal scopo due vicende principali e sovrapposte, che si intersecano perfettamente tra loro e ad altre minori nel corso della storia, fino a unirsi in un finale che rimette al proprio posto ogni pezzo, ciascun tassello del mosaico. La contrapposizione tra la modernità metropolitana e i piaceri dell’esistenza semplice del borgo di Cetona, dove semplicità è sinonimo di serenità e purezza, rappresentata soprattutto dal dualismo tra i capricci di Sara e la genuina femminilità di Laura, donna con un incrollabile progetto, che sceglie scientemente, con enorme forza, i compromessi necessari alla realizzazione del progetto stesso. C’è la crisi economica, i bivi che essa impone e determina, la disgregazione della moderna classe operaia e borghese, privata di sogni e prospettive e pronta a sacrificare una vita vuota e inutile sull’altare della disperazione e della ribellione. C’è l’amore, visto non solo in veste canonica, tra uomo e donna, ma in tutte le sue forme: l’amore per i figli, per la terra, per il passato, per i propri desideri. L’amore per se stessi, quando l’esistenza ci impone di scegliere tra una vita agiata ma intrisa di compromessi e un’altra più cruda ma in pace con la propria anima. Storia, linguaggio e un’architettura narrativa perfetta, giocata su spostamenti della visione temporale e flashback mai difficili da seguire, rendono Il problema di Ivana un romanzo d’esordio di infinito valore, per un autore che avrà tanto da dire e di cui attendiamo nuovi risvolti. La domanda conclusiva potrebbe essere: Qual è il problema di Ivana? La risposta, senza togliere suspense e interesse al romanzo, è semplice quanto chiara: Ivana è Andrea, è Cetta la strega, è l’altra faccia di Laura, è il contrario di Sara e di Claudio, è, in definitiva, ognuno di noi, a volte più forte, a volte vittima indifesa degli eventi. Alessandro Vizzino


A mia moglie e a Stefano, mio figlio



Parte prima



Capitolo I

‹‹Oui, je suis arrivé, je laisse la voiture dans la place et je viens à toi, ok?›› dissi in un francese stentato al mio amico Gérard, dando nel frattempo uno sguardo alla stradina asfaltata in ripida salita che portava a casa sua. ‹‹ Ok, io ti attende» rispose lui in un italiano anch’esso approssimativo. Parlavamo così tra di noi, ognuno cercando di far pratica nella lingua dell’altro. Ero partito prestissimo, incominciavo a intravedere i primi riflessi di luce nella bruma mattutina che dalla valle arrivava fin sopra la Rocca, sul monte Cetona e un lievissimo tepore incominciò ad avvolgere pure me. Prima di scaricare il bagaglio, raggiunsi a piedi la piazza, un ovale rinascimentale troppo grande per quel grumo di case che costituiscono il borgo di Cetona. Lì la vita riprendeva lentamente, già i bottegai infreddoliti avevano alzato le saracinesche e così potei comprare del tabacco e delle cartine: mi sarei arrotolato le mie sigarette da solo, avrei avuto tanto tempo. Arrivai alla macchina, scaricai il bagaglio, preoccupato del suo peso: la stradina che s’inerpicava lungo la vecchia cinta che costeggiava il borgo era percorribile solo a piedi e la sua inclinazione avrebbe messo a dura prova polpacci e schiena di chiunque. Mi pentii di aver portato la mia vecchia Remington, avrei potuto benissimo scrivere con il portatile o il tablet, o meglio ancora, a penna ma l’idea di portarmi qualcosa di antiquato in quel mondo sospeso tra il medievale e il rinascimentale mi aveva allettato a tal punto che avrei sopportato quell’onere. M’inerpicai faticosamente su per la costa, come chiamano qui le stradine, trascinando il mio fardello e inspirando a pieni polmoni. 13


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Sotto di me, nella valle e lungo i costoni del monte, cipressi e ulivi apparivano sempre più nitidi nel diradarsi della nebbia, regalando ogni tanto qualche luccichio per i giochi del sole tra le foglie cosparse di brina. ‹‹Ehilà, Gérard comment vas-tu? Ça va bien?›› salutai Gérard che mi era venuto incontro. ‹‹ Oh oui, et tu, tu as eu un bon voyage? J’espere que tout va bien ? Sei un poco stanco? Ti posso aiutare per montare su le baggage?» Ci abbracciammo e poi continuammo assieme a inerpicarci fino a casa sua, si entrava dal lato alto, attraverso una porticina ritagliata nella pietra che ricopriva la casa, in un vicolo strettissimo, strappato anch’esso come tutte le coste ai poderosi fianchi del monte. Dopo un breve andito entrammo nella sala che mi si presentò in tutta la sua bellezza: era vasta, arredata con gusto sobrio e di quell’eleganza prettamente francese, attorno al camino di pietra grigia divani ampi e moderni, sulla parete di fronte una servante, lunga e bassa di mogano scuro, e davanti un’ampia vetrata che prendeva tutta la parete. Senza liberarmi nemmeno del bagaglio mi diressi subito là: la valle luccicava dell’argento degli ulivi e le cime di cipressi maestosi arrivavano a bucare gli ultimi lembi di nebbia che ancora tardavano a dissolversi. L’odore di muschio e di erba umida aleggiava nell’aria e, carezzando la scena con lo sguardo, salivi, salivi fino al monte che si ergeva come un seno di donna dolce e procace, con in cima la rocca e il suo bastione avvolti nel verde, come un capezzolo pudicamente celato. Mi mancò il fiato. ‹‹ Ti piace, c’est vrai?›› ‹‹ C’est magnifique, tu sais que j’adore la mer, mais c'est-à-dire que ce spectacle est superbe!» rimasi completamente travolto da quel paesaggio. Di lato alla vetrata, una scala in mogano scendeva gradatamente al piano di sotto, portando in un’ampia cucina, scavata letteralmente nella roccia e un balconcino si apriva su di un piccolissimo giardi14


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no, che potevi raggiungere per mezzo di gradini in ferro battuto. Sotto il muretto del giardino, una folta vegetazione accompagnava il degradare del costone sin giù nella valle. Mi sarei riempito di quella pace, pensai. Gérard non poteva stare molto con me, aveva da prendere un aereo per Parigi, che partiva da Firenze di lì a qualche ora. Finito il giro della casa, prendemmo un ottimo caffè italiano che Gérard aveva preparato, lo gustammo velocemente in piedi: occorreva fare presto. Ridiscesi col mio amico giù in piazza Garibaldi, caricammo il suo bagaglio nella monovolume che solitamente noleggiava quand’era in Italia, mi fece le ultime raccomandazioni: ‹‹ Ti ho lasciato una memoria con tutte le istruzioni per usare la casa. Puoi usare tutte le choses que tu veux, mais c’est très important che tu ti rappelli del riscaldamento, non lasciare mai casa senza accenderlo, al rientro la troveresti troppo fredda.›› Caro Gérard, sempre molto preciso, mi aveva offerto di stare in casa sua, in quello splendore di paesino, per qualche giorno. Ne ero stato felice, avevo bisogno di scrivere e volevo tanta pace, e lì ne avrei trovata! ‹‹ A bièn tôt, Gérard et merci de tout›› gli gridai di nuovo quando stava già per imboccare la stradina che l’avrebbe portato sulla provinciale. ‹‹ Ciao mon ami, a presto in Italia» gridò nell’aria limpida che si allungava sempre più tra di noi. E ora la piazza, Gérard ormai era scomparso alla mia vista, l'avevo perso dopo il primo gomito della strada che portava dal monte giù alla provinciale. Mi girai verso l'ovale ampio, tutto recintato da bassi edifici che non lo costringevano, anzi davano spazio al suo impianto, oltrepassai la fontana in pietra bianca, e mi diressi verso i tavolini di un bar, proprio nella loggia antistante. ‹‹ Salve un caffè bello forte, per favore.›› ‹‹ È appena arrivato?›› ‹‹ In effetti...›› pensai di presentarmi, visto che dovevo restare qualche giorno ‹‹ mi chiamo Andrea, Andrea Torreggiani, vengo da 15


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Milano, sono ospite di Gérard Fournier, che mi ha lasciato la casa per questa settimana.›› ‹‹ Bene! Gérard mi aveva detto della sua venuta. Sono Marco Contini, ho questo bar da tanti anni e sarò lieto di esserle utile» mi guardava incuriosito. ‹‹ Allora un caffè?›› ‹‹ Molto lieto Marco, grazie della sua gentile offerta, se servirà approfitterò del suo aiuto. Sì, un bel caffè.›› Mi guardai intorno, cercai di immaginare com’era quel luogo prima della costruzione della piazza, nella mia scena non c'era la fontana, non c’era affatto la piazza. Mi girai verso il lato opposto, forse lì dinanzi alla chiesa, era lì che si svolgeva la scena, pensai. Ricordavo nitidamente un frontale di una chiesa, pochi gradini in pietra grigia e lì, ai suoi piedi, la scena. Ero così assorto nei miei pensieri che sobbalzai all'arrivo di uno sconosciuto, alto, ben curato e dai modi un po’ bruschi. ‹‹Buongiorno, sono Luca Conti, sono un amico di Gérard, Marco mi ha detto che lei è suo ospite, lo scrittore.›› Si sedette di fronte, poggiò il cellulare e una scatola di sigari sul tavolo e, ritraendo la sedia, accavallò le gambe guardandomi diritto negli occhi. ‹‹Oh beh, benvenuto! Si sono amico di Gérard, mi lascia usare la sua casa per qualche giorno, mi chiamo Andrea Torreggiani, non sono uno scrittore» stavo per aggiungere che in verità ero venuto lì per scrivere qualcosa, ma era solo un hobby, non era il mio lavoro, infatti non avevo mai pubblicato alcunché, ma il mio interlocutore non me ne diede il tempo, né si mostrò meravigliato della mia risposta, aggiunse subito: ‹‹ Via quel caffè, lasci perdere, dia retta a me, un bel bicchiere di novello, accompagnando i crostini di Marco, e vedrà che è tutt’altra cosa.» Aveva un viso regolare, occhi rassicuranti, scuri, molti capelli ben tenuti e un fisico asciutto: un uomo risoluto, di bell’aspetto, sulla cinquantina. ‹‹Di caffè in verità ne ho già presi diversi, sono partito da Milano 16


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che era ancora notte. Bene, vada per il vino.›› Ci guardammo un po’ come per studiarci, poi arrivò una donna incinta che portò crostini di fegato, fette doppie e irregolari di prosciutto crudo tagliate con il coltello e pezzi di formaggio, un boccale di vino rosso, sicuramente novello, dal colore intenso, purpureo, con due bicchieri. Ero un po’ titubante, non ero solito mangiare di mattina, né tantomeno salato, ma non mi andava nemmeno di essere scortese con il mio invadente interlocutore, per cui addentai un crostino assaggiando un po’ di prosciutto e poi mi tuffai nel bicchiere di novello: persistevano ancora gli aromi della fermentazione, il gusto era piacevolissimo, non rimasero unghie sul bicchiere e il sapore che invase la gola mi riscaldò. Luca sorseggiò il suo vino tenendo gli occhi chiusi, trattenendo per un po’ il liquido in bocca per poi deglutirlo lentamente, infine schioccò le labbra, soddisfatto. Tranciò di colpo, giusto al centro, un grosso toscano, ripose una metà nel portasigari, spuntò la punta dell’altra metà, la accese e distese le gambe in avanti sospirando beatamente. Non nascondo che mi affascinava, sembrava godersi tutto con piena convinzione, gli chiesi di quella chiesa nascosta tra le case della piazza, era sempre stata così? ‹‹ No, è tutta ricostruita, non vede che è mezza in pietra e mezza riverniciata? Dentro c’è anche un po’ di barocco, ma penso che S. Michele sia una roba del dodicesimo secolo o giù di lì, poi sa qui è tutto cambiato da quando il Chiappino ci fece questa bella piazza.›› ‹‹ Circa quattrocento anni dopo la chiesa?›› ‹‹ Beh sì, penso di sì. Deve scrivere qualcosa di quella chiesa?›› ‹‹ No, no» mi affrettai a smentire, come colto in flagrante ‹‹ solo curiosità.›› Mi arrotolai un po’ di tabacco in una strisciolina di carta, l’accesi e fumammo per un po’ in silenzio, sorseggiando il novello. ‹‹Vivo con mia moglie in una casa più giù, all’imbocco del paese sulla provinciale, sarei felice se una sera venisse a trovarci, può restare a cena da noi, le faccio assaggiare i pici che Dora prepara alla 17


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grande! Ah, se ci dessimo del tu?›› Accettai tutto, dalla cena al tu, rimasi un po’ ancora a godermi il niente, finii il mio bicchiere, pensando che di quel passo avrei conosciuto presto tutti gli abitanti del borgo. M’incamminai per le stradine ripide, la casa senza riscaldamento sarebbe stata freddissima.

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Capitolo II

Mi adagiai di fronte al camino, il tepore del riscaldamento che avevo messo su, la stanchezza del viaggio e l'alzataccia, tutti insieme, mi fecero scivolare in un lento sopore dove i pensieri stentavano a legare tra loro. Mi girai verso la vetrata, ecco! Lì davanti avrei spostato lo scrittoio che era appoggiato al muro di lato al camino, ci avrei piazzato la Remi, come mi piaceva chiamare la mia vecchia macchina per scrivere, e davanti a quello scenario avrei potuto spaziare tra le mie suggestioni. Più che una partenza era stata una vera e propria fuga da Milano. Venivo da giorni pesanti, sul mio lavoro incombevano ombre truci e Sara ormai l’avevo persa. Nella nebbia, che a quell’ora avvolge tutto, avevo percorso i viali al buio sotto i platani ingialliti con l’angoscia di non poter sfuggire a una vita che diventava improvvisamente difficile. Mettere tra me e la città qualche centinaio di chilometri era l’unica ambizione che avevo, per cui l’invito di Gérard mi era apparso come una liberazione, una manna dal cielo. Lì, in quell’angolo di mondo, tra i pochi residenti del borgo, in una stagione che non prevedeva turisti, avrei riordinato le idee, ripreso le forze e mi sarei potuto dedicare al mio gioco preferito: scrivere. Pensai a Ivana, al suo problema. Lì c’era la soluzione. Ivana veniva dalle valli a nord di Sondrio, precisamente da Bormio, in Valtellina, era arrivata a Milano che era poco più di un’adolescente. L'università frequentata senza intoppi, qualche storia con i coetanei e poi la laurea. Con in tasca l'assegnazione di uno stage si 19


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presentò a ventidue anni presso una casa di moda prêt à porter, dove iniziò la sua splendida carriera. Ben presto aveva finito col dimenticare le lunghe passeggiate primaverili e le discese mozzafiato con il fratello, lungo i fianchi innevati dei suoi monti. Ma il suo passato le aveva donato una voce salda, i modi sicuri come quelli di un maschio, e lo sguardo diritto e sfrontato. Ivana era bella, molto bella. Con queste caratteristiche Ivana si cimentò su tutti i fronti della metropoli, tutte le sfide che aveva colto e vinto tra i monti, sotto gli occhi fieri di Leonardo, suo padre e maestro di sci, la aiutarono a fronteggiare le ovvie difficoltà che una giovane montanara poteva incontrare a Milano. Gli anni volarono, spesi quasi esclusivamente per la sua crescita professionale. Ivana aveva una grande influenza sugli altri per una naturale inclinazione. Si creò tante amicizie e visse con gioia i divertimenti che la città le offriva ma non ebbe mai un grande amore, salvo un legame forte e intenso con Roberto, che però aveva dovuto sacrificare sull’altare della carriera. Infatti, durante gli ultimi due anni, da quando era diventata direttore commerciale di tutta la rete di vendita dell’azienda, aveva lavorato tantissimo, i suoi orari erano sconosciuti ai più e addirittura lei stessa non riusciva più a percepirli, aveva finito col dedicare sempre meno tempo a se stessa e a Roberto, fino a perderlo. In compenso aveva acquistato con l’aiuto dei suoi e un piccolo mutuo, un bel loft di quasi cento metri quadri a Corso Sempione, l’aveva arredato con tutte le cose che aveva sempre voluto, l’aveva condiviso con Roberto solo qualche mese, poi la rottura. Ivana per me era forza, natura genuina come l’acqua che sgorga dai monti o la corrente salina che spinge lo scafo e aiuta la vela nel suo traino. In lei riponevo le mie speranze e lenivo le mie frustrazioni. Ma Ivana improvvisamente aveva avuto un problema che non riusciva ancora a risolvere, almeno non del tutto, ma io speravo che in quel breve soggiorno avrei trovato la chiave del problema. 20


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Era notte fonda e c’era un buio pesto. Faceva molto freddo e l’umidità copriva ogni cosa. Ero sceso da casa d’impeto, non riuscivo a prendere sonno, avrei voluto ritrovare quella scena che tanto angustiava Ivana, ero venuto fin lì per cercarla. Pensai che la piazza di notte, sgombra di banchi, di tavolini e di persone, potesse consegnarmi un tempo passato, introdurmi in quel mondo che aveva preceduto la piazza stessa, portarmi ai piedi della chiesa di S. Michele Arcangelo e farmi assistere a quella scena che avevo immaginato e che per Ivana era allo stesso tempo, rifugio e tormento. La piazza così buia e sgombra appariva ai miei occhi ancora più grande, mi strinsi nelle braccia per riscaldarmi e per proteggermi, l’arcano che invadeva l’aria mi penetrava fino alle viscere, mi sentivo preda di quella notte, di quella piazza e del mio delirante progetto, vedere ciò che avevo immaginato per capire e aiutare Ivana a capire. D’improvviso il calpestio sul loggiato di passi frettolosi mi scosse a tal punto da farmi rabbrividire, il rumore veniva da lontano e l’illuminazione fioca sul loggiato non mi consentiva di vedere fino al lato opposto, poi ecco, una figura lesta, alta e dinoccolata si stagliò nella piazza, usciva proprio da uno degli edifici antistanti. Era avvolta in giaccone scuro, mi parve familiare, andava in direzione opposta a me, superò il Rivellino e girò a destra, dopo un po’ sentii il rumore di un motore che si avviava, mi rassicurai. Senza una ragione specifica m’incamminai verso la casa da dove la figura era uscita, un edificio settecentesco a tre piani, da una finestra, sopra una saracinesca chiusa, intravidi una luce fioca e udii un leggerissimo sibilo, come di una nenia. Sentii in modo distinto una voce flebile di donna che canticchiava mestamente: Maria lavava, Giuseppe tendeva, Suo figlio piangeva Dal freddo che aveva, e poi di nuovo quei quattro versi, finché la nenia finì e la finestra 21


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divenne buia. Il silenzio mi avvolse e, passato lo spavento per quell’improvvisa apparizione, mi rimisi a pensare alla scena: un giovane in camicia bianca e pantaloni beige fino al ginocchio era a terra tramortito, aveva il viso delicato di un adolescente, una mano poggiata sulla fronte e l’altro braccio cascante di lato al corpo, il viso era pallido, ma non aveva segni di ferite né sul viso né sul corpo. Una donna in un ampio vestito chiaro era chinata su di lui e si teneva una mano sul petto e con l’altra gli carezzava il viso. In piedi due uomini, uno con un forcone, sembravano contadini ed erano lì come a far da guardia, dietro di loro s’intravedeva la facciata di una chiesa. Davanti al giovane prostrato si ergeva un monaco in saio marrone scurissimo che impugnava la croce che portava appesa al collo e la puntava in direzione del giovane, con gli occhi chiusi, come in preghiera, ma sulla bocca aveva un ghigno feroce. Quella notte ricordai chiaramente la scena ai piedi della chiesa, o meglio la ricordai nitidamente così come l’avevo immaginata la prima volta, e che non avevo più ritrovato ogni volta che ci avevo ripensato. Ivana studiava questa scena quando rientrava a casa, nel suo loft di Corso Sempione, dopo giornate frenetiche, passate a lottare con il tempo e gli innumerevoli impegni. Aperto l’uscio, si toglieva le scarpe, si versava un dito di vino bianco, freddo e frizzante e stava a sorseggiarlo stesa sul suo divano rosso davanti alla stampa che riportava quella scena medievale, scrutando ogni centimetro dell’immagine per carpire il segreto che nascondeva e trovare la soluzione ai suoi problemi. Temeva quell’immagine allo stesso modo in cui ne era catturata. Il giovane era tramortito, aveva gli occhi aperti ma assorti in un mondo tutto suo, mentre la donna inginocchiata ai suoi piedi era impaurita e preoccupata, solo il frate aveva un atteggiamento risoluto, i due contadini erano del tutto inespressivi. Dopo un po’ Ivana rabbrividiva e ancora più spossata si ritraeva, metteva la faccia nell’incavo del braccio e si rifugiava nel caldo te22


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pore del suo pianto. Finito il rito, si alzava come un automa e si apprestava alle solite faccende. Mi poggiai alla fontana, ogni tanto lo zampillo gelido che ne usciva per qualche folata di vento si spargeva di là dal suo percorso di caduta, finché uno spruzzo d’acqua freddissima mi bagnò la guancia e i capelli, mi risvegliai d’improvviso e abbandonai Ivana al suo tormento. M’incamminai lentamente su per la stradina che mi riportava a casa, nella mente mi risuonava leggera e confortante la nenia che poco prima avevo ascoltato: Maria lavava, Giuseppe tendeva, Suo figlio piangeva Dal freddo che aveva. Il freddo appunto era sempre più pungente e desiderai ardentemente il letto di Gérard e il caldo benefico che la caldaia aveva diffuso in tutta la casa, affrettai il passo. No, non avrei scritto ancora niente, era presto. La mia Remi sarebbe rimasta ancora un po’ col suo foglio penzolante, terribilmente bianco, come un impotente col membro flaccido e lo sguardo triste davanti al corpo sinuoso di una giovane donna. Non ero più nervoso come in serata, quando in preda alla più nera e sconsolata frustrazione avevo imprecato contro di lei e le avevo lanciato persino una pantofola, ottenendo un arcano messaggio: eRk zuu, che i tasti colpiti avevano imbrattato su quella distesa di bianco, dove si perdevano i miei pensieri. Avevo solo sonno e tanto freddo, quando arrivai a casa, tirai un sospiro di sollievo.

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Capitolo III

Ero stato un bel po’ di tempo nella biblioteca, proprio dentro il palazzo comunale, vi avevo trascorso un paio d’ore a visionare tutte le foto e le stampe del luogo. Appena entrato, avevo chiesto aiuto a un’impiegata e lei con sussiego mi aveva segnato una serie di testi e di volumi, soprattutto di riproduzioni del posto in varie epoche. E così mi tuffai nella visione di tantissime foto grigiastre tendenti al giallo, come un fiume in un tardo pomeriggio d’autunno, vi ritrovai i paesaggi di oggi, però senza colore ma vividi e presenti come oggi. Contadini curvi sotto il fardello di fascine o al rientro dai campi sui loro carri, vidi donne floride in abiti poveri ballare con giovanotti aitanti, tra tini appena svuotati, inebriati dai fumi del mosto che aleggiavano nell’aia. Ammirai la veduta del parco, della rocca e della piazza e le mille vedute dal belvedere. Non trovai mai l’immagine che cercavo. Uscii abbagliato dal sole, l’aria tersa e rigida non mi proteggeva e dovetti sfregarmi gli occhi per resistere all’ondata di luce che m’invase dopo la semioscurità di quel viaggio nel passato. Andai da Marco, pensai al vino ma presi un bel caffè, volevo arrotolarmi del tabacco per tirare due boccate davanti al giornale fresco di stampa e così feci. Rivolsi la faccia al sole, feci scorrere la cerniera del mio giubbotto e nel caldo abbraccio di quel mattino finii con l’assopirmi ma il penetrante squillo del telefonino mi risvegliò: ‹‹ Sì?›› ‹‹ Dove ti sei cacciato? Sono tre giorni che ti cerco. Non sei mai raggiungibile!›› 24


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‹‹Ehi, Sara, ciao›› mi passai la mano libera sul viso per scuotermi dal torpore che mi aveva preso, mi drizzai sulla sedia ‹‹ sono a Cetona, nella bassa senese, conosci?›› ‹‹Un po’ sì, sono stata in quella zona, ma non proprio lì. Com’è il posto, è bello?›› ‹‹ Uno spettacolo!›› ‹‹ Mi manchi Andrea, mi manchi.›› ‹‹ Noo, davvero?›› Sara mi aveva piantato un mese prima, troppo molle sei, mi ripeteva già da qualche giorno, con te sto bene, ma non c’è scintilla, capisci? Mi aveva congedato così. ‹‹ Sì, so che sono incoerente, ma non sto bene senza di te, ecco! Ma tu dimmi: come sei stato? Non mi ha mai cercato, nemmeno una volta. Mi manchi Andrea.›› ‹‹ Beh, ho avuto molto lavoro e poi avevo in mente questa breve vacanza. No, non ti ho cercato, è vero, ma forse avevi ragione, insomma tra noi non schioccava la fiamma, no?›› ‹‹Adesso non so più! Mi vuoi rivedere? Voglio parlarti, mi mancano i tuoi occhi chiari, il tuo ciuffo ribelle e tutto il resto.›› ‹‹ Sara, quando torno su a Milano se ne parla, ti chiamo, va bene?›› in quel momento e in quel luogo Sara era lontana da me anni luce, mi sfregai ancora il viso, piano piano mi stavo risvegliando. ‹‹Va bene ci conto, si va ai navigli, alla nostra osteria: affettato di cervo, asina e il nostro vino, quando torni?›› Sentivo che era preoccupata. ‹‹ Lunedì sono al lavoro, ti chiamo io, a presto.›› ‹‹ Ciao Andrea, ciao, un bacio, chiamami!›› Ivana non si sarebbe comportata così, la mia Ivana non avrebbe mai fatto marcia indietro, avrebbe sofferto sì, ma non avrebbe mai ammesso di aver sbagliato. Ah Ivana, dove sei? Mi alzai di scatto, l’incantesimo pareva finito, più che pensare a Sara, mi ritrovai a girovagare con la mente tra le cose del mio ufficio, lunedì sarebbe arrivato tra pochi giorni, Milano mi attendeva per stritolarmi nei suoi ritmi infernali, come faceva con Ivana tutti i giorni. Pensai all’immagine, al giovane semisvenuto, che non compariva 25


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da nessuna parte. Nessuna tela o stampa lo rappresentava. Sbuffai, mancavano ancora dei giorni. Mi alzai e andai a pagare. ‹‹Ciao Marco, eccoti gli spiccioli, ah prendo anche delle mentine e un’altra provvista di tabacco, mettici pure delle cartine.›› ‹‹ Ecco a te, a presto.›› Uscii, avrei occupato il resto della mattina a visitare il parco di Villa Terrosi, Marco mi aveva detto che era bellissimo e la storia di quella villa era affascinante, raccattai le mie cose dal tavolino e girandomi di scatto mi scontrai con lei. Mi piacque subito, era alta quasi quanto me, aveva capelli nerissimi e occhi viola, nell’urto le cadde il casco e, nel chinarsi a raccoglierlo, pure una bisaccia di cuoio chiaro e poi i giornali e infine una sacca di tela nera. Alla fine si avvilì, si rialzò senza riuscire a prendere tutto, mi guardò stizzita: aveva un viso lungo e zigomi marcati ma gli occhi erano grandi, di un viola incredibile,. Sotto il giubbotto tecno, di un grigio antracite, aveva una maglietta di cotone rosa, non portava reggiseno e i suoi capelli corti scompigliati dal casco erano tutte ciocche scomposte. Si riabbassò per raccogliere tutto, questa volta con più metodo, e io mi chinai con lei affrettandomi ad aiutarla, sentii il suo profumo leggero, aveva dita lunghe e sottili, le spalle erano diritte ma in armonia col bacino. ‹‹ Mi scusi›› farfugliai. ‹‹Beh, un po’ più di attenzione, insomma sembrava un fulmine!» Era ancora stizzita, parlava e si muoveva con sicurezza, con un tocco di mascolinità. Era atletica, avrà fatto molto sport da piccola, pensai. Guardava come un uomo. ‹‹ Sì, è che ero un po’ frastornato. Posso aiutarla a portare un po’ di cose? Per farmi perdonare.›› « È un turista? No, ce la faccio da sola, grazie» parlava veloce, pensai che assomigliasse tanto alla mia Ivana. ‹‹Sì, sono da un amico, che mi ha lasciato casa sua per una setti26


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mana, lei è di qui?›› ‹‹Gérard, lei è l’amico di Gérard. Certo che sono di qui. Va bene mi aiuti, vado a prendere la moto, devo scappare.›› Mi passò la bisaccia di cuoio e ci incamminammo, con le sue gambe lunghe, infilate in pantaloni strettissimi, andava veloce, non c’era alcuna leziosità nei movimenti, il viso non era truccato, il profumo leggero si sentiva solo vicinissimo a lei, i suoi seni erano turgidi e la pelle che intravedevo sotto il collo fino al giro della maglietta era soda e compatta. Mi sentivo attirato da lei come un bambino. ‹‹Andrea, mi chiamo Andrea Torreggiani, mi spiace per prima.›› Aprì le gambe per inforcare la moto, mi piaceva tantissimo. ‹‹ Ci vedremo, mi deve un caffè. Ora scappo, sono Laura, ho la boutique in piazza, sono nata qui.›› Indossò il casco, girò la chiave e partì. Anche Ivana mi avrebbe parlato così. La vidi scomparire nei tornanti, sognai di stare in moto seduto dietro di lei, immaginai il contatto con la sua schiena, il sapore della sua pelle dentro le mie narici. L’interno delle mie cosce aderire alle sue, sentivo il mio bacino stringersi ai suoi fianchi. Provai un brivido: ‹‹ Laura, ti devo un caffè» dissi parlando a me stesso e mi diressi verso la villa del Terrosi.

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Capitolo IV

Certo, Ivana non se lo sarebbe aspettato, venti anni prima, di finire così, di trovarsi in quell’angolo buio, accartocciata con la testa tra le gambe e le mani a stringere le caviglie, con la netta sensazione che presto sarebbe successo di nuovo e ancora una volta sapeva di non poterci fare niente. Certo, Ivana, quando da ragazzina pescava nel futuro le immagini più belle, le più irresistibili, nell’entusiastica frenesia della sua età, non aveva mai pescato l’immagine della disperazione e del dramma che avrebbe vissuto. Certo, Ivana non aveva sbagliato quando un’ora prima aveva incominciato a percepire la netta sensazione di un imminente attacco. Stava seduta stanchissima in metro, linea rossa, aveva già cambiato a Loreto e superato il Duomo, a Cordusio sarebbe scesa, quando sentì un’accelerazione del battito, un senso di pienezza allo stomaco e una vertigine leggera e persistente impossessarsi della sua testa. Rimase sgomenta. Scese in preda all’angoscia, salì di fretta le scale, dominando tremore e instabilità, incominciava a sudare e le gambe diventavano sempre più molli, s’irrigidì in tutto il corpo e camminando a scatti, come un automa, sbucò nella strada. Cercò con lo sguardo un tassì, ma a quell’ora non ce ne erano di liberi, allora dovette percorrere la solita strada: attraversare tutto il parco per imboccare il corso e poi, dopo pochi isolati, sarebbe arrivata a casa. Quando aprì la porta, incominciò a sentire l’inconfondibile cattivo odore che le proveniva dalla pancia, su per lo stomaco, fino in gola. Cercò di far finta di nulla, cercò di non accendere una sigaretta, cercò di non pensare che fosse una ricaduta. Buttò le cose che 28


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aveva con sé direttamente in terra, corse in bagno, urinò a lungo, ne uscì pallida e tremolante, vi si ricacciò e vomitò l’anima. Si sedette sul divano rosso, tolse le scarpe e vi si rannicchiò, di fronte a lei la stampa del giovane svenuto le diede uno sconforto indescrivibile, sentiva il cattivo odore nel suo corpo, le avevano detto che era adrenalina che si scarica in eccesso quando si scatena l’ansia. Era ritornato, l'aveva evitato per un pelo ma era ritornato e sarebbe rimasto in agguato. La sua vita sarebbe stata di nuovo sconvolta come un anno prima, quando vittima ignara fu aggredita nel mezzo di una riunione, che portò a termine solo grazie alla sua enorme forza di volontà. ‹‹ Non mi arrendo, basta! Non è niente» ma fece per alzarsi e barcollò, il loft che aveva scelto e arredato con cura incominciò a girarle intorno come una macchina infernale, un orrendo gioco da lunapark che l’avrebbe stritolata. Pensò di morire, si senti disperatamente sola. Cercò freneticamente il cellulare, chiamò Adriana ma lo squillo permase finché non si spense con un piccolo clic, muto e sordo, maledettamente sordo. Accese una sigaretta e il cuore le schizzò in alto e prese a correre, a correre. Si stese completamente, portò le mani unite a sacchetto alla bocca, e ci respirò dentro lentamente, inspirò il fumo che le era rimasto nei polmoni e l’odore dei suoi umori ormonali. Adriana stava facendo terapia e non avrebbe risposto fino a tarda sera. Si arrese e si accartocciò aspettando che fosse finita. La stampa di fronte a lei rimase a guardarla assopirsi, la casa restò buia in attesa che Ivana superasse la crisi. I sogni che popolarono quel breve sonno furono agghiaccianti. La giovane donna si risvegliò stravolta e mestamente, con cupa rassegnazione, riaprì il flaconcino ormai riposto in fondo al cassetto, di lato al letto, ne estrasse due pillole, le ingoiò senza acqua e rimase ai piedi del letto immobile in attesa che la placassero. Dopo avrebbe chiamato Adriana. Il male, che sembrava sconfitto, era tornato di nuovo a impossessarsi di lei. 29


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La tragedia di Ivana era ricominciata, il fatto che lei si fosse intestardita a tenere quella stampa e a studiarla a ogni rientro a casa forse aveva contribuito al ritorno del suo male ma, visto che non potevo far nulla per distoglierla da quel pensiero, non mi restava che continuare a cercare quell’immagine. Per non dimenticarla avevo persino disegnato uno schizzo, molto rudimentale in verità, viste le mie scarse qualità. Lo schizzo a matita l’avevo posto proprio di lato alla mia Remi, attaccandolo con l’adesivo al pilastrino che reggeva la lampada, proprio sotto la luce che emanava. Lo scrutai a fondo, perché quel ragazzo era svenuto? Era un attacco di panico? Soffriva di epilessia? Ma perché il prete blandiva il crocefisso come un’arma? Forse a quei tempi, non avendo conoscenza delle malattie nervose, ogni manifestazione di queste patologie era letta come una diavoleria? Una possessione demoniaca? Perché Ivana studiava il suo problema in quella stampa? Perché cercare in quella scena soluzioni che non aveva? Perché affibbiarle valore che non aveva? Me lo chiesi più volte, senza mai trovare una risposta ma nemmeno la forza di rinunciare. Ero come Ivana, attratto da quell’idea, senza nessuna speranza di sfuggirle. Mah!, sospirai, mi ero cacciato in una ricerca disperata. Per quel momento smisi di pensare alla tragedia di Ivana.

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Capitolo V

Luca e Dora mi aspettavano per cena. ‹‹ Pici all’aglione e tagliata di chianina immersa in una fresca distesa di rucola, unta con olio crudo appena spremuto e il novello ad accompagnare il tutto. Poi se la temperatura non scende molto, fuori al porticato a fumare il mio toscano e tu ad arrotolarti le tue cicche.» Così Luca mi aveva presentato il suo invito a cena. ‹‹ Caspita, mi hai fatto venire fame al solo sentirti!›› rimasi estasiato dalla sua rappresentazione. ‹‹Allora vieni in serata, scendi sulla provinciale e al primo incrocio vai a sinistra, segui la strada per 200 metri e poi vedrai casa mia, c’è un cancello nero moderno, la targa con su scritto: Conti, e sotto un pulsante, bussa che ti apro, vieni quando vuoi. Ah e non portare niente, solo la tua fame.›› ‹‹ Grazie, sì, ci sarò.›› Luca era un uomo concreto, non diceva smancerie, né si formalizzava. Dietro quel cancello nero, molto solido e pesante, c’era un bellissimo cascinale in pietra grigia con tetto rosso, immerso tra cipressi e ulivi. Dora mi accolse con un sorriso dolce, quasi mi conoscesse da sempre. Voleva bene a Gérard e Martine e alle due biondissime figlie, piccole principesse gioiose, sì, disse proprio così, e, ricordando le due bambine che avevo incontrato tante volte, pensai che fosse proprio vero. Eravamo seduti a un tavolo quadrato, circondato da sedie, l’una diversa dall’altra, a me toccò una sedia di legno bianco, molto squadrata e con uno schienale stretto e alto. Il tavolo era posto sopra una pedana al centro della stanza e il pavimento era in cotto, come quello della cucina, che intravedevo alle spalle di Dora ed era ultramoderna con pannelli di color rubino. 31


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All’altro lato, alle spalle di Luca, si scendeva da quel rialzo e si camminava su un bellissimo parquet, scricchiolante e solido, per andare verso il camino, circondato da divani e poltrone anch’essi diversi tra loro, nel colore e nello stile, di pelle e di velluto. Lo spazio era enorme, quella sala era tutta circondata di scaffali fino al soffitto travato, ed erano tutti zeppi di libri. Non so, ma la casa di Luca me l’ero immaginata diversa, quella che avevo visto, che mi piaceva tanto, non mi sembrava corrispondere ai suoi modi di fare. Mangiammo tutto quello che Luca mi aveva annunciato, più una gustosissima torta della nonna. Dora era una cuoca deliziosa, aveva preparato tutto lei, Luca ci tenne a chiarirlo subito. Avevo portato un buon champagne, ne aprimmo una bottiglia e brindammo alla cuoca, al mio soggiorno e a noi tre. Poi ci spostammo al camino, Dora portò il vassoio con cantuccini e panforti e Luca aprì un brunello di un paio d’anni prima, di un’ottima annata a suo dire e stemmo lì a gustarci il liquido rubino col suo imperdibile gusto. Dora aveva un viso di porcellana, occhi chiarissimi e capelli biondi, coetanea di Luca, portava bene i suoi anni e anche una leggera rotondità che la rendeva ancora più dolce, mi raccontò che veniva dal Canton Ticino, ma aveva sempre vissuto a Cetona, in quella casa, da quando suo padre vi si era trasferito, innamorato del posto. Come avevo pensato, quella casa non apparteneva a Luca, non gli assomigliava, ma lui la padroneggiava come se fosse sempre stata sua. Parlammo di Gérard, della sua famiglia, dell’eleganza di Martine e del loro amore per l’Italia e in particolare per la Toscana, di quando Dora li aveva conosciuti, in una giornata fitta di pioggia, quando la macchina in panne aveva costretto Gérard, nel buio della provinciale, a dirigersi a piedi verso quella casa intravista in lontananza. Lei gli aveva aperto e si era trovato dinanzi un uomo giovane, di aspetto raffinato, zuppo d’acqua, che in un italiano stentassimo cer32


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cava di dirle che aveva la famiglia in macchina, ferma a qualche centinaio di metri e non sapeva come fare. Luca badò a tutto. Da allora erano diventati grandi amici. Poi parlammo di noi, di loro, della loro vita tra Cetona e il negozio di Siena, dove avevano una buona gamma di mobili d’antiquariato. Di Luca e della sua visione della vita, del suo caldo godere delle cose e dei buoni momenti che può offrire l’esistenza e infine di me, della mia vita a Milano, del mio lavoro. ‹‹ Responsabile di organizzazione aziendale» disse Dora, pronunciando quelle parole come se le fossero sconosciute a tal punto da farle apparire ignote pure a me. ‹‹ Deve essere interessante occuparsene. E poi tu sei così giovane, non è facile avere a trent’anni un posto di responsabilità come il tuo.›› ‹‹ Beh trentatré, veramente.›› Sorrisero continuandomi a fissare. ‹‹ Quanti libri, veramente tantissimi» affermai stupito nel volgere lo sguardo attorno alla sala, a parte l’atrio dietro la pedana col tavolo che dava in cucina e la grande vetrata che dava in giardino, tutte le pareti erano circondate da libri. Chissà, pensai, se tra quelle innumerevoli opere avrei potuto trovare finalmente la stampa di Ivana. ‹‹ Sì, mio padre fagocitava libri, ne leggeva due o tre al mese quando ancora lavorava, poi dopo il suo congedo dal lavoro, erano diventati due o addirittura tre a settimana. Quando la malattia gli bloccò la vista negli ultimi anni, ero io che gli leggevo. Anch’io amo i libri.›› ‹‹ Dora è sulla strada del padre, appena rimane a casa, quando non mi segue nel nostro negozio di antiquariato a Siena, si tuffa in letture che durano finché non è ora di preparare cena e s’interrompono solo qualche momento per curare il giardino. Infaticabile lettrice, la mia Dora!›› disse Luca a certificare le ultime parole della moglie. ‹‹ E tu dunque scrivi?›› riprese Dora ‹‹ Per hobby, non ho pubblicato mai nulla» mi schernii. Fuori nel portico indossammo i giubbotti, l’aria era umida e 33


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fredda, arrotolai la mia sigaretta e osservai le gustose e copiose folate di fumo che Luca espirava dalle sue prime boccate di sigaro. Sorseggiando brunello e fumando ci pareva di essere in pace con tutti e Luca sottolineò l’atmosfera con una semplice frase: ‹‹ Che cosa bella!›› ‹‹ Luca, dunque tu vai a Siena tutti i giorni?›› ‹‹ Sì, non è una gran fatica, ho una persona che mi aiuta in negozio, ma, tranne quando sono in giro per qualche trattativa, preferisco sempre esserci e se proprio non posso, allora ci va la Dora.›› Luca aveva una sorta di dominio sulla moglie, quando lui parlava, anche se la interrompeva, lei si zittiva subito e restava in silenzio quasi ossequioso ad ascoltarlo. Sembravano una coppia affiatata, certo non mi apparvero genuini come Gérard e Martine. ‹‹ Avrei voluto comprare qualche ettaro da coltivare a ulivi, questi che ho attorno casa mi danno solo una cinquantina di litri d’olio, che per noi due bastano a stento» poi come rispondendo a sé stesso ‹‹ per le viti, no, non è più possibile. Ormai sono tutte gestite industrialmente, cinquanta anni fa, quando ancora avevamo la mezzadria, mio padre aveva ettari di coltivazione promiscua: ulivi, viti, castagni, tutti, tutti assieme in fosse livellari e terrazze, che dal podere potevi scorgere come folte macchie verdi recintate dai muretti di pietre incastrate a secco. Oggi c’è la coltivazione specializzata, niente poderi, niente fossati o terrazze, oggi si va in verticale, con i moderni mezzi d’irrigazione non hai bisogno di rubare spazi alla collina, segui i suoi pendii e, se sono troppo ardui , li modelli come ti pare.›› Luca amava quella terra e rimpiangeva la mezzadria, l’olio e il vino che i mezzadri portavano in ampi otri e botti alla casa del padre. Luca avrebbe voluto essere un signorotto a metà del secolo scorso, così mi parve quella sera. Quando il motore della mia macchina prese a girare nel suo modo burbero e i suoi fari illuminarono uno spicchio del giardino curatissimo di Dora, era quasi mezzanotte. Nel mio stomaco i resti dei gloriosi pici si erano sistemati meglio, aiutati dalla salsa d’aglio, e in gola il caldo tepore del brunello 34


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mi faceva da scudo all’umidità penetrante della notte. I due ospiti sotto il portico, tenendosi abbracciati, mi salutavano con un lento movimento delle mani. Pensai a Dora, a quando da giovane, biondissima e rosa, si aggirava tra le strade del paese. Peccato che non hai pubblicato niente, Andrea. Peccato! Se tu hai questa passione, dovresti condividerla con gli altri, permettendogli di leggerti, mi aveva detto. E così mi aveva strappato la promessa di inviarle un po’ dei miei scritti, anche se chiesi in anticipo perdono della loro mediocrità. Alberi alti e scuri si stagliavano nella notte ai lati della mia strada come compagni silenti che si assicuravano del mio tragitto dall’alto della loro storia, mi sentii confortato dalla loro presenza e dissi in tono implorante nella mia macchina solitaria: ‹‹Voi che potete, aiutate, aiutate Ivana a vincere la sua battaglia, voi, voi l’avete vista quella scena?›› La notte sognai poderosi virgulti e felci solidissime arrampicarsi come mostri su per i fianchi del monte fino alla rocca e coprirla di enormi acini neri ricoperti di terra e chicchi bianchi di forma ovale e rotonda, e tutti insieme sgonfiarsi d’improvviso, facendo piovere vino rubino e vino d’ambra, un vino caldo, forte come il brunello che mi aveva assopito.

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