Numero 24

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Totem è tabù

Numero 24 - Settembre/Ottobre 2015

di Andrea Muni “La parola tabù esprime due opposti significati: in un senso significa sacro, consacrato, nell’altro, sinistro, pericoloso, proibito, impuro” (tutte le citazioni sono tratte da Totem e tabù di Sigmund Freud). Attraverso questa secca definizione Freud inizia ad accostare la funzione del tabù nelle popolazioni cosiddette primitive a quella svolta dalla nevrosi ossessiva nella società contemporanea. Egli infatti osservava continuamente nella sua pratica che molte persone si ammalavano e si rovinavano la vita per non poter fare a meno di osservare tutta una serie, apparentemente immotivata, di divieti e imperativi che si presentavano loro con un carattere incondizionato. “Per quanto venga inteso negativamente e si rivolga ad un altro contenuto, il tabù in fondo non differisce nella sua natura psicologica, dall’imperativo categorico kantiano, che opera in forma coattiva, escludendo ogni motivazione cosciente. […] Potrebbe esistere qualche relazione tra le motivazioni etiche alle quali obbediamo e questo tabù primitivo. La spiegazione del tabù potrebbe offrirci qualche chiarimento intorno alle origini oscure del nostro imperativo categorico”. Il carattere che accomunava il tabù dei primitivi e i rituali dell’ossessivo era secondo Freud il comune orrore di entrare in contatto con un certo oggetto. L’orrore cioè di entrare in rapporto, in continuità, diciamo pure in con-fusione, con l’oggetto colpito dall’interdetto. Eppure in questo orrore del contatto con l’oggetto, ci racconta Freud, si cela anche il desiderio opposto, ed è per questa ragione che l’oggetto tabuizza-

tabù to appare dotato di “una forza demonica nascosta che scatena una paura oggettivata antecedente ogni sdoppiamento nelle due forme della venerazione e dell’orrore”. Ora, se l’oggetto tabù per eccellenza dei primitivi era il totem – il quale incarnava simbolicamente tutto ciò che reggeva la struttura sociale, politica e “soggettiva” di quei popoli, rappresentando l’elemento simbolico dalla cui tabuizzazione dipendevano tutte le proibizioni particolari a fondamento di quelle società – la cosa curiosa è che nell’ossessivo questo elemento appare misteriosamente assente. Quel che Freud infatti sembra mancare clamorosamente – svelando una volta di più la sua mancata problematizzazione dei fondamenti stori-

ci e politici della psicanalisi – è che...

(prosegue a pagina 2)

In questo numero

Il tabù del tricolore. Quell’anti italianismo tutto...italiano

pag. 4

Lo sguardo obliquo di un piccione filosofo pag. 12

Tina Modotti La scelta della lotta pagg. 14 - 15


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Tabù

Totem è tabù (segue da pagina 1)

di Andrea Muni

Quel che Freud infatti sembra mancare clamorosamente – svelando una volta di più la sua mancata problematizzazione dei fondamenti storici e politici della psicanalisi – è che tutto il parallelo che egli svolge tra i tabù dei primitivi e la nevrosi ossessiva odierna potrebbe reggersi soltanto a patto di riuscire ad individuare il “totem” di quella “tribù” che negli ultimi due secoli è venuta formandosi e riconoscendosi globalmente attorno ai concetti universali di uomo e di soggetto. L’invisibile totem del nevrotico che tutti siamo potrebbe infatti non essere altro che la nostra stessa idea di uomo e di soggetto. È nei confronti di questo “oggetto” che noi soggetti concreti dell’epoca neo-liberale proviamo quell’affetto che – individuato per primo da Bleuer e poi ripreso da Freud – prende il nome di ambivalenza. Avere un sentimento ambivalente significa: “desiderare svolgere quest’azione [infrangere il tabù, aggredire il totem] e al contempo aborrire ad essa. Il conflitto tra le due tendenze non è facilmente risolvibile. Il divieto è perfettamente cosciente, mentre il piacere prepotente di mettervi mano è inconscio. […] Ogni volta che il desiderio inconscio di toccare il totem emerge alla coscienza sotto forma di atti o godimenti, il divieto reagisce acuendosi ulteriormente. La tensione, il crescendo di queste due tendenze opposte produce le pratiche di difesa tipiche dell’ossessivo, che si configurano come azioni di compromesso”. Il soggetto che tutti ci riteniamo essere, vale a dire quel soggetto che si immagi-

na pensante e progettante, quel soggetto interiore, razionale, utilitario, dotato di aspirazioni, di corpo, di aspettative, frustrazioni, cioè proprio quel soggetto che – quando parliamo – chiamiamo “io”, potrebbe non essere altro che il nostro totem contemporaneo. Desideriamo infatti al contempo proteggerlo, per orrore di quel che potrebbe esserci al di là, e distruggerlo, per la promessa di godimento che trasuda dal divieto stesso. Questa ambivalenza, pur giocandosi a livello dell’esperienza privata di ogni singola persona, rappresenta la chiave di ogni radicale alterazione politica delle regole storiche che strutturano i fondamenti di una società. Nel suo versante privato, individuale, etico ogni soggetto infatti partecipa – certamente in misure diverse a seconda del suo ruolo politico – del continuo divenire di ciò che ha funzione di totem, cioè di elemento simbolico che garantisce le regole che presiedono ai rapporti di potere e di desiderio di una società. “L’uomo che ha trasgredito un tabù diviene tabù a sua volta perché acquisisce la pericolosa proprietà di indurre gli altri a seguire il suo esempio. Quest’uomo suscita invidia. [...] E si deve anche anche convenire che se l’esempio d’un uomo che ha violato la prescrizione è di stimolo perché un altro segua la stessa strada, quella disobbedienza si diffonde come un contagio, proprio come il tabù a sua volta passa da una persona ad un oggetto e da un oggetto ad un altro”. Se il totem della cultura neo-liberale fosse davvero l’oggetto “soggetto”, potremmo concluderne che la sua eventuale profanazione non potrebbe avere altro sapore che quello di una scenografica auto-aggressione. La quale, grottescamente, seguendo la lettera di Freud, avrebbe il potere contagioso di scatenare l’invidia in coloro che rispettano i tabù discendenti dal totem. L’oggetto colpito da tabù, nella nostra cultura, è infatti scivolato dentro, è divenuto invisibile per un eccesso di prossimità: è “il soggetto”. È per questo che le nostre fobie e i nostri tabù sono proietta-

ti su oggetti esterni, oggetti che velano il ruolo – al contempo sacro e disgustoso, il ruolo di totem – svolto quotidianamente e inconsciamente proprio da noi stessi in quanto ci identifichiamo con quel soggetto che si immagina esistere in virtù del presunto fatto che pensa, e che, per di più, pensa di desiderare. “Nella nevrosi l’azione è assolutamente inibita e totalmente sostituita dal pensiero. Il primitivo invece non conosce questa inibizione; i suoi pensieri si trasformano immediatamente in azione; si potrebbe arrivare a dire che in lui l’azione sostituisce il pensiero. Perciò, senza pretendere di chiudere la discussione con una decisione assoluta e definitiva, possiamo arrischiare questa affermazione: «in principio era l’Azione»”. Il genio e il limite di Freud sono condensati tutti in questa frase, che conclude Totem e tabù. Una conclusione in cui Freud a sua volta inconsciamente, e in maniera davvero sintomatica, afferma simultaneamente che: 1) La nevrosi ossessiva è la condizione normale dei soggetti occidentali e (neo)liberali. 2) C’è stata una reale azione degli uomini della nostra cultura e della nostra società che ha prodotto storicamente il confinamento politico del soggetto concreto in un essere interiore, progettante, utilitario, edonista e razionale. Quel che Freud non poteva vedere, a causa del suo stesso orrore sacro nei confronti del totem storico del suo tempo, è che tutto ciò che egli scopriva nei soggetti, attraverso la sua pionieristica e coraggiosa indagine, non era altro che questo totem: il soggetto (neo)liberale, e le sua funzione politica. Un totem storico, trasformabile, nei confronti del quale lo stesso Freud provava quell’ambivalenza che lo ha portato ad inventare al contempo il principio di piacere (venerazione del totem) e l’istinto di morte (sua profanazione). Questo (s)oggetto infatti ci sostiene nella vita, ma al contempo ci provoca al di là, ci provoca in quel luogo in cui l’Azione degli uomini non cessa di produrre nuovi totem, e con essi, certamente, non c’è motivo di nasconderselo, anche nuovi tabù.


Tabù

Pisciare sul fuoco. Freud e l’Antiedipo

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uando pensiamo ai tabù non può che venirci in mente Freud e il suo celebre saggio Totem e Tabù. Ma anche un’altra pietra miliare scritta dal padre della psicanalisi: il Disagio della civiltà, la civiltà come disagio. Capitoli di quella che Freud definiva psicologia delle masse, che trattava sempre in una forma ipotetica, come tentativo, fino a intenderla come estensione alle società di quei principi e di quegli insegnamenti che aveva tratto dallo studio del materiale inconscio individuale. In fondo era lo stesso Freud ad avvertire che la “psicologia individuale era anche, fin dall’inizio, psicologia sociale”. Perché, notava ancora, “solo raramente, in determinate condizioni eccezionali, la psicologia individuale riesce a prescindere dalle relazioni del singolo con gli altri”. Argomenti che evidentemente non bastarono ad arginare la furia demolitrice (nel senso migliore dell’espressione, come di un’orda che decodifica e sgretola i confini) dell’Anti-edipo: per Deleuze e Guattari, anche quando si apre al campo sociale, Freud resta impastoiato con l’Edipo, la messa in scena, la famiglia. Un teatro antico e non una fabbrica, una rappresentazione e non la produzione. La scoperta – il desiderio – è subito misconosciuta: tutto viene edipizzato, proibito, castrato, nevrotizzato. Non ci può essere desiderio se non c’è legge (e in fondo non è quello che sostiene da un po’ di tempo Recalcati?). La

psicanalisi è guastata dall’inizio: “è come la rivoluzione russa, non si sa quando comincia ad andare male”. Data, comunque, per inconsistente – o quasi – la distinzione tra individuale e sociale, la questione certo non sparisce, anzi semmai prolifica. C’è ancora da notare come Freud lavorasse su “storie” singolari, dati empirici che con grandi sforzi poi cercava di generalizzare. Singolarità sfuggenti, che andavano smussate, ripiegate come asciugamani perché entrassero – sempre un po’ in disordine - all’interno di qualcosa come degli armadi teorici. Basta porsi alla fine, ad Al di là del principio di piacere (e non solo come testo), per vedere come quella che dovrebbe essere la teorizzazione di una pulsione di morte (così almeno passa), è in realtà un cantiere che continuamente va a pezzi, senza per questo rendersi meno interessante. Anzi mostra nelle sue pieghe ciò che conta. Lo scarto. “L’es funziona ovunque, ora senza sosta, ora discontinuo. Respira, scalda, mangia. Caca, fotte”: con queste parole si apre l’Anti-Edipo. Ed è proprio su una forma poco frequentata – si spera solo teoricamente – di scarto che vorrei porre l’attenzione, con un interessante nota che Freud riporta in Disagio della civiltà. Freud sta parlando dei primi atti di civiltà e tra questi – scrive – l’addomesticamento del fuoco spicca come una conquista straordinaria e senza precedenti. Rimando in nota e colpo di genio: “Il materiale psicanalitico, per quanto incompleto e di difficile interpretazione, permette almeno una congettura (che sembra fantastica) sull’origine di questa impresa umana. Si direbbe che il maschio primitivo fosse abituato, quando incontrava il fuoco, a soddisfare su di esso un desiderio infantile spegnendolo con il suo zampillo d’orina. Sull’originaria interpretazione fallica delle fiamme che guizzano e si levano in alto, stando alle leggende che possediamo, non ci può essere dubbio alcuno. L’atto di spegnere il fuoco orinando – cui tuttora si rifanno quei tardi giganti che sono Gulliver a Lilliput e Gargantua di Rabelais – fu dunque una specie di atto sessuale con un uomo, un dilettarsi della potenza virile in competizione omosessuale. Colui che per

di Davide Pittioni primo rinunciò a questo piacere e generò il fuoco, poté portarlo con sé e piegarlo al suo servizio”. Qui Freud dice tutto. Non è importante che la storia che racconta trovi o meno riscontro negli studi antropologici. Si tratta della tesi che ad una rinuncia pulsionale corrisponde un atto di civiltà. È la nascita del principio di realtà, che non può che determinare un circolo nevrotico. Disagio della civiltà, per Freud. Edipizzazione, nevrosi, famiglia, per l’Anti-Edipo, perché il tabù – in fondo – è il monito di un padre. Mentre, invece, notano Deleuze e Guattari, prima di tutto c’è un reale, produzione, produzione di produzione, desiderio: “la produzione sociale è unicamente la produzione desiderante stessa”. Come a dire che prima della famiglia, molto prima di una scena intima, di un nevrotico disteso su un lettino, c’è produzione sociale. In fondo Edipo uccide il padre perché non gli lascia il passo, e nient’altro. La famiglia è già attraversata da parte a parte da un socius più ampio: “c’è sempre uno zio d’America, un nonno anarchico, una nonna all’ospedale, pazza o rimbecillita”. È competizione, anche: come nel passaggio in cui Freud indica un originario atto omosessuale (altro che contro-natura!). Rimaniamo in un campo insidioso, dove si incontrano singolarità e giochi del caso, come l’“atto di civiltà” che Freud riporta in nota. Non è solo un esercizio di scetticismo ribadirlo – un po’ come dire con Hume che qualunque inferenza induttiva è precaria e sempre passibile di essere falsificata. Serve, infatti, a mostrare il valore dell’irregolarità (contrariamente ai termini che lo stesso Freud utilizza, il “regolarmente” che chiude il passo, per esempio). Sembra proprio un evento del tutto casuale, un incontro fortuito tra diverse direttrici: un uomo qualunque, un giorno, incrociando un fuoco (?) decide di non pisciare sulle fiamme e di addomesticarle. La teoria è abbastanza lontana da non sorprenderci: in una singolarità, non individuale, ma semplicemente particolare, sembrerebbe formarsi la civiltà. “Qualcosa si produce: effetti di macchine, e non metafore”.

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Tabù

Il tabù del tricolore:

quell’anti italianismo tutto... italiano

di Lorenzo Natural

natural.lorenzo@gmail.com

L’

italiano medio ha quell’insopportabile malcostume di vergognarsi a priori del proprio Paese, e di non saper scinder tra Stato e Nazione. Al punto che alla legittima polemica anti-statale, si mescola, però, un autoinflitto anti-italianismo che inquadra nella progressiva rimozione del tricolore la vergogna nel sentirsi parte della nazione Italia. Al di là di ridicole quanto ancor più svianti retoriche patriottarde, tento di offrire una breve genealogia dell’anti-italianismo... prodotto dagli italiani stessi! Borboni 2.0 e complottismi 17 marzo 1861: viene proclamata la nascita del Regno d’Italia, mentre il Regno delle Due Sicilie termina la sua storia con la fuga di Francesco II a Gaeta. Inizia così la tumultuosa vicenda del Meridione italiano. Ora, che le truppe savoiarde nella calata verso sud abbiano compiuto atti iniqui è fuori d’ogni dubbio, così come grande rispetto merita la tradizione meridionalista, pietra angolare della riflessione storiografica italiana. Tuttavia oggi assistiamo a un superficiale revival neoborbonico in chiave pateticamente anti-italiana che ha fatto breccia tra vasti strati della popolazione del Sud, rinvenendo la causa dei propri mali nel Nord usurpatore e nel tricolore giacobino, rimpiangendo i bei tempi andati dei Borboni. Talmente belli che, all’arrivo dei Mille, fu vasto l’iniziale appoggio della popolazione locale: come mai? Forse perché un sistema in cui il 90% delle ricchezze era concentrato nel 2% della popolazione non andava così bene ai sudditi? Forse perché l’analfabetismo all’86% e l’aspettativa di vita inferiore di vent’anni a quella del resto d’Italia non rendevano il regno borbonico un Eden in terra?1 È stato il processo di normalizzazione,

e non il Risorgimento stesso, a funestare il Sud Italia, processo in cui le élites endemiche stesse – i “galantuomini” di derobertiana memoria – hanno contribuito al malaffare. Più facile abbracciare tesi complottistiche – per cui Mazzini e Garibaldi erano dei luridi massoni al soldo degli inglesi –2 e subire la suggestiva fascinazione per i briganti, eroici resistenti del piccolo mondo antico, tralasciando le ambiguità di un fenomeno nato ben prima del XIX secolo e inquadrato da più storici come jacquerie o lotta di classe piuttosto che anti-unitaria3.

tra ha rimosso dal proprio immaginario collettivo quel senso di patria che ne aveva caratterizzato i primi vagiti. Atteggiamento che cozza, però, con lo sventolio di bandiere greche per manifestare solidarietà a Tsipras, palestinesi per sostenere la resistenza anti-israeliana, di tricolori irlandesi per rivendicare la sovranità sull’intera isola verde. Inni alle resistenze nazionali e di popolo (altrui), imbandierate dai vessilli nazionali, mentre il proprio al massimo lo si sventola con una stella rossa, per rimarcare una netta separazione tra buoni e cattivi.

Neofascismi Anche nell’estrema destra il tricolore è stato a lungo un simbolo inviso per la sua indelebile macchia massonica, al quale si è sostituita la nordica croce celtica che ben poco c’azzecca con la storia d’Italia, manifestando una certa vergogna per gli untermensch latini (cioè per se stessi), a confronto con l’europeismo ariano-settentrionale. Evola ha fatto disastri.

Abiurato, schernito, vilipeso, il tricolore diviene l’emblema del disprezzo verso se stessi e verso una storia nazionale che nelle sue palesi e preziose contraddizioni ha radici ben più lontane di quel 1861. Un disprezzo che esalta il gioco di chi vorrebbe eliminare ogni sacca di resistenza nazionale e che gode nel vedere la disintegrazione interna degli Stati. Del vituperato tricolore non ci restano che le strade imbandierate durante i mondiali di calcio – ma solo se si vince! – e i popopopopo ad accompagnare le italiche imprese sportive. Una bandiera di unità, simbolo di un popolo, di una comunità, tanto odiata da divenire tabù. Peggio ancora, feticcio da divertissement, buono per lasciare le briciole a una Nazione spogliata di ogni sovranità e virtù, ma a cui pietosamente si concedono circenses. Il panem lo portino l’Austria, gli USA, Amazon, Google, la Franza o la Spagna. Purché se magna.

“Abbiamo un sogno nel cuore: bruciare il tricolore!”: leghismi e indipendentismi Allo zenit del meridionalismo si situano nel nord Italia movimenti che intravedono nel Sud sfaticato e parassitario le cause della stagnazione del fiorente Nord: cambia il vettore (“Roma ladrona!”), ma non la sostanza del malcontento. Il caso più eclatante è rappresentato dalla Lega Nord. A Trieste, di recente, le istanze per il ripristino del Territorio Libero strizzano l’occhio all’Austria, o meglio alle vestigia austriache della città, in un calderone di richieste abbastanza confuso: purché stare sotto l’odiato tricolore meio la galina con do teste, che tanto di buono ha fatto per la città, rimuovendo dalla narrazione le innumerevoli nefandezze compiute, anche a Trieste, tra fine Ottocento e primo Novecento dall’impero asburgico con manovalanza d’oltre confine in chiave trialista e anti-italiana4. Sinistre Se è a sinistra che nasce il patriottismo, è sempre da questa parte a morire. Il secolo breve ci ha restituito un’Italia dilaniata in due. Il tricolore è diventato così simbolo di prevaricazione, nazionalismo esasperato, fascismo. Accogliendo il modello comunista trans-nazionale, la sinis-

NOTE 1 Emanuele Felice, I divari regionali in Italia sulla base degli indicatori sociali (1871-2001), “Rivista di politica economica”, Roma, 2007, fasc. IV. 2 Su Mazzini “pesa” il fantomatico carteggio col massone A. Pike, la cui veridicità è pari a quella dei Protocolli dei Savi di Sion. Su Garibaldi la sua conclamata aderenza alla massoneria, nonostante avesse dato un duro colpo all’attività dei Rotschild nella gestione del Banco di Napoli. 3 Sulle origini del brigantaggio, sulla sua natura ambigua e composita, sulle infiltrazione mercenarie e altro si veda Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, Feltrinelli,1964. 4 Le fonti vanno da quelle primarie (i verbali del Consiglio dei Ministri asburgico del 12 novembre 1866, i decreti Hohenlohe, etc.) alla bibliografia secondaria, tra cui: Luigi Barzini, Gli italiani della Venezia Giulia, Milano, 1915; M. C. Macartney, L’Impero degli Asburgo, 1790-1918, Milano, Garzanti, 1976.


La locomotiva

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Tabù

di Ruben Salerno

uali sono i doveri di un buon cristiano? La vita ti gioca brutti scherzi e stare lì a interrogarsi sul suo senso profondo finisce per essere spesso inutile o, peggio, obsoleto. Il fatto che qualcuno possa aver già detto o concluso prima di te le pensate geniali, frutto di ore di riflessione e notti tormentate, ti dà un fastidio fottuto. Guardi il tg, leggi il giornale e ti crei un’opinione, poi ti confronti con altri tuoi simili esprimendo giudizi ragionati e vedi che non capiscono o, peggio, non vogliono capire. “Mediocri”, dici tra te e te ma, se ti fermi lì a pensare troppo, finisci per convincerti di essere tu l’idiota e intanto il tempo scorre, poi ti viene fame, sete, sonno, ecc. Il fatto di credersi “creati a Sua immagine e somiglianza” e ritrovarsi schiavi dei propri bisogni fisiologici è frustrante, ti par di non essere poi così diverso da Tabou (in francese si scrive così), il cane della tua amica Mila.

e conosce un solo metodo per spronare gli allievi: la sacra bestemmia!

La vita è come guidare una locomotiva. Gli illusi di genitori, da quando nasci, provano a costruirti dei binari sui quali poi tu dovresti viaggiare in sicurezza per il resto della vita. Nessuno però ti avvisa che forse non li hanno fatti dritti, che sono andati a braccio e a occhio perché non avevano né metro, né bolla e il ferramenta era in vacanza. Poi, andando, scopri che i giunti che doveva fissare la maestra in verità sono un po’ laschi perché era distratta dalla routine dell’insegnamento eppoi soffriva perché, dopo due mesi di ferie, non riusciva a riprendere ritmo. Tu però vai a tutto vapore, in fondo sei giovane e pieno di energie e le scorte di carbone sono piene, anzi, vorresti andare più forte! Nessuno però si è ricordato di avvisarti che le ruote si stanno consumando perché il tuo allenatore, che doveva oliarle, non fa un aggiornamento da dieci anni

Ti spacchi la schiena ma lo fai con gioia, pensando a quanto sarà bello quando il treno andrà di nuovo a tutta velocità. In miniera scopri che qualcun altro potrebbe voler fare lo stesso percorso con te, così unite i vagoni e ripartite, doppio peso ma anche doppia quantità di carbone. Non sai se il viaggio sarà sempre sicuro, in fondo entrambi i convogli sono usurati dai tanti chilometri percorsi. Talvolta potrebbe capitarvi la malsana idea di costruire un treno nuovo, insieme. Il problema è che il ferramenta è sempre in ferie e nessuno sa dove sia. Alcuni affermano addirittura che non esista alcun ferramenta. Altri dicono che ha lasciato un manuale con su scritte tutte quante le misurazioni. Allora ti prendi il libricino e lo studi a fondo. Sei convinto che, così facendo, non solo potrai sistemare i tuoi binari storti, i giunti laschi e le ruote

Nell’incedere costante scopri che la strada non è unica, che ci sono altri treni e che bisogna imbroccare i cambi per non schiantarsi. All’inizio qualche spavento lo prendi, subendo qualche scossone e deragliando qua e là, poi ci prendi la mano e continui nel tuo viaggio verso chissadove. Al che ti dicono che il carbone scarseggia e devi rallentare, che se vuoi continuare è ora che inizi a procurartelo da solo. Allora imbracci il piccone, prendi la carriola e cominci a darti da fare.

consumate, ma saprai costruirne di meravigliosi per il vostro nuovo trenino. Nel viaggio incontri altri come te, in arrivo da ognidove, con la medesima idea ma con un testo diverso. Anche il loro ferramenta è in vacanza... Tu non sei uno che si lascia condizionare ma, nel dubbio, compri tutti i manuali che trovi, non si sa mai che ci sia scritto da qualche parte dov’è ‘sto posto in cui vanno in ferie tutti e quanti i ferramenta. Se è così bello, tanto vale indirizzare il viaggio in quella direzione, invece di insistere verso l’ignoto. Mentre ci ragioni su, però, continui per la tua strada, sempre più lento e arrugginito, finché noti qualcosa di strano. Guardandoti bene attorno scopri che il paesaggio intorno a te è lo stesso che avevi già visto, molto tempo fa. Ti chiedi come sia possibile, in fondo sei sempre e solo andato in avanti! Man mano che incedi ti accorgi con orrore di aver viaggiato in tondo per tutto il tempo, in un complesso sistema di treni, stazioni, cambi e binari ma pur sempre in un cerchio chiuso su se stesso. Non c’è alcuna meta, dice qualcuno dei tuoi nuovi libri, altri sostengono che il bello è proprio godersi il viaggio, non importa la destinazione e fin che c’è carbone, c’è speranza! Devi solo continuare ad andare senza sosta, finché non l’avrai finito e non avrai più la forza di prenderne dell’altro o non ci sarà qualcuno che lo faccia per te. A questo punto ti fermi di nuovo a pensare e ti accorgi che, tutto sommato, essere schiavi dei propri bisogni fisiologici non è poi così male: mangiare, bere, dormire e liberarsi degli avanzi, ora e per sempre, “and the best that you can hope for is to die in the sleep.” In fondo, eccezion fatta per l’abbaiare, la tua vita non è poi così diversa da quella di Tabou, il cane della tua amica Mila.

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Atto di fede & ‘Ara Cattin’ da Mel

Laura Vattovaz


Terza Pagina

inserto letterario

Sneeprincesse (Invernale) A Julija Lipnickaja

In cambio delle tue scarpette rosse, povera Gerda scalza, sicuramente il fiume si è ghiacciato spontaneamente e una cornacchia gracchiando di rimando a un tuo sussurro commossa ti ha insegnato i suoi volteggi. Il tuono ti sorprende china sul ghiaccio come la bambina che più non sei – e che né più sarai –, t’arresta il dito sui segni infantili che disegnando vai sul freddo specchio: apri le braccia ad accoglier la pioggia tintinnante gli abeti frastornante la neve ridente goccia a goccia sul tuo viso. Ebbra d’immensità nel volo aperto schivando la figura nel riflesso te stessa forse tenti di fuggire te stessa obliando, sotto questa pioggia che batte ancora ma che più non senti. Povero cuore gelido, qualcuno qui t’attende... Ma tu, rapita, disegnando il vetro a larghe rote, spinta nell’immenso, ad altro sogno intendi. Beata te! Nel tuo regno d’istante distante a ogni richiamo volerai sempre, sempre solitaria, sì come si conviene a ogni bellezza che troppo avvicinata s’allontana. Potessi dare al vento la mia penna e la mia pena anch’io per qualcos’altro!

Ettore Spada


L’ albicocca

Non ricordo quasi più i sogni che faccio di notte, al risveglio ho negli occhi solo qualche dettaglio affrettato, una serie di immagini minime e discontinue. Ma di recente sono riuscito a salvarne uno: siamo in tre su un divano lunghissimo. La temperatura è al suo massimo stagionale e l’eccesso di luce riduce ogni cosa alla sua superficie di riflessione. Siamo in tre, io, mia madre e mia nonna, in una piccola sala d’hotel ed abbiamo aspettato per molto tempo. Si sente a volte un suono di tacchi provenire da un ambiente attiguo: forse oltre le porte a vetri si innalzano delle scale e giovani donne vestite di verde le scendono in occhiali da sole, fumando sigarette lunghissime. Forse al piano terreno c’è un casinò ed è tutto un affaccendarsi di camerieri in livrea, di gentiluomini sudati e di avventurieri con il fiore all’occhiello. Forse c’è un terrazzo sul mare e delle placide cubane sciolgono pigramente in bocca il ghiaccio dei loro Martini. Alla mia sinistra siede mia madre che è giovane. Giovane com’è io dovrei avere tre anni e invece ne ho trenta e sto cominciando a diventare grasso. Mia nonna non parla e pare essersi addormentata. Ad un certo punto devo andare al bagno: percorro un lungo corridoio e mi trovo in una sala che è tutta specchi. Noto un ometto coi baffi intento a mettersi il rossetto, ci sono i lavandini, c’è una pila di asciugamani bianchi, ma non ci sono porte. Senza troppi riguardi per l’uomo gli orino nel lavandino a fianco e guardandolo ancora mi rendo conto che porta nel taschino della giacca un minuscolo cane maltese. Mi aggiusto la camicia nei calzoni e sono di nuovo nella sala d’aspetto e c’è un bambino biondo seduto accanto a mia madre. Lei gli parla in inglese, sorridendo, come si suole dire, amabilmente. Il bambino ha un accento britannico ed una giacchetta blu. Capisco immediatamente che stavamo aspettando lui e che è il figlio di mia madre. Mi avvicino dicendogli che sono suo fratello e faccio per stringergli la mano, ma dalle maniche della giacca blu lui mi porge una mano di legno, da burattino. Mi pare poco cortese scuotergli quella protesi così fredda e impersonale e allora lo abbraccio e quasi piango. Lui dice a mia madre che mi sono commosso all’idea di avere un fratello. Ma io non mi sono commosso, ho singhiozzato perché non sapevo cosa dire.

In un attimo siamo fuori, sulla balconata, a bere una gassosa al limone. Devo aiutare questo mio fratello a bere ma lui accompagna comunque il bicchiere con le mani da burattino e dice che non può disabituarsi ai semplici gesti di ogni giorno. L’uomo con il rossetto siede ad un tavolo poco distante e di tanto in tanto ci guarda. Il suo cane minuscolo gli scorrazza sul piatto, finendo i resti di quella che fu una sontuosa aragosta. Prendo in braccio questo mio fratello e lui mi dice che gli è stato diagnosticato un gigantismo delle mani. Non è una patologia di cui preoccuparsi troppo, la crescita armonizzerà nel tempo il resto del corpo a quei suoi arti mastodontici. L’uomo col cane è il suo medico personale, un austriaco, un eccentrico, il migliore nel suo campo. Per il momento, su consiglio del dottore, lui ha scelto di portare le braccia di legno, gli pare cosa ben più dignitosa. A dimostrazione di quello che dice muove un po’ gli arti di carne che porta fasciati al corpo, sotto la giacchetta, ed io li posso vedere. Questo è un sogno, penso. È un bel sogno, gli dico, spero davvero di ricordarmelo da sveglio, sai, sotto il cuscino tengo un taccuino ed appena alzato lo vorrò scrivere. Faccio per prendere una sigaretta e mi accorgo di non avere le tasche. Il bambino biondo mi guarda scuotendo la testa e dice che sul taccuino, invece, dovrò scriverci questo: Ho provato a immaginarmi la morte fin da piccolo. E da allora, non molto tempo fa, sono cambiate molte cose. Nel corso dell’infanzia crudele spaccavo ogni cosa per il puro piacere di provare il suo punto di rottura. Prendevo a calci zucche e cavolfiori, fingendo fossero i crani di nemici mortali, soffocavo i fiori che mi parevano i più complessi, ho succhiato le uova di merli e bisce, dormito nei fossi, ringhiato dietro ai gatti. Giravo spesso gli acquitrini, correndo tra le canne e l’erba alta. Pescavo per gioco delle larve grosse, scure e corazzate, per poi schiacciarle nel palmo della mano. Un giorno ne ho mangiata una e sono stato un mese a letto con le visioni, credevo allora di morire. L’esperienza mi segnò profondamente e nei giorni leggeri, nei giorni dei cieli chiari, stavo seduto per ore nel campo dei soffioni. Tra le loro sporadiche esplosioni, mi commuovevo a vedere il gheppio inseguito dalle gazze. E pensavo a come sarei dovuto morire. Ora so che voglio morire nel modo in cui una ragazzina, nel pieno del sole estivo, portandosi la mano alla bocca e ridendo, sputa di colpo l’osso dell’albicocca.

Nicola Pacor


L’albero delle ciliege Stavamo a lungo sul terrazzo a snocciolare e sgranocchiare e chiacchierare. La nonna conosceva le regole dei giochi con le carte che le ricordavano chissà che cosa chissà che tempi lontani. Noi imparavamo i gesti e le parole e tra una ciliegia e l’altra anche un’altra sera s’era sbiadita, andata. Steso sulla pietra fredda e dura guardavo le stelle ammiccare, sentivo qualcosa incrinarsi in quel velluto viola, eterno. Avevo nel cuore una spina, la stessa che adesso come un bimbo, steso ancora sulla pietra dura non so, non posso levare. E ancora quando andavamo a camminare lungo strade sterrate anch’esse sempre le stesse e la voglia di parlare da sola riempiva la nostra sera. L’odore dei campi, della nostra infanzia, umido e fresco che presto (così presto) si è fatto ricordo dai contorni incerti. Nel terrazzo grande che a me pareva tutto ciò di cui avevo bisogno noi come in un sogno vi passavamo ore infinite, ore che ora hanno il sapore un poco aspro e un poco amaro del vuoto. E lì nel campo dietro c’era una piccola capanna di legno, il segno di una presenza a noi ignota,. Una bambola sulla sediolina e una foto sbiadita. Credevamo di vivere nelle favole, nelle pellicole di vite altrui miracolosamente da noi incarnate.

Un canale poco distante era il confine del nostro regno, dietro ancora un recinto immenso che celava alle sue spalle chissà quali luoghi, chissà quali piante. Io timoroso e tremante mi ci accostavo e non osavo posare un piede oltre. Il nonno sempre parlando poco, con uno sguardo o un gesto ci disse molto. La sofferenza e il dolore che non possono essere espresse perché non possono essere comprese ci rese ai suoi occhi subito grandi e per sempre piccoli, intoccabili. “daghe de magnar!”, “i ga magnà?” e questo era quanto, come se soltanto un piatto di pasta potesse dare serenità. E poi le lunghe notti nella casa al mare con le zanzare e i botti. I nonni un po’ genitori un po’ amici, il campanello della bici e gli schiamazzi della gente. Lui se ne stava steso sul divano l’occhio assonnato, la matita in una e le parole crociate nell’altra mano, lei nella cucina e tante cose da fare e a noi due non mancava mai niente, tutto era come caduto dal cielo, visto cadere lentamente, da lontano. Alla continua ricerca di un segnale, un indizio che possa riportare la memoria vivida alla mia mente (ma niente). So che non posso, non potrò più rivivere quei giorni dai contorni mangiati dal tempo. Volti vuoti e parole mute cercano di comunicarmi qualcosa ma tutto posa in bilico, sospeso sopra il silenzio immenso della dimenticanza.

Matteo Mascarin


Ultima poesia (per N.Z. e N.N.) E allora domandate l’ultima poesia quella che sigilla la raccolta che decide il testamento del poeta o lascia un postscritto in faccia al lettore per camuffare in punto di morte le influenze letterarie che il critico noto ha carpito per il bene della tradizione. Ma sarà poi veramente l’ultima a dire quel che non era stato detto da tutto quello che è stato detto per uomini che non si accontentano di un finale insoluto? (E per questo vanno di moda sequel e seconde parti dove tutto finisce tranne la fine della storia). Forse l’ultima poesia non è mai l’ultima ed è un tranello di poeti che sanno quanto sia vago il mattino nella stazione ariosa e spenta quando un volto alla meglio sfuma sul fondo di un treno partito; l’addio ormai collaudato in un bar dove si aspetta il caffè finire da un momento all’altro; o il bagliore fuori scena come un piovigginare d’argento che la luna incanta sulla risacca – as the deep waters ran on – mentre smonta la notte dalla collina turbata e divertita dal giorno che muore, come il gigante di Goya seduta a contemplare la sua parte prima di calare dolce e definitiva. 30 agosto 2015

A. Da Baciocchi


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Dialogo fra Carlo Magno e il dr.Wu sui videogiochi di nuova generazione

di Solivagus Rima

C

arlo Magno è annoiato e depresso. Pensa al suicidio, mentre si rimpinza come al solito di patatine e di Cipster seduto sul suo pouf dell’IKEA. Sa di non potersi uccidere, perché una strega l’ha costretto all’immortalità. Tuttavia, i pensieri legati alla morte lo perseguitano da quando la sua esistenza ha perso ogni scopo. Ha passato gli ultimi quarant’anni della sua vita immortale a giocare ai videogiochi. Li ha giocati tutti: Pac-Man, Donkey Kong, Prince of Persia, GTA, World of Warcraft, Guild Wars, ecc. Ha giocato con passione su tutte le piattaforme videoludiche esistenti nella storia, passando dalle macchine a gettoni delle sale giochi al Nintendo 64, alla PlayStation, all’XBox, al PC. Per non parlare delle console portatili. E per quanto riguarda il Wii? Non scherziamo, per lui quella è davvero la peggior console della storia. L’ha provata una sola volta in vita sua. Molti suoi amici l’hanno chiamato più volte nerd, ma lui sa che la definizione più corretta è geek. Carlo Magno non ama studiare, lui gioca ai videogiochi! Tuttavia, non ha mai voluto fare il saputello supponente e correggerli. Lui non ama mettersi in mostra. Ora, in questo pigro 2015, i videogiochi dopo tanti anni non lo soddisfano più, prima erano l’amore della sua vita. Ora nulla ha più senso. Pensa che il mondo dei videogiochi sia sprofondato in un abisso buio. Ma, mentre è in procinto di ingurgitare chili e chili di aspirine per provare a farla finita e a sconfiggere l’immortalità, ecco che una sorta di “fantasma” si cala dal cielo. In realtà non è un fantasma, è il dr. Wu, lo scienziato di Jurassic Park. Carlo Magno non crede ai suoi occhi. Forse sta sognando. Dr. Wu: “Fermati! Sai bene di non poter morire. Non insudiciare il tuo onore e le tue origini troiane. Non dimenticare il dono che Dio fece ad Arnolfo, uno dei capostipiti della tua famiglia, restituendogli l’anello dallo stomaco del pesce che l’aveva ingoiato. Non scordare queste tue origini che ricordano molto Big Fish!” Carlo Magno: “So bene di non poter morire per colpa di quella strega maledetta che nel Bosco Ombroso mi ha fatto immortale con

un incantesimo, costringendomi dall’814 alla vita eterna. La odio, mi ha obbligato a una lunghissima e tremenda vita di sofferenze. Lasciami in pace, dr. Wu. Voglio morire! Nulla ha più senso senza i miei videogiochi. Ma che ci fai qui? Sei reale?” Dr. Wu: “Sono un personaggio immaginario e ovviamente non sono reale. Mi hanno mandato sulla Terra quest’anno perché è uscito Jurassic World. Tu l’hai visto il film?” Carlo Magno: “Assolutamente no! Non capisco perché ti abbiano chiamato dopo il casino che hai fatto su Isla Nublar la prima volta. Hai ucciso delle persone, perdio! E poi Crichton si starà rivoltando nella tomba per quell’obbrobrio di film.” Dr. Wu: “Smettiamola di parlare di me! Parliamo di te. Perché vuoi ucciderti?” Carlo Magno: “Semplicemente perché il mondo dei videogiochi è morto!” Dr. Wu: “Ma non è assolutamente vero, ci sono i giochi sui cellulari e i giochi di Facebook. Per non parlare dei videogiochi che puoi acquistare su Steam.” Carlo Magno: “Tutti questi nuovi videogiochi sono orribili. Potevo ancora ancora accettare i primi videogiochi online a pagamento, come lo storico World of Warcraft, ma non sopporto l’idea che facciano dei videogiochi di scarsissima qualità solo allo scopo di lucrare. Fare i videogiochi è una forma d’arte e giocare ai videogiochi è una grande passione. Ormai sembra che gli unici aventi diritto a finire i videogiochi siano quelli che hanno i soldi nella vita reale. Non esiste più abilità nel giocare, anche nel mondo dei

videogiochi ormai è il denaro che comanda. Ti faccio degli esempi: Goodgame Empire, Candy Crush Saga, per restare in tema anche Jurassic World: Il Gioco e pure QuizDuello. Sono tutti giochi che su Facebook e sul cellulare vengono presentati come gratuiti, ma che in realtà vendono a caro prezzo costosissimi pacchetti di soldi, carte e abilità virtuali. Che schifo! Per non parlare dei giochi rilasciati su Steam prima di essere completati, altra carognata. Praticamente trattano gli utenti come se fossero dei beta tester. Fanno uscire giochi incompleti e pieni di bug e promettono di completarli successivamente con delle patch, anche se questo la maggior parte delle volte non avviene e questi restano incompleti. Ciò ovviamente succede perché le aziende hanno bisogno di liquidità immediata, ancor prima di terminare i videogiochi. È come se si acquistasse un libro scritto male o senza finale. Nessuno comprerebbe mai un libro del genere, eppure ci sono tantissimi giovani entusiasti di spendere decine di euro per un gioco in anteprima, anche se incompleto. La grafica poi è penosa. È davvero tutto uno schifo! Bisognerebbe fare in modo di fermare tutto questo, ma nessuno fa nulla ed io sono troppo vecchio ormai per ribellarmi. Ti sembrerà stupido, ma ecco perché voglio morire!” Dr. Wu: “Non ne vale la pena…” Carlo Magno: “Caro mio, ora ti saluto e vado a coricarmi, augurandomi che questa notte un Indominus rex o un Velociraptor ammaestrato entri dalla finestra e mi divori nel sonno. Buonanotte, dr. Wu.”

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Cinema

Lo sguardo obliquo di un piccione filosofo una scimmia sottoposta a scariche elettriche urla dal dolore nell’indifferenza di una scienziata, che al telefono ripete, in modo distaccato, la frase che tornerà più volte nel corso del lungometraggio: “sono contenta di sentire che state bene”. Il tema dell’animale – l’animalità dimenticata (eppur presente) dell’uomo, e al tempo stesso il significato di “umanità” – percorre l’intero film, fin dalla scena iniziale, dove un anziano si aggira tra alcuni uccelli impagliati in un museo, osservandone con curiosità i corpi senza vita. Cosa significa guardare l’esistenza umana a partire da una prospettiva che umana non è, come ad esempio quella di un piccione? Cosa sono morte, sofferenza, disperazione – ma anche la felicità, sempre fugace – agli occhi di chi scruta il mondo di sorvolo, mantenendo una distanza tale da non compromettere l’osservazione, ma in grado anzi di ampliarla? Roy Anderson prova a rispondere al difficile quesito nel suo ultimo film, vincitore lo scorso anno del Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia. Due funerei venditori di maschere e scherzi di carnevale il cui compito sarebbe – come dicono – “aiutare la gente a divertirsi”, ma che al solo guardarli in faccia mettono tristezza. Carlo XII di Svezia che entra in un bar, con soldati e cavalli al seguito, a ordinare un bicchiere d’acqua prima di intraprendere la campagna contro la “perfida” Russia. All’interno di un pub un sordo ottuagenario si abbandona ai ricordi di gioventù, quando chi non aveva denaro con cui pagare poteva permettersi un bicchierino baciando la proprietaria, in un canto generale la cui eco si diffonde dai ricordi al presente dell’anziano. Ogni agire si ridimensiona, le volontà si fanno piccole e meschine, fino a scomparire definitivamente: a restare è una narrazione senza pathos, e perciò stesso senza alcuna retorica falsificatrice, vivida immagine delle nostre ‘banali’ esistenze quotidiane. Un duro colpo per l’antropocentrismo a cui siamo ormai assuefatti, al punto da giustificare ogni azione sia di qualche utilità (anche solo presunta) all’uomo, benché a scapito di altri esseri viventi o dell’ambiente: la scienza mostra così il suo volto più sadico e osceno, in un capitolo ironicamente intitolato “homo sapiens”, dove

Siamo al cospetto di un film che vuole essere l’anti-film per antonomasia: niente effetti speciali, niente dialoghi serrati, né trama coinvolgente. Insomma: un pugno allo stomaco per i botteghini, che infatti non si sono sprecati a distribuirlo, nonostante il prestigioso premio conquistato. Un film filosofico, in cui però la filosofia (quasi) non si esprime a parole, ma nelle infelici vite dei protagonisti del lungometraggio. Un film – ecco una parola che ben lo descrive – esistenzialista, in cui ci si interroga continuamente su ciò che siamo (o che non siamo più), restituendoci un ritratto agghiacciante. Delle ‘piccole’ vite ritratte nel corso del film, è il denaro (o, meglio, la sua mancanza) a essere padrone: gli affari vanno male ai venditori di scherzi di carnevale (i due protagonisti del film), i quali vendono poco e – laddove riescono a piazzare la propria merce – non possono riscuotere il pagamento pattuito, perché nemmeno i loro clienti se la passano meglio. Il denaro è l’inaspettato protagonista anche dell’unica scena in cui l’uccello del titolo viene esplicitamente menzionato: una bambina recita una poesia che parla di un piccione posato su un ramo, che riposava e pensava. “A cosa pensava?”, chiede il maestro alla bambina. “Al fatto che non aveva soldi”. L’atmosfera cupa del film si riflette in questa mancanza, di continuo sottolineata dai luoghi grigi e periferici di anonime città svedesi. Nella narrazione lenta e pacata, con pochi colpi di scena, spicca su tutti un frammento tragico, che si rivelerà essere l’incubo di uno dei due protagonisti: uomini, donne e bambini africani legati a catene vengono fatti entrare, sotto minaccia della frusta, in un grande cilindro metallico, sotto al quale viene poi

di Stefano Tieri acceso il fuoco. Al di fuori, oltre ai soldati in divisa, giunge un gruppo di ricchi e anziani signori per ammirare la scena sorseggiando champagne. La prospettiva si ribalta: se prima guardavamo il cilindro, ora fissiamo negli occhi i nuovi arrivati mentre, a loro volta, questi ultimi contemplano lo spettacolo. Siamo noi gli esseri umani torturati e sterminati nel cilindro. Strumenti di diletto, costretti all’impossibile per sopravvivere. Schiacciati da un giogo che forse, non immaginandone l’ultima finalità, abbiamo provveduto noi stessi a edificare. Prima dalla parte dei carnefici (“e nessuno si pentiva o chiedeva perdono, neanche io”, ricorda il protagonista traumatizzato dal sogno), ora vittime anche noi del meccanismo infernale. Colti dall’angoscia resta solo una domanda: è possibile uscirne? La risposta, se cercata nel film, la si può trovare nei pochi momenti lieti: due bambine su un balcone che, sorridenti, giocano con le bolle di sapone. Una donna in un parco che culla e gioca con un neonato in una carrozzina, per la gioia di entrambi. Due amanti che, abbracciati, fumano una sigaretta alla finestra dopo l’atto amoroso. Gli unici momenti in grado di rompere il circuito economico che vuole totalizzare ogni esistenza. Gli unici a ricordarci che la vita è anche altro, che deve essere anche altro. Quanto siamo consapevoli di essere parti (se pur piccole) dell’ingranaggio che ci sta annientando? E quanto conosciamo le nostre potenzialità per contribuire a bloccarlo? “Avrei preferenza di no”, ripeteva Bartleby a chi lo voleva incasellato in una funzione. Una formula performativa, che al solo pronunciarla sferra un colpetto a quella funzione che, così ci viene detto, siamo. È con i singoli colpi che si abbatte il muro (pardon, il cilindro).


Voci da Gezi

Attualità

di Andrea Piras

Kaan Ahmet Yıldız

T

rieste, metà giugno. Nell’ambito delle giornate mondiali dell’ambiente, il cinema Ariston proietta Çapulcu – voices from Gezi (Turchia / Italia, 2013, 60’). La sala è semipiena, attenta. Il taglio del documentario risalta nettamente in una rassegna ambientalista: scene di guerriglia urbana, cortei oceanici che scandiscono Bella ciao in versione turca. Qual è il fattore che ha condotto al rango di rivolta le proteste per la soppressione di un parco pubblico? Come è la situazione oggi a Gezi Parkı, due anni dopo? Gezi Parkı è uno storico spazio verde nel centro di Istanbul. Situato presso la centralissima piazza Taksim, a livello simbolico è il custode dell’identità della moderna repubblica laica turca. L’area, che divenne un parco negli anni Quaranta, era occupata in precedenza da una caserma – Topçu Kışlası – costruita nel 1896. Kaan, studente di architettura della Yıldız Teknik Üniversitesi, mi spiega come il vertiginoso inurbamento dell’ultimo mezzo secolo – la popolazione di Istanbul è passata dai cinque milioni di abitanti del 1964 agli oltre diciassette odierni, in crescita – crei immense periferie proletarie, prive di pianificazione. Lo stesso abnorme sviluppo del settore edilizio è uno dei fattori che incrementano la migrazione interna dalle regioni anatoliche, e questo processo esponenziale alimenta la nascita di conflittualità di classe ed etniche inedite – come nell’antico distretto greco di Tarlabaşı, ora a maggioranza curda e sotto minaccia di demolizione. Con questa situazione, nel 2013 il governo conservatore della Turchia progetta la demolizione di Gezi Parkı e la ricostruzione dell’antico edificio ottomano, con funzioni di centro commerciale. Il disegno, supportato principalmente dall’allora primo ministro

Tayyip Erdoğan – ora Presidente della Repubblica – include la costruzione di una nuova moschea e la demolizione dell’Atatürk Kültür Merkezi, altro luogo simbolico nel punto focale di Taksim. Se un design urbanistico etico dovrebbe creare soluzioni per i residenti, un progetto di questo genere persegue lo scopo opposto: trasformare il profilo ideologico degli abitanti, adattare stili di vita secolari alle “esigenze del mercato”, insieme a quel formidabile mezzo di controllo borghese di morali e consumi che assicura la religione. Di conseguenza la Taksim Solidarity (formata da architetti e ambientalisti) indice una piccola dimostrazione pacifica, con il supporto delle organizzazioni della società civile. La mattina del 28 maggio circa cinquanta ambientalisti campeggiano in Gezi Parkı, con l’obiettivo di impedire il taglio degli alberi; la polizia risponde in modo sproporzionato, con gas lacrimogeni e violenze. Foto della scena, come l’immagine di una giovane manifestante (soprannominata in seguito “la donna in rosso”) immobilizzata mentre veniva inondata di gas, fanno presto il giro dei media mondiali. Da qui in avanti, la protesta diviene generale; Kaan, come molti altri, si unisce alla dimostrazione dopo aver visto manifestanti pacifici che campeggiavano in un’area pubblica caricati dalla polizia. “Ho visto anche miei amici venire arrestati con pesanti atti di violenza. In quei giorni chiesi al vicepresidente del Partito Popolare Repubblicano (il principale partito di opposizione) Gürsel Tekin, che avevamo incontrato in Taksim, di aiutarci a reperire informazioni sui nostri amici che erano stati arrestati. Fu di grande aiuto e in due giorni i miei amici erano fuori, senza aver subito torture o maltrattamenti”. La mattina del 31 maggio un nuovo attacco, con uso indiscriminato dei gas; il giorno

dopo, migliaia di manifestanti da Kadıköy – la parte asiatica della città – attraversano il ponte sul Bosforo per raggiungere Taksim, mentre scoppiano disordini ad Ankara e Smirne. Il documentario segue gli eventi dalle prime fasi, e raccoglie diverse testimonianze; al termine della proiezione, parliamo con il regista Claudio Casazza, presente in sala. Çapulcu (“teppisti”) è il termine sprezzante con cui il premier definì i dimostranti, e che essi stessi adottarono, con un atto di appropriazione linguistica che Noan Chomsky supportò in via diretta. Le proteste a Gezi andarono avanti fino alla fine di giugno: attorno al 7 giugno circa cinque milioni di persone erano in strada in tutta la Turchia. Otto persone uccise, migliaia di feriti e centinaia di persone ancora sotto arresto è il bilancio finale delle proteste, durante le quali il governo è andato contro la costituzione diverse volte. Oggi Gezi, congelati i lavori, è ancora un parco; le tende che campeggiano ora in tutta l’area sono quelle dei rifugiati siriani. Proprio in Siria si decide il prossimo futuro politico di Erdoğan: secondo molti analisti, la recente ripresa del conflitto armato con il PKK ha lo scopo di ritrovare la maggioranza assoluta in Parlamento, persa nell’ultima tornata elettorale, nelle amministrative del primo novembre, ponendosi come l’unico soggetto capace di riportare l’ordine nelle regioni orientali, con l’eterno spauracchio del terrorismo. L’evoluzione dell’AKP, partito al governo dal 2002, da soggetto islamico moderato a sistema di potere cleptocratico e radicalmente conservatore, sembra concretizzarsi nella recente stretta alla libertà di stampa; in caso di vittoria, per la difesa di Gezi Parkı come spazio verde – ovvero critico – sarà necessario un enorme sforzo collettivo.

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Fotografia

Tina Modotti, la scelta della lotta “Tina Modotti, hermana, no duermes, no, no duermes”: è il primo verso della poesia che Pablo Neruda dedica a Tina Modotti in occasione della sua morte, parole che verranno incise sulla piccola umile lapide sperduta nell’immenso Panteon de Dolores di Città del Messico. Neruda, come altri intellettuali dell’epoca – Rafael Alberti, Antonio Machado, Bertold Brecht, Ernest Hemingway, Costancia della Mora,... – conosce Tina in Spagna lottando nella sanguinosa Guerra Civile contro il fascismo franchista. Tina si trova lì come membro del Soccorso Rosso Internazionale assieme a Vittorio Vidali, il comandante Carlos del V Reggimento. Per tutti è Maria, qualcuno la conosce come Carmen Ruiz, ma solo a pochi intimi amici rivela la sua vera identità, il suo passato di fotografa in Messico e le sue origini Italiane, friulane. Ricostruire la sua storia sarà molto difficile anche per i posteri: Tina Modotti è stata riscoperta solo molti anni dopo la sua morte, le informazioni che vengono raccolte tra archivi e testimonianze risultano spesso carenti e

contrastanti. Si delinea il profilo complesso di una donna la cui vita è caratterizzata da emigrazioni, esili, arte, lotte politiche, amori e rivoluzioni. Dall’Italia agli Stati Uniti, dal Messico all’Europa, e poi la Russia di Stalin, la Spagna della guerra civile e di nuovo il Messico. Tutto ciò fa di Tina Modotti una figura malleabile su cui sono state spesso create narrazioni discutibili. Artista, fotografa, comunista, ad un certo punto della sua vita sceglie di abbandonare la macchina fotografica per dedicarsi completamente alla lotta antifascista come membro del Soccorso Rosso Internazionale. Questo è il passaggio più discusso della sua vita sul quale si sono concentrati critici, biografi e romanzieri interpretando, supponendo e diffondendo teorie che in un certo senso rischiano di minare il valore della sua scelta. Lo fanno soprattutto da sinistra imputando l’abbandono dell’arte alla grigia macchina stalinista che risucchia le anime fagocitandole nei suoi ingranaggi, un pericoloso fantasma del passato da scongiurare, una macchietta da lavare. Ma ricostruendo il suo percorso, ascoltando i suoi contemporanei e la sua stessa voce nelle lettere e negli articoli risulta chiaro che la versione vittimistica della vita di Tina Modotti non regge. Tina (Assunta Adelaide Luigia) Modotti nasce a Udine nell’agosto del 1896, una cittadina di provincia al confine nord orientale dell’Italia in cui i socialisti, come suo padre, non erano ben visti.

di Sabina Borsoi

Come molte famiglie dell’epoca anche la sua è destinata a emigrare in America, un pezzo alla volta, man mano che si mette da parte il gruzzoletto. Migranti economici che puzzano di aglio, si direbbe oggi. Così Tina diciasettenne raggiunge il padre e la sorella maggiore a San Francisco. Mentre un occhio apprensivo e preoccupato resta aperto sulla situazione Italiana, l’altro vivace e curioso recupera in fretta tra libri e mostre gli anni di studio persi per lavorare in fabbrica. In questo contesto conosce il futuro marito, il poeta e pittore Robo del quale rimarrà vedova dopo pochi anni, ma dal quale erediterà il sogno del Messico. Sogno che si realizzerà rapidamente assieme al fotografo e amante Edward Weston. I due si immergono con entusiasmo nel florido clima della culturale messicano e stringono subito amicizia con i muralisti Rivera e Siqueiros. Tina è modella e allieva di


Fotografia Weston, da lui impara la tecnica e la ricerca dell’equilibrio delle forme e subito esprime il suo talento. Viene definita da Siqueiros, in un articolo dedicato alla sua prima esposizione, una fotografia pura, onesta che non ricorre a trucchi ma, accettando i limiti dello strumento, riesce a creare opere di pura bellezza. Tina nel frattempo comincia a frequentare il partito comunista, la redazione del suo giornale “El Machete” fondato, tra gli altri, dai muralisti ed entra a far parte della Liga Antifascista. Conosce il triestino Vittorio Vidali, inviato direttamente da Mosca per controllare il partito, conosce il suo grande amore, il rivoluzionario cubano Julio Antonio Mella che verrà ammazzato dai funzionari del dittatore Machado. Man mano che la sua attività politica si intensifica, i soggetti delle sue fotografie cambiano. Ritrae operai, campesinos, bambini della calle e simboli della rivoluzione, mantenendo sempre un equilibrio perfetto tra valore estetico e valore sociale. Tuttavia questo equilibrio, almeno nelle sue intenzioni, è destinato a incrinarsi in favore della funzione politica. Sarà Tina stessa a sottolinearlo nel saggio “Sobre la fotografia” pubblicato in occasione della sua ultima esposizione messicana, il suo ultimo atto rivoluzionario prima dell’esilio. Il clima politico in

Messico è cambiato, è iniziato quel processo chiamato Contrarrevolucion e i primi ad essere colpiti sono i pericolosi comunisti stranieri. Nel 1930 Tina viene espulsa e imbarcata, destinazione Rotterdam. Sulla nave c’è anche Vidali che la invita a seguirla a Mosca. Lei preferisce passare un periodo a Berlino, dove tenta di mantenersi come fotografa. Ma la luce non è quella del Messico, i materiali per la sua Graflex sono difficili da recuperare, ha pochi contatti, pochi soldi e l’OVRA alle calcagna. Dopo qualche mese raggiunge Mosca, le viene offerta la possibilità di lavorare come fotografa del Partito, ma lei rifiuta, preferisce agire attivamente come membro del Soccorso Rosso Internazionale. Nell’ultima lettera che scrive a Weston – con il quale ha sempre mantenuto una fitta corrispondenza – parla di “una vita completamente nuova” e si ritiene “quasi una persona diversa, ma molto interessante”. Ad un altro amico fotografo, Manuel Alvarez Bravo, esprime il

suo stupore riguardo l’indifferenza con cui si sta separando dalla sua Graflex e l’assoluta mancanza di tempo da dedicare alla fotografia. Inizialmente Tina si dedica all’accoglienza dei rifugiati politici che fuggono dalle persecuzioni fasciste, poi assieme a Vidali viaggia in tutta Europa per sostenere le varie sedi del Soccorso Rosso fino ad approdare in Spagna nel 1936 quando sta per esplodere la Guerra Civile. Vidali, il Comandante Carlos, fonda il V Reggimento. Tina si occupa dell’allestimento degli ospedali, dell’organizzazione degli aiuti internazionali e dell’evacuazione dei bambini all’estero. Scrive inoltre diversi articoli per Ayuda, semanario de solidariedad, organo del Soccorso Rosso spagnolo. In questi articoli tratta diversi temi, ma in particolare traspare la sua convinzione nella lotta contro il fascismo, nell’internazionalismo, nella solidarietà di classe. La causa antifascista è il filo conduttore della vita di Tina Modotti, causa alla quale sarà tanto fedele da rifiutare la tessera del partito comunista dopo la stipulazione del patto Molotov-Ribbentrop tra Stalin e Hitler. Coloro che hanno combattuto con lei in Spagna la ricorderanno come una donna fragile ma instancabile, forte e dura nei suoi ideali, ma senza mai perdere la tenerezza. Troppo spesso questa ultima parte della vita di Tina è relegata in un secondo piano rispetto alla Tina fotografa. Ma si dovrebbe ridare il giusto valore alla sua scelta di dedicare quegli anni alla lotta – ancora attuale – contro tutte le forme di fascismo. “Porque el fuego no muere”, ma di tanto in tanto bisogna ravvivarlo.

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Musica

SOLO RUMORE di Francesco Baldo

MIGUEL - WILDHEART

FOALS – WHAT WENT DOWN

Vincitore per distacco della categoria ‘copertina maschio alfa’, Miguel torna a quattro anni di distanza da ‘Kaleidoscope Dream’ (altra copertina che è tutto un programma) con un soffice lavoro r’n’b vecchia scuola. Che poi, onestamente, non sentivo una canzone r’n’b’ dai tempi di European Top 20 su MTV. Bella voce, bella musica, bello tutto. Per un genere che era quasi morto e sepolto questa è nuova e pura linfa vitale, anche se alcuni cliché continuano a nidificare con costanza, tipo l’attitudine da passero scopaiolo alla R.Kelly dei tempi d’oro.

È più forte di me, ogni volta che esce un disco dei Puledri sono lì, come un teenager innamorato, pronto ad ascoltare l’ultimo estratto o la preview dell’intero album. ‘What Went Down’ è un buon disco, che unisce la raffinata abilità strumentale del penultimo lavoro della band all’estro e al brio delle prime uscite: insomma, corrisponde a quell’odioso modo di dire del “disco maturo”. Ecco, l’aggettivo maturo applicato all’arte in generale lo odio, mi puzza sempre di vecchio, di venduto o di scaffali non raccomandabili in negozi erotici con l’insegna tripla X. Quindi diciamo che un buono lavoro indie, punto.

Tracce preferite: ‘What’s Normal Anyway?’, ‘Coffee’, ‘A Beautiful Exit’.

Tracce preferite: ‘Lonely Hunter’, ‘What Went Down’, ‘Albatross’.

EARL SWEATSHIRT – I DON’T LIKE SHIT, I DON’T GO OUTSIDE SUFJAN STEVENS –

CARRIE AND LOWELL

Membro di rilievo del collettivo hip-hop fancazzista Odd Future, questo sudatore seriale di camicie ha due tratti imperdibilmente rari per la scena: un notevole talento e un’altrettanto notevole depressione cronica. Incrocio un po’ le dita e strofino il necessaire, visto che i 27 si avvicinano, ma spero che questo ragazzetto possa ancora essere produttivo a lungo. Un flow statico e costante, una macchia nera che ti rincorre e ti inghiotte, piatta e monotona, con dei beat classici e cuciti su misura, per esaltare un incessante flusso di parole: tutto questo è incastonato in un titolo che si introduce da sé. Fanculo tutti, hai ragione Earl.

Piangiamo un po’ insieme?

- MAGGIO

Gli EE erano uno di quei gruppi di cui vedevo sempre recensioni bellissime ma che non riuscivo ad ascoltare nemmeno sotto tortura. Al loro ascolto ho preferito di tutto, dalle repliche de ‘La Tata’ alle partite di calcio dell’Under 21: insomma, tutto pur di non sentire un accozzaglia di strumenti a caso. Forse una capatina dall’otorino potrebbe tornare utile, forse uno psichiatra potrebbe essere più valido, ma questo nuovo e coinvolgente pop made in UK mi ha trascinato dalla sua parte a colpi di synth e falsetti. Mi tocca alzare la bandiera (gialla, che qui si balla). Tracce preferite: ‘Regret’, ‘The Wheel (Is Turning Now’), ‘Blast Doors’.

GEORGE FITZGERALD – FADING LOVE

Non avevo idea di chi fosse Giorgione nostro fino a che non ho iniziato ad ascoltare assiduamente i podcast di BBC Radio, dove il ragazzo si diverte a mixare le robine del momento che preferisce. I risultati sono stati due: una miniera d’oro di fighissimi pezzi di elettronica mai sentita prima (no, nemmeno facendo shopping da Zara) e un’ascoltata al suo primo album. Sorpresa, è un ottimo disco. Trasliamo la situazione in Italia: lo ascoltereste mai un lavoro di Linus e Savino?

Periodico registrato presso il tribunale di Trieste (autorizzazione n° 1266 del 27/8/2013). Direttore responsabile: Stefano Tieri Grafica: Alberto Zanardo Terza Pagina: Giovanni Benedetti Editore: Associazione culturale “Charta Sporca” Presidente: Lorenzo Natural Vice-presidente: Davide Pittioni Segretario: Stefano Tieri Tesoriere: Ruben Salerno

2012

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CHAR TA SPO «Tende RCA discussi rà a rimette definitiv one tutto re a mi , ché in inco nsap in consape evolme rifiuto, nte sia volm form ente, a che queste di a ogn pac le Pasolin parole ificazion i e»: la poe i, che di Pier Pao scelto sia il cui introdu lo cono titol com periodic e nom o è e da stato o Sarà un acca questo per dem le eccefoglio ico. correzio ssive macchia ni, riscrittu to figlie re, ogni del dub cancell ature, bio che uom o anim a cosc iente: - siam tratteremo Charta da Cul o della ogn tura limiterenostra epo i aspe : l’Arte mo ad ca ma non tto pass non ha tem essa, poic ci grigio ato po tailleur hé è sapp da une qua ia leggpres lsiatutto in trappola uno ente si erve, ed èpergià tra capolino , la donna «presanos chi i politici fare loro cravatta volu l’ottica lo. Fareono dal nodo della y appaia: eccolovian tamnon ente si sottragg mo dante anacron strabica – l’uomo bloccato che Noam Chomsk fervore (gara a cui , apolide istic nelle sue giacche poltroncine blu, in attesa con maggior a, del nalità” – di per comode “istituzio Il pubblico strepita gara a chi acclama è seduto su riverenza – di istin to. e allora? - di i le mani, una siam fumo». Ognuno posto, l’alone d’Israele, certo... si, uno spellars in cui è stato Charta e delloo Stato cauna scrosciare d’applau che dice: la teca tina . Bas Uniti d’Ameri form venuguale» ). di tarda: resta a importante quello ia le violenze degli Stati locali presenti nelle un grup studenti fondo non è saputala, tutto po eter , che parla, ma in parole. Denunc saperla ma che, il titolo della pron idee e Infine Noam forza alle sue ogeyoutube su to non è tanto di toglie to, nei neo Italia cercando in a contro farlo anche principî potete cui è stato circonda importa: «il problem non za alle sue parole, stesso l’un l’alt a dars , ed importan La verità, tanto, foglio, i ro, delle per dare peso sull riascoltarlo d’inchio profond noncura o legacy”. perso, o se volete e its roots, our nte volgarizzando questo stro mac a tutto ciò, Se ve lo siete le g World Order: alla chegnare chie riempendo scon “The Emergin porteràcontenut i, tro conferenza: ze rivolte anche stutà, amtrai nostri di conferen pen pagine di pubblici che agli a nza, oltre ambiti del sapere. - vog spazio alle nostrene. nicamente sono cittadina liam dei più diversi dato miccando schizofre Sono sicuro Abbiamo ogn nostro sistema salvo i pila o spo rcarci La critiche al messa denti. lasciate né e a manca? ai margini; sulla tism gnate dalla il poli man o è le destra rete con noi era la stessa state accompa che ab- realtà ci, poi, ovuche ban chei, concorde nqu ticamen degli aspetti o la nostra relegadi Stefano Tieri te corr dito; spa- accorger ad essere annunc si arm estata in evidenza ero risposta, premiand a (di certo meritass etto ano iato sistema , casada questo biamo ritenuto modo il parlare Cultura e di scelta un po’ romantic e la vici. Ogn i pavidi, margine cui uno era stata e la posto bre del zio, allo stesso o dal ta al sarà d’antan) con l’affetto avrà forza suo nell’otto affiancat Al sempre fa, di stato il anavete è malato. delle (hacora Un anno che finora ci ggio prop scritto, stampato di cultura riferisco, qui, affermata una “cultura” rie idee nanza 2011, veniva primo numero di fare cultura (mi a definirla continuare il . dimostra to.

Lilli

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sudcora senso nato alla Terza Pagina). e distribuito e televisiva, Il gruppo tale?) volgare dell’auCharta Sporca. eo nelle idee ma zione del pemercato, serva allora, eterogen principio fonda- Oltre alla pubblica all’interno dita del facile e deun svenduta al di riodico – distribuito concorde in orga- dience, di turno. al di fuori il dell’Università – abbiamo di Ita- magogico slogan dovuti rassementale (seguire, ento namento esterno, saremmo forse ogni condizio critico), è presto nizzato, nel Dipartim un ciclo Ci I oramai chiuso, proprio spirito ndo studenti lianistica cresciuto, raccoglie

EVERYTHING EVERYTHING – GET TO HEAVEN

Tracce preferite: ‘Should Have Known Better’, Death With Dignity’, ‘Fourth Of July’.

Tracce preferite: ‘Mantra’, ‘Faucet’, ‘Inside’.

NUMERO VI

Tracce preferite: ‘Full Circle’, ‘Call It Love (If You Want To)’, ‘Knife To The Heart’.

a voi e auguri: Un caro saluto nno è di tutti. questo complea

I

racc E’ stat onto Mish a dise o lo stes ima so Buz de “Il gnare la zati Ci un pae deserto dei copertin a il sono persona cioso saggio brul Tartari” pass cavalloè attravers lo e roc- : che ci ato ci ha ggi che ato da nero si, diffi appaion donato all’o un e rizz o e semplic cili da dec misterio te rocc onte da delimita to ifrare. eme a mo pianiosa, men una pare O - comnon esse nte siam o divi tre in verd pripren re in grado noi sa i dern cato militaresono indo e berretto o di e il e l’in invisibi ssati da signifihan segn no un amento le... nio del lasciato tra il che le ince veloce e ines turbidere orab della Storia... i-

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In copertina una rielaborazione grafica di un fotogramma tratto dal film “Lolita” di Stanley Kubrick (1962)


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