Numero 23

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Numero 23- Maggio/Giugno 2015

Il terrore di Montale di Giovanni Benedetti

La parola italiana “terrore” deriva dal latino terròrem (da tèrreo per *tèrseo, *trèseo; la radice è TRA-, TAR- che indica movimento e agitazione) ed esprime uno spavento tanto grande da fare impallidire, tremare le membra e piegare le ginocchia. A fianco delle immediate definizioni di “terrore, spavento” il vocabolario Castiglioni Mariotti riporta anche l’accezione di “minaccia”, risaltando la sfumatura del significato di terrore come paura provocata da qualcosa o qualcuno. Nella nostra cultura odierna questo termine viene utilizzato in maniera principalmente negativa, ma dev’essere per forza così? Nella poesia Forse un mattino andando in un’aria di vetro, Eugenio Montale immagina di voltarsi mentre cammina e trovare “il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro / di me, con un terrore di ubriaco”. Tale esperienza suscita uno sgomento tanto profondo da essere a buon diritto definito con il termine di “terrore”, eppure si risolve positivamente. Per Montale infatti, la realtà è una finzione dalla quale fuggire per mezzo di un varco, una maglia rotta nella rete / che ci stringe (In limine). La ricerca, la domanda incessante (Il varco è qui? La casa dei doganieri) ha un suo piccolo esito in questa poesia e accade il miracolo. La rivelazione dura meno di un attimo: alberi, case e colli si accampano immediatamente... ma quel momento è bastato e Montale può continuare a camminare tra gli uomini che non si voltano col suo segreto. Il terrore che lo attraversa è causato nientemeno che dalla conferma del suo credo e viene a sua volta superato conducendolo a una maggiore forza

e sicurezza: tramite esso il poeta conquista il tratto distintivo rispetto gli altri esseri umani. Tirando qualche capello, si potrebbe riesumare uno dei pilastri morali del teatro greco classico, ovvero conoscenza tramite la sofferenza. Concludo con questa considerazione: il terrore, come ogni emozione, è un qualcosa che si manifesta in noi stessi e ci smuove da uno stato A a uno stato B (strappiamo tutta la chioma: non si parlava di movimento all’inizio?), come la crisalide che attraverso la rottura del bozzolo torna alla luce sotto forma di farfalla. Potremmo dire se la rottura del bozzolo è stata positiva o negativa? Non resta che augurarsi un po’ di terrore (qui ne troverete già 5 pagine, 16 se siete spiritosi).

In questo numero

Stato di violenza pag. 3

Il terrorismo delle parole pag. 4

In cammino con i migranti: intervista a Oscar Martinez pagg. 12 - 13


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Terrore

Il terrore dell’(ig)noto

S

econdo il vocabolario Treccani, il terrore è un “sentimento e stato psichico di forte paura o di vivo sgomento, in genere più intenso e di maggiore durata che lo spavento”. Nel linguaggio comune, si è invasi, paralizzati, resi folli dal terrore: terrore come panico, termine derivato dall’aggettivo panicum, ovvero proprio di Pan, divinità più antica di quelle olimpie, silvestre e feconda, dalla forte connotazione sessuale, accostabile alla figura di Dioniso, che gli antichi credevano capace di provocare una paura incontrollabile negli uomini, appunto, il timor panico. Non a caso è la psicanalisi ad aprire una prospettiva su un modo particolare di ciò che è terrorifico. Si tratta del perturbante, che senza dubbio “appartiene alla sfera dello spaventoso, di ciò che ingenera angoscia e orrore, ed è altrettanto certo che questo termine non viene sempre usato in un senso nettamente definibile”. Proprio per questo Freud, nell’omonimo saggio (Das Unheimliche, 1919), s’interroga su quale sia il nucleo di senso che contraddistingue ciò che è perturbante all’interno della gamma dello spaventoso in generale, passando in rassegna due strade: quella induttiva, che colleziona casi singoli, e quella del raffronto con l’uso linguistico del termine. Nell’originale tedesco infatti “unheimlich [perturbante] è evidentemente l’antitesi di heimlich [da Heim, casa], heimisch [patrio, nativo], e quindi familiare, abituale, ed è ovvio dedurre che se qualcosa suscita spavento, è proprio perché non è noto e familiare.” Per superare l’equazione, piuttosto ovvia, tra inconsueto e perturbante, Freud offre quindi una panoramica su una serie di traduzioni del termine nelle principali lingue europee: perturbante è ciò che è straniero, estraneo, orrendo, demoniaco, inquietante, sinistro, lugubre, e così via. Riguardo l’italiano, afferma che si accontenta “di parole che definiremo piuttosto come circonlocuzioni”: “il perturbante” viene infatti introdotto dai traduttori di Freud, dopo Freud. In seguito passa a enumerare esempi dei diversi usi del tedesco heimlich, ciò che è noto, per indi-

di Lilli Goriup viduare almeno un senso della parola che arriva a coincidere con il suo contrario: dall’ambito del familiare, del domestico, del proprio deriva infatti una seconda accezione di significato che indica qualcosa di segreto, in quanto tenuto nascosto, al riparo da occhi estranei. “Nell’uso corrente unheimlich è il contrario del primo significato ma non del secondo”. Continua poi citando Schelling, “Unheimlich è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e invece è affiorato”, servendosene per introdurre la nozione di ripetizione, che svilupperà poi in un oscuro saggio dell’anno successivo (Al di là del principio di piacere, 1920). Portando esempi presi a prestito dalla letteratura (uno su tutti: L’uomo della sabbia e altri racconti di Hoffmann) e dall’esperienza, il padre della psicanalisi mette in relazione il fenomeno della ripetizione di un contenuto che era stato in precedenza rimosso – la quale può darsi in diverse forme, come il motivo del sosia o del doppio nella finzione narrativa, la ripetizione di avvenimenti simili tra loro nel vissuto – con il sentimento del perturbante: “se la teoria psicanalitica ha ragione di affermare che ogni affetto connesso con una commozione (…) viene trasformato in angoscia qualora abbia luogo una rimozione, ne segue che tra le cose angosciose dev’esserci tutto un gruppo in cui è possibile scorgere che l’elemento angoscioso è qualcosa di rimosso che ritorna. Una cosa angosciosa di questo tipo costituirebbe appunto il perturbante, e dev’essere oltretutto indifferente se essa stessa sia stata portatrice d’angoscia fin dall’origine o non invece portatrice di altro affetto.”. C’è dunque un particolare tipo di sgomento che solo in apparenza è provocato dall’impatto con l’ignoto, ma in realtà a generare spavento è un contenuto ignoto che è tale in quanto è rimosso, ovvero reso non accessibile alla coscienza, e non per questo eliminato, andando così a rovesciarsi in qualcosa che al contrario è familiare, solo, a un livello più stratificato. È lo stesso Freud a collocare la sua ricerca sul perturbante in un ambito che eccede quello della psicanalisi clinica, per occuparsi di estetica, intesa non come

indagine intorno al bello, bensì come “la teoria delle qualità del nostro sentire”, che da Kant in poi occupa uno spazio che le è proprio nella storia della filosofia. A rivestire un interesse nell’adozione di strumenti forniti dalla psicanalisi, è la possibilità di attualizzarli, applicandoli non solo allo studio della psiche individuale – i cui limiti sono stati messi bene in luce, tra gli altri, da Gilles Deleuze e Felix Guattari – ma anche all’analisi di fenomeni collettivi, inerenti la comprensione dell’attualità, della società, della storia. La categoria del terrore è oggi di un’attualità estrema: terrore come minaccia del terrore esterno, che funge da collante sociale, mentre la società si regge a sua volta, specularmente, sul terrore di cambiare, paventato dalle conseguenze, catastrofiche o supposte tali, che ciò comporterebbe. Un’indicazione di strada da percorrere per un’eventuale ricerca è quella di chiedersi quando esso si costituisca nel modo del perturbante, cioè di qualcosa che si manifesta come oscuro, sconosciuto, affondando però le sue radici in una sfera che concerne da vicino ciò che è proprio della coscienza europea, ma momentaneamente ad essa non disponibile.


Stato di violenza

Terrore

di Davide Pittioni

G

enova è un trauma che riemerge continuamente nella nostra coscienza. Basta una frase, un piccolo passo in avanti dei processi, un episodio quasi insignificante, perché torni alla ribalta. Troppo fragile la rimozione, troppo intensa la forza che manifesta. Una violenza che non si riesce in nessun modo a racchiudere nella casistica, nel tradizionale cesto delle male marce. Paiono semplicemente goffe le affermazioni del poliziotto, presente durante l’irruzione alla scuola Diaz, che commenta pressapoco: “non mi accorsi di niente, la giustizia farà il suo corso”. Goffe se paragonate ad altre e più inquietanti testimonianze: “pensai ad un colpo di stato”, affermò un giornalista presente; “una sospensione dei diritti umani”, la solita e inascoltata Amnesty International. In fondo, sembra un caso evidente di “terrore”, perpetrato da quello stesso potere che di lì a qualche mese sarebbe andato a caccia di terroristi in Afghanistan. Guerra del terrore, guerra al terrore. Terrore che è prima di tutto un effetto di violenza. Non di una violenza soggettiva, come nel caso di un raptus individuale che si sfoga all’esterno. Si può certamente parlare di sadismo, ci fu a Genova, come in chissà quanti altri casi. Ma oltre quello – che a leggerlo oggi sembra solo una pallida giustificazione di una politica costretta a riscrivere al massimo la superficie delle cose – sembra mostrarsi qualcosa di più strutturale. Come scrive Žižek in Violence: “la violenza soggettiva è solo la porzione più visibile di una triade che include anche due tipi di violenza oggettiva”. La

“violenza simbolica”, incorporata nel linguaggio e nelle sue forme, e la “violenza sistemica”, legata al funzionamento stesso di un sistema economico e politico: forme invisibili, che permeano in profondità il tessuto sociale in cui siamo avvolti. Forme che si nascondono dietro un “livello zero di non violenza”, punto dal quale è possibile giudicare la violenza “soggettiva”, come uno squarcio della normalità. Ma sotto la prima scorza, alla fine, si intravede un continuo rimescolamento dei termini, un’attività incessante che ridefinisce gli stessi livelli di visibilità della violenza. Un po’ come nelle letture che si continuano a dare di quei giorni a Genova, in un lotta per l’egemonia culturale su quell’evento. Il corteo, ad esempio, è immediatamente quello scatto di Giuliani con un estintore, quindi la legittimazione – e la legittima difesa – del suo omicidio. Altro non è dato vedere. Anche se cosa si mostra non è fissato una volte per tutte. Il “gioco” sta appunto nel rappresentare il contesto come l’effetto di un atto di violenza visibile. Altro esempio interessante è la Val di Susa, messa sotto i riflettori solo nel momento in cui irrompe un fatto violento: che sia un compressore bruciato, un corteo, uno scontro con la polizia, tutto il contesto resta comunque fuori fuoco. La violenza è solo la perturbazione di una normalità. Uno stato di cose, che da un’altra prospettiva, è ancora violenza: è militarizzazione, apparato repressivo, divieto. L’equazione resta però complessa: le due violenze – visibile e invisibile – cortocircuitano e si ridefiniscono a vicenda. Il punto è poi di nuovo riaddomesticarle, riportarle ad uno stato di cose che richiuda lo spazio aperto dalla sospensione di un diritto. Quel poliziotto è insomma solo una mela marcia. E il resto riprende a funzionare. Il riferimento alla “polizia” non è casuale. È un’istituzione esemplare, di cui Walter Benjamin, in un saggio densissimo intitolato Sulla critica della violenza, si serve per descrivere l’ambiguità della “violenza mitica”. Il mito, secondo Benjamin, è il luogo di manifestazione della “violenza che

pone e conserva il diritto”, che poi è la stessa connaturata ad ogni potere giuridico. Diritto, come anche la legge, che è prima di tutto “forza”, enforcement, cioè applicabilità del suo comando, seconda quanto nota Derrida in Forza di legge. C’è allora una precisa e problematica funzione in quella sfera dove risiede la “legittimità” dell’uso della forza. Qui, la violenza che istituisce e quella che conserva il diritto sono la stessa cosa: in una “presenza spettrale, perché inafferrabile e diffusa per ogni dove, nella vita degli Stati civilizzati”. Così quello che a prima a vista sembra un organo derivato e sempre governato da una legge che gli sta sopra, si scopre avere un carattere intimamente legato alla possibilità stessa del diritto, di ogni diritto. C’è un prima della legge, un’origine continuamente ripetuta nel corso del suo funzionamento. Nel mito di Niobe, fa notare ancora Benjamin, la punizione di Apollo e Artemide non è una vera punizione, perché non c’è trasgressione di una norma. Non c’è proprio norma, almeno non scritta, e quindi nemmeno infrazione. C’è piuttosto un gioco di destino e sfida, di orgoglio e alla fine castigo. In questo momento fondativo si presenta appunto la violenza che istituisce la possibilità della colpa e del diritto: la violenza mitica “pone limiti e confini”, “è violenza sanguinosa sulla nuda vita in nome della violenza”. È in qualche modo violenza esemplare. Nel castigo c’è quindi una violenza che si sottrae al calcolo, alla stessa sequenza della causa e dell’effetto. Una sospensione incommensurabile ad un prima e un dopo. Se si riguarda a Genova, soffermandosi sugli eccessi di quella terrificante “violenza sanguinosa”, si avverte un senso di spaesamento, come se si assistesse a un rito insensato. Inspiegabile nella sua manifestazione spudorata e rappresentabile solo in secondo momento, come digerita dall’istituzione di un nuovo diritto, e con esso di nuovi rapporti di forza, nuovi scenari. “Creazione di diritto è creazione di potere, e in tanto un atto di immediata manifestazione di violenza”.

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Terrore

Il terrorismo delle

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istruzione, attentato, morte. Le recenti vicende di cronaca che coinvolgono Medio Oriente e parte dell’Africa (dall’Isis a Boko Haram – se volessimo dare loro un nome-etichetta, potremmo optare per jihadismo) ci arrivano tramite la mediazione di immagini, video, voci fuori campo che intendono glossare un reale già reso, in questo modo, cinematografico. Siamo lontani, eppure oltremodo vicini: il coinvolgimento psicologico è massimo, complice una scena che si sta contribuendo a costruire almeno dal 2001, con l’evento per eccellenza, il primo attacco al “cuore dell’Occidente” (non è certo un caso che si sia data questa definizione al centro economico del paese capitalistico per antonomasia, gli Stati Uniti d’America), a cui si è potuto assistere in contemporanea da ogni angolo del globo. Abbiamo imparato a dare a tutto ciò un nome preciso: terrorismo. Perché è da lì che proviene il terrore, come diamo ormai per scontato. Un terrore totale, senza possibilità di scampo, che ci accompagna dalle rassegne stampa mattutine ai talk show serali, dove impettiti politicanti senza alcun effettivo potere pontificano sul metodo migliore per fronteggiare l’imminente pericolo. Il problema è che, nei contesti divulgativi, vengono rimosse alcune cause (non certo le minori) di quel pericolo: la destabilizzazione politica a opera di U.S.A. ed Europa in Medio Oriente e Nordafrica

nel recente passato; ma anche la colonizzazione dell’immaginario andato di pari passo con la globalizzazione dei mercati, che impone a culture a noi lontanissime usi e costumi occidentali, in nome della tanto proclamata ‘libertà’, di cui prontamente ci si dimentica sul piano della politica interna (in nome, stavolta, della ‘sicurezza’). La guerra (il terrore) si può esercitare nei modi più disparati, anche dal punto di vista culturale. Ma cosa intendiamo, noi occidentali, quando parliamo di ‘terrorismo’? Qual è il passato (rimosso?) della parola? La sua storia politica, osserva Jacques Derrida in Filosofia del terrore, “deriva in larga parte dal terrore rivoluzionario francese, che fu esercitato in nome dello Stato che presuppone il monopolio legale della violenza”. Il significato di terrorismo, al di là delle categorie storiche, è “l’uso di violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e a destabilizzarne o restaurarne l’ordine” (Treccani). Basterebbe considerare lo scarto tra “destabilizzare” e “restaurare” per rendersi conto di quanto il concetto possa assumere sfaccettature divergenti e antitetiche. Eppure, nella nostra quotidianità, la parola-chiave è come appiattita su un significato (seppur mobile), giungendo a sovrapporsi – alla bisogna – con al-Qaeda, con Isis o con qualsiasi altro gruppo politico che osi opporsi a noi. Verso lo stesso gruppo, poi, si possono avere, in differenti contesti storici, atteggiamenti antitetici. Prendiamo l’esempio dei taleba-

di Stefano Tieri

ni: eroi combattenti per la libertà, durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan nel decennio 1979-1989; barbari terroristi e distruttori di civiltà, ora che gli occupanti sono – da più di un decennio – gli Stati Uniti d’America. Questa reductio ad unum, che dal molteplice del concetto giunge all’unità nella sua applicazione (prima a livello politico-mediatico, poi nella percezione collettiva), è già terrore: è nella lingua che si inizia a costruire – istituire – il nemico, tramite un termine in grado di evocare la messa in discussione della nostra stessa sopravvivenza, al di là dell’effettivo pericolo a cui siamo, in fondo, quotidianamente esposti. Al tempo stesso, ad accrescere questo terrore, la presentazione dell’imminente scontro tra civiltà: mondo occidentale da una parte, islamico dall’altra. Come se fosse possibile parlare, da una parte come dall’altra, di unità, e non di pluralità frammentarie, spesso su posizioni conflittuali già al loro interno. Come se la riproposizione del conflitto, stavolta su scala planetaria, possa costituire una soluzione, e non invece l’ennesimo segmento di un processo (distruttivo) destinato a rimandare solamente il problema: perché, tornando a Derrida, “la repressione, in senso sia psicoanalitico sia politico (che sia quest’ultimo tramite la polizia, l’esercito o l’economia), finisce per produrre, riprodurre, rigenerare proprio quello che tenta di disarmare”.


Terrore

Meglio un giorno da leoni che cent’anni da pecora zi e i suoi. Prova ne sia che negli ultimi anni abbiamo acquistato dagli americani, pagandoli a peso d’oro, aerei F35 difettosi e droni da guerra disarmati. Con un arsenale di questo calibro non potremmo neppure re-invadere l’Abissinia, figurarsi difendere i sacri confini.

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a paura è la via per il Lato Oscuro. All’ira essa conduce, l’ira all’odio; l’odio conduce alla sofferenza... Il nostro è un paese civile, dicono, mica come quegli zotici guerrafondai degli americani. Al contrario degli USA, questo sì che è un paese per vecchi. Il clima temperato, la proverbiale buona cucina, l’accoglienza e i paesaggi stupendi lo rendono la scelta privilegiata di molti pensionati di lusso: attori, sportivi, cantautori, politici e via dicendo. Questa è la terra dell’Inno alla gioia e delle Vacanze romane. Invece, pur vivendo nel paradiso terrestre, gli italiani sono sempre stati terrorizzati, non nel senso di “timorati di Dio” però. Uno dei “leitmotiv” che accompagna la storia d’Italia infatti, è la paura dei suoi abitanti di non essere degni di sedere al tavolo delle grandi potenze. Poco importa se questi ultimi hanno alle spalle secoli di guerre coloniali e sviluppo industriale, il bisogno di contare politicamente pervade da sempre l’elettorato di tutti i nostri schieramenti, producendo spesso decisioni scellerate, sia in politica interna che estera. Ciononostante, dalla campagna di Russia alla sottoscrizione del regolamento di Dublino II (quello per cui i richiedenti asilo politico possono ottenerlo solo nello stato di arrivo dell’UE), la subordinazione ai potenti non è mai svanita, checché ne dicano Ren-

Il che ci porta alla seconda grande paura, quella dell’immigrazione, se non altro storicamente giustificata. Dopo il primo Sacco di Roma (390 a. C.) ad opera dei galli, la penisola è stata invasa via terra o per mare da Annibale, i vandali, i visigoti, i germani, i normanni, gli arabi, i lanzichenecchi, gli spagnoli, i francesi, gli austriaci e infine i nazisti e gli americani. Ora che questo genere di rischio non esiste più (sempre che l’Isis non estenda le sue mire più a nord), il terrore investe sia quei disgraziati che approdano sulle coste meridionali, fuggendo da guerre o miseria, sia i tanti che, in cerca di lavoro, transitano per le autostrade e i treni del nord-est. Alle questioni di integrazione e assimilazione, presenti da secoli nei paesi a cui vorremmo assomigliare, i governi che si sono succeduti hanno sempre dato risposte insufficienti o parziali, si vedano la legge Bossi-Fini o le operazioni Mare Nostrum e Triton. Così, dum Romae consulitur, la paura cresce, alimentata da informazione e politicanti interessati, trasformandosi in odio. Prima gli italiani! gridano le fazioni a caccia di voti, come se il lavoro e la competitività del nostro mercato dipendessero dai poveracci di cui sopra. Case popolari occupate, rapine, scippi e stupri sono in crescita preoccupante, urge un rimedio ma quale? Nel paese più famoso al mondo per la mafia e il crimine organizzato la risposta non dovrebbe essere così ardua da scoprire. Superior stabat lupus...

di Ruben Salerno

Ahi serva Italia, di dolore ostello, sei tu lupo oppure agnello? L’incapacità nel prendere posizione è una piaga del popolo italiano e dipende da una terza grande paura, quella delle ideologie. Il timore di un’altra “svolta autoritaria” da un lato e il terrore del “pericolo rosso” dall’altro hanno fatto sì che il potere sia sempre stato in mano ai cosiddetti moderati. Dalla fondazione della Repubblica (2 giugno ‘46) si sono susseguiti 63 governi, 26 presidenti del consiglio e 17 elezioni politiche. Per diciassette volte gli italiani hanno rimesso in mano alle stesse persone il diritto a decidere e legiferare. Il continuo fare e disfare ha portato a un’impasse che dura da quasi settantanni e che ha generato caste e gruppi di potere talmente ben radicati da essere inamovibili, con buona pace dei rottamatori. Esperti nell’intessere rapporti clientelari, hanno sempre trovato il modo di uscire vittoriosi dagli scandali e dalle inchieste, stemperando le ire dei manifestanti scesi in piazza. Ciò che è successo in questi giorni a Milano ne è la prova lampante, un manuale di perfetta arte politica. Sono riusciti ad arraffare tutto il possibile tra gli appalti Expo, finendo i lavori in tempo grazie a leggi speciali e ulteriori stanziamenti di fondi. Hanno lasciato che i soliti black-bloc devastassero qualche zona della città, annullando di fatto i contenuti della vera protesta, senza però commettere gli errori di Genova. Infine, da salvatori della patria, sono scesi per le strade a cancellare i graffiti e raccogliere cartacce, coinvolgendo la collettività e le associazioni benefiche. Evviva l’Italia che cambia! #sensocivico #jesuisnetturbino #democrazia #abbiamoquellochecimeritiamo

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Via Pradaval

Alberto Zanardo


Terza Pagina il profilo dei monti taglia il cielo lo seguo con gli occhi salire e poi scendere e quindi di nuovo scattare all’insù e poi ancora digradare e credo di imparare quelle linee di ricordare curve e traiettorie di fermarne il disegno nella mente - faccio sempre così quando torno qui mentre mia madre mi racconta le poche storie dispari che nutrono quella vita che marcia in file uguali il vecchio è scappato con la rumena un ubriaco si spacca la schiena facendo lo scemo sull’altalena e la vicina, ma lo sanno già tutti lo tradisce con un elettricista “e poi è morto un tale della tua età che forse conoscevi di vista…” è caduto nell’Adda a ferragosto e il fiume, che se ne frega dei confini lo ha lasciato senza vita su una riva traversata da linee immaginarie segnate in nero sulle mappe del catasto - e intorno al corpo gonfio disquisivano i caramba boccheggianti nell’afa dovendo decidere la competenza territoriale, chi tocca scomodare dalla solita grigliata di famiglia a chi tocca rompere i coglioni nel giorno della festa comandata

inserto letterario

“la gamba è indubbiamente in territorio di Cremona” “sì ma la mano è nella provincia di Lodi, non vedi?” “e il piede? senz’altro è sotto Milano” e avanti così, per ore e ore e ore mentre il sole asciuga il corpo, lo cuoce piano, come il pane, sopra ciottoli tondi lavati nel latte delle correnti la fine non serve non importa per quello c’è il pezzo sul giornale il verbale, la messa, il necrologio la fine non serve, non aiuta lo sforzo mulo di capire, di contenere con le parole, con i passi, un senso che sfugge in mille linee di confini ridotte a uno come quell’unico profilo di monti che taglia il cielo perché, l’ho letto anche in Dostoevskij “se avessi camminato sempre dritto avanti avanti, fino a oltrepassare quella linea dove il cielo e la terra s’incontrano, là ci sarebbe stata la soluzione dell’enigma”, e sai quali enigmi, quali nere domande premono da sempre sul cuore - ma là, dove arrivi ansante e sudato con le gambe dure di acido lattico là sono solo alberi e foglie e rocce e acqua di roggia, fredda da far male

Giuseppe Nava


Cari lettori, a distanza più o meno di un anno, riproponiamo quella che chiameremmo rubrica se riuscissimo a tenerla fissa. L’idea originaria era di cimentarsi nella traduzione di autori ancora poco noti o sconosciuti al pubblico italiano. Avevamo iniziato con Karmelo C. Iribarren (chi è interessato può ancora trovare i nostri tentativi nel numero 18 di Charta Sporca). Questa volta proponiamo Stephen Dunn, che già comincia ad essere più conosciuto rispetto a qualche anno fa, poiché ci è poeta caro e speriamo in questo modo che tanti altri potenzialmente interessati lettori abbiano l’opportunità di incontrarlo più facilmente di quanto è capitato a noi. Ricordo che non siamo traduttori, lo facciamo per passione... perdonatecela.

Stephen Dunn, newyorchése, classe 1939. Si è formato in storia e in lingua

inglese alla Hofstra University e ha studiato scrittura creativa all’Università di Siracusa. Da lungo tempo tiene corsi di poesia in varie università degli Stati Uniti ed è tuttora “distinguished professor” di scrittura creativa al Richard Stockton College. Tra le raccolte pubblicate fin dal 1974 si segnalano: Local time (1986), vincitrice del National Poetry Series; New and Selected Poems: 1974-1994 (1994); Different Hours (2000) che gli valse il Premio Pulitzer nel 2001; What Goes On: Selected and New Poems 1995-2009 (2009); Here and Now: Poems (2011). The Room and the World: Essays on the Poet Stephen Dunn (2013), curata da Laura M. McCullough, è la prima raccolta di studi sulla sua poetica.

BLIND DATE WITH THE MUSE

Appuntamento al buio con la Musa

Well, not exactly blind; I knew of her. I was the needy unknown, worried about appearance, and what, if anything, she’d see beneath it. And, desperate as this sounds, it was I who fixed myself up-

“Al buio” non è esatto. La conoscevo. Ero io lo sconosciuto insofferente, preoccupato dell’apparenza e di quello (se c’era) che lei avrebbe visto nascosto. E, penoso così come sembra, fui io a combinare tutto.

I didn’t mind being middleman to the man I longed to be. “Yes”, she agreed, then, “I hope you’re not the jealous type.” I lied, and she named the time and place, told me there’d be others, ever and always.

Non mi dispiaceva fare l’intermediario per l’uomo che aspiravo essere. “Si”, convenne e poi: “spero tu non sia uno di quelli gelosi”. Mentii, decise lei il posto e l’ora mi disse che ci sarebbero stati degli altri, come sempre.

The door was open. And there we all weremen and women, empty handed and dressed down- each of us hoping to please by voice, by tone. In her big chair she welcomed or frowned, and one man

La porta era aperta. Eravamo tutti lì uomini con donne, senza nulla in mano, vestiti alla buona, ognuno sperava di farle il filo con la voce, con il tono. Dalla sua grande sedia ci accoglieva o si accigliava. Il suo tocco gentile

she gently touched, as if to say, “Don’t despair, it will be delivered soon.” Even as I hated him, I took heart. She was the plainest woman I’d ever seen. I wanted to make her up, but all arrangements

fu per un sol uomo. Come per dirgli: “non essere in pena, presto sarà emesso”. Anche se lo odiavo, mi sentii rincuorato. Era la donna meno ostentata che avessi visto volevo truccarla, ma tutte le decisioni

seemed hers- I found myself unable to move. “You look lonely,” she said, “a little lost, the kind of man who writes deathly poems about himself. Sensitive, too,” she added, and laughed.

sembravano sue. Capii che non potevo muovermi. “Sembra che ti senti solo” mi disse “e spaurito, il tipo d’uomo che scrive su di sé poesie micidiali. Anche sensibile” aggiunse, e rise.

Thus began the evening the Muse, that lifelong tease, first spoke to me. “If you want to be any good you must visit me every day,” she said. And then, “I’m hardly ever home.

Diede dunque inizio alla serata la Musa che fa la monella tutta la vita, così con me cominciò: “Se vuoi renderti utile devi farmi visita ogni giorno” mi disse ma poi: “Mi trovi difficilmente a casa”.


SWEETNESS

DOLCEZZA

Just when it has seemed I couldn’t bear one more friend waking with a tumor, one more maniac

Proprio quando sembrava che non potessi reggere un amico di più che si sveglia con un tumore, o un matto in più

with a perfect reason, often a sweetness has come and changed nothing in the world

con una ragione perfetta, spesso arrivava una dolcezza e non cambiava nulla nel mondo

except the way I stumbled through it, for a while lost in the ignorance of loving

se non il modo in cui vi incespicavo dentro, perso per un momento nell’ignoranza di amare

someone or something, the world shrunk to mouth-size, hand-size, and never seeming small.

qualcuno o qualcosa, il mondo si è ristretto a misura di bocca, di mano, e senza mai sembrare piccolo.

I acknowledge there is no sweetness that doesn’t leave a stain, no sweetness that’s ever sufficiently sweet.... Tonight a friend called to say his lover was killed in a car he was driving. His voice was low and guttural, he repeated what he needed to repeat, and I repeated the one or two words we have for such grief until we were speaking only in tones. Often a sweetness comes as if on loan, stays just long enough to make sense of what it means to be alive, then returns to its dark source. As for me, I don’t care where it’s been, or what bitter road it’s traveled to come so far, to taste so good.

Ho imparato che non c’è dolcezza che non lasci una macchia, nessuna dolcezza che sia sempre abbastanza dolce... Stanotte un amico ha chiamato per dire che il suo amore è morto in una macchina che stava guidando. La sua voce era bassa e gutturale, ha ripetuto quanto gli occorreva ripetere, e io ho ripetuto l’una o due parole che abbiamo per simili dolori finché non parlammo che a toni. Spesso una dolcezza arriva come se fosse in prestito, resta solo il tempo necessario per dare un senso a ciò che significa essere vivi, poi torna alla sua oscura fonte. Quanto a me, non m’interessa dove sia stata, o quale amara strada abbia percorso per arrivare così lontano, per sapere così di buono.


Dicendoti “ciao” un’ultima volta Mi avevi detto che un bacio non è una cosa da poco che c’è sempre un motivo serio dietro che non è da scoccare o strappare al primo che passa come una sonata di clacson o uno scatto al sole della sera. Ma tu sei stata astuta a fare l’ingenua che non sa nulla di slacciare subito i pantaloni e a raccontare sottovoce i postumi della storia importante pagata con premesse al rialzo in promesse per il finale più nero. E adesso che mi restano le carezze dei tuoi messaggi, il tuo profumo che ritorna per quanto apra la finestra il ricordo di un bacio tentato come un papavero che muore, e le mie mani tese di fronte a te con le palme aperte fino a fare male perché mi ritrovo con l’esitante coscienza che quel che doveva accadere sicuramente, non è poi accaduto? Per N.Z.

A. Da Baciocchi.


Astronomia

Seconda stella a destra, questo è il cammino di Giulia Massolino

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mmaginate di essere degli alieni su un pianeta lontanissimo dalla Terra. Con un potente telescopio, la state osservando. Ma, anziché grattacieli e automobili, vedete solamente vulcani e dinosauri. Non potete sapere nulla di cosa sia avvenuto da allora fino all’epoca in cui viviamo. Sembra uno sciocco esercizio di immaginazione, invece in realtà è esattamente ciò che succede quando noi umani osserviamo corpi celesti molto distanti. Allora, ritorniamo con i piedi sulla Terra e alziamo lo sguardo al cielo, osserviamo la Luna. Quella che vediamo non è la Luna in questo esatto istante, ma quella corrispondente a qualche secondo fa. Certo, in due secondi non succede granché. Ma spostando lo sguardo più in là, su pianeti distanti miliardi di anni luce da noi, le cose cambiano. È proprio il termine “anni luce” la chiave di tutto. Partiamo dal fatto che noi vediamo grazie alla luce. Possiamo immaginarla come un postino, che traghetta le immagini da un oggetto al nostro occhio. Proprio come quando riceviamo una lettera, dobbiamo sottostare alla velocità del sistema di spedizione. Per oggetti molto vicini, le tempistiche possono essere estremamente ridotte, come se ricevessimo una e-mail: il suo contenuto non avrà subito grosse variazioni dal momento in cui è stata inviata al momento in cui viene ricevuta. Immagin-

iamo, invece, di scattare una foto di Times Square, stamparla, imbustarla, affrancarla e spedirla tramite posta ordinaria. Chi la riceverà, vedrà una realtà molto diversa da quella contemporanea: le persone presenti, le condizioni meteo o il traffico saranno cambiati rispetto a quelli della fotografia. Nel caso della luce, però, non è la velocità del mezzo di spedizione a cambiare, bensì la scala delle distanze. Infatti, la luce si muove a una velocità molto grande, ma non infinita. Nel vuoto è pari a 300.000 km/s, corrispondenti a un miliardo di chilometri all’ora. Per meglio immaginare questo numero, si può pensare che la luce può fare il giro della Terra in appena un decimo di secondo. Soprattutto, la velocità della luce è costante. Proprio per questo, anche la definizione dell’unità di misura a noi più nota, il metro, si riferisce alla distanza percorsa dalla luce in un tempo pari a un trecentomilionesimo di secondo. Ritornando alla Luna, questa è distante da noi circa 380.000 chilometri, quindi la luce impiega poco più di un secondo a raggiungerla. Ecco il motivo per cui l’immagine della Luna che vediamo ha un “ritardo” di qualche secondo. Spostiamoci ora su dimensioni ancora più grandi. La nostra galassia ha un diametro di centomila anni luce. Spingiamoci ai suoi confini e proseguiamo ancora. Immaginiamo di raggiungere con lo sguardo il Quasar più vicino a noi. I Quasar sono nuclei di

galassie primordiali e il più vicino al nostro pianeta è distante due miliardi di anni luce. Quest’affermazione porta a due conclusioni. In primo luogo, il fatto che l’immagine dei Quasar che abbiamo è molto antica, sono come embrioni di galassie non ancora sviluppate. La seconda conclusione è che siccome la luce impiega due miliardi di anni ad arrivare a noi, non potremo mai averne un’immagine più recente. Quindi, noi stiamo guardando un corpo celeste com’era miliardi di anni fa, in un tempo vicino all’origine dell’Universo secondo la teoria del Big Bang. Una conseguenza di tutto questo è che non vi sia modo di sapere cosa stia succedendo nei Quasar attualmente. Via libera ai più creativi scenari fantascientifici. In qualche miliardo di anni questi nuclei di galassie primordiali potrebbero essersi evoluti e forse vi è qualcuno che vede la nostra galassia come primordiale, un brodo in cui il nostro pianeta non si è ancora formato. Ma queste sono solo fantasie. Le certezze della scienza che studia l’origine e l’evoluzione dell’Universo, la cosmologia, per ora sono solo nell’ambito di una “paleontologia dell’Universo”. Guardando a oggetti sempre più distanti, stiamo osservando corpi celesti sempre più antichi. Attualmente, si crede che il Quasar più lontano da noi disti 14 miliardi di anni luce. Meno di un miliardo di anni luce lontano dal Big Bang che ha dato origine al nostro Universo.

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Attualità

In cammino con i migranti: di Davide Pittioni

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a Bestia (Fazi editore, 2014) è un libro duro, come la pelle dell’autore. Oscar Martinez, giornalista salvadoregno di elfaro.net, per anni ha accompagnato i migranti in fuga dalla violenza e dalla miseria del Centro America, verso il Norte e la speranza di una vita migliore. Con loro ha attraversato il Messico: si è aggrappato ai tetti dei treni merci, che masticano e sputano centinaia di corpi ogni anno; si è messo in cammino sulle strade minacciate da banditi spietati; ha calpestato lembi di terra dove gli stupri, i rapimenti, gli omicidi si susseguono senza sosta. La sua strada – e quella di migliaia di migranti – ha incrociato i territori controllati dalle potentissime organizzazioni dei narcos, la corruzione delle autorità, l’impotenza o l’indifferenza di molti, fino all’ultimo muro, la lunghissima barriera che separa per centinaia di chilometri il Messico dagli Stati Uniti. Il suo reportage è il racconto di un’odissea senza fine, che scaraventa il lettore con la sua scrittura veloce e affilata dentro una vera e propria crisi umanitaria. Incontriamo Oscar Martinez a Trieste, dove si trova per ritirare il Premio Internazionale Marisa Giorgetti, promosso dal Consorzio Italiano di Solidarietà. Qual è stata l’esperienza che hai vissuto a fianco dei migranti centroamericani? Io non credo di aver vissuto l’esperienza di un migrante. Ho fatto molti viaggi sul treno, ma sempre come giornalista. Anche se ero solo, avevo alcune certezze, quella di poter dire –

per esempio – il mio viaggio termina in un punto, o il poter tornare alla mia casa, alla mia vita e le mie abitudini. Invece per un migrante del Centro America l’attraversamento del Messico dura approssimativamente un mese, durante il quale la tensione non cessa mai. Devono abbordare circa otto treni per poter arrivare fino alla frontiera con gli Stati Uniti. La mia esperienza è stata complicata perché i gruppi del crimine organizzato cercavano di fare in modo che nessun giornalista si inserisse nel flusso, nel cammino. I miei viaggi erano brevi e con un obiettivo molto chiaro. Credo che mi sia difficile immaginare la tensione mentale che un migrante è costretto a vivere per un mese intero in queste circostanze. Non riesco a immaginarmi come starei io, credo sia una situazione che può squilibrare la mente di qualsiasi persona. C’è un modo particolare in cui hai condotto le tue inchieste: se è praticamente impossibile calarsi nei panni di un migrante, hai comunque messo completamente in gioco la tua esperienza di giornalista. Qual è, allora, la tua idea di giornalismo e il lavoro che fate con la rivista “El Faro”? In primo luogo quello che mi è più facile dirti è ciò che non intendiamo come giornalismo. Noi pensiamo che il giornalismo non sia come fare una pizza (sorride e aggiunge che è solo una metafora, nda): non crediamo che si debba impiegare mezz’ora a prepararlo e consegnarlo ancora caldo. In mezz’ora nessuno capisce nulla. Non crediamo neppure ai guru di internet che dicono che basti scrivere tre righe, o un tweet. Crediamo che il giornalismo sia un’attività di servizio pubblico. Il giornalismo, nella sua massima espressione, ha il compito di illuminare gli angoli più oscuri della nostra società. Sono le stesse ragioni menzionate da Seymour Hersh, il giornalista statunitense che scoprì il massacro di My Lai

in Vietnam. Il giornalismo, in ultima istanza, cerca di rendere difficile al corrotto fare quello che fa e più facile a chi subisce la corruzione uscire dalla sua condizione. Per come si sta sviluppando il giornalismo nel mondo, sembra che sia sempre più difficile trovare lo spazio e il tempo, soprattutto per fare un tipo di lavoro così approfondito. C’è molto fretta della notizia... Guarda, non c’è una via facile per fare il giornalismo che uno vuole fare. Per fondare El Faro siamo tutti rimasti senza lavoro per vari anni. Ma non credo esista una formula. Ciò che a El Faro sappiamo è che le cose fatte con profondità alla fine riescono a calarsi nel mondo e ad essere recepite. Si tratta di rispondere a un bisogno: la gente vuole veramente capire, non si accontenta di leggere un tweet su ciò che gli fotte la vita. Vuole capire perché le bande in Centro America distruggono la vita di tante persone, perché è così difficile attraversare il Messico da migrante, perché in alcune zone d’Italia la camorra può agire con tale impunità, come racconta Saviano. Le persone vogliono capire ciò che segna le loro vite. C’è chi nelle imprese dei mezzi di comunicazione pretende di ingannarci e dirci che dobbiamo produrre “pizze”. Ma il nostro mestiere ha le sue regole, anche se questi impresari vorrebbero violarle. Arrivando al libro: qual è stato l’impatto che ha avuto dopo la sua pubblicazione? È riuscito a sollevare il velo di invisibilità e omertà che copriva le tragedie dei migranti che attraversano il Messico? La prima conseguenza per noi fu che dovemmo abbandonare il Messico. Molte delle nostre inchieste furono riprese dai media e dalle organizzazioni dei diritti umani che le utilizzarono per denunciare ciò che stava succedendo. Ma nessuno voleva ascoltarli. Il libro, poi, era già stato pubblicato quando i “cavernicoli” dei Los Zetas, gruppo del crimine organizzato, sequestrarono e massacrarono 72 migranti nello stato di Tamaulipas, nel nord del Messico. La gente e molti funzionari ipocriti cominciarono a chiedersi il perché dell’accaduto, ma il libro già lo spiegava, dato che noi assistemmo ai primi sequestri nel 2007. Non c’era niente di nuovo. Negli Stati Uniti mi stupii molto perché la gente non capiva che tutto ciò potesse ac-


Attualità cadere a così tante persone. Ciò che mi chiedo è: come può una società essere così tanto divisa? Non capisco come possa esserci una società nella quale una metà non parla con l’altra metà, dove nessuno si ferma a chiedere ai migranti da dove vengono e come sono arrivati lì. Credono che siano sorti spontaneamente dal nulla e che improvvisamente siano apparsi pulendo case negli Stati Uniti. Non so se qua succeda lo stesso, penso che molti di voi sappiano che gli africani non sono apparsi all’improvviso, ma che hanno dovuto affrontare un viaggio terribile. Alle volte mi sorprende molto l’ignoranza dei gringos. E poi c’è anche la questione della propaganda di cui parli negli ultimi capitoli del libro, quando racconti del dispositivo che è stato messo in piedi dagli Stati Uniti per “sigillare i confini”e della retorica costruita sull’illusione di fermare i migranti al confine e respingerli. Credi abbia senso? In primo luogo gli Stati Uniti hanno disegnato una frontiera: quando Bush segnava dei confini si trattava di una questione intenzionale, cioè Bush voleva farla in un certo modo. Non ha senso costruire muri di 500 km su una frontiera. Quei 500 km sono i peggiori per un migrante. Una zona arida dove bisogna camminare per più di dieci notti per potere trovare dell’acqua. Hanno disegnato una frontiera che sfruttasse la natura per fermare la gente, anche a costo di ucciderla. Tutto il “gioco” del muro implica che i migranti non passino, ma gli statunitensi non sono così stupidi: sanno che fintanto che le condizioni di violenza e di diseguaglianza in Centro America continueranno a essere le stesse, continueranno anche le migrazioni. Qui in Italia abbiamo un esempio molto emblematico, per certi versi molto simile alle vicende che narri: le tratte dei migranti che dall’Africa o dal Medio Oriente vanno verso l’Europa. Quello che ci si domanda leggendo il tuo libro è se c’è un modo per risolvere queste crisi umanitarie e bloccare lo sfruttamento dei migranti da parte delle organizzazioni criminali... In primo luogo, ogni paese che riceve migranti deve chiedersi qual è la responsabilità che ha sulla situazione dei paesi d’origine. L’Europa sa quale responsabilità ha sulla situazione dell’Africa. Gli Stati Uniti sanno che responsabilità hanno nella guerra civile e nelle dittature che diedero inizio al ciclo della violenza in Centro America. In secondo luogo non capisco il senso dell’espressione “fermare la migrazione”, credo che una parola più corretta sia “regolarla”. I migranti non smetteranno di arrivare. Si tratta, allora, di applicare delle regole umanitarie. In alcuni casi hanno

funzionato esperimenti di visti temporanei. Ci sono molti migranti che vogliono solo raccogliere una quantità di denaro lavorando onestamente, per poi tornare a casa. In fondo non hanno voglia di stare qua, detestano stare qua, ma non hanno altra scelta. Non ci si può opporre alle leggi umane con i muri, perché verranno scavalcati. Credo quindi che l’espressione più corretta sia “amministrare la migrazione”. Invece spesso siamo portati a pensare alla migrazioni come qualcosa da proibire. E in questo modo si potrebbe dare un serio colpo alle organizzazione criminali... Sì, penso che in questo modo gli si potrebbe sottrarre quella che per loro è una merce. Però bisogna aggiungere che in Messico, quando parli di guerra ai narcos, parli di una guerra contro lo Stato, perché il Governo sono i narcos. È molto difficile separare il crimine organizzato dallo Stato. Nel tuo libro parli diffusamente di questo sistema, dove la corruzione non è un semplice passaggio di denaro, ma una relazione più profonda e strutturata. Come è potuto accadere tutto questo? Per 75 anni un partito ha governato il Messico: il PRI. Il Partido Revolucionario Institucional si incaricò di creare quella filosofia che qui chiamiamo “ruba e lascia rubare”. La corruzione è diventata un fenomeno diffuso. Se ti ferma un poliziotto e ti stai fumando della marijuana, c’è una certa quantità di denaro per risolvere la questione. C’è una quantità di denaro per tutto. La domanda è se ce l’hai o non ce l’hai. Si è creato un sistema di impunità. Circa l’80% degli omicidi, per esempio, resta senza colpevole. Qualcosa è cambiato negli ultimi anni? O è un sistema talmente forte e diffuso che risulta impossibile combatterlo? Di solito sono abbastanza pessimista e nel libro le cose sembrano molte scure, ma nel mio viaggio ho incontrato anche i migliori esempi di uomini e donne del Messico. Io penso che qualcosa inizi a cambiare: non tanto la classe politica, ma la “vigilanza” della società civile verso la classe politica. La gente ha cominciato a notare ed evidenziare il livello insopportabile di corruzione. I Los Zetas furono pesantemente attaccati perché arrivarono a un livello di barbarie troppo evidente a livello internazionale e il governo dovette reagire. Ma è anche vero che lo stesso governo messicano, vedendo che molti migranti soffrivano e cadevano dai treni, ha ordinato che i treni viaggiassero più veloci e ha impedito che i migranti salissero quando il treno era fermo, costringendoli a salire quando era già in movimento. Sono le

strategie umanitarie più strane che abbia mai sentito. Perché i migranti continueranno a cercare di salire sul treno nonostante la velocità, e se non prenderanno il treno troveranno altri modi, spesso ancora più tragici. Nel libro insisti molto sul fatto che i migranti continuino a migrare nonostante tutto. Scrivi: “il loro viaggio continua perché le ragioni per emigrare rimangono valide”. C’è un bel libro di Martin Caparros – un giornalista argentino – intitolato El Hambre (La fame). Spiega perfettamente il sistema di miseria che si è perpetuato in Africa e per quali ragioni le cose non cambieranno. Non sono situazioni che sono accadute spontaneamente. Qualcuno voleva che accadessero e a qualcuno interessa che continuino a restare così. L’insicurezza del Centro America porta molto denaro all’industria delle armi, all’industria dei vigilanti privati, all’industria della sicurezza. Se ci interroghiamo un po’ capiamo perché le cose continueranno a essere così, almeno finché non ci dimostreremo migliori. Come disse qualcuno, a volte il lavoro del giornalismo è fallire meglio, fallire meglio ogni volta, facendo qualcosa che generi un impatto reale e obblighi la gente a cambiare. Al tuo libro manca una vera e propria conclusione. Perché hai preferito non scriverla? Perché non sapevo cosa dire di più. Ogni pezzo giornalistico ha un senso in se stesso. Il fatto è che il giornalismo è un mestiere ingrato: la gente continua a chiederti “e io cosa faccio col tuo libro?”. Io non lo so. Credo che il libro avesse già un finale, percepii che già generava ciò che volevo generasse: rabbia. Non credo molto nella compassione perché è qualcosa che ti scivola tra le mani come la sabbia. Se vedi un migrante, puoi provare compassione e pensare: “avrà fame, povero”, ma due minuti dopo andrai a goderti il tuo pranzo. La rabbia è diversa. La rabbia ti fa agire. Il tuo obiettivo era quindi quello di suscitare una reazione di rabbia nei tuoi lettori? Uno deve imparare come scrivere le cose perché nel giornalismo il solo informare su quello che accade nel mondo non cambia le cose. Bisogna invece raccontare e in più cercare di farne uscire un’intenzione. In un mondo così saturo di immagini, ci siamo abituati a vedere con indifferenza anche le peggiori tragedie. Se proponi semplicemente un solido articolo, proponi ancora solo “pizze”. E sarà impossibile suscitare una qualsiasi reazione. (Trad. Sabina Borsoi. In collaborazione con Luna Mignani e Stefano Tieri)

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Politica

Alcuni spunti di lotta

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ndrea Cavalletti racconta di aver trovato nella cartella “Materiali dello studio della cultura di destra” che si trova tra gli scritti di Furio Jesi, una pagina dattiloscritta che originariamente apparteneva al fascicolo di Spartakus, composto attorno al 1968. Su di essa era riportata una nota sul Repas du Lion in cui François de Curel si interrogava sulla possibilità che ha un uomo ricco di fare del bene alle classi più povere, rievocando la solita teoria della “cascata”, per cui un uomo accumulando capitale gioverebbe a coloro che si trovino sotto le sue dipendenze. Vi si affermava inoltre il ruolo guida dell’uomo ricco che sa suggerire all’umanità gesti appropriati, movimenti e idee. Come si può lottare contro queste figure che si sono innestate nella nostra società come prodotti e produttori di modelli da seguire? Come si può lottare contro questi “nuovi maestri” che hanno preso il posto antico dell’oracolo? Gli studi di Jesi sul funzionamento della mitologia nel mondo contemporaneo sembrano fornirci dei validi strumenti per non limitarsi a ironizzare, e così evitare di affrontare, questo particolare lato della coscienza borghese: la nostra società si dà così come la conosciamo in seguito a una manipolazione precisa del tempo e dello sguardo, l’utilizzazione dei frammenti di miti antichi – ormai inaccessibili nella loro forma completa – per produrre potere. Le pagine raccolte in Cultura di Destra intraprendono una critica serrata di questa figura del vate-benefattore. L’intento sembra quello di comprendere la vera portata politica del rapporto con la verità – quella stessa che il “maestro” si pone in generale di mediare. In un accostamento che, a prima vista, può sembrare inusuale, Jesi identifica nell’ideologia e nella poesia due categorie capaci, un tempo, di veicolare un rapporto con la verità che

non fosse quello isterilito datoci nel mondo contemporaneo: per sopravvivere nel mondo borghese esse avrebbero perso il potere sovversivo, si sarebbero cristallizzate nel momento in cui stavano per scomparire come sistemi tout court. Questo impoverimento della loro portata conoscitiva, della loro facoltà di far conoscere all’uomo un reale decisamente complesso e mobile – al contrario dell’opinione comune, che vede il pensiero ideologico come violenza o limite, e che lascia alla poesia solamente la facoltà di sistemare i rimasugli dell’emotività di cui disponiamo nel tempo libero – ricalca bene le orme del passaggio dalle religioni mitologiche al mito tecnicizzato, cioè allo sfruttamento politico dei frammenti di mitologia, i soli a cui oggi avremmo accesso una volta che ci è negata l’esperienza collettiva e diretta del mito, come essa si dava nel passato all’uomo. Non a caso, Jesi lavora sulla scia del mitologo ungherese Károly Kerényi, proprio colui che aveva operato questa differenza fondamentale tra mito e la mitologia, determinando l’impossibilità di fare direttamente appello al primo. Lo “studio del mito” – che si oppone a una più diretta esperienza mitica – è pertanto una delle caratteristiche della modernità, uno sguardo che arriva in ritardo pretendendo di poter vedere ciò che invece è già scomparso, ricostruendolo, risignificando il passato in maniera tecnica. Non sembra azzardato dire che i sistemi di classificazione del soggetto – che oggi fanno la fortuna delle risorse umane in azienda – hanno sul loro dorso un indice che rimanda alla letteratura astrologica. Il problema politico del mito si dà nel momento in cui cerchiamo di riconoscere queste figure, esso è un problema di visibilità; quando lo si può vedere e riconoscere? Il mythos greco – non direttamente traducibile con il termine mito – diventa,

di Piero Rosso nella sua versione moderna, il simbolo di una frattura tra l’individuo e la collettività, un’esperienza che appare possibile solo in alcuni momenti fugaci, difficile dunque da criticare perché, di sua natura, parziale. Nel 1969, al momento della scrittura di Spartakus. Simbologia della rivolta, Jesi rilegge la battaglia spartachista, movimento insurrezionale berlinese del 1919 contro la Repubblica di Weimar, come istante in cui l’esperienza collettiva mitica si ridà alla società capace di sospendere il tempo normale per instaurare al suo posto un istante di lotta: la rivolta si qualifica come “l’attimo della conoscibilità” (das Jetzt der Erkennbarkeit), un’espressione che si connette direttamente alle teorie di Walter Benjamin e che impone di considerare la visibilità delle cose come un rapporto col tempo. L’epifania di questo mito dura quanto la sospensione del tempo storico, ma non è mai data in una forma pura, poiché la visione degli insorti si arrende facilmente a quella imposta dal mondo borghese che è stato da lì escluso – una su tutte, quella che vede nell’Altro un’apparizione demoniaca e che ci tocca direttamente quando cerchiamo di descrivere la “mostruosità” del razzismo moderno, la sua mancanza di “umanità”. La breve durata dell’insurrezione limita un tempo di conoscibilità al termine del quale si reinstaurerà la manipolazione borghese del tempo, con la sua scansione di orari di lavoro e pause. La società si arricchirà di nuovi maestri, predizioni di futuro e rituali aziendali di soggettivazione. A questo processo si può opporre una forma di resistenza anche al di fuori della rivolta: riconoscere i meccanismi di produzione di queste figure, smontarne con serenità le condizioni di proliferazione. La lotta che ripete il gesto salvifico dei maestri moderni contro cui si lotta, la lotta che combatte i demoni demonizzando, è già immancabilmente sulla via della resa.


Media

Il Corriere comunica Černobyl’:

un confuso preludio al data journalism di Giulia Massolino

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e il disastro di Černobyl’ fosse avvenuto nel ventunesimo secolo, la popolazione sarebbe stata bombardata da infografiche, statistiche, numeri e confronti. Nello sfogliare le ampie e consumate pagine del Corriere della Sera dei giorni subito dopo il disastro, invece, salta all’occhio il ritrovarsi di fronte a spazi densamente riempiti di parole. Pochissime cifre, sparse in mezzo ai paragrafi, spesso senza riferimenti o spiegazioni e altrettanto spesso confuse e contraddittorie. Un sistema tuttavia dinamico, che si modifica a seguito dei feedback ricevuti dalle interviste, e che dopo diversi giorni si arricchisce di tabelle, confronti, abbozzi di grafici. Un primo passo italiano verso quel giornalismo di precisione che dagli anni ‘70 si stava sviluppando oltreoceano. Due morti, 127 ricoverati, 3500 km di distanza tra Italia e Ucraina, 15000 persone evacuate, 0.079 rem/anno, 847 stazioni di campionamento. Ecco le uniche cifre presenti il primo maggio del 1986 nelle dense pagine del Corriere dedicate al disastro.

Il giorno 3, dopo lo stop dovuto al primo maggio, le informazioni che si aggiungono sono per di più riguardanti la perdita economica dovuta al divieto di vendere latte ai minori e alle donne in stato di gravidanza, quantificata in 17 miliardi di lire al giorno. Gli articoli continuano a rassicurare la popolazione, affermando che non vi sia pericolo e che la radioattività sia diminuita dal 50% al 33%, ma senza dare livelli di riferimento. In contemporanea, però, viene riportata una cifra inquietante: la quantificazione dei donatori di midollo osseo presenti nel registro computerizzato americano (50-100.000). A guardare i numeri, dunque, non si legge altro che la medesima confusione percepibile dalle contrastanti opinioni degli ‘esperti’. Il 4 maggio viene riportata un’intervista ai clienti che, incuranti dei divieti, affollavano gli ortofrutta. La dichiarazione più rappresentativa risultò essere un testuale “non si capisce niente”. Sembra sia proprio questa conclamata confusione nella popolazione a far sì che il giorno dopo compaia un articolo dove si legge: “cer-

chiamo di interpretare i dati, malgrado l’astrusità delle unità di misura…”. Ecco apparire, inoltre, i dati relativi alla presenza di Iodio 131 nel latte, rispetto alle soglie di attenzione sanitaria. Un grosso passo avanti verso il data journalism, accompagnato talvolta da scivoloni come la dovizia di particolari riguardo a una gallina che a Treviso covò un uovo di 2 etti e 22 cm di circonferenza, attribuito (senza alcuna dimostrazione) alla nube radioattiva. Bisogna attendere l’11 maggio per poter leggere un articolo illuminante dal titolo “Una schiarita nella babele dei dati”, il quale, però, non riporta nemmeno una cifra. Ma già il giorno dopo arriva una tabella, chiara e esauriente, con le soglie di pericolo aggiornate. Un piccolo punto di luce nel caos degli scienziati, divisi tra apocalittici e minimizzatori. La sezione Corriere Scienza tenta anche di spiegare il motivo dell’incertezza del confine delle quote pericolo. E, al di là di cifre e soglie, Alberto Malliani condanna i minimizzatori: “Socrate definirebbe tali ignoranti gran peccatori poiché è colpevole ignorare che non esiste il rischio zero”. Lo sforzo in direzione del giornalismo di precisione del Corriere è evidente, sebbene i risultati siano stati discutibili. Una frase emblematica che esplicita esaustivamente il concetto, innovativo per quei tempi ma tuttora molto attuale, si legge in un articolo del 7 maggio: “Tra una qualsiasi opinione e un’affermazione scientifica esiste solo una differenza di probabilità circa la veridicità dei loro rispettivi contenuti, che però è il prodotto di una sostanziale differenza di metodo”.

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Musica

SOLO RUMORE di Francesco Baldo Come ogni anno la primavera ci ha portato il solito carico di oculoriniti allergiche, di pre-appelli, di nubifragi a Barcola quella volta che hai il giorno libero. Però è pure uscito qualche bel lavoro musicale. E allora, prima di lasciarvi liberi di ballare sulle ancestrali note estive di The Rhythm of The Night per liberare mesi di ormoni e sudori repressi, ecco qualche coniglio estratto dal proverbiale cilindro dei bei dischi.

Se uno scozzese, un nigeriano e un liberiano si incontrano a Edimburgo fuori da un locale hip hop e decidono di fare musica insieme, beh ecco, diciamo che qualcosa di non convenzionale te la puoi anche aspettare. Qualche penna professionista e incravattata ha definito questo lavoro come un ‘disco fusion’, come se si parlasse di un elaborato antipasto da 150 euro servito in un locale di lusso. Perché? Perché WMABMT è un diamante purissimo della musica made in UK (come il disco precedente Dead, vincitore di un Mercury Prize). Ma queste penne forse dimenticano l’origine del gruppo, il graduale e progressivo passaggio dalla musica black a un contesto musicale di ampio respiro e indefinibile, l’evoluzione di un suono che si è fatto sempre più complesso. E allora diciamolo, questo disco ripudia la fusione, non è una colata della più sovietica delle industrie metallurgiche. È un lavoro vivo, una contaminazione, l’invasione batterica del pop che infetta il rap, lo pervade, gli lascia l’esoscheletro ma ne ruba gli elementi più raffinati e li combina con l’elettronica, l’r’n’b, le musiche tradiziona- MAGGIO

VIET CONG – VIET CONG

Dirò solo una cosa, e cioè capolavoro. La pietra miliare dell’hip hop di questa decade. L’autore è un rapper di Compton, 1.60 m di poesia e consapevolezza afroamericana incanalate in un filone musicale: un filosofo che affronta qualunque tipo di tema con una maturità straordinaria per un ventenne, l’ML King delle rime. Ah, e le produzioni sono tutte funk, blues, jazz. Basta, ascoltatelo e leggete testi e relative spiegazioni, che certi discorsi sulla razza per noi non sono proprio chiari o recenti. Ah no aspetta, abbiamo avuto il fascismo; ah no aspetta, alla tv parlano di alcuni barconi. Tracce preferite: Momma, These Walls, How Much a Dollar Costs, U, The Blacker The Berry.

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Ma cosa vi abbiamo fatto di male? Ah sì, in questo paese alla deriva i festival musicali si stanno estinguendo. Però tranquilli, la cultura è salva perché c’abbiamo l’Expo. Tracce preferite: tutte proprio tutte.

Sarà che in Canada c’è quel freddo che ti obbliga a passare mesi chiuso in casa, sarà l’aria buona, saranno i molti garage (riscaldati) disponibili, saranno le camicie da boscaiolo, non lo so, ma diavolo, la scena canadese sta esplodendo. Che poi, col fatto che ci hanno già regalato gli Arcade Fire, io allo stato dell’acero dedico già le mie preghierine serali di ringraziamento. I Viet Cong hanno due caratteristiche fondamentali: un nome un po’ del cazzo (soprattutto se cerchi dei loro live su youtube e trovi reperti storici di guerra e bombardamenti) e un fenomenale disco dal gusto un po’ retro. Nati dalle ceneri dei Women (altro nome un po’ del cazzo se cerchi dei live), questi ragazzi di Calgary fanno il post – punk con le due ‘p’ maiuscole. Suoni aggressivi, testi un bel po’ malinconici, una voce roca, chitarre deformi che abbracciano il tuo cervello e avviano la macchina del tempo per riportarti negli ’80. Dopo l’apertura con i suoni primordiali di Newspaper Spoons (non fatevi spaventare ragazzi, non mollate), si apre la raffinata malinconia di Pointless Experience, cui fa seguito il trittico di March Of Progress; si continua con la martellante Bunker Buster, il singolo estratto Continental Shelf, il treno di suoni a 200 all’ora che è Silhouttes e la chiusura con l’infinita Death. L’unico neo: non un live in Italia.

YOUNG FATHERS – WHITE MEN ARE BLACK MEN TOO

NUMERO VI

li. È materia viva, frutto di una continua lavorazione. E ringraziamo l’etichetta che li segue per aver messo loro una deadline, sennò questo disco, a furia di mescolanze e cambiamenti, non sarebbe mai uscito. Tracce preferite: Shame, Rain or Shine, John Doe, Get Up (da Dead).

a voi e auguri: Un caro saluto nno è di tutti. questo complea

I

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ima Buzzati de “Il gnare la Ci un pae deserto dei copertin a il sono persona cioso saggio brul Tartari” pass cavalloè attravers lo e roc- : che ci ato ci ha ggi che ato da nero si, diffi appaion donato all’o un e rizz o e semplic cili da dec misterio te rocc onte da delimita to ifrare. eme a mo pianiosa, men una pare O - comnon esse nte siam o divi tre in verd pripren re in grado noi sa i dern cato militaresono indo e berretto o di e il e l’in invisibi ssati da signifihan segn no un amento le... nio del lasciato tra il che le ince veloce e ines turbidere orab della Storia... i-

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KENDRICK LAMAR – TO PIMP A BUTTERFLY

Periodico registrato presso il tribunale di Trieste (autorizzazione n° 1266 del 27/8/2013). Direttore responsabile: Stefano Tieri Grafica: Alberto Zanardo Terza Pagina: Giovanni Benedetti Editore: Associazione culturale “Charta Sporca” Presidente: Lorenzo Natural Vice-presidente: Davide Pittioni Segretario: Stefano Tieri Tesoriere: Ruben Salerno Stampa: tipografia “Centro Stampa”, Via Romana 46, Monfalcone (GO) Per contattarci:

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