Le storie del Girasole

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7 Quaderni del volontariato 2022 sociale Centro Servizi per il Volontariato PerugiaTerni CESVOL UMBRIA EDITORE
MEDICINA NARRATIVA NEI DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE E NEL DISAGIO ADOLESCENZIALE a cura di Simonetta Marucci
LE STORIE DEL GIRASOLE
Edizione
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2022 Quaderni del volontariato

Cesvol

Centro Servizi Volontariato Umbria

Sede legale: Via Campo di Marte n. 9 06124 Perugia

tel 075 5271976

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Edizione settembre 2022

Coordinamento editoriale di StefaniaIacono Stampa Digital Editor - Umbertide

Per le riproduzioni fotografiche, grafiche e citazioni giornalistiche appartenenti alla proprietà di terzi, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire. È vietata la riproduzione, anche parziale e ad uso interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzato.

ISBN 9788831491358

I QUADERNI DEL VOLONTARIATO UN VIAGGIO NEL MONDO DEL SOCIALE PER COMUNICARE IL BENE

I valori positivi, le buone notizie, il bene che opera nel mondo ha bisogno di chi abbia il coraggio di aprire gli occhi per vederlo, le orecchie e il cuore per imparare a sentirlo e aiutare gli altri a riconoscerlo. Il bene va diffuso ed è necessario che i comportamenti ispirati a quei valori siano raccontati.

Ci sono tanti modi per raccontare l’impegno e la cittadinanza attiva. Anche chi opera nel volontariato e nell’associazionismo è ormai pienamente consapevole della potenza e della varietà dei mezzi di comunicazione che il nuovo sistema dei media propone. Il Cesvol ha in un certo senso aderito ai nuovi linguaggi del web ma non ha mai dimenticato quelle modalità di trasmissione della conoscenza e dell’informazione che sembrano comunque aver retto all’urto dei nuovi media. Tra queste la scrittura e, per riflesso, la lettura dei libri di carta. Scrivere un libro per un autore è come un atto di generosa donazione di contenuti. Leggerlo è una risposta al proprio bisogno di vivere il mondo attraverso l’anima, le parole, i segni di un altro. Intraprendendo la lettura di un libro, il lettore comincia una nuova avventura con se stesso, dove il libro viene ospitato nel proprio vissuto quotidiano, viene accolto in spazi privati, sul comodino accanto al letto, per diventare un amico prezioso che, lontano dal fracasso del quotidiano, sussurra all’orecchio parole cariche di significati e di valore. Ad un libro ci si affeziona. Con il tempo diventa come un maglione che indossavamo in stagioni passate e del quale cerchiamo di privarcene più tardi possibile. Diventa come altri grandi segni che provengono dal passato recente o più antico,

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per consegnarci insegnamenti e visioni. Quelle visioni che i cari autori di questa collana hanno voluto donare al lettore affinché sapesse di loro, delle vite che hanno incrociato, dei sorrisi cui non hanno saputo rinunciare. Gli autori di questi testi, e di tutti quelli che dal 2006 hanno contribuito ad arricchire la Biblioteca del Cesvol, hanno fatto una scelta coraggiosa perché hanno pensato di testimoniare la propria esperienza, al di là di qualsiasi tipo di conformismo e disillusione Il Cesvol propone la Collana dei Quaderni del Volontariato per contribuire alla diffusione e valorizzazione della cittadinanza attiva e dei suoi protagonisti attraverso la pubblicazione di storie, racconti e quant’altro consenta a quel mondo di emergere e di rappresentarsi, con consapevolezza, al popolo dei lettori e degli appassionati. Un modo di trasmettere saperi e conoscenza così antico e consolidato nel passato dall’apparire, oggi, estremamente innovativo.

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LE STORIE DEL GIRASOLE

MEDICINA NARRATIVA NEI DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE E NEL DISAGIO ADOLESCENZIALE a cura di Simonetta Marucci

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Introduzione

Mi chiamo Gabriella, sono la Presidente dell’Associazione “Il Girasole”, e sono la mamma di una ragazza che è stata affetta dal disturbo del comportamento alimentare e ora vi racconto quello che ci è successo.

All’età di 8 anni, mia figlia ha iniziato ad esprimere i primi disagi e a rifiutare il cibo, i segnali inizialmente blandi, piccoli capricci all’approccio con il cibo, poi si sono evidenziati nell’atteggiamento mentre era di fronte al cibo, esempio: non si sedeva a tavola e finito di mangiare iniziava la sua attività sportiva intensa come camminare. Nel contempo, questo aveva riflessi importanti anche nel suo modo di relazionarsi agli altri, in particolare con me, il suo rendimento scolastico era ottimo, super scrupolosa in tutto, alla ricerca continua di una perfezione strana. Ma il suo corpo stava avendo un cambiamento importante, era visibile a me il suo deperimento. Il deperimento si manifestava in svenimenti, cambiamenti repentini di umore, aggressività ingiustificata, per questo scelsi di accompagnarla all’ospedale e lì mi indicarono l’ospedale Bambin Gesù a Roma. Per 5 anni siamo stati in cura a Roma, veniva ricoverata per 2 mesi, ogni settimana andavamo lì per controllare il peso e la bioimpedenziometria, uno strumento che controlla la massa grassa dalla massa magra. Per mia figlia era iniziato un cammino di cura e insieme abbiamo affrontato un viaggio a tratti tortuoso e difficile. Al termine delle cure a Roma ho incontrato una nutrizionista ed endocrinologa, la Dr.ssa Simonetta Marucci, dottoressa dalla straordinaria capacità. Inizialmente il rapporto tra Simonetta e mia figlia fu conflittuale, ma poi grazie alla grande professionalità e sensibilità, si iniziò un vero percorso di cura, fisica e psicologica. Nel contempo affiancata alla Dr.ssa Simonetta Marucci, c’era una giovane psicoterapeuta ed EMDR che svolgeva tirocinio, Emanuela Bisogni, giovane e preparata, piena di buona volontà e con lei mia figlia ha trovato la giusta chiave di lettura.

Vedevo i buoni risultati, mentre mia figlia oramai era fuo-

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ri pericolo, grazie al grande e lungo percorso intrapreso con queste due meravigliose persone e professioniste. La Dr.ssa Marucci iniziò a parlare di creare un’associazione di Volontariato, ritenendo che la mia esperienza e la mia empatia potessero aiutare ragazze e famiglie, chiuse nella difficile battaglia contro il disturbo del comportamento alimentare, naturalmente affiancati da professionisti volontari in grado di curare la parte medica. Al momento non ero sicura di poter aiutare gli altri su questa problematica che mi avrebbe fatto ripercorrere anche il mio dolore e quello di mia figlia in primis, ma andando ogni settimana ai controlli e confrontandomi con le altre mamme e papà persi e confusi, decisi che potevo essere d’aiuto.

Nasce così l’idea di Associazione, un gruppo di mamme e papà che vogliono aiutare; inizialmente volevamo chiamarla “le Farfalle”, ma poi pensammo che il fiore Girasole che ricerca sempre la Luce e Speranza era molto più indicato e da lì con un Girasole partimmo: fondammo la nostra associazione con 5 soci fondatori, speranze, paure e tanta buona volontà e qualche adempimento burocratico.

Ad affiancarci ci sono sempre state la Nutrizionista Endocrinologa Simonetta Marucci e la Psicoterapeuta Emanuela Bisogni, a loro il mio plauso, hanno messo tempo, volontà e impegno sempre a titolo volontario.

Scegliemmo il logo, chiedemmo la sede presso il San Matteo degli Infermi grazie alla sensibilità del direttore sanitario Luca Sapori. Lavorammo con il Centro Servizi per il Volontariato per creare un logo, iniziative per farci conoscere, dépliant informativi, convegnistica e tanto altro. Da questi primi piccoli e insicuri passi, con il tempo abbiamo lavorato e creato un’associazione che aiuta in modo serio e progettuale.

Oggi mia figlia è une delle psicologhe volontarie del Girasole ODV, continua a portare avanti il volontariato, ed è la speranza che tante ragazze come la mia ragazza dagli occhi di cerbiatto possano vincere e superare una malattia infida e

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sconvolgente nel corpo e nella mente.

Uno dei progetti che è stato attuato e che verrà ripresentato per la sua valenza sociale è la giusta lettura dei social, strumento veloce ed importante, ma che spesso veicola messaggi complessi e finti, che incita alla perfezione fisica che in realtà non esiste, che omologa in modo superficiale sterotipi lontani dalla vera accettazione di sé, contribuendo in modo importante agli squilibri del comportamento alimentare.

Insomma non possiamo e non dobbiamo fermarci.

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MEDICINA NARRATIVA NEI DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE E NEL DISAGIO

ADOLESCENZIALE: ESPERIENZE A CONFRONTO.

Nei Disturbi del Comportamento Alimentare, le modalità di interazione con il proprio corpo e la propria identità sono improntate sul conflitto, dove proprio il corpo rappresenta il campo di battaglia. In questa malattia che non si riduce solamente ad una alterazione biologica, ma implica un malessere psicologico profondo, si produce una concatenazione di cause fisiche ed emozionali, che derivano non solo dall’individuo malato ma anche dalle sue relazioni con l’ambiente.

Il corpo diventa il mezzo per comunicare il proprio disagio ed il sintomo rappresenta la metafora dello stato di sofferenza, una sorta di racconto scritto sulla pelle.

Ci si ammala quando la comunicazione si interrompe, quando quello che si vorrebbe dire è troppo doloroso da esprimere a parole,

Il corpo ci mette in rapporto col mondo, in relazione con gli altri, rappresenta la nostra identità, la quale, per essere riconosciuta, ha bisogno dell’incontro con l’altro.

Spesso il rifiuto del cibo altro non è che una domanda di essere visti, riconosciuti, ed il corpo diventa il teatro dove la rappresentazione del sintomo rappresenta il messaggio metaforico non espresso verbalmente.

La psicoterapia, che fa parte del percorso terapeutico di questi pazienti, si fonda proprio sulla verbalizzazione del proprio vissuto emozionale, sul racconto di una storia, che ha lo scopo

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di mettere in ordine gli eventi esteriori ma anche e soprattutto interiori, per ricostruire un significato ed un senso. La narrazione, soprattutto sotto forma di scrittura autobiografica, raccontando la storia ad uso di chi la leggerà, contribuisce a ridefinire l’identità, proprio grazie al rapporto con l’altro.

Scrivere non cambia gli eventi passati, ma permette di inserirli in una storia, di dare loro un senso sul piano esistenziale, riorganizzando il proprio mondo interiore, in modo da ridefinire anche il comportamento futuro.

La scrittura autobiografica è inserita in diversi percorsi terapeutici dedicati ai disturbi alimentari; esiste una ricca letteratura scientifica sul tema, tanto che il Ministero della Salute riconosce la Medicina Narrativa come strumento terapeutico e definisce le Linee Guida per una sua corretta applicazione in campo clinico.

Da diversi anni stiamo portando avanti una esperienza interessante e fruttuosa di Medicina narrativa, nelle strutture terapeutiche umbre, attraverso la Poesia Haiku.

L’Haiku consente una via di accesso facilitata al mondo delle emozioni. La malattia, si esprime nel corpo attraverso i sintomi, i quali non sono solo espressione clinica della patologia, ma rappresentano metafore di squilibri emozionali ben più profondi, la cui cura però non si può esaurire nel corpo, ma si deve necessariamente rivolgere al riequilibrio degli stati mentali che ne sono la causa. Il gruppo di poesia Haiku si tiene solitamente nello stesso giorno in cui si controlla il peso, momento focalizzato sul corpo, sulle sue forme, carico di tensione, aspettative e nel quale avviene l’incontro coi propri fantasmi ossessivi. Seduti in cerchio intorno al tavolo, si cerca di entrare in un’altra dimensione che è quella delle sensazioni e, sotto la guida della terapeuta, si inizia il viaggio attraverso le intime profondità che l’Haiku scopre, nella

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cattura di un istante denso di emozione. L’Haiku è una poesia dalla struttura e dai toni ispirati alla massima semplicità, che affonda le sue radici nella cultura giapponese del XVII secolo, derivando da forme più antiche di componimenti poetici risalenti fino al IV secolo. La sua struttura è di 17 sillabe, suddivise in tre versi, 5-7-5. Il soggetto è rappresentato da immagini della natura legate alle emozioni che colpiscono l’animo di chi scrive, andando a costituire poi una metafora delle insondabili profondità del vissuto esistenziale. Potrebbe sembrare un paradosso che una struttura formale così rigorosa venga proposta come strumento di un atto creativo. In realtà, lo schema dell’Haiku, anziché essere una costrizione per la creatività del poeta, ne rappresenta la sua potenza poiché è proprio la lapidarietà del componimento poetico che permette di dare significato a ogni singola parola, fissando l’emozione espressa in una immagine che rimarrà per sempre nella memoria.

Perché inserire l’Haiku nel programma terapeutico dei Disturbi del Comportamento Alimentare? Il pensiero ossessivo focalizzato sul corpo, sulle forme corporee, sul peso e, di conseguenza, sul cibo, tipico dei DCA, è talmente invasivo da coinvolgere l’intera esistenza del paziente senza lasciare spazio ad altre esperienze esistenziali. Mettersi in ascolto delle sensazioni evocate a livello del corpo, e farlo in sole 17 sillabe, in tre versi non legati da nessi logici, induce a semplificare l’espressione e il pensiero che c’è dietro, togliendo il superfluo, le sovrastrutture, riducendolo all’essenziale. La contestualizzazione in una immagine della natura permette di fermarsi a cogliere le proprie sensazioni in un “qui e ora” che le fisserà in un quadro indelebile di struggente bellezza e semplicità che non sarebbe possibile esprimere attraverso il pensiero razionale.

Nella poesia Haiku, ognuno può essere contemporaneamente autore e lettore ed è questa dinamica che si realizza nei

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gruppi terapeutici di Palazzo Francisci. Sopra la cassapanca nell’ingresso della “casa”, c’è una scatolina di cartone a forma di cuore a cui i pazienti, nel corso della settimana, affidano le loro emozioni fissate in un Haiku, firmato o anonimo, scritto in un bigliettino ripiegato più volte, quasi a racchiudere un prezioso segreto. La lettura di un Haiku, scelto a caso nel corso del gruppo terapeutico, nel silenzio profondo necessario a coglierne le impressioni, rappresenta un momento di condivisione di emozioni che appartengono a tutti, chiunque sia stato a evocarle. «L’Haiku non grida, ma sussurra all’orecchio», dice un poeta giapponese. Per comporre un Haiku, occorre prima fermarsi e mettersi in ascolto delle proprie sensazioni ispirate da un contesto naturale. I sensi ci mettono in rapporto col mondo e ci permettono di vivere le esperienze che poi verranno percepite ed elaborate dal sistema cognitivo. Tra l’esperienza sensoriale e l’interpretazione cognitiva c’è però il filtro dato dal mondo esperienziale di ciascuno di noi, attraverso il centro delle emozioni, il sistema limbico, che conferisce a ogni tipo di esperienza una coloritura emozionale, legata anche alle memorie precedenti. Nel DCA avviene una interruzione della comunicazione tra questi tre versanti della conoscenza del mondo e, quindi, di se stessi.

Il sistema emozionale, schiacciato in questo conflitto tra mente e corpo, esprime il suo disagio con un grande senso di sofferenza, che culmina in disturbi comportamentali spesso molto gravi. Nell’Haiku si parte allora dall’ascolto delle sensazioni del corpo, delle emozioni che esse evocano e, dovendole poi esprimere in un linguaggio verbale, è necessario connettere a esse la parte cognitiva e razionale, dandole però un ruolo espressivo, metaforico, e non interpretativogiudicante. Si ricrea così, gradualmente, la comunicazione corpo-emozione-pensiero, ripercorrendo vie interrotte ma non scomparse. È come riaprire un sentiero coperto da rovi e

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arbusti poiché nessuno ci è più passato da tempo: il sentiero era lì anche prima, basta solo riportarlo allo scoperto… Nella terapia del Disturbo del Comportamento Alimentare, per ricomporre il dialogo tra tutti gli elementi che rappresentano il vero Sé della persona malata, è necessario superare la dicotomia che ancora persiste tra cura del corpo e cura della mente. Il dialogo ritrovato tra emozioni e pensiero impedisce che esse si riversino solo negativamente sul corpo. Lo esprimono le nostre pazienti attraverso i loro racconti, oltre che attraverso gli Haiku. Cecilia scrive… Solo grazie alla scrittura continua, alla dedizione con cui mi applicavo nel realizzare i piccoli versi giapponesi, la mia anima è riuscita a comunicare. Dopo un lunghissimo periodo di silenzio, sono stata travolta da una voce assordante: il mio spirito che a lungo aveva sofferto riusciva a esprimersi. Ho percepito per la prima volta la sensazione che quella bolla in cui mi ero nascosta per sparire per sempre si stava sgretolando pian piano. Esprimevo ogni piccola sensazione che provavo ricorrendo agli Haiku e solo attraverso tale realizzazione liberavo il mio essere dalla sofferenza. Paure, ossessioni, ansie finalmente uscivano fuori attraverso la mia penna. Inizialmente ricordo la rabbia che provavo nei miei confronti, nei confronti della piccola Cecilia che cercava disperatamente di uscire dalla sofferenza per riappropriarsi della vita... il disturbo tentava subdolamente di sottrarmi tutta la mia energia vitale. Poi attraverso quei tre semplici versi ho scrollato tutte le mie paure e le mie angosce nei riguardi della vita, delle difficoltà che s’incontrano in questo strano viaggio che tentavo di rinnegare in ogni modo. E poi... la vita. Improvvisamente è arrivata la luce. Come quando giunge il primo raggio di sole caldo dopo un lungo inverno freddo e uggioso, mi sentivo rinascere realmente e accogliere la vita. Nei miei Haiku sbocciavano i fiori e la serenità si percepiva ovunque. Quando sono tornata nuovamente “donna”, il

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disturbo ha tentato di scatenare in me sensazioni negative ed emozioni oscure. Gli Haiku mi hanno aiutato ancora facendomi comprendere quanto in realtà la paura di essere donna non era altro che la grandissima felicità di sapere che un giorno avrei potuto accogliere dentro di me la vita. Il mio percorso con la “famiglia Francisci” mi ha permesso di tornare a sorridere. Combatto quotidianamente le difficoltà davanti alle quali la vita ci pone. Ma sono intenzionata a non nascondermi più. Voglio vivere e sorridere, parlare, conoscere, viaggiare e amare. Sofferenza e felicità non devono rappresentare per l’essere umano un ostacolo nella propria vita, perché sono le emozioni positive e negative che ci permettono di sentire il nostro cuore battere, il sangue scorrere nelle vene e l’aria che riempie i polmoni. Ho scoperto grazie alla poesia giapponese che saper ascoltare il proprio essere è un tesoro L’Haiku dei sensi 197 davvero inestimabile. Non vivo più la sensazione di trovarmi in una battaglia in cui sono da sola a combattere. Oggi so che sempre e comunque la vita ci preserva un vero e proprio esercito su cui contare per tornare ogni giorno a sorridere

L’Haiku permette di reinterpretare le sensazioni fornendo un ascolto non giudicante del corpo, aiuta ad accogliere e amare quelle parti di sé ritenute, in precedenza, sgradevoli, mettendo così sempre più distanza tra sé e il sintomo.

Sono in fuga

Tutte le immagini

Nei miei occhi

Eppur silenzio

In questo assordante

Frastuono

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Ogni mattina

Una fragranza di caffè

Su dalla moka

Cremisi è Profumata la rosa

Eppure punge

Sedia vuota

Nel giardino immenso

Colmo di nebbia

L’Haiku non sostituisce la psicoterapia, ma ne diventa un complemento indispensabile poiché, contribuendo alla introspezione e alla consapevolezza, permette una maggiore accessibilità alle terapie psico-comportamentali attraverso una stabilizzazione dell’umore e una minore difficoltà a prendere contatto con la propria coscienza. La semplicità di queste tecniche le rende facilmente applicabili in molte situazioni cliniche in cui gioca un ruolo importante lo stress. Imparando a centrarsi sul proprio corpo come sorgente di sensazioni che chiedono di essere ascoltate senza necessariamente dare a esse un significato o pretendere di modificarle, si apprende, con la stessa immediatezza, a seguire il pensiero, dal momento in cui nasce a quando passa e si allontana dalla mente, allenandosi a osservarlo senza giudizio, concentrandosi sul momento presente, sul “qui e ora.

Quando si comincia a prestare attenzione alle sensazioni e a coltivare la coscienza, la visione del mondo cambia e si cominciano a percorrere, in modo del tutto naturale e senza sforzo, delle vie che supportano stili di vita sani e che conducono alla guarigione.

Abbiamo voluto in questo lavoro, estendere l’esperienza della

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scrittura anche sul versante della prevenzione del disagio adolescenziale e pre-adolescenziale, proponendo un percorso di poesia Haiku nelle scuole primarie e secondarie.

L’adesione da parte delle insegnanti è stata veramente entusiastica e convinta ed i risultati veramente incredibili in termini di quantità e qualità.

Hanno accettato di dare il loro contributo di esperienza, in questo racconto, alcuni aiutandoli genitori, impegnati in prima persona nella associazione Il Girasole, che si mette al fianco proprio dei genitori,aiutandoli a parcorrere una strada spesso irta di difficoltà, nell’aiuto dei figli. Accanto a loro gli operatori, alleati nella lotta e nella prevenzione dei DCA: psicologi, nutrizionisti, medici.

Ci hanno regalato le loro storie anche Greta, che grazie alla scrittura ha superato il trauma del bullismo, e Mario, un vero poeta Haiku, che dedica la sua vita proprio ai bambini, da cui riesce a far emergere la poesia che hanno dentro.

Questo lavoro, reso possibile dal Cesvol, a cui va il nostro GRAZIE, vuole essere una testimonianza e un incoraggiamento a sperimentare nuovi percorsi di cura, alimentando la speranza della guarigione.

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LE STORIE RACCONTATE DAI GENITORI

La storia dell’associazione “Il Girasole”

Vicepresidente Associazione Il Girasole

Quando andavo con mia figlia dalla dott.ssa Marucci Simonetta per la visita medica, mi ritrovavo in quel corridoio dell’ospedale un po’ buio insieme ad altri genitori, li guardavo ma loro tenevano lo sguardo a terra, avevano il viso triste e gli occhi spenti.

Un giorno trovai una bella signora, Gabriella Orazi, bionda con gli occhi brillanti ed un ampio sorriso che mi rincuorò. Mi sentii subito accolta , ci scambiammo opinioni ed esperienze delle nostre storie.

Ci ritrovammo dopo qualche giorno e decidemmo che dovevamo fare qualcosa in più per aiutare le nostre figlie e, con il supporto dei terapeuti che si prendevano cura di loro, pensammo di fondare un’associazione di genitori di ragazzi affetti dal disturbo del comportamento alimentare e, per la solarità del fiore, la chiamammo “Il GIRASOLE”.

Pensammo :“le nostre ragazze sono fiori che non alzano più la corolla verso il sole”.

Per la parte burocratica ci affidammo al Cesvol, sezione di Spoleto, dove trovammo un angelo: Silvia Coricelli che ci aiutò ed incoraggiò.

Il Cesvol diventò il nostro luogo di incontro e di lavoro: cominciammo dai volantini per farci conoscere, organizzammo per le ragazze gruppi di arteterapia con una maestra d’arte e gruppi di consapevolezza psiconutrizionale secondo l’approccio sistemico-relazionale Mindfullness tenuti dalla dott.ssa Bisogni Emanuela psicologa e psicoterapeuta.

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Intanto grazie ad una convenzione col l’ASL2 i nostri volontari potevano accedere a degli spazi all’interno delle strutture pubbliche : Ospedale, Centro Salute Mentale. Per i genitori creammo un gruppo di mutuo aiuto coordinato dalla psicologa e psicoterapeuta Elisa Montelatici in modo che anche loro avessero uno spazio di condivisione delle problematiche legate al coinvolgimento delle famiglie nella malattia dei propri figli.

Cercammo di far conoscere le caratteristiche della patologia tramite corsi di formazione e convegni aperti alla popolazione con interventi di medici specialisti nel settore dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione.

Iniziammo poi, dopo qualche anno, con l’attività di prevenzione e cercammo, quindi, una collaborazione con le scuole del territorio.

Nelle scuole elementari abbiamo fatto progetti dedicati ad una sana alimentazione e alla ricerca del sapore degli alimenti, nelle scuole medie progetti rivolti all’immagine corporea e all’accettazione di sé, mentre nelle scuole superiori abbiamo aperto sportelli di ascolto psicologico. Il nostro intervento nelle scuoe si è arricchito con seminari di pedagogia genitoriale, dal titolo “impariamo a leggere oltre le parole “,per aiutare le famiglie e gli insegnanti a cogliere i primi segni del disagio degli adolescenti.

Infine, poiché abbiamo capito che spesso una delle cause dei disturbi alimentari risiede nella problematica dell’obesità infantile, con l’aiuto del Dott. Silvestri Maurizio, ginecologo, e della dott.ssa Giulia De Iaco, biologa nutrizionista, abbiamo creato il progetto ”1000 giorni insieme” (270 di gestazione e 730 dopo la nascita del bambino). Questo si compone di due momenti: uno all’ interno del consultorio dell’ USL 2 dove si affrontano argomenti dedicati alla nutrizione e allo stile

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di vita della gestante ed un altro, presso la Fattoria Sociale della cooperativa Il Cerchio, dove si è realizzato un piacevole laboratorio di cucina, utilizzando alimenti sani ed equilibrati.

Negli ultimi due anni, sempre in tema di prevenzione, nonostante la pandemia da coronavirus, siamo riusciti ad attivare un pronto soccorso psicologico (P.S.P), in collaborazione con l’USL2, all’interno dell’ Ospedale San Matteo degli Infermi, rivolto agli utenti del pronto soccorso e agli operatori dell’ospedale che svolge un ruolo di supporto, orientamento e sostegno per traumi, lutti, problematiche familiari, attacchi di panico, incidenti, malattie. Questo servizio ha continuato l’attività anche, e soprattutto, durante il periodo del lokdown attraverso contatti telefonici e/o videochiamate.

In questo ultimo anno grazie alla donazione della Fondazione Mina e Cesare Micheli e al sostegno della BNI di Spoleto abbiamo aperto un ambulatorio territoriale psicosociale presso la Palazzina Micheli, attigua all’ospedale, coordinato dalla Dott,ssa Bisogni Emanuela.

Il servizio si avvale della collaborazione di un gruppo di psicologi con diversi livelli di specializzazione ed offre una forma di aiuto basata sull’ascolto profondo, all’interno di uno spazio protetto e riservato, con l’intento di creare un cambiamento orientato verso il benessere.

Abbiamo nel cassetto un nuovo progetto: creare un ambulatorio per disturbi del comportamento alimentare per accogliere i pazienti ai primi sintomi, che si avvalga della collaborazione di un medico volontario per effettuare colloqui motivazionali in modo da indirizzare il paziente all’ambulatorio dedicato della Usl2 e per accogliere i genitori invitandoli a partecipare ai gruppi di mutuo aiuto.

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Il punto di forza della nostra associazione, oltre alla collaborazione di validi specialisti, è la tenacia e la motivazione della nostra Presidente Gabriella che non si è mai arresa di fronte alle difficoltà.

LA MIA STORIA: RUOLO DEI GENITORI

Tilde Fabi

Quando mi accorsi che mia figlia di 12 anni stava perdendo peso, 1 kg al mese, cominciai ad osservarla; trovavo resti del pasto sotto il piatto o in terra, trovai un foglietto in cui aveva scritto la sua dieta, un vero e proprio programma per dimagrire con eliminazione graduale dei carboidrati e delle merende, e ci stava riuscendo! Non le dissi niente ma cercai in tutti i modi di dissuaderla preparando i suoi piatti preferiti.

Non servì a niente, anzi piano piano restringeva gli alimenti calorici dicendo che non le piacevano più. Ricorsi allora ad una visita medica da una Nutrizionista che, ascoltando sia me che mia figlia, disse che il problema era serio e che avrei dovuto rivolgermi ad una psicologa. Mia figlia mi disse subito che non sarebbe andata dalla psicologa, quindi ricorsi ad un’ escamotage portandola in un centro specializzato per l’orientamento post scuola media, avvisando lo psicologo del problema che aveva la ragazza. Non funzionò, avevo sottovalutato l’intelligenza di mia figlia. Allora dicemmo che, poichè noi familiari eravamo preoccupati per il suo dimagrimento, saremmo ricorsi ad una terapia familiare e ci rivolgemmo ad un centro privato per la cura dei DCA.

Anche questo risultò fallimentare: alle riunioni veniva perchè costretta e non parlava; la sorella minore entrò in crisi, sentendosi colpevole per non riuscire ad aiutarla; lo psichiatra che seguiva me e mio marito ci presentò il quadro del DCA , i

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rischi a cui sarebbe andata incontro nostra figlia e l’evoluzione della malattia, spesso tragica.

Cademmo entrambi in una profonda depressione, non dormivamo la notte e intanto lei aveva smesso d’incontrare amici e di andare a scuola. Ci sentivamo soli ad affrontare un problema impossibile.

Cominciai a leggere testi che riguardavano la problematica ed incappai nelle vecchie teorie (anni ‘70) che vedevano la famiglia come l’elemento più accreditato nella patogenesi del disturbo alimentare. Continuavamo a chiederci dove sbagliavamo e a volte io e mio marito ci accusavamo a vicenda.

Cominciammo allora a chiedere aiuto ad amici e medici finchè la dott.ssa Marucci Simonetta ci diede uno spiraglio di luce : ci indicò il centro residenziale dell’ASL Umbria 1 per DCA situato al Palazzo Francisci di Todi.

Qui ci accolse la dott.ssa Dalla Ragione che ci rassicurò e ci presentò il programma del centro. Appresi che, se la paziente è giovane, la terapia deve assolutamente coinvolgere la famiglia che costituisce la matrice principale dell’identità dell’adolescente che, nonostante mostri i primi segni di autonomia, ha un grande bisogno di appartenenza al nucleo familiare. Capii che i DCA sono prevalentemente una patologia dell’età evolutiva, molto imbrigliata nelle dinamiche del gruppo familiare; se non si affrontano tali legami si rallenta o si rende impossibile il cambiamento nella paziente. La variabile familiare costituisce sicuramente uno dei fattori di rischio ma, soprattutto, gioca un ruolo decisivo in quanto rimane un fattore di mantenimento del disturbo.

Nel periodo del ricovero di mia figlia al Palazzo Francisci seguimmo i gruppi familiari coordinati da una Psicologa che ci aiutò a capire che i familiari devono diventare soggetti attivi nel trattamento del disturbo. Ci spiegò che dovevamo abbandonare il senso di colpa, che il disturbo ha una natura multifattoriale (personale, sociale, biologica) e che, per uscirne,

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anche i genitori dovevano cambiare comportamento. Inoltre ci fecero capire che il disturbo alimentare è una malattia che colpisce l’autostima e la capacità di comprendere di essere amati, il dubbio che si insinua nel malato è che i genitori non lo amano perché non risponde alle loro aspettative. Ci dissero che saremo stati seguiti in tutti i passaggi del trattamento di nostra figlia attraverso incontri singoli e di gruppo. Capimmo che la patologia attacca la capacità di comunicare fra genitori e figli, la capacità di saper stare legati in momenti di crisi. La famiglia gioca un ruolo fondamentale come fattore di mantenimento del disturbo.

Quando successivamente decidemmo con Gabriella Orazi ed altri genitori di fondare l’associazione per DCA “Il Girasole ODV” nella mia città, mi occupai subito di creare un gruppo di aiuto per genitori e familiari dei giovani pazienti. Arrivavano genitori smarriti, soli ad affrontare un disturbo a volte completamente incomprensibile: il rifiuto del cibo, dei pasti in comune, la negazione di ogni forma di intimità familiare.

La malattia dei propri figli veniva sentita come un’accusa nei loro confronti, rimanevano senza parole e spesso smettevano di ascoltare.

Questi gruppi, coordinati da una Psicologa, con cadenza mensile mirano al sostegno dei familiari attraverso informazioni sulle caratteristiche dei DCA , aiutano nell’ascolto attivo e nella comunicazione con i figli, sostengono nella genitorialità attraverso il riconoscimento e la valorizzazione delle risorse. I genitori imparano a sviluppare nuove competenze e strategie educative nella relazione con i figli anche attraverso il confronto con altri genitori, a socializzare il proprio essere genitori confrontandosi e condividendo ansie, paure, aspettative, ad avere una maggiore consapevolezza delle proprie risorse educative, a rintracciare e valorizzare le differenze fra i bisogni dei genitori e quelli dei figli.

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Lo scopo è quello di sostenerli ed incoraggiarli a liberarsi dalle gabbie che li tengono isolati e di aiutarli ad esprimere e a elaborare emozioni, sentimenti, vissuti e pensieri non facilmente condivisibili se non in un gruppo di pari.

In questo modo ognuno di loro può trovare spunti e strategie utili per aiutare il proprio figlio a guarire. Lavorare con la famiglia e coinvolgere i familiari nella battaglia contro la malattia, considerandoli soggetti attivi del trattamento, diventa decisivo e può assumere un’importanza rilevante per l’esito del percorso.

La malattia di un figlio può e deve diventare un’occasione per guardare dentro di sé e dentro gli equilibri della famiglia, rappresenta un momento esistenziale privilegiato per crescere, senza dare niente per scontato o acquisito.

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ANCHE I TERAPEUTI SCRIVONO LA LORO STORIA

IL CIBO E IL PIATTO: TEATRO DEL DRAMMA

Giulia De Iaco

Biologa Nutrizionista

Palazzo Francisci, Todi.

Ore 13.00

“Sala Terapia”: così viene chiamata la sala da pranzo, luogo tanto temuto quanto odiato dai pazienti. È proprio qui che ogni giorno, con fatica, ragazzi e ragazze devono trovare la forza per affrontare il pasto, il momento più difficile della giornata.

Forse perché in quella sala, quel tavolo, quel piatto, quelle posate diventano il campo di battaglia contro un nemico potente: la malattia.

Poco prima, negli occhi dei pazienti, si legge l’angoscia, il terrore, l’ansia di dover varcare la “soglia” della Sala Terapia, quasi come se un Caronte invisibile li stesse traghettando verso chissà quale luogo infernale.

La stanza è piena di fiori, soprattutto girasoli. Le persiane sono accostate, quasi a voler contenere la sacralità e l’intimità del momento. Il sole fa capolino ed entra prepotentemente, mescolando la sua luce con il rosso delle tende.

Si respira aria di casa: no al colore bianco di ospedale, o grembiuli o guanti. La sala è arredata con mobili d’epoca, quadri, fiori, cuscini, un bel divano ed una credenza con piatti, bicchieri, argenteria. Sembra quasi di sentire i rumori, gli odori, i profumi che invadono e riempiono la casa della nonna.

La musica risuona da uno stereo: è un sottofondo piacevole. Scorrono canzoni di ogni genere, scelte dai pazienti.

Si siedono, ognuno sul proprio posto, occhi rivolti verso il basso. E se solo il tuo sguardo dovesse incontrare il loro, questo ti penetra dentro in un istante, e lo sguardo vorresti abbassarlo tu…

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Si percepisce la loro anima fragile da quei corpo quasi trasparenti.

M., maglietta larga color bordeaux, scarpe da ginnastica a stivaletto, consumate come il suo corpicino senza più curve: è piegata sul piatto, lo sguardo perso nel nulla, il piede sinistro in continuo movimento. È più forte di lei, non riesce a fermarlo.

F. è rigida sul suo piatto. Non ridono, non scherzano, non parlano tra loro: è come assistere ad una veglia funebre.

G., mangia molto lentamente, troppo lentamente. Fa pezzettini minuscoli.

S. asciuga in continuazione l’olio dell’hamburger, mangia una striscia di carota julienne alla volta, un pezzo di lattuga sulla forchetta che sembra non scomparire mai. Guarda in basso.

E. invece mangia troppo velocemente. Gli operatori la riprendono: deve fare bocconi più piccoli.

I terapeuti sono accanto a loro, cercano di distendere un’atmosfera troppo tesa, di sdrammatizzare, sedendosi accanto ai pazienti, facendo sentire il loro calore, la presenza e l’amore di chi sta combattendo insieme una battaglia contro la malattia.

Palazzo Francisci, Todi.

Giovedì ore 8.30

Il monitoraggio del peso

Percorrendo i corridoi della Residenza il giovedì mattina, qualcosa di strano, di diverso, nell’aria c’è.

Sarà la tensione, saranno gli sguardi ansiosi e spaventati dei pazienti, sarà la loro impazienza di conoscere quel numero tanto atteso ed ossessivamente pensato durante tutta la settimana.

I pazienti sono in cima alle scale.

Si sentono i passi silenziosi, ma allo stesso tempo così male-

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dettamente pesanti della più “coraggiosa”.

Bussa alla porta dell’ambulatorio.

Un corpicino avvolto da una felpa scura di almeno tre taglie in più fa capolino dalla porta. Capelli lunghi, un po’ ribelli le coprono il volto: un velo di protezione, una corazza simbolica per difendersi dai nostri sguardi, ma soprattutto da quello strumento così potente e troppo grande per quel corpo così piccolo.

La bilancia.

Cerco un suo sguardo. Impossibile trovarlo.

L’unico a cui concede un incontro è il pavimento. Silenzio. Sta tremando. Sa cosa deve fare.

Si toglie quella felpa troppo grande per lei, e lascia scoprire un corpo sofferente.

Dove sono i tuoi fianchi? E i tuoi seni?

Vedo un corpo da bambina, quando bambina non sei più.

Continua a tremare mentre cerca di togliersi le scarpe. Lo fa lentamente, come se volesse rimandare il più possibile il momento in cui dovrà salire su quell’oggetto “giudicante”.

Viene esortata ad essere più veloce.

È il momento dei pantaloni. Scivolano via, facilmente, come se facessero già fatica a rimanere indossati.

Rimane in mutandine. Sembra così fragile. Un vaso di cristallo: così delicato quanto prezioso.

Seminuda, occhi rivolti verso il basso, nascosti consciamente (o forse inconsciamente?) dai suoi boccoli naturali: non vuole vedere.

E poi sale. Con forza, o forse rabbia.

Ora è la bilancia a tremare.

Il terapeuta si avvicina e sposta il cursore fino a che l’equilibrio è raggiunto. Lei è di spalle. Preferisce non vedere quei numeri nemici.

Può scendere.

Il peso è aumentato di cento grammi rispetto al giovedì pre-

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cedente. Quel numero riecheggia nella stanza come fosse un inquisitore. Spalanca gli occhi, spaventata. Si mette le mani in quei capelli che fino a poco prima erano stati il suo rifugio. Il respiro aumenta. Scende una lacrima. La chiamano “crisi”.

Sono solo cento grammi, penserete. Ma per lei questi cento grammi valgono più di qualsiasi altra cosa. Rappresentano un corpo che cambia, che cresce, che “ingrassa”. Rappresentano i continui pensieri ossessivi costruiti per un’intera settimana, e non solo…

Non è ancora pronta, ma lo sarà presto. Ora c’è il gruppo Haiku, non a caso.

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LA RISONANZA DEL TERAPEUTA COME MATRICE DI NARRAZIONI CONDIVISE

Psicoterapeuta familiare e Practitioner EMDR

La risonanza può essere definita come l’emozione che si attiva nel terapeuta sulla base della somiglianza o identificazione con alcuni aspetti della vita del paziente o di altri membri. Ci possono essere tanti tipi di risonanze, da quelle più specifiche, ad esempio occupare la stessa funzione nel gioco familiare, ad altre più generali come possono essere le affinità di genere, di generazione, di sottocultura.

Riconoscere le nostre emozioni e costruire ipotesi che ce le rendono comprensibili, è parte fondamentale della relazione terapeutica. Sperimentandoci come terapeuti capiamo delle cose su di noi come persone e su come abbiamo vissuto e viviamo la nostra collocazione nelle relazioni passate e presenti. Continuamente ci confrontiamo con i nostri pazienti sperimentandoci come troppo uguali o come troppo diversi. Troppo uguali quando la risonanza ci assorda, troppo diversi quando ci sentiamo troppo estranei e lontani rispetto a quel mondo. Oppure possiamo vivere positivamente la nostra somiglianza, perché ci dà un senso di competenza e vicinanza, così come possiamo vivere bene la diversità, perché ci consente di vedere quello che i nostri pazienti non riescono a percepire.

Ritengo quindi che la risonanza sia un sistema dinamico complesso, interattivo-intersoggettivo, instabile, non lineare in continua evoluzione; Il terapeuta deve essere, cioè, in grado di acquisire un’adeguata regolazione delle proprie emozioni: deve apprendere a lavorare nell’intersezione fra

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ciò che costituisce il suo passato (la sua storia familiare) e il contesto presente (il sistema terapeutico), senza essere invaso dalle emozioni o percezioni che il sistema terapeutico evoca e/o amplifica –per effetto della risonanza- della propria storia. Il terapeuta deve effettuare un apprendimento emotivo, che dipende da un riconoscimento della propria storia familiare.

L’importanza della risonanza implica il recupero della soggettività, con tutte le implicazioni affettive ed attribuzioni di significato che essa comporta; i terapeuti, quindi, devono esplorare non più solo le dinamiche relazionali, ma anche i vissuti personali, i “mondi interni” individuali e familiari che le accompagnano, caratterizzandone il livello più nascosto e profondo.

Iniziamo ora a narrare la mia esperienza come terapista con la famiglia P:

Tante idee circolano nella mia mente e non è facile partire...

Come un po’ in tutte le cose che faccio, una volta iniziato poi le idee, le sensazioni, le emozioni trovano una loro forma e si aggiustano piano piano, come se il dominio del pensiero e dell’emozione, da forma nebulosa, diventassero qualcosa di più distinguibile, più chiara, come se cominciassero a dialogare e a integrarsi.

Come primo punto tengo presenti il tempo e l’errore come parametri di crescita personale e professionale.

E di strada ne ho fatta tanta, con risonanze che, di volta in volta, sono divenute più malleabili e meno potenti.

Cito a tal proposito: “L’errore è un aspetto fondamentale della filosofia di K. Popper, egli ne offre una rivalutazione epistemologica, sostenendo che la scienza, essendo composta da congetture suscettibili di rettifica e confutazione contiene

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l’errore come momento strutturale del suo procedere. Al punto che fare scienza significa in concreto errare ed imparare dai propri errori.” (G.Fornero).

L’incontro dentro di me con la famiglia P.

Questa famiglia mi ha molto incuriosita fin dal primo momento. Una famiglia che ho visto diversi anni fa e che però rappresenta l’esemplificazione dell’uso della risonanza per costruire trame narrative nel processo terapeutico.

Ciò che mi ha subito colpito è stata la statura di questa famiglia, erano tutti di bassa statura, in modo particolare la madre e la figlia erano molto piccole e minute, come se non fossero mai cresciute; in realtà sembravano bambine, l’unico ad essere un po’ più alto era il fratello.

Ho scelto di portare questo caso clinico perché ha rappresentato per me una vera e propria sfida non solo dal punto di vista personale ma anche professionale. E soprattutto rivederlo, a distanza di tempo, mi permette di comprendere quanto e come sono cresciuta.

Sicuramente, ora, c’è una maggiore tolleranza rispetto alle mie fragilità, un minor senso di onnipotenza, la capacità e il permesso di poter accogliere il dolore dell’altro oltre che il mio, una maggiore capacità nello “stare con l’altro”.

Ma tutto questo come è avvenuto? Sicuramente attraverso l’esperienza, allenando i diversi piani dell’essere e fare il terapeuta! E, contemporaneamente, lavorando sulla mia storia personale, attraverso le risonanze che via via sentivo e che mi imbrigliavano.

Soprattutto, penso che si possa imparare proprio da ciò che ci mette in crisi e ci pone di fronte ai nostri limiti. Toccare i

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propri limiti, le proprie difficoltà, le proprie paure, le proprie fragilità è parte di quello che forse anche il terapeuta dovrà fare nel corso del processo terapeutico: se il terapeuta è capace di “toccare” la propria intimità è molto probabile che anche la famiglia potrà arrivare a farlo, ridefinendo i significati, i nessi relazionali, i ruoli e le funzioni, abbandonando man mano le difese.

L’insostenibile leggerezza dell’essere: la terapia interrotta.

Cercherò di descrivere questa famiglia, usando un’ottica fenomenologia: descriverò il processo, che non significa la spiegazione dello stesso; descrivere un processo significa non avere come punto di partenza una nozione preliminarmente “isolata”, necessaria alla descrizione, ma semplicemente descrivere un processo che è in fieri.

Vorrei parlare di questa famiglia, seguendo tre linee: la narrazione dei contenuti delle sedute con la famiglia, le ipotesi di funzionamento individuale e familiare, le mie risonanze. In realtà ho separato queste tre dimensioni, ma sono interagenti e si integrano in una logica di complessità circolare.

La famiglia P. è apparsa subito come una famiglia complessa; non è stato semplice “lavorarci”, soprattutto perché la figlia (22 anni) si trovava fra la vita e la morte: aveva una diagnosi di anoressia e pesava 29 kg e la famiglia “premeva” molto sul fatto che riprendesse peso, peso che diventava metafora del suo stare bene o male. Da settembre a novembre, per circa due mesi, il suo peso ha oscillato fra 29 e 31 kg e la famiglia leggeva questo suo scendere e salire come “capricci” volti a far preoccupare i genitori.

C’era un carico d’angoscia molto forte, questo è ovvio. Angoscia che sentii fin dall’inizio e che portò anche me, a

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volte, a muovermi su binari piuttosto concreti e ad andare di fretta, subito sui risultati, colludendo con loro.

La cosa che sentivo difficile, con questa famiglia, era il fatto che erano persone molto concrete ed era molto difficile creare lo spazio mentale per poter accogliere qualcosa di diverso e, soprattutto, per passare ad altri livelli più simbolici, che favorivano un dialogo interiore. In questa famiglia era molto difficile “mentalizzare” in maniera esplicita, provare a far pensare e sentire ad altri componenti quello che una persona sentiva o pensava, era davvero molto arduo. Tutto era molto concreto, e si risolveva in un ragionamento molto lineare: “se la figlia prende peso, sta bene, altrimenti non va”, non pensando che ci potesse essere tutto un mondo interiore emotivo-cognitivo.

Torniamo alla famiglia.

Le aspettative che i genitori avevano nei miei confronti erano a dir poco miracolistiche, ciò che mi chiedevano era quasi di essere un santone, considerando che però, contemporaneamente, sentivo che non c’era affatto fiducia, attivando il meccanismo della delega.

Sentire entrambe questi due vissuti dentro di me, era snervante e irritante e sentivo alternativamente rabbia e angoscia… Con un messaggio paradossale: “salvala, ma non ci fidiamo!”

Questi vissuti li provavo quasi sempre e difficilmente mi facevano lavorare con tranquillità anzi, ero molto tesa e preoccupata del loro giudizio; eppure, ancora tenevo indosso la maschera di “Chi sa” e facevo finta di nulla.

Riuscendo a parlare di ciò che sentivo, sono riuscita a rispondere e a stare con la famiglia in maniera empatica e non difensiva, costruendo in questa seduta un’importante esperienza nuova per il paziente e la famiglia nella negoziazione

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costruttiva dell’”incomprensione”. È come se in questo caso ciò che impediva la costruzione di una vera e propria alleanza terapeutica riguardasse il legame relazionale. E dunque, solo dopo averne parlato, ho potuto davvero definire gli obiettivi terapeutici, in maniera più realistica. Si è lavorato sulle loro aspettative su di me, ma anche sulle mie aspettative rispetto a loro; quindi, è come se, ridimensionando le aspettative, questo ci avesse permesso di entrare in relazione ed è in quella seduta che ho sentito che si stava costruendo il sistema terapeutico; prima, c’erano solo il terapeuta e il sistema familiare, come due entità divise e separate.

In altri termini, ho lavorato sulla focalizzazione diretta del legame relazionale e l’ho fatto attraverso una chiarificazione della mancanza di fiducia che sentivo essere molto forte nei miei confronti e, usando una metafora della piscina (a tutti piaceva nuotare, tranne alla mamma che aveva paura dell’acqua), ho fatto capire loro che noi ancora ci trovavamo a sentire se l’acqua era calda o fredda, ci si trovava ancora a bordo piscina e quindi bisognava ancora capire se convenisse buttarci!

Ad un certo punto, visto che questo vissuto continuava a esistere in me (eravamo arrivati alla quarta seduta), ho pensato che potesse essere utile usare anche un’altra metafora, molto vicina al tipo di lavoro che faceva il papà (elettricista), visto che era sempre lui a chiedermi di vedere strumenti concreti “psicologici”, cosa non certo facile, non siamo ingegneri!

La metafora che scelsi di usare è un paragone tra la corrente elettrica e lo stare in relazione e, quindi, il mondo “psi”.

Come si comprende lo stare in relazione con l’altro?

Attraverso il sentire. La relazione non si può toccare, tuttavia, si possono vedere gli effetti delle relazioni o si possono capire gli ingredienti di una relazione; lo stesso accade per la

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corrente elettrica: la corrente non si vede, ma sappiamo che c’è perché, se tocchiamo una presa, sentiamo il suo effetto (prendiamo la scossa!) quindi è come se in qualche modo noi dovessimo fare un atto di fede per ciò che esiste ma che non si può facilmente toccare.

Il problema della fede rappresentava un problema importante, la fiducia sembrava non essere molto presente in questa famiglia: ci si fidava poco degli altri e, forse, è anche questo un motivo per cui avevo la sensazione che la terapia non fosse ancora partita. È come se stessi costruendo ancora la storia terapeutica.

Ci si fidava poco, ma si avevano aspettative miracolistiche di riportare tutto a come era prima, senza tanti stravolgimenti. È come se dicessero “aiutaci a muoverci, facendoci restare fermi”.

Queste aspettative le sentivo su di me e le ho, dunque, utilizzate per entrare in questa parte, che sembrava spettasse a me giocare; così ho potuto provare sulla mia pelle cosa volesse dire percepire un carico enorme di aspettative (magari le stesse sperimentate dalla figlia), temendo però, da un momento all’altro, di poter tradire la fiducia di qualcuno. Quindi, l’adempimento dei desideri altrui permetteva, da un lato, di dimostrare questa fiducia e lealtà alla famiglia, mentre dall’altro immobilizzava.

Non sapevo ancora quali vuoti reali e pieni ideali ci fossero, dietro a queste richieste e aspettative, ma intanto ho provato a starci e a non fuggire.

Andolfi e Angelo (1980) scrivono: “La famiglia può tentare di far giocare al terapeuta ruoli stabiliti durante la riedizione in seduta del “dramma familiare”, in modo da mantenere gli equilibri acquisiti, trasferendo su di lui richieste

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originariamente poste a un altro membro del sistema”.

In realtà, ho sentito tanto questo carico e, per un po’, sono scappata dal gioco familiare che la famiglia mi stava proponendo. Mi sentivo rifiutata e, alcune volte, anche un po’ inutile, ho tentato fin da subito di far bella figura, ho agito senza pensare molto. Anche io volevo dimostrare di essere capace e questa cosa mi ha condizionata perché ho fatto cose per le quali la famiglia non era affatto pronta.

Ecco qui la dimensione dell’errore tanto cara!

È come se avessi voluto cambiare i valori e le regole che mantengono gli equilibri del sistema e come risposta avessi avuto movimenti di tipo opposto, volti a contrastare squilibri improvvisi. La difficoltà che avevo con questa famiglia era davvero di entrare e uscire dal sistema familiare per poi distanziarmi e stare nel sistema e processo terapeutico.

C’era, poi, un carico di angoscia che sentivo, che era della famiglia e nella famiglia: J. evocava in me il senso di morte, con una mimica del volto che aveva stampato sopra il disgusto non solo per il cibo, ma anche per la vita. Non sapeva ancora se scegliere la vita o la morte e, dicendo questa cosa, piangeva.

C’era un quadro depressivo che si accompagnava a quello di anoressia: J. chiedeva ai genitori di darle la vita come se non fosse ancora nata!

Quali e quanti morti non sono stati seppelliti ma rimangono come vivi nella memoria emotiva e cognitiva impedendo alla figlia di questa famiglia di nascere e vivere davvero? Quali sono i pesi intergenerazionali e trans-generazionali che J., come paziente, portava sulle proprie spalle al punto tale da annichilirsi e alleggerirsi con il corpo e attraverso il corpo?

È per questo che ho citato Levinas: “Il corpo non è solamente l’immagine o la figura, è l’in-se-stesso della contrapposizione

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dell’ipseità e della sua esplosione”. Un corpo, in cui anche il più piccolo respiro diventa un peso nell’insostenibilità dell’essere.

Il mito della famiglia del Mulino bianco e della brava bambina spiegano molte dinamiche familiari.

“Il mito sappiamo che si fonda “nei problemi non risolti di perdita, separazione, abbandono, individuazione, nutrimento e deprivazione”, mentre la trama sembra seguire quel libro di crediti e debiti intra e intergenerazionali che stabiliscono la comparsa e l’evoluzione dei ruoli che le persone coinvolte devono ricoprire, seguendo tematiche di colpa, riparazione, ricerca di perfezione” (Boszormenyi-Nagy e Spark, 1973).

I simboli e le metafore sono pietre angolari nella costruzione dei miti: questi si sviluppano intorno a pochi temi principali, che fungono da organizzatori di contesto e di significato entro ai quali vanno ad inserirsi i contenuti simbolici e i vissuti emotivi personali ad essi collegati.

In questa famiglia, fin dalle prime sedute, è emersa una differenza di comportamento fra il fratello di J., più piccolo di un anno, e J., fin dalla primissima infanzia. La primogenita era stata una bambina davvero “giudiziosa” che non aveva mai creato problemi, era un po’ introversa, si isolava un po’ ma, di fatto, non aveva dato mai un problema! Il fratello, invece, era davvero irrequieto, non stava mai fermo e “faceva mettere i capelli bianchi” a tutti per la sua vivacità. La paziente aggiunge: “c’era già mio fratello che faceva tanto casino e non mi potevo mettere anche io a farne di più”.

Quando Andolfi dice che il paziente è un vero e proprio apripista nel sistema terapeutico, mi trovo d’accordo con questa affermazione. La paziente mi invitava davvero a seguire

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determinate tracce da esplorare e io mi feci, dunque, guidare.

Emergeva, in questa famiglia, il mito della “brava figlia”, eternamente bambina e dipendente, che viene a connettersi con la regola che nulla deve cambiare nelle modalità di rapporto con i genitori e, più in generale, nella modalità di funzionamento del sistema. E difatti, ogni più piccolo cambiamento di J., anche nella possibilità di esprimere un parere o semplicemente un’emozione venina vissuta dai genitori come un tradimento e con un senso di colpa che poi paralizzava tutti. Parallelamente esisteva anche il mito di una famiglia “Mulino bianco” perfetta, senza problemi e questa perfezione doveva rispondere ad esigenze di risarcimento di debiti intergenerazionali e trans-generazionali contratti precedentemente e che dovevano trovare un soddisfacimento attraverso l’ideale di famiglia perfetta e attraverso la figlia il cui mandato era “sii brava” e “realizzati per noi”.

Pensai che questa famiglia avrebbe avuto la possibilità di modificare la propria trama mitica, solo riuscendo a decifrare il mandato assegnato a ciascuno. Divenne, quindi, importante capire che la possibilità di modificare il proprio mito individuale sarebbe dipeso dai diversi gradi di libertà di movimento che si possono sperimentare dal mito familiare e questo dipende anche dalla forza dell’Io del paziente.

Notavo delle profonde similitudini su alcune mie risonanze: il senso di impotenza/fallimento, le aspettative di perfezione, il senso di colpa nel recare dispiacere alla famiglia, la rabbia per la sfiducia che sentivo da parte dei genitori...

Certamente la gravità della situazione clinica è stato un fattore di realtà molto importante, che si è intrecciato con il mio sistema di risonanze ancora troppo poco conosciuto, ma è stata la mia impossibilità a fermarmi e a stare con il dolore della famiglia, con la minaccia di un “suicidio lento”

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della figlia che mi ha impedito di costruire una vera e propria alleanza terapeutica.

Le condizioni di salute di J. peggiorarono e la famiglia si è rivolse alla struttura di Palazzo Francisci per un ricovero. Ricordo da una parte il profondo dispiacere di non aver “impedito quella cosa”, questo significava che io non valevo nulla? Così mi sono sentita, ed è stato davvero doloroso, dall’altra, tuttavia, un grande sollievo.

Avrei potuto continuare a vedere la famiglia, ma non l’ho proposto: sentivo davvero di aver fallito e, in quel momento, non ero degna assolutamente di meritare quella possibilità; quindi, ho lasciato andare.

Ricordo ancora la telefonata in cui la madre mi chiamò per disdire l’appuntamento: sentivo che era un addio, l’ho portata a dirmelo e, da una parte, non vedevo l’ora. Tutto questo mi “pesava troppo”, questa forte somiglianza con J.

A distanza di tempo, grazie alla rivisitazione della mia storia familiare, ho potuto guardare con altri occhi sia le fasi del processo terapeutico, sia me stessa all’interno. Ciò che osservo di differente, è che sento di vivere l’errore in maniera diversa, come una possibilità di apprendimento e non come un giustiziere che punisce e che con la sua spada sentenzia “mors tua, vita mea” ma, soprattutto, la connessione e la possibilità di “errare” in relazione al mio tempo, storico e ontologico. Insomma, l’importanza dello “stare con”, sia con me stessa che con l’altro.

Un altro aspetto è rappresentato dalla possibilità di “entrare” nella famiglia, rispettando i loro modi di concepire la vita, il loro sistema di valori, la loro cultura, senza snaturare quello che è in realtà, dando voce alla famiglia in relazione alla sua sofferenza, non pretendendo di “imporre i miei”, solo per non sentirmi accettata o rifiutata.

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Strumenti terapeutici di narrazione condivisa.

Metafora

La metafora è una figura retorica che consiste nel trasferire a un oggetto il termine proprio di un altro, secondo un rapporto di analogia. Una delle caratteristiche della metafora è quella di creare un’“immagine delle emozioni del comportamento, della modalità di relazioni che una persona ha all’interno di un sistema”.

Vengono costruite insieme, nel corso di una seduta, per esprimere immagini e ruoli molto bene radicati nella famiglia; questi simboli racchiudono spesso significati nascosti e fanno emergere contenuti e aspetti relazionali, difficilmente espressi in modo diretto.

La metafora non appartiene a colui che la introduce, sia esso un membro della famiglia, oppure il terapeuta, ma all’intero gruppo che partecipa al processo di metaforizzazione, in questo caso una famiglia che lavora molto bene per analogie, rispetto ad un linguaggio diretto; ricorrere al linguaggio “come se” permette di aggirare le difese verbali, espandendo i piani di realtà della famiglia, sollecitandola a pensare in maniera indiretta e figurata, per uscire dalla logica formale del linguaggio.

Ho già descritto precedentemente la metafora dell’elettricità e della piscina per veicolare messaggi riguardo al tema della fiducia e del sentire (pag. 89).

Disegno

Uso molto spesso il disegno per cogliere vissuti emotivi, a volte difficilmente esprimibili a parole.

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Il disegno diventa mezzo di comunicazione e di cura, in cui un’immagine concreta significa qualcos’altro, così da creare un legame fra e con se stesso e con i membri della famiglia.

Il disegno, in psicologia clinica, ha anche assunto un certo valore terapeutico, poiché consente di rappresentare i propri vissuti ma anche di cambiare aspetti di vita reale e permette di rielaborare i meccanismi di difesa. Ogni colore, ogni simbolo, esprime delle emozioni (potere espressivo) e nello stesso tempo suscita delle emozioni (potere trasformativo).

In questa capitolo ho descritto il vissuto di J. all’interno della famiglia e il suo sentirsi intrappolata come un ragno.

Domande relazionali

Ci sono molti tipi di domande, quelle metaforiche, intergenerazionali, del come se, relazionali, indirette; quelle relazionali sono domande che tendono ad esplorare le modalità con cui le persone si pongono in rapporto fra loro.

Possiedono le caratteristiche della circolarità e della significatività.

Spazio

Osservare la disposizione spaziale della famiglia in seduta, è rilevante per un terapeuta sistemico-relazionale.

Il modo in cui ciascuno si siede, può fornire indicazioni utili per verificare alleanze, designazioni, centralità e distacco:

La geografia della famiglia non è mai casuale, sta all’equipe terapeutica studiarla correttamente.

In alcuni casi essa può rispondere a precise regole familiari

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cioè, può essere la radiografia di definizioni di rapporto, codificate all’interno del gruppo e rappresentate in maniera analogica fin dall’inizio.

Ciò che osservo nella famiglia P., fin dall’inizio, è la disposizione fissa nella modalità in cui si siedono: padre, figlia, madre e figlio.

Una configurazione relazionale può essere la presenza di due coppiette (papà-figlia; mamma-figlio); l’altra la presenza di una triade rigida (padre, figlia, madre) con il figlio minore, vicino alla mamma.

Figlio che rappresenta, in quel momento, “il fratello sano”, quello riuscito.

La sensazione che ho è che fratello e sorella si conoscessero ben poco, non in maniera intima e non fossero in grado di percepire i bisogni e le ansie dell’altro.

Nelle famiglie con un problema di anoressia, succede molto spesso che un figlio venga incoraggiato a creare vincoli stretti principalmente con gli adulti e solo superficiali con i fratelli (un rinforzo della triade rigida).

Il ruolo del fratello sano è il prezzo che F. paga per star bene e il suo benessere in parte è solo un mito, dato che egli può soffrire più della sorella anoressica, ma non può farlo vedere.

Viene ostacolato anche il suo processo di differenziazione, cristallizzando sempre di più situazione psicopatologica di J.

Risonanza

Questa tesi ha avuto come leitmotiv il concetto di risonanza.

Voglio accennare ad una definizione semplice: echi emotivi, legati alla propria esperienza personale, che nascono

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da un’autentica condivisione di situazioni relazionali particolarmente significative.

In questa famiglia molte sono state le mie risonanze ma una, in maniera particolare, si sposa con il ruolo che ho avuto nella mia famiglia di origine. Il mio ruolo di proteggere e rimettere le cose a posto.

La forte corrispondenza fra il senso di impotenza vissuto in terapia e il senso di impotenza che sperimentavo nella mia famiglia di origine, in quel momento, mi faceva sentire come se fossi una figlia e non una terapeuta, una figlia che deve dimostrare di valere, ma che sfida i genitori mostrandogli la loro inadeguatezza.

Se non mi fossi mossa così tanto, cosa sarebbe successo? Non ero io forse che, muovendomi troppo, impedivo all’altro di muoversi, sia in terapia che nella mia famiglia?

Metolodologia

Per quanto riguarda la metodologia, riassumo brevemente elencando per punti i presupposti metodologici: Il terapeuta insider-outsider, l’approccio trigenerazionale, le libere associazioni, la memoria onirica, l’importanza del “qui ed ora”, il triangolo come unità minima di osservazione delle dinamiche familiari.

Desensitization and Reprocessing, desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari) è un approccio terapeutico utilizzato per il trattamento del trauma e di problematiche legate allo

L’EMDR (dall’inglese Eye Movement

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stress, soprattutto allo stress traumatico.

L’EMDR si focalizza sul ricordo dell’esperienza traumatica ed è una metodologia completa che utilizza i movimenti oculari o altre forme di stimolazione alternata destro/sinistra per trattare disturbi legati direttamente a esperienze traumatiche o particolarmente stressanti dal punto di vista emotivo.

Dopo una o più sedute di EMDR, i ricordi disturbanti legati all’evento traumatico subisonoc una desensibilizzazione, perdono la loro carica emotiva negativa. Il cambiamento è molto rapido, indipendentemente dagli anni che sono passati dall’evento. L’immagine cambia nei contenuti e nel modo in cui si presenta, i pensieri intrusivi in genere si attutiscono o spariscono, diventando più adattivi dal punto di vista terapeutico e le emozioni e sensazioni fisiche si riducono di intensità. L’elaborazione dell’esperienza traumatica che avviene con l’EMDR permette al paziente, attraverso la desensibilizzazione e la ristrutturazione cognitiva che avviene, di cambiare prospettiva, cambiando le valutazioni cognitive su di sé, incorporando emozioni adeguate alla situazione oltre a eliminare le reazioni fisiche. Questo permette, in ultima istanza, di adottare comportamenti più adattivi. Dal punto di vista clinico e diagnostico, dopo un trattamento con EMDR il paziente non presenta più la sintomatologia tipica del disturbo post-traumatico da stress, quindi non si riscontrano più gli aspetti di intrusività di pensieri e ricordi, i comportamenti di evitamento e l’iperarousal neurovegetativo nei confronti di stimoli legati all’evento, percepiti come pericolo.

Un altro cambiamento significativo è dato dal fatto che il paziente discrimina meglio i pericoli reali da quelli immaginari condizionati dall’ansia. Si sente che veramente il ricordo dell’esperienza traumatica fa parte del passato e quindi viene vissuto in modo distaccato. I pazienti in genere riferiscono che, ripensando all’evento, lo vedono come un

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“ricordo lontano”, non più disturbante o pregnante dal punto di vista emotivo.

Dopo l’EMDR il paziente ricorda l’evento ma il contenuto è totalmente integrato in una prospettiva più adattiva. L’esperienza è usata in modo costruttivo dall’individuo ed è integrata in uno schema cognitivo ed emotivo positivo. Cioè il paziente realizza le connessioni di associazioni appropriate, quello che è utile è appreso ed immagazzinato con l’emozione corrispondente ed è disponibile per l’uso futuro.

Quali sono le basi dell’EMDR?

L’approccio EMDR, adottato da un numero sempre crescente di psicoterapeuti in tutto il mondo, è basato sul modello di elaborazione adattiva dell’Informazione (AIP). Secondo l’AIP, l’evento traumatico vissuto dal soggetto viene immagazzinato in memoria insieme alle emozioni, percezioni, cognizioni e sensazioni fisiche disturbanti che hanno caratterizzato quel momento. Tutte queste informazioni immagazzinate in modo disfunzionale, restano “congelate” all’interno delle reti neurali e incapaci di mettersi in connessione con le altre reti con informazioni utili. Le informazioni ”congelate” e racchiuse nelle reti neurali, non potendo essere elaborate, continuano a provocare disagio nel soggetto, fino a portare all’insorgenza di patologie come il disturbo da stress post traumatico (PTSD) e altri disturbi psicologici. Le cicatrici degli avvenimenti più dolorosi, infatti, non scompaiono facilmente dal cervello: molte persone continuano dopo decenni a soffrire di sintomi che ne condizionano il benessere e impediscono loro di riprendere una nuova vita.

L’obiettivo dell’EMDR è quello di ripristinare il naturale processo di elaborazione delle informazioni presenti in

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memoria per giungere ad una risoluzione adattiva attraverso la creazione di nuove connessioni più funzionali. Una volta avvenuto ciò, il paziente può vedere l’evento disturbante e se stesso da una nuova prospettiva. L’EMDR considera tutti gli aspetti di un’esperienza stressante o traumatica, sia quelli cognitivi ed emotivi che quelli comportamentali e neurofisiologici. Utilizzando un protocollo strutturato il terapeuta guida il paziente nella descrizione dell’evento traumatico, aiutandolo a scegliere gli elementi disturbanti importanti. Al termine della seduta di EMDR, quando il processo di rielaborazione ha raggiunto la risoluzione adattiva, l’esperienza è usata in modo costruttivo dalla persona ed è integrata in uno schema cognitivo ed emotivo positivo.

Attraverso il trattamento con l’EMDR è dunque possibile alleviare la sofferenza emotiva, permettere la riformulazione delle credenze negative e ridurre l’arousal fisiologico del paziente.

Questo approccio risulta efficace anche con i pazienti che hanno difficoltà nel verbalizzare l’evento traumatico che hanno vissuto. L’EMDR, infatti, utilizza tecniche che possono fornire al paziente un maggior controllo verso le esperienze di esposizione (poiché non si basa su interventi verbali), e che possono aiutarlo nella regolazione e nella gestione delle emozioni intense che potrebbero scaturire durante la fase di elaborazione.

L’EMDR come approccio evidence -based

Nel lasso di trent’anni dalla sua scoperta, ad opera della ricercatrice americana Francine Shapiro, l’EMDR ha ricevuto più conferme scientifiche di qualunque altro metodo usato

nel trattamento dei traumi. Oggi è riconosciuto come metodo evidence based per il trattamento dei disturbi post traumatici, approvato, tra gli altri, dall’American

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Psychological

Association (1998-2002), dall’American Psychiatric Association (2004), dall’International Society for Traumatic Stress Studies (2010) e dal nostro Ministero della salute nel 2003. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, nell’agosto del 2013, ha riconosciuto l’EMDR come trattamento efficace per la cura del trauma e dei disturbi ad esso correlati.

L’efficacia dell‘EMDR è stata dimostrata in tutti i tipi di trauma, sia per il Disturbo Post Traumatico da Stress che per i traumi di minore entità. La ricerca recente mostra che, attraverso l’utilizzo dell’EMDR, le persone possono beneficiare degli effetti di una psicoterapia che una volta avrebbe impiegato anni per fare la differenza. Alcune ricerche hanno infatti dimostrato che tra l’84% e il 90% dei pazienti che riportavano l’esperienza di un singolo evento traumatico non mostravano più i sintomi di un Disturbo da Stress Post-traumatico dopo sole 3 sessioni di EMDR da 90 minuti ciascuna. L’efficacia dell’EMDR nel trattamento del PTSD è ormai ampiamente riconosciuta e documentata, ma attualmente l’EMDR è un approccio terapeutico ampiamente usato anche per il trattamento di varie patologie e disturbi psicologici. Data l’importanza che gli eventi traumatici (siano essi traumi singoli che cumulativi e relazionali) rivestono nello sviluppo di differenti patologie, diviene importante affrontarle attraverso un approccio che tenga in considerazione e riesca ad intervenire sull’origine traumatica di tali disturbi.

La ricerca riguardante l’EMDR è una delle prime in cui sono stati evidenziati i cambiamenti neurobiologici che si verificano durante ogni seduta di psicoterapia, rendendo l’EMDR il primo trattamento psicoterapeutico con un’efficacia neurobiologica provata. Le scoperte in questo campo confermano l’associazione tra i risultati clinici di questa terapia e alcuni cambiamenti a livello delle strutture e del funzionamento cerebrale.

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Dato il riconoscimento a livello mondiale dell’efficacia di questo metodo terapeutico per il trattamento del trauma, ad oggi più di 120.000 clinici in tutto il mondo usano questa terapia. Ma quali sono le convinzioni negative narrate e narrabili in un DCA?

Molte ne abbiamo viste in questa famiglia:

Il dover piacer e a tutti.

L’essere perfetti.

Il senso di colpa rispetto alla propria autonomia.

Il senso di impotenza e onnipotenza .

Il bisogno di controllo.

Nelle varie fasi del trattamento si affrontano il sintomo come significato, la dissociazione che spesso accompagna il trauma, la storia di attaccamento, il lavoro con le varie parti del sè, e l’immagine corporea. Il protocollo di lavoro con i DCA in fase acuta favorisce un lavoro sulle risorse e sulla motivazione, per ottenere la collaborazione del paziente in fase acuta è importante lavorare sul controllo-discontrollo di sé.

In particolare l’EMDR si è mostrata efficace nel condurre a una risoluzione del materiale non risolto, a modificare la rappresentazione della relazione di attaccamento precoce con i caregiver e a diminuire le credenze negative sull’autostima e la vulnerabilità individuale (Zaccagnino& Cussino, 2013).

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Bibliografia

Andolfi M., Angelo C., Tempo e mito nella psicoterapia familiare. Torino, Bollati Boringhieri, 1987.

Boszormenyi-Nagy I., Spark G., Lealtà invisibili. Tr. It. Roma, Astrolabio, 1988.

Zaccagnino M., Cussino M., EMDR and parenting: A clinical case. In “Journal of EMDR Practice and Research”, 2013, 7(3), p. 154–166.

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UN’ALTRA STORIA: NON SOLO DCA

Testimonial della scrittura come terapia

Chi è Greta?

Lasciamo che sia lei stessa a farsi conoscere, attraverso questa intervista giornalistica.

Questa intervista è stata rilasciata il 3 settembre 2019 per il sito FUKAI NIHON. Ringrazio ancora il presidente Mauro Piacentini per la bellissima esperienza.

Vi raccontiamo Greta Bartozzini, pen name Satomi Ayako, che ha iniziato a scrivere light novel e sceneggiature per manga, superando il suo passato di bullismo e indifferenza. La lotta alle diversità, a un bullismo fisico e mentale e l’integrazione sono le chiavi dei suoi racconti.

Si dice che alla stupidità umana non c’è mai un limite, e di certo il Bullismo ne è una delle più crudeli realtà. È un fenomeno non nuovo potrebbero obbiettare in molti, ma questo non significa che sia da prendere alla leggera o tantomeno da tollerare, o peggio ancora far finta di niente.  Ma dal male può nascere anche qualcosa di positivo a volte, e questa è la storia di Greta Bartozzini, che da un passato in cui ha dovuto fare i conti con la sofferenza, derivata da stupido e inutile bullismo iniziato nel periodo scolastico, ha trovato lo stimolo per iniziare un suo percorso creativo.

Ascolteremo la storia da Greta stessa durante la nostra intervista per conoscere meglio il suo passato, che l’ha resa ciò che è oggi e quello che vorrebbe essere domani. Come ogni scrittrice quando inizia si lascia andare, è un intervista lunga ma molto piacevole, mi raccomando seguitela fino all’ultima domanda.

Nella sua opera “Vanigiò” ci sono i temi che hanno caratterizzato, e purtroppo riempito la sua vita. Usando le sue parole:

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“Vanigiò può essere la storia di tutti, non solo la mia. Con la speranza che, un giorno, mostri come il bullismo e le discriminazioni non abbiano più ragione di esistere”. Le persone che seguono la sua opera, al momento pubblicata a piccoli capitoli online sulla sua pagina web, si ritrovano in certe situazioni e apprezzano il messaggio positivo che Greta vuole trasmettere.

Vi lasciamo alla nostra gensakusha (una sceneggiatrice di manga) così che vi possa raccontare di lei, della sua opera e dei suoi progetti. Siamo contenti di poterla ospitare per dare un forte messaggio a una piaga sempre più presente, un messaggio di come si possa trasformare ciò che ti è successo in qualcosa che non solo aiuta te, ma soprattutto aiuta altri che si sono ritrovati a dover affrontare i medesimi problemi, magari spronandoli.

MAURO: Ciao Greta è un piacere salutarti e conoscerti. Chi è Greta Bartozzini, o preferisci che ti chiamiamo con il tuo alias di quando scrivi? Presentati pure ai nostri amici e lettori.

GRETA: Ciao, il piacere è tutto mio! Mi chiamo Greta e ho 27 anni. Potete chiamarmi come preferite, nel lavoro ho scelto di firmarmi con uno pseudonimo per varie ragioni, una di queste è legata al mio proposito di rimanere fedele alle origini della cultura anime-manga.

Chiaramente il mio pen name ha un significato: “Ayako” (文 子) vuol dire infatti “fanciulla delle scritture”, mentre “Satomi” è legato ad una motivazione più personale. Sono quindi una ragazza appassionata di cultura giapponese e, nel tempo libero, anche un’accanita videogiocatrice. Nel 2011 mi diplomai presso l’ex Istituto Statale d’Arte di Spoleto (PG), ma sono sempre stata più incline a scrivere, piuttosto che a disegnare.

MAURO: Nel tuo passato purtroppo hai dovuto sopportare cose che ti hanno cambiata, ma che allo stesso tempo hanno

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fatto di te quella che sei oggi, con la spinta a scrivere. Bullismo, emarginazione, sofferenza, episodi di intolleranza di cui non si dovrebbe aver traccia al giorno d’oggi. Parlaci del tuo passato, e della spinta che questo ti ha dato per il presente e il futuro.

GRETA: In effetti sono particolarmente sensibile al tema del bullismo, anche perché io stessa l’ho vissuto in prima persona, fino alle scuole medie. A quei tempi non si parlava molto di questa piaga sociale e non ne erano del tutto note le conseguenti ripercussioni, anche a lungo termine. Indubbiamente il bullismo che ho subito (verbale e spesso anche fisico) ha modificato il mio carattere e accentuato quelle che sono tutt’ora le mie insicurezze; anche perché ho sempre convissuto con lo stereotipo dell’intelligenza direttamente proporzionale alla mia “crescita tardiva”. Si tratta semplicemente di una caratteristica fisica ed emotiva data dall’età ossea, ma ciò creò inesorabilmente un divario tra me e i miei coetanei. Io ero la “bambina” del gruppo, immatura sia nel fisico che negli atteggiamenti; una sorta di intrusa che in qualche modo snaturava il contesto di cui faceva parte. Ricordo che quando varcavo il cancello della scuola (con lo zaino pesante quasi quanto me XD) c’era sempre qualcuno a deridermi da lontano: «Ehi, guarda che hai sbagliato scuola! L’asilo è dall’altra parte!».

L’unica cosa per cui venivo lodata anche dagli stessi bulli era il talento nella scrittura, ma per il resto ho ricevuto ogni tipo di insulto alla mia intelligenza (nonostante godessi di un quoziente intellettivo superiore alla media).

Come se non bastasse, l’ignoranza vuole che si faccia di tutta l’erba un fascio tra infantilismo e passione per animazione, fumetti e videogiochi; questo mi dava ancor più fastidio che essere derisa per il mio aspetto! Fu così che si accese in me il desiderio di abbattere il muro degli stereotipi, partendo proprio dalla cultura anime-manga. Mi sono ripromessa di trasmettere un importante messaggio ai miei lettori: andare oltre i preconcetti e accettare le differenze come un valore aggiunto,

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anziché qualcosa da giudicare, o peggio discriminare.

MAURO: Satomi Ayako (pseudonimo utilizzato da Greta. N.d.r.) scrive per se stessa, per gli altri, o perché più alle parole si dà “vita” più ci si sente meglio? (non possiamo non pensare al tuo passato).

GRETA: Questa è una bella domanda… in realtà c’è un po’ di tutte e tre le cose. Scrivere per me è sempre stato terapeutico, un bisogno. Una volta sono riuscita a ricostruire un evento accaduto in passato, proprio trasponendolo nella sceneggiatura di Vanigiò (il titolo del suo libro N.d.r.) Un episodio di bullismo il cui ricordo era stato distorto dal mio senso di colpa. Se non lo avessi messo per iscritto, probabilmente non mi sarei mai accorta di come fossero andate in realtà le cose. Quindi non posso negare che scrivo anche e soprattutto per me stessa, ma al tempo stesso, una volta che il capitolo è pronto non riesco a tenerlo chiuso dentro un hard disk. Per me non avrebbe senso scrivere se non potessi trasmettere qualcosa agli altri. Figuratevi che non sono mai riuscita a tenere un diario segreto! Tutto ciò che scrivevo, prima o poi finivo sempre per condividerlo con qualcuno.

MAURO: Chi sono quelli che ti seguono? Che rapporto hai con chi legge (e se capita) critica quello che scrivi?

GRETA: Da quel che riscontro mi segue un pubblico di tutte le età, dai bambini agli adulti. Questo mi fa molto piacere, perché significa che sto raggiungendo il mio scopo di avvicinare anche gli adulti occidentali alla narrazione in stile manga.

Grazie Greta per aver portato la tua esperienza e la tua storia.

Greta ci ha donato un suo racconto, che parla di discriminazione ma anche di identità.

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Guerrieri nel silenzio

Ci sono guerrieri che ogni giorno combattono aspre e sanguinose battaglie contro un numero indefinibile di nemici. Alcuni avanzano orgogliosi e incuranti delle sferzate avversarie.

Altri invece vengono mandati in guerra disarmati, totalmente alle dipendenze delle armate di supporto. Altri ancora finiscono per rivolgere le proprie armi contro se stessi.

Una cosa è certa: qualunque sia il risultato, al passaggio di questi guerrieri resta sempre una vasta scia di devastazione. Eppure, solo in pochi riescono a scorgerla.

Combattenti come Hinata e Sachi, unità di supporto come Yoko e Hisota: ciascuno di loro vive tra i campi di battaglia, guardando il dolore dritto negli occhi. Chi ne uscirà vincitore?

Storie di guerrieri silenziosi che ogni giorno affrontano conflitti invisibili contro se stessi e il mondo, ma troppo spesso nella comune indifferenza.

Hinata

Il girasole è considerato il simbolo della costanza. Sempre fedele alla sua adorata stella, la cerca con fiducia senza stancarsi, pur consapevole che non potrà mai toccarla. Un amore incondizionato, perché i sentimenti sono completamente ciechi alle barriere poste dalla razionalità.

Alcuni esemplari, seppur in esigua minoranza, appaiono però rivolti in altre direzioni, come distratti. Lo sapeva molto bene Hinata, un piccolo girasole nato nel campo di Akeno-Cho.

Per quanto lui trovasse rigeneranti i raggi solari, al tempo stesso ne era quasi infastidito e ciò lo rendeva, inesorabilmente, diverso dai suoi simili.

Una notte il sonno di Hinata fu interrotto da una lieve brezza. Aprendo timidamente la corolla egli notò, tra il firmamento, qualcosa di insolito: somigliava vagamente al sole, eppure risplendeva senza recargli alcun fastidio. Sarebbe rimasto ore intere ad ammirare quel delicato bagliore, se non fosse che lo

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rilassò a tal punto da cullarlo.

Quando giunse il mattino, il piccolo girasole cercò in ogni direzione il misterioso “sole notturno”, ma parve scomparso nel nulla. Provò quindi a chiedere a uno dei fratelli maggiori, per capire se magari l’avesse semplicemente sognato.

«Era solo la luna piena», rispose evasivamente il più grande. «Cos’è la luna?»

«Una grottesca imitazione del sole.»

«Dici? Io invece trovo la sua luce molto gradevole.»

«Ridicolo!» il fratellone alzò improvvisamente la voce, «A nessun girasole può piacere la luna, sarebbe contro natura. Chiaro?»

Quel rimprovero giunse a Hinata come una tempesta di grandine. Perché mettere in dubbio le sue emozioni? Lui non aveva mai sperimentato prima un simile calore al cuore, talmente irradiante da propagarsi in ogni fibra del suo essere.

Doveva assolutamente rivedere la luna, ne avvertiva il bisogno, ormai era diventato impossibile smettere di pensare a lei.

Un’ora dopo il crepuscolo, eccola sorgere di nuovo, proprio ad est.

Senza nemmeno rendersene conto, lo stelo di Hinata seguì la luna fino a vederla tramontare ad ovest, esattamente come accadeva ai suoi coetanei al cospetto del sole. Finalmente anche lui divenne uguale agli altri, sebbene stesse sperimentando qualcosa che avrebbe dovuto renderlo “contro natura”.

«Tu sei uno di quelli, vero?»

Una stridula vocina interruppe i pensieri di Hinata, il quale ci mise alcuni secondi ad accorgersi di una lucciola posatasi tra le sue foglie.

«Sei uno di quelli con la malattia della luna?» azzardò nuovamente la minuscola creatura.

«Cos’è la malattia della luna?»

«Qualcosa da cui sarebbero affetti i girasoli come te. Almeno

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così ho sentito dire.»

La scoperta di non essere un caso unico accelerò il flusso di linfa in Hinata, finché d’un tratto la sentì gelare.

«Quindi, io sono davvero contro natura?»

La lucciola svolazzò attorno a una lanterna situata lì accanto, per poi rivolgersi nuovamente al giovane girasole.

«Io di innaturale vedo soltanto i marchingegni costruiti dagli umani.»

A quel punto, Hinata comprese. Lui esisteva: faceva parte dell’ecosistema, respirava e percepiva le proprie radici affondate nel terreno. Egli apparteneva al creato, al pari di qualunque essere vivente.

Troppo poco come definizione di “naturale”? Evidentemente sì.

«Hinata, dove stai guardando?»

Un mattino il giovane era nuovamente distratto, con la corolla tra le nuvole. Scrutava il cielo in ogni direzione, alla ricerca di qualcosa che sembrava svanito nel nulla. Il fratello maggiore lo rimproverò.

«Se non ti rivolgi sempre al sole, nessun insetto ti impollinerà.»

In ogni specie la riproduzione è prioritaria, fa altresì parte della natura. Presto Hinata avrebbe dovuto contribuire, per assicurare ad Akeno-cho un campo pieno di girasoli anche l’anno successivo. Egli avvertì spesso tale responsabilità e poiché desiderava sentirsi come i suoi simili, cercò disperatamente nel sole le medesime emozioni ricevute dalla luna.

Tuttavia gli era semplicemente impossibile ignorarla e lo stabilisce la natura stessa: se dominare i sentimenti fosse davvero possibile, nessuno sceglierebbe di appartenere a una minoranza emarginata.

Il conforto donatogli dal chiarore lunare si sovrappose, crudelmente, alla contrizione che il piccolo girasole iniziò a provare ogni singolo istante della sua vita. Come se non avesse il diritto di essere felice. Come se non avesse il diritto di esistere.

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Con il passare dei giorni Hinata avvertì la corolla farsi sempre più pesante. Faticava a tenerla ritta e lo stelo finì per incurvarsi verso il basso. Gli sembrò assurda tanta debolezza, di luce solare ne assorbiva in abbondanza, ma il suo malessere aveva origini ben diverse e lui ne era consapevole: doveva assolutamente smettere di reprimere se stesso, almeno con la famiglia.

L’occasione si presentò all’ennesimo rimprovero del fratello maggiore.

«Hinata, stai dritto! Il sole è alto in cielo.»

«Ti chiedo scusa. Sai, ultimamente mi sento stanco.»

«Sei solo un gran pigrone.»

«Questo no!» Si affrettò a precisare Hinata, «In realtà, sono un po’ triste…»

«E quali motivi avresti tu di sentirti triste? Sei giovane e vivi in uno splendido campo soleggiato. Pensa invece ai girasoli nati in solitudine e sul ciglio delle strade.»

Effettivamente il fratellone aveva ragione. A Hinata non mancò mai nulla, perciò era infinitamente grato alla natura. Tale consapevolezza lo rese determinato a vivere serenamente la vita ricevuta in dono. Ma proprio quando finalmente trovò il coraggio di liberarsi di quel macigno che da troppo tempo pressava le sue radici, il fratello mezzano si intromise nella conversazione.

«Ehi, avete saputo? Haru ha contratto la malattia della luna!»

Sebbene Haru fosse un girasole nato ai confini del campo, le voci sulla sua inclinazione giunsero fino alla famiglia di Hinata, il quale trattenne a stento l’emozione.

«Quindi voi conoscete girasoli a cui piace guardare la luna?»

«Guai a te se rivolgi la parola a uno di quei deviati! Sono esseri pericolosi.»

«Perché? Cosa c’è di pericoloso in chi ama la luna?»

Stavolta la sua voce si fece ferma, costringendo i fratelli maggiori a smettere di ignorarlo. La curiosità del loro piccolo si

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era spinta troppo oltre, così i due ritennero che fosse giunto il momento di intervenire per salvarlo dalla dannazione eterna.

«Tu sei giovane, potresti lasciarti convincere a diventare come quelli!»

«Già, pensa se tutti smettessimo di rivolgerci al sole. I girasoli sparirebbero dal mondo!»

A quanto pare, la cosiddetta “malattia della luna” sembrava trasmettersi tramite un contagio ideologico, determinato esclusivamente dalla volontà di ciascun individuo.

«Secondo me le vostre preoccupazioni sono infondate.» intervenne quindi Hinata, sperando di rassicurare i fratelli, «A voi piace il sole, no? Se ciò è vero, nessuno può convincervi del contrario.»

«Ingenuo! L’unico modo di salvarsi è estirpare quei girasoli malati.»

«Già, deve essere fatto prima che ci contagino.»

In pratica, ai loro occhi perfino Hinata avrebbe potuto trasformarsi in un’erbaccia infestante, dannosa all’equilibrio naturale.

Lui però non si rassegnò ad accettare una simile sentenza.

«E quindi, la famiglia di Haru sarebbe stata "contagiata"?»

«Fortunatamente no,» rispose il fratello mezzano, «perché nessuno di loro gli rivolge la parola.»

«Io farei lo stesso, vi avverto.»

Il maggiore lapidò così la conversazione, insieme al fragile cuore di Hinata. Quest’ultimo rimase pietrificato, credette di sentirsi strappare le radici dal terreno.

Un petalo gli lacrimò dalla corolla, mentre i girasoli del campo schernivano crudelmente il proprio simile.

La semplice reazione dello stelo di Haru alla luna dimostrava quanto fossero naturali i suoi sentimenti. Eppure stavolta

Hinata preferì tacere. Non volle più mettere in dubbio la saggezza dei fratelli maggiori. Loro erano la sua famiglia, i punti di riferimento che lo hanno cresciuto. Come avrebbe potuto

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continuare a contraddirli?

Solo, incompreso, sbagliato e colpevole di essere nato. L’unica consolazione di Hinata era al tempo stesso una maledizione. Forse, rinunciare all’affetto dei propri cari è il prezzo da pagare per raggiungere la felicità? E come potrebbe definirsi felicità?

Lui avrebbe dovuto trovare il coraggio di ribellarsi, urlare i suoi dannati sentimenti a gran voce, anche a costo di ostentarli… Ma questa non sarebbe più la storia di Hinata.

Questa è la storia di un giovane girasole: una creatura confinata nella monotonia del proprio campo, a cui le radici stavano saldamente ancorate. La famiglia era l’unica realtà concessagli e lui temeva di perderla, piuttosto preferì rinnegare se stesso.

Con il passare dei giorni, la debolezza di Hinata aumentò. La sua corolla appassì a poco a poco, lacrimando sempre più petali.

I fratelli, accecati dalla loro angoscia, sapevano solamente rimproverarlo.

«Smettila di fare il ridicolo! Alla tua età cosa ne sai della tristezza?»

«Ti stai danneggiando con le tue stesse mani, lo capisci?»

Hinata però se ne stava lì, nel campo assieme agli altri e inevitabilmente assorbiva ogni sostanza nutritiva necessaria. Ciononostante, a prescindere dall’abbondanza di luce solare o concime, le sue foglie erano comunque destinate a seccarsi. Dopotutto si sa, per far appassire una pianta è sufficiente insultarla o sminuirla.

Solo il giorno in cui il suo ultimo petalo toccò terra, soltanto allora gli altri girasoli si resero conto di quanto Hinata soffrisse.

«Perché non ci ha mai detto di sentirsi così triste?»

«Lo avremmo certamente aiutato.»

L’ipocrisia oscurò la semplice realtà. Nessuno riuscì a vederla,

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pur avendola chiaramente davanti agli occhi.

Ciascuno di loro condannò a morte Hinata, la cui unica colpa fu amare la luna anziché il sole.

Se solo qualcuno avesse saputo… che la luna sì risplende, ma di luce solare riflessa.

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COME I BAMBINI RACCONTANO : UNA PROPOSTA PER LE SCUOLE ESPERIENZE DI UN POETA

… FARE HAIKU: COME LA POESIA DIVENTA SALUTE NOSTRA E DEL PIANETA ...

Mario Bolognese Poeta

Quanto segue fa parte del materiale teorico che metto a disposizione per il mio laboratorio di introduzione al linguaggio poetico e alla poesia haiku in particolare e riguarda – a livello antropologico, interculturale e interreligioso - la polifonia di sensi della parola umana. Questa proposta desidera favorire una feconda riconciliazione della psiche umana con le immagini e il “pensiero” del cosmo e della natura, inserendosi anche in un filone terapeutico di “medicina narrativa”.

È rivolto in particolare a insegnanti, genitori e a tutte quelle persone, a qualsiasi livello di lavoro e specializzazione, che hanno veramente a cuore l’armonia tra la loro parole e il bene e salvaguardia del nostro pianeta…

Mario Bolognese: canticocreature@gmail.com

… La parola non detta …

C’è questo in me, non so che cosa sia ma che è in me. Contorto e sudato, poi il mio corpo diventa calmo e fresco, io dormo, dormo a lungo.

Non lo conosco, non ha nome, è una parola non detta. Non è in alcun dizionario, espressione, o simbolo.

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Qualcosa lo fa oscillare più di me sulla terra.

Ed è sua amica la creazione il cui abbraccio mi sveglia. Potrei dire più forse. Lineamenti! Io intercedo per i miei fratelli e sorelle.

Vedete fratelli! Vedete sorelle! Non è caos o morte, è forma, unione, progetto. È vita eterna. È felicità.

(Walt Whitman, da Foglie d’erba )

Una fiaba

“Lui era alto e secco e i vestiti gli pendevano da tutte le parti come le penne di un uccello irrequieto. Studiava le parole, le annusava come i funghi, le tastava e poi se le metteva tutte nelle grandi tasche, strette e pigiate come caramelle senza carta. Il professor Linguacchione era famoso sotto i nove cieli perché aveva la più bella collezione di parole sotto cristallo e se ne scoprivano una nuova lui correva subito, svolazzando, ad acciuffarla con il suo retino speciale, l'alfabechiappa... Aveva poi inventato un apparecchio dal nome difficile, il linguatrone. Accendeva tredici lucine rosse, tre gialle e cinque tasti verdi che facevano cro-cro e così riusciva a tradurre tutte le lingue del mondo, anche quelle più difficili.

Al professore, per la superbia che gli zampillava dentro, s’era addirittura allungato il collo e ora sembrava una strana giraffa umana che invece di foglie brucava lettere di alfabeto...

E un bel giorno, guardando il mare come fanno gli imperatori, gli venne voglia di vincere la grande sfida: parlare ai delfini. Subito il cervello gli si mise a fumare e suonò, sulle tastiere

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... LINGUACCHIONE VUOLE PARLARE CON LE DELFINE E I DELFINI…

segrete, tutti i ritmi e le combinazioni di parole alla ricerca della formula-delfino.

Nel suo vocabolatorio, - il laboratorio delle parole- le strizza-lettere e il metti-accento elettronico e l’impastacca – perchè le acca avevano un trattamento speciale- e il pennello tiravirgole e il maiuscolone, che vibrava come un alveare, assieme a tutti gli altri strumenti che sembravano pure loro come impazziti...

Ma la formula fece cilecca. Riuscì a tradurre qualche insulto di zanzara e la ninna-nanna di una gatta sui micetti addormentati e il “pensa ai fatti tuoi” di un bastardino di passaggio, ma dalla parte dei delfini niente di niente.

Il professor Linguacchione, che era iroso e attaccabrighe per natura, mandava fuori fumo e parole-scintilla, perché tutti cominciavano a prenderlo in giro.

Ma un pomeriggio, alle prime ombre della sera, proprio quando stava per sfasciare tutto e buttarsi giù da una parola-finestra, passò di là una scimmietta. Non si sa come ma riuscì a parlare direttamente al cuore e alla testa dello scienziato. Non cercate più ora le macchine complicate e il solito professor Linguacchione ossessionato dalle parole e con l’alfabechiappa sempre in funzione...

È diventato un mite signore che sa anche fermarsi a giocare con il suo gatto. Una persona insomma che ha cominciato a sciogliere la durezza del suo cuore e la superbia di voler vincere su tutto e su tutti...

La scimmietta, amica dei delfini, gli ha parlato di pace e di armonia con tutte le cose del cosmo e della natura.

E sulle rive del mare Linguacchione, seduto sulla sabbia, aspetta e sorride anche ai granchiolini...

E, aspettando con dolce pazienza di parlare ai delfini, e di capirli, si diverte con le bambine e i bambini a inventare barchette di carta... E non ha più un lungo collo da giraffa…”.

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Da : “ Le fiabe di Eos, La bimba, Bambine e bambini assieme sulla giostra della vita”, di Mario Bolognese, Prefazione di Luce Irigaray, Illustrazioni di Roberto Origgi, Edizioni del Faro, Trento, 2016, pagina 53”.

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...Proposta di un laboratorio educativo come introduzione all’ haiku …

. . . RIDONARE ALLE NOSTRE PAROLE LA POESIA DELLA NATURA PER SALVARE IL PIANETA

di Mario Bolognese

Haiku non urla / ma all’orecchio sussurra / di stelle e fiori… (Mario Bolognese )

La via dell’haiku giapponese…

Questa metrica – breve poesia di 17 sillabe in tutto, 5 – 7 –5 , fa parte di un pensiero a-duale, che non si contrappone dialetticamente a niente, ma che cerca solo di narrare un’emozione collegandola alla natura. Ma in questa proposta il comporre tecnicamente un haiku può essere un punto di arrivo, ma solo per chi lo desidera. Importante in questa fase propedeutica è ritrovare il piacere e la gioia di quello sguardo che avevamo a 3 – 4 anni… E l’effetto è sicuramente positivo per il nostro “clima” personale, molto collegato a quello del pianeta. E questo anche perchè ogni poesia e racconto partecipa, anche in senso medico-scientifico, degli effetti benefici della “medicina narrativa”. (1).

Senso di questo lavoro…

Fare in modo che le nostre parole astratte ritrovino vita e sensorialità

attingendo al fascino, alla saggezza e alle immagini primordiali del cosmo della natura. Riaccendendo così ancora nel nostro sguardo lo “stupore dell’istante”…

A chi è rivolto…

A ogni persona che sogna e lavora tessendo parole di bellez-

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. . .

za, pace, benessere e solidarietà. In particolare per insegnanti e operatrici e operatori nel settore socio- sanitario.

Metodologia…

Formazione di brevi espressioni poetiche personali che potranno poi far parte di elaborazioni poetiche collettive. Questa riconciliazione con la poesia della natura può essere abbinata ed agevolata anche con la pittura ed altre forme d’arte.

Aspetti e considerazioni generali…

Questo progetto viene qui formulato in modo non particolareg- giato, anche perché fatto in presenza, o attraverso internet, assume aspetti e bisogni, anche organizzativi, molto diversi. Questo riguarda anche il numero di persone partecipanti, il tempo minimo necessario ed anche il materiale occorrente per un atelier con risvolti indubbiamente creativi. Ma il proponente è lietamente a disposizione per ogni chiarimento.

Materiale teorico a disposizione…

Chi partecipa potrà attingere, a sua scelta, ad un repertorio interculturale – ovviamente non esaustivo ma certamente indicativo - di una varietà di aspetti simbolico-antropologici della parola umana. Si va dall’antropologia letteraria e ad aspetti mitico-rituali del nostro “dire”, e dalla “ lingua materna” al “ soffio cosmico” nel nostro respiro... Ed altro ancora…

(1) – Sulla “ medicina narrativa”…

La “biofilìa” riguarda una plurimillenaria esperienza umana di benessere ritrovato a contatto con gli alberi e la natura, e ora questo è testimoniato anche da ricerche scientifiche. Sono infatti convinto che ci sia una “base poetica” nella mente umana, e che questa “ base” si sia formata in un intimo

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contatto “poetico” con il cosmo e la natura. Per questo ora, con piacere, sulla poesia haiku collaboro con l’endocrinologa, e scienziata, Simonetta Marucci, che in un ospedale pubblico cura anche con l’haiku disturbi alimentari soprattutto femminili. È questo il filone di “ medicina narrativa” presente negli orientamenti del Ministero della Salute Italiano. A disposizione nel materiale video di robedamatti.to@gmail. com si può trovare un nostro dialogo cliccando :

Robe da Matt_Sabato 9 ottobre 2021 (1).mp4

Mie notizie…

Cercando in internet : Mario Bolognese Edizioni del Faro si possono trovare le mie pubblicazioni di poesie haiku ed altri riferimenti che riguardano miei studi e ricerche. Ciao da Mario Bolognese canticocreature@gmail.com …

In-concludo con una poesia…

Dove si nasconde il fuoco

Perchè dovremmo estinguere l’amore quando c’è fuoco persino nell’umida essenza di sandalo, persino nella rugiada della gelida lanterna della luna?

(India – Amaru, poeta erotico indiano del VI -VII secolo d. C.).

L’esperienza condivisa con Mario Bolognese, ha portato me a proporre all’interno del Girasole un progetto per le scuole, allo scopo di utilizzare l’approccio del racconto e della poesia per intercettare disagi ed intervenire precocemente, ma anche per dare ai bambini e ai ragazzi uno strumento da poter utilizzare

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all’occorrenza, un armamentario di accesso al mondo delle emozioni che potrà tornare loro utile in qualsiasi momento della loro vita.

L’esperienza è stata molto positiva, come si evince dal racconto delle insegnanti e dalle creazioni poetiche ed artistiche degli alunni.

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HAIKU IN CLASSE

professoressa Elena Segoni Scuola Media

“Nessuno sa se Omero sia veramente esistito ma si racconta che fosse cieco... Quella cecità gli ha permesso di sentire il mistero profondo delle vite umane che ha raccontato”. A. D’Avenia, L’appello.

Noi adulti spesso siamo ciechi, non come Omero, in senso fisico, ma soffriamo di una cecità più grave, di una cecità morale.

Guardiamo le persone che ci circondano, gli amici, i familiari, i colleghi ma in fondo non li vediamo. Anche noi insegnanti a volte soffriamo di questa cecità, ci fermiamo all’aspetto esteriore e non vediamo davvero nel profondo.

Abbiamo però un punto di vista privilegiato, una postazione che è propria dell’insegnante: viviamo il nostro lavoro come una passione, una missione, un servizio reso con amore che ci arricchisce intimamente.

L’insegnamento è un continuo dare e ricevere, è un crescere insieme mentre accompagniamo i ragazzi nella ricerca delle risposte alle tante domande che la vita suscita loro.

A volte basta poco per togliere quel velo dagli occhi, basta una verifica, un classico tema in classe, per scoprire un mondo nascosto.

Questo è successo nella nostra scuola, un titolo giusto ha svelato una sofferenza lacerante e le ha dato un nome: Disturbo del Comportamento Alimentare.

Il docente che si è ritrovato a leggere quel dolore da tanto tempo nascosto, un giovane precario dalla grande sensibilità, ha subito informato la coordinatrice di classe e me.

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Essendo un argomento molto delicato e, purtroppo, altrettanto diffuso, mi sono rivolta all’Associazione di volontariato Il Girasole, che si occupa anche di Disturbi del Comportamento Alimentare.

L’intervento tempestivo, i contatti con la famiglia, la guida da parte degli esperti dell’Associazione hanno fatto sì che quel forte disagio venisse preso in carico e supportato dall’Associazione attraverso un percorso specifico.

La scuola, dal canto suo, ha voluto in qualche modo aprire gli occhi su questa realtà e, in grande numero, ha partecipato ad un corso di formazione tenuto da tre dottoresse che lavorano per l’Associazione.

Oltre ad alcuni rudimenti di tipo medico, molto interessante e significativa è stata la spiegazione sulla funzione terapeutica del componimento poetico dell’haiku. In tre soli versi di cinque, sette e cinque sillabe, ispirati agli elementi della natura, si può esprimere il dolore più profondo... che nessun occhio può vedere.

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ESPERIENZA CON I RAGAZZI professoressa Maria Luisa Ceppi

Pur non essendo una delle docenti coinvolte nel caso di Disturbo del Comportamento Alimentare sopra menzionato, ho deciso di partecipare al corso di formazione organizzato dalla scuola, data la particolare delicatezza del tema e la crescente diffusione di tali disturbi anche nella fascia d’età dei ragazzi che frequentano la scuola secondaria di I grado. Oltre ad averne apprezzato le conoscenze in merito, ho trovato molto interessanti le considerazioni sulla funzione terapeutica dell’haiku, un tipo di poesia con la quale, nonostante insegni lettere, non ho mai lavorato con i miei alunni, così, cogliendo in questa attività la possibilità per i ragazzi di imparare divertendosi, vero motore dell’apprendimento, ho proposto loro di cimentarsi nella creazione di queste particolari poesie.

Dopo una breve presentazione delle regole di cui tener conto e aver spiegato che questi componimenti traggono ispirazione dalla natura, siamo usciti sul piazzale della scuola e ho invitato i miei studenti ad “osservare la primavera”, ma soprattutto li ho invitati ad ascoltare le sensazioni che ricevevano dallo spettacolo del risveglio della natura e li ho incitati a dare ad esse un nome per poterle poi tradurre in parole scritte, insomma li ho guidati ad ascoltare loro stessi.

Con mia grande sorpresa, ho potuto subito constatare che anche i ragazzi più “refrattari” allo studio avevano preso sul serio il lavoro. È stato veramente appagante vederli concentrarsi per ricercare la parola più adatta per poter esprimere ciò che desideravano per poi magari scoprire che quella parola non conteneva le sillabe giuste e allora era necessario trovarne un’altra con lo stesso significato ma di diversa lunghezza.

Qualcuno chiedeva un consiglio, qualcuno un piccolo aiuto, la maggioranza si è messa in disparte alla ricerca della pro-

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pria interiorità.

Sono stati così scritti numerosi haiku, più di quanto mi aspettassi, alcuni di carattere prettamente descrittivo, altri che colgono un significato più profondo, a seconda della sensibilità e delle capacità di ciascuno.

È stata davvero un’attività entusiasmante che sicuramente proporrò ancora: l’haiku, grazie alla sua semplice struttura, permette a tutti di poter scrivere qualcosa, qualcosa però di essenziale che va dritto al cuore e in ciò stanno la sua forza e il suo valore formativo e terapeutico.

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Presentiamo qui di seguito alcuni componimenti, raggruppati secondo il contenuto.

Molti catturano la bellezza e i colori della primavera e la gioia del risveglio della natura dopo l’inverno :

Che maestosi Spighe di grano fiori sull’erba stanno sulla terra umida con colori brillanti. crescono d’oro.

I fiori rossi Galline bianche ballano con il vento camminano nei prati ancora fresco. in fioritura.

Il Sole splende C’è un albero sulle foglie verdastre grande e incantato abbellendole. con foglie verdi.

Foglie cadute Tristi alberi sul lago che sembrano sono ormai allegri rosse ninfee. e già fioriti.

Alberi belli Cascate vuote anche gli animali. rami d’albero sono. La primavera. Foglie pendenti.

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Altri parlano della luce, sia del giorno che della notte, e delle giornate sempre più calde e limpide:

La luce gialla Il Sole splende la luce illumina un cielo azzurro gli spazi bui. sopra di noi.

Ecco l’estate Il Sole è caldo profumo di fiori e il Sole è cocente caldo afoso. cielo splendente.

Il vento soffia il campo è fiorito il Sole scotta.

Le stelle nel blu La sera buia riflettono da lassù lassù come lanterne luce soffusa. stelle nel cielo.

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La primavera è anche pioggia e temporali, associata a un velo di tristezza:

Nuvole scure I nuvoloni mentre piangono tristi ricoprono il cielo lacrime pure. grigi e scuri.

La pioggia prima Foglie volano pian piano, poi scende e sulla strada bagnata cade veloce. e in tristezza.

L’erba bagnata Albero secco mischiata tra le foglie è come un paese e i bastoncini. senza persone.

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Dopo la tempesta c’è sempre la quiete:

Candide nubi volteggiano nel blu tranquillamente.

Foglia che cade lentamente planando sull’erba verde.

La sera buia

il cielo è stellato

il mare calmo.

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Una quiete allietata da piacevoli suoni e suggestive immagini:

Il bel silenzio Dai rami si interrotto dal suono ascoltavano canti dell’umanità. degli uccellini.

Uccello passa il battito d’ali purifica noi. Quella farfalla dal dorso colorato vive libera. Dolce miagolio in corvina bellezza gocce d’ambra.

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Ed infine tutta la forza e l’esplosione della vita che, all’arrivo della primavera, rinasce anche in noi: Di correr mi va l’istinto felino la libertà.

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I ragazzi autori degli haiku:

Antonelli Matteo, Asisani Francesco Saverio, Biamonte Federica, Bizzaglia Daniele, Borsellini Maia, Bravi Ludovica, Bruschi Lucrezia, Buttarini Michael, Campana Aurora, Carini Sofia, Carmeli Leonardo, Chiacchiarini Gabriele, Ciavaglia Agata, Dini Denisa, Dini Melisa, Fabiani Nicolò, Felici Sofia, Locci Maria Lucia, Marchesani Francesco, Mela

Alessia Maria, Pallotta Tea, Parascandolo Aurora Francesca, Patito Irene, Piantoni Martina, Quatrinelli Michele, Rhazi

Samir, Ryde Dante, Scarabottini Agnese, Silvestri Alice, Simone Marta, Stella Alice, Tugurlan Maria Alessia.

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"Oggi mia figlia è une delle psicologhe volontarie del Girasole, è la speranza che tante giovani, come la mia ragazza dagli occhi di cerbiatto, possano vincere e superare una malattia infida e sconvolgente nel corpo e nella mente».

Questo è il racconto di Gabriella, presidente del Girasole ma, fondamentalmente una mamma che si è trovata ad affrontare il problema della malattia della figlia, e lo racconta, insieme a Tilde, con la quale ha fondato l'associazione.

Nei Disturbi del Comportamento Alimentare, le modalità di interazione con il proprio corpo e la propria identità sono improntate sul conflitto, dove proprio il corpo rappresenta il campo di battaglia.

Ci si ammala quando la comunicazione si interrompe, quando quello che si vorrebbe dire è troppo doloroso da esprimere a parole, e allora la narrazione, soprattutto sotto forma di scrittura autobiografica, raccontando la storia ad uso di chi la leggerà, contribuisce a ridefinire l’identità.

Ma c'è anche la storia che ci ha regalato di Greta, che da un passato in cui ha dovuto fare i conti con la sofferenza, derivata da stupido e inutile bullismo iniziato nel periodo scolastico, ha trovato lo stimolo per iniziare un suo percorso creativo attraverso la scrittura.

Ha risposto al nostro appello anche un vero poeta, Mario, che propone di portare il linguaggio poetico nelle scuole, per avere un accesso privilegiato al mondo delle emozioni.

E allora, raccogliendo l'appello, abbiamo coinvolto le insegnanti e gli alunni di una scuola media, che hanno entusiasticamente aderito alla nostra proposta di un laboratorio di scrittura di poesia Haiku.

Per dirla con il poeta, il progetto del Girasole si propone di RIDONARE ALLE NOSTRE PAROLE LA POESIA DELLA

NATURA PER SALVARE IL PIANETA

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