

Aiutare esalta… e a volte stanca
di Tiziana Luciani
Quaderni del volontariato
Edizione 2024
Cesvol
Centro Servizi Volontariato Umbria
Sede legale:
Via Campo di Marte n. 9 - 06124 Perugia
tel 075 5271976
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Edizione ottobre 2024
Coordinamento editoriale di StefaniaIacono
Immagine di copertina:
“A Leap of Action Rather Than a Leap of Faith” di OfraAmit
Stampa Digital Editor - Umbertide
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ISBN 9788831491761
I QUADERNI DEL VOLONTARIATO
UN VIAGGIO NEL MONDO DEL SOCIALE PER COMUNICARE IL BENE
I valori positivi, le buone notizie, il bene che opera nel mondo hanno bisogno di chi abbia il coraggio di aprire gli occhi per vederli, le orecchie e il cuore per imparare a sentirli e aiutare gli altri a riconoscerli. Il bene va diffuso ed è necessario che i comportamenti ispirati a quei valori siano raccontati. Ci sono tanti modi per raccontare l’impegno e la cittadinanza attiva. Anche chi opera nel volontariato e nell’associazionismo è ormai pienamente consapevole della potenza e della varietà dei mezzi di comunicazione che il nuovo sistema dei media propone. Il Cesvol ha in un certo senso aderito ai nuovi linguaggi del web ma non ha mai dimenticato quelle modalità di trasmissione della conoscenza e dell’informazione che sembrano comunque aver retto all’urto dei nuovi media. Tra queste la scrittura e, per riflesso, la lettura dei libri di carta. Scrivere un libro per un autore è come un atto di generosa donazione di contenuti. Leggerlo è una risposta al proprio bisogno di vivere il mondo attraverso l’anima, le parole, i segni di un altro. Intraprendendo la lettura di un libro, il lettore comincia una nuova avventura con se stesso, il libro viene ospitato nel proprio vissuto quotidiano, viene accolto in spazi privati, sul comodino accanto al letto, per diventare un amico prezioso che, lontano dal fracasso abituale, sussurra all’orecchio parole cariche di significati e di valore. Ad un libro ci si affeziona. Con il tempo diventa come un maglione che indossavamo in stagioni passate e del quale cerchiamo di privarcene più tardi possibile. Diventa come altri grandi segni che provengono dal passato recente o più antico, per consegnarci insegnamenti e visioni.
Quelle visioni che i cari autori di questa collana hanno voluto donare al lettore affinché sapesse di loro, delle vite che hanno incrociato, dei sorrisi cui non hanno saputo rinunciare. Gli autori di questi testi, e di tutti quelli che dal 2006 hanno contribuito ad arricchire la Biblioteca del Cesvol, hanno fatto una scelta coraggiosa perché hanno pensato di testimoniare la propria esperienza, al di là di qualsiasi tipo di conformismo e disillusione. Il Cesvol propone la Collana dei Quaderni del Volontariato per contribuire alla diffusione e valorizzazione della cittadinanza attiva e dei suoi protagonisti attraverso la pubblicazione di storie, racconti e quant’altro consenta a quel mondo di emergere e di rappresentarsi, con consapevolezza, al popolo dei lettori e degli appassionati. Un modo di trasmettere saperi e conoscenza così antico e consolidato nel passato dall’apparire, oggi, estremamente innovativo.
Salvatore Fabrizio Cesvol Umbria
AIUTARE ESALTA…
E A VOLTE
STANCA
di Tiziana Luciani
Indice
INTRODUZIONE
1: L’ARTE DI AIUTARE
CAPITOLO 5: RITROVERE IL FILO, INSIEME
“LA SAPIENZA DEL GOMITOLO”
“QUANDO LI DONO, INVECE, BRILLANO”
INTRODUZIONE
“Aiutare esalta…e a volte stanca” intreccia più fili, e tutti mi riguardano.
Infatti in quanto psicologa-psicoterapeuta ho dato sostegno a persone impegnate, sia a livello personale che professionale, come caregiver (= chi dà cura).
Da formatrice degli adulti ho avuto gruppi di operatori sociali, o.s.s., infermieri, psicologi, presi a fronteggiare il burn-out., cioè l’esaurimento della motivazione all’aiuto.
Come arte terapeuta ho proposto attività espressive, per raccontare gioie e dolori dell’offrirsi al prossimo. Come persona ho dato quel che potevo, in veste di caregiver familiare e amicale. Un bell’intreccio complesso!
Ma, dato che da ragazzina i miei lunghissimi capelli erano acconciati in due grandi trecce, che venivano fatte e disfatte tutti i giorni, di intrecci, lo capite, ho una certa esperienza. Inoltre dagli anni ’90 del secolo scorso, mi occupo di un particolare tipo di arte terapia, che ho denominato “arte terapia tessile” e che utilizza filati, tessuti e intrecci come modalità di espressione e di narrazione di sé. Il linguaggio poetico si è sempre servito di metafore tessili, per rendere visibili e tangibili: gioie, tormenti, speranze, tribolazioni, sia dell’animo umano che dei periodi storici difficili. Le metafore sono molto efficaci per il nostro benessere. Metafora in greco antico è un “portare oltre”. Grazie a questo spostamento ricorriamo alle immagini per spiegare un concetto. Un grande aiuto: la nostra realtà può trasformarsi da prosa in poesia, grazie alle metafore e al pensiero simbolico; così ciò che è difficile da pensare e da dire, si può comunque esprimere e manifestare. Nell’intreccio, che ho composto per voi, ci sono altri fili: le etimologie delle parole, che svelano significati reconditi e a volte sorprendenti;
le metafore poetiche di poetesse e poeti, perché la poesia è l’arte di ricamare con le parole; le riflessioni di caregiver, volontari/e, operatori/trici. Gocce dense, distillate dalle esperienze, dalle prove, dai fallimenti e dai successi; le attività di arte terapia che sono accuratamente descritte e, in un caso, anche proposte; due manufatti tessili riconsiderati come metafore dell’offrirsi in aiuto: i mantelli e le coperte; romanzi, film, opere d’arte, fiabe, favole, albi illustrati, che amplificano meravigliosamente i significati delle nostre vite; una filosofa, e un filosofo, che hanno ragionato sui temi che qui ci appassionano.
Tante cose…ma ve l’ho detto: sono allenata a trecce molto consistenti!
Buona lettura, Tiziana.
CAPITOLO 1
L’ARTE DI AIUTARE
E IO AVRÒ CURA DI TE
A chi non è capitato?
Parlo del prendersi cura di una persona in difficoltà: un familiare, un amico, un’amica, un/una collega, dei vicini di casa…
In difficoltà a causa di una malattia, accompagnata a volte da fragilità emotiva, oppure per via di un brutto periodo esistenziale.
Ce ne prendiamo cura, divenendo un o una caregiver. Alessandro Manzoni ne “I promessi sposi”1 enumera le qualità dell’<amore intrepido> per il prossimo, che è fatto “di fortezza e di carità, di premura operosa per gli altri, di sacrifizio illimitato di sé”.
Se facciamo volontariato, da sconosciuti offriamo aiuto ad altri sconosciuti.
Ci “prestiamo” all’aiuto, ed è bello questo termine: prestarsi. Connota un dono di sé che dura finché ce ne è bisogno. Poi piano, piano, ce lo auguriamo, la persona in questione riprende possesso della sua autonomia, della sua centratura e, sempre piano, piano noi ritorniamo alla nostra vita. Spesso con una relazione significativa in più, e con alcuni importanti cambiamenti interiori. In Italia sono oltre 8 milioni le persone che svolgono un ruolo da caregiver, di questi circa 7 milioni si prendono cura di un familiare. Questo esercito pacifico di persone di buona volontà si occupa di assistere a livello sanitario, di gestire la quotidianità e l’abitazione, di dirimere tortuose questioni burocratiche, di garantire l’igiene della persona, di offrire un supporto emotivo. Capite bene che si tratta
1 Manzoni, A., I promessi sposi, Milano, Mondadori, 2017, p.493.
di una mansione complessa e totalizzante, che richiede molto tempo e coinvolgimento. Qualcuno/a di noi lo fa per lavoro.
Allora più che prestarci ci “spendiamo”, nel senso che l’impegno non è temporaneo ma duraturo. Diventa cioè una professione, di quelle così assorbenti, che non ti fanno dire di te “io faccio…”, bensì “io sono…”. Professioni che richiedono, per essere svolte, un’identificazione con il ruolo, quella stessa che il filosofo Jean Paul Sartre evidenziava - e contestava- seduto in un caffè di Parigi2, quando a un cameriere, che di se stesso diceva: “Io sono un cameriere”, Sartre offrì una serie di argomentazioni filosofiche per convincerlo a dire piuttosto: “Io faccio il cameriere”.
Così, se alla domanda “E tu che lavoro fai?” risponderemo: “Io sono una psicologa”, “Io sono un operatore sociale”, “Io sono un’infermiera” Jean Paul, scuotendo la testa, ci suggerirebbe che, piuttosto, dovremmo dire: “Io faccio la psicologa” e via andando. Quest’identificazione con il proprio ruolo lavorativo spesso ha radici profonde e antiche: svolgendo una professione d’aiuto s’affinano capacità, via via scoperte nella vita personale.
GRANDI AIUTI DA PICCOLI AIUTANTI
Alle volte a queste professioni ci si comincia ad allenare sin dall’infanzia.
Penso a fratelli, o sorelle maggiori che imparano ben presto a badare a fratelli e sorelle minori, in qualità di vicepadri o di vice-madri, sacrificando la propria fanciullezza, che ritorna, anni o decenni dopo, a reclamare il tempo e le occasioni perdute. Penso a bambini e bambine che
2 Sartre, J.P., L’essere e il nulla, traduzione di Giuseppe Del Bo, Milano, Il Saggiatore, 2002. pp.96-97.
si occupano delle fragilità dei propri genitori. Imparano a nascondere quelle bottiglie di alcolici che sembrano offrire conforto alla mamma, fanno il muso duro agli “amici” che vengono a cercare il babbo, per portarlo al tavolo verde d’un brutto gioco.
A quegli adolescenti che convivono con le dipendenze, le problematiche psicologiche e psichiatriche dei loro genitori, divenendo mano a mano interpreti finissimi dei segnali del disagio, somministratori di farmaci, habitué del 118, frequentatori del pronto soccorso.
Diverse associazioni si dedicano al loro sostegno, fornendo supporto, anche di tipo psicologico.
Fra queste: COMIP (Children Of Mentally Ill Parents) che ha pubblicato con il servizio di Editoria Sociale del Cesvol (Provincia di Terni), il libro di Stefania Buoni “Quando Mamma O Papà Hanno Qualcosa Che Non Va. Mini guida alla sopravvivenza per i figli di genitori con un disturbo mentale”.
“Questo è il libro - dice Stefania - che avrei voluto avere fra le mani io a 15 anni. Scritto per aiutare noi, e il resto del mondo, a comprendere ciò che proviamo noi figli e per riconoscere le caratteristiche positive che sviluppiamo, a partire dalle circostanze avverse in cui abbiamo vissuto.” 3
La prima associazione italiana per i giovani caregivers, la Young Care Italia, ha calcolato che nel nostro Paese sette ragazzi e ragazze su 100, tra i 14 e i 25 anni, si occupano di familiari con fragilità, con un carico medio di cura di 23 ore alla settimana.4
Le storie di vita di questi bambini e bambine, di questi ragazzi e ragazze, sono concentrati preziosi di umanità, di affetto incondizionato, di saggezza, di rabbia, di resistenza, di desiderio di fuga e della consapevolezza
3 https://www.facebook.com/quandomammaopapa/ https:// www.stefaniabuoni.com/il-mio-libro/ 4 https://youngcareitalia.org/
d’essere il punto fermo - spesso il solo - per quel padre, per quella madre.
C’è un romanzo dello scrittore americano di origine armena William Saroyan che tratteggia bene questa situazione, si intitola “Ti voglio bene, mamma!”.
Ve ne racconto, in sintesi, la vicenda.
Una giovane madre e la sua bambina lasciano il paesino di origine e si avventurano a New York, dove la donna insegue, con fatica e diverse frustrazioni, il sogno di diventare attrice di teatro.
Un divorzio ha diviso la famiglia, e il padre vive a Parigi con il fratellino.
La bambina - che è l’io narrante del libro - fa da sorella maggiore, da coach, da amica, da saggia consigliera alla madre, che lei chiama Mamma Bella.
A seguito di un’incomprensione fra le due, ecco cosa accade:
<Poi si cacciò tutta sotto le coperte, con le coperte sopra la testa. Mi dispiaceva vedere Mamma Bella sotto le coperte in quella maniera, perché fa così solo quando è molto infelice […].
“Vorrei essere morta”
“Oh, Mamma bella, non dire questo…Porta sfortuna. Dio ti sentirà e ti crederà e ti porterà in Cielo, e allora dove andrò io? […] Sei ancora malata?”
“Malata come un cane. Malata da morire. Malata da averne il cuore spezzato.”
“Oh, che ti succede, Mamma Bella?”
“Sono un fallimento. Sono Nessuno. Sono una nullità.”
“Tu, Mamma Bella? Oh, no. Tu sei un successo. Sei Qualcuno. Sei Tutto.”
Mamma Bella venne fuori all’improvviso e disse.
“Lo pensi davvero, Ranocchio?”
“Se lo penso?” dissi.” Lo so. Tu sei la più bella e la più
celebre ragazza al mondo.”
“Va bene, allora ci vestiremo tutte e due e andremo a passeggio. […] Ora indosseremo degli abiti gemelli […] Quelli tutti blu punteggiati di fiori rossi e bianchi?”
Ci vestimmo ed entrambe ci sentimmo di nuovo magnificamente, ben riposate, ed era quasi sera a New York, adesso, ed eravamo lì anche noi.>5
Le vediamo allontanarsi per la strada nel crepuscolo metropolitano, madre e figlia vestite allo stesso modo come le due sagome - l’una dentro l’altra - di una matrioska, come una pianta e la sua versione bonsai, abbigliate con il medesimo tessuto, che ne mette in risalto le somiglianze e la simbiosi.
Crescere, per un/una caregiver in erba, è distaccarsi dalla fusione, per poi trovare il proprio stile, e conoscere, anche in altri ambiti, la stoffa di cui è fatto/a.
Questo processo, fatto di presa in carico e di ristabilimento di giusti confini, è il tema autobiografico di un’opera prima, la sorprendente, commovente e pluripremiata graphic novel di Bea Lema.
Il titolo nelle edizioni spagnola e italiana è: “Corpus Christi” mentre in quella francese è: “Des maux à dire” i mali da dire, da raccontare.
Il male che va detto - oltre il silenzio dello stigma - è la patologia psichica di Adela madre di Véra che, prima da bambina, poi da ragazza, infine da giovane adulta, è la sua caregiver. Le immagini del libro sono disegnate ma, soprattutto, tante sono ricamate. Tra Adela, che è stata sarta, e Véra i tessuti sono stati uno spazio di complicità e di serenità.
Tra disegno e ricamo seguiamo la vicenda dolorosa dei deliri, delle manie di persecuzione, delle fasi depressive, del ricorso a maghe, esorcisti, psichiatri, ricoveri e terapie, tra
5 Saroyan, W., Ti voglio bene, Mamma!, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1958, pp. 41-43.
superstizioni e patriarcato. E, soprattutto, entriamo nella complessità di quella relazione madre - figlia: raffigurata con un ricamo in cui Véra, da ragazza, prende in braccio Adela, che s’è fatta piccola, piccola come una bambina.6

6 Lema, B., Corpus Christi, Roma, Minimum Fax, 2024.
DI CHE STOFFA SIAMO
Ma perché offriamo aiuto agli altri? Per molteplici motivi: per necessità, per amore, perché non sarebbe dignitoso allontanarci da quella sofferenza, ma anche perché un domani potrebbe capitare a noi di aver bisogno. Aiutiamo perché è questo che fanno gli esseri umani. “Io sono umano - così si presenta il piccolo protagonista di un albo illustrato - posso agire con compassione e dare una mano […] per celebrare l’umanità in tutti noi. Quando siamo umani ritroviamo la connessione con noi stessi e con gli altri e riusciamo così a fare emergere, con consapevolezza, il nostro “Io” più vero e migliore.” 7
L’aiuto agli altri è una stella che appartiene alla costellazione dell’empatia, brilla lucente quando avviene il miracolo dell’immedesimazione.
Dante Alighieri, nel Paradiso, inventa parole nuove per descriverne la reciprocità: “S’io m’intuassi, come tu t’inmii.”8
Ovvero: se io diventassi te come tu me…
Aiutare ci fa sentire parte attiva di un’impresa eroica, tempra il nostro carattere, fa uscire fuori il meglio di noi, ci espone a una pioggia sferzante, a un vento senza tregua. Aiutare sgrezza i nostri diamanti interiori con rudi colpi di martello, e così scopriamo di averli in noi - li vediamo scintillare nel buio come lucciole nelle notti estivequando piuttosto pensavamo d’essere, al nostro interno, come una grotta fredda e oscura. Ma, lo sappiamo, aiutare a volte stanca…
In un prezioso prontuario di biblioterapia, che offre consigli di lettura utili per ogni evenienza, alla lettera C
7 Cfr.: Verde, S., Io sono umano, illustrazioni di Peter H. Reynolds, Cesena, Macro Junior, 2022.
8 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, introduzione e commento di Anna Longoni, Milano, Rizzoli, 2023, p.134.
trovo “Cancro, occuparsi di una persona malata di”. Secondo le autrici poiché “potreste avere difficoltà nel dire agli altri che avete bisogno di una pausa. […] È di grande aiuto, nei momenti di stress, leggere di chi sta vivendo esperienze simili: guardare come altre persone le affrontano, oppure non ci riescono, ci fa sentire meno soli e ci dà forza”.9
Altrimenti la nostra struttura interna si corrode, magari continua a reggere ma, qua e là, si smaglia. E, come accade a quel golfino che mi piace tanto, se non intervengo prontamente con ago e filo, quel forellino si allarga progressivamente e trascina con sé, nel vuoto e nell’assenza, le maglie che gli erano intorno, quasi che quel filato, che sembrava così resistente, non avesse più una consistenza, una compattezza. Mi sento sfibrato/a… diciamo di noi.
Ma a sorreggerci ci potrebbe essere una motivazione ancor più profonda, quasi segreta… Ve la rivelo sotto voce: quanti/e si offrono come caregiver o nel volontariato, hanno, ad un certo punto della loro vita, molto sofferto e si sono persi in un Labirinto.
Quando ne vengono fuori, stringono forte nella mano quel gomitolo, quella risorsa che appartiene alla vita di tutti i giorni ma che, reinterpretata in modo creativo, si trasforma nella soluzione del problema. Il percorso di uscita può far nascere in noi un pensiero sorprendente e fecondo: “Anche io posso restituire il bene che ho ricevuto, mettendomi a disposizione degli Altri.”
9 Berthoud, E., Elderkin, S., Curarsi con i libri: Rimedi letterari per ogni malanno, a cura di Fabio Stassi, traduzione di Roberto Serrai, Palermo, Sellerio editore, 2017, p.145.
STAY JUST A LITTLE BIT LONGER
Le persone che aiutiamo si sentono così come la poetessa Emily Dickinson dice di sé stessa, nella poesia 496:10
Lontana dalla pietà come il lamento –fredda alla parola - come pietra –torpida alla rivelazione come se sapessi solo di ossa[…]
Sapere di ossa! Come dir meglio di così ciò che si sperimenta nelle prove estreme della vita? Le ossa sono la nostra essenza nascosta, l’impalcatura della nostra apparenza. Se “so di ossa”, significa che ho sperimentato il senso estremo della mia esistenza, percepibile nelle vicende più ardue.
In un’altra poesia, la numero 165, viene evocato cosa accade in noi quando stiamo affrontiamo delle esperienze molto impegnative e, lo dicevamo, essere d’aiuto ad una persona sofferente lo è: 11 […]
La roccia percossa che sgorga! L’acciaio pestato che scatta! Una guancia è sempre più rossa Dove la febbre la brucia! […]
La prova esistenziale fa sgorgare inedite modalità, energie inattese, come acqua da roccia percossa. Questo accade in noi quando offriamo il braccio
10 Dickinson, E., Poesie, a cura di M. Bacigalupo, Milano, Mondadori, 2019, p.277
11 Dickinson, E., op. cit., p.66-69.
all’andatura incerta dell’Altro.
Lo dice anche il proverbio “Chi va con lo zoppo impara a zoppicare”, e, badate, qui non si allude alla perdita di una nostra presunta perfezione che, a causa di discutibili frequentazioni si corrompe via, via.
No! Il proverbio usa il termine “imparare”, perché “alla scuola dello zoppo” si apprendono cose importanti.
Come l’immedesimarsi: una competenza straordinaria che spiana le montagne della diffidenza e getta ponti sugli abissi della reciproca paura.
Immaginiamo, quindi, queste prove come una porta che si schiuda, più o meno frequentemente e ampiamente, verso ciò che vi è all’esterno, verso il mondo degli altri. Quando apriamo quella porta, noi ci proponiamo come assistenti della persona in difficoltà. Il termine “assistere” ha una meravigliosa etimologia; deriva dal latino sistere ad ovvero: stare accanto, essere a servizio e rende l’idea di quella preziosa mescolanza fatta di vicinanza umana e d’aiuto incondizionato, che si esplicita anche nelle piccole cose, negli atti più umili della vita quotidiana.
FRAGILITÀ E EROISMO
Ma quali possono essere queste prove?
La filosofa Simone Weil nel libro “Attesa di Dio”, dedica un intero capitolo a “L’amore di Dio e la sventura”, distinguendo fra questa e la sofferenza. Seguiamo il suo ragionamento: “Nell’ambito della sofferenza - spiega - la sventura è una cosa a parte, specifica, irriducibile.
Ben diversa dalla semplice sofferenza. S’impadronisce dell’anima e le imprime fino in fondo il proprio marchio, quello della schiavitù”12.
12 Weil, S., Attesa di Dio, Milano, Adelphi Edizioni, 2008. p.171.
Ma come agisce la sventura?
“Anzitutto la sventura è anonima; toglie la personalità a coloro che colpisce e ne fa delle cose. Poi è indifferente, e il freddo di tale indifferenza, un freddo metallico, raggela fino in fondo all’anima tutti quelli che arriva a toccare. Essi non ritroveranno mai più il calore, né mai più crederanno di essere qualcuno”13.
A volte, desiderando aiutare, ci rapportiamo con persone che si trovano in questa severa condizione, poiché purtroppo “La sventura indurisce e dispera, perché come un ferro rovente imprime fino in fondo all’anima, quel disprezzo, quel disgusto che giunge alla ripugnanza di se stessi, quel senso di colpa e di squallore”.14
Facciamo fatica a scuotere queste persone, a riattaccarle alla vita perché “un altro effetto della sventura è quello di rendere l’anima sua complice, iniettandole a poco a poco, il veleno dell’inerzia”.15
Questo disgusto, questa inerzia si possono impossessare anche di noi, veniamo catturati dal disagio dell’altro.
Volevamo sollevarlo dalle sabbie mobili nelle quali era caduto, invece ci scivoliamo dentro e, a quel punto, non ci resta che scendere insieme “nel gorgo muti”, così come scrisse Cesare Pavese, nel verso finale della sua ultima poesia: Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. 16
Per contrastare gli effetti mortiferi della sventura che, come una Gorgone Medusa ci pietrifica col suo sguardo, ci può soccorrere l’eroe.
Non uno esterno a noi stessi/e, in arrivo da lontano, di cui ci auguriamo la salvifica apparizione sbirciando dalla feritoia della torre nella quale la sventura ci ha
13 Weil, S., op.cit. p.178
14 Weil, S., op.cit. p.175.
15 Weil, S., op.cit. p.176.
16 Pavese, C., Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1951, p. 29.
imprigionati, no, non quello!
Ma l’eroe o l’eroina che, potenzialmente, sono in noi. E, anche se ammaccata, anche se quasi inerme e inesperta quella nuova potenzialità eroica, questo eroe o questa eroina, si fanno largo e affrontano la sventura così come possono. Perché, come afferma lo studioso di mitologia
Joseph Campbell: 17 “Solo la nascita può vincere la morte, la nascita di qualcosa di nuovo. Per poter sopravvivere, deve verificarsi nell’anima […] una <nascita continua> […] che annulli l’incessante opera della morte”.
Sul grande potere distruttivo del male ha mirabilmente tessuto parole la poetessa Anne Segre, nella poesia intitolata “Il telaio”; ne scelgo per voi qualche verso:
[…]
Non è vero che il tempo cura tutto: ci sono sofferenze incurabili
che si ripresentano ciclicamente alla coscienza
febbri malariche, pezzi di legno che affiorano imprevedibilmente dopo l’affondamento.
[…]
L’universo si smaglia perché il male tira i fili mentre il bene si ostina a tessere.18
17 Campbell, J., L’eroe dai mille volti, Milano, Feltrinelli Editore, 1958, p.23. 18 www.annasegre.it/il telaio/
E proprio questo facciamo… con la paziente ostinazione delle eroine delle fiabe, che affrontano le loro imprese impossibili, a volte dopo un breve, intenso sconforto e, passo dopo passo, granello dopo granello, senza tregua, separano un’ intera madia di semi di papavero dalla terra, e semino per semino, ripuliscono uno staio di grano dal loglio, così come fa Vassilissa la Bella nella omonima fiaba russa.19
Non a caso ho evocato le eroine e la loro “costanza della ragione”20 di fronte a compiti e prove irragionevoli. Quando cerchiamo di aiutare un altro/a, dobbiamo attingere alle fonti del coraggio, della pazienza, della coscienziosità che sono in noi.
Gli aspetti eroici, che evochiamo e mobilitiamo nell’impresa di aiutare, sono variegati, colorati di umanità e di imperfezioni, esposti allo sconforto e capaci di lampi d’ironia.
Questa chiamata a raccolta, delle nostre potenzialità eroiche, può risuonare anche nella persona che stiamo aiutando.
In una sorta di contagio incrociato, positivo e benefico.
Si attiva uno scambio: il nostro tentativo di farcela, e quello dell’altro/a, si corroborano a vicenda. Se una molla l’altro resiste, se io son presa dallo sconforto, tu mi esorti a non lasciare, se tu ci credi - dai! - ci riprovo anch’io. In uno scambio così umano, così tenero, così prezioso. Perché, lo sappiamo, quando “le vent se lève!...Il faut tenter de vivre!”, che tradotto alla lettera suona: quando “il vento s’alza!...Bisogna tentare di vivere!”.21
19 Afanasjev, A.N., Antiche fiabe russe, traduzione di Gigliola Venturi, prefazione di Franco Venturi, Torino, Einaudi, 1974, pp.18-25.
20 Pratolini, V., La costanza della ragione, Milano, Rizzoli, 2013.
21 Valéry, P., Il cimitero marino, traduzione di Mario Tutino, prefazione di Alessandro Parronchi, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1996, pp. 22-23. Dove la traduzione invece è: “Si leva il vento! …E di nuovo, la vita!”
CREARE E RICREARSI
Di una persona che è sollecita verso un’altra si dice che “è piena di attenzioni”, ne sa cogliere i bisogni, ancor prima che questi vengano espressi.
In quella relazione si riattiva, un po’ magicamente, la capacità delle madri di capire da subito le necessità di un figlio o di una figlia.
Quando da grandi siamo al centro dell’attenzione di qualcuno, è così che ci sentiamo: come nel tempo dell’infanzia, dal latino in-fans: che non sa ancora parlare. Le madri sono in grado di comprendere il nostro misterioso linguaggio, fatto di suoni, gesti, espressioni, prima che di parole.
Quelle richieste per loro sono comprensibili e attivano delle risposte: le attenzioni.
Anche da adulti possiamo aver bisogno di quella sollecitudine, soprattutto nei momenti difficili: quando il nostro corpo e la nostra anima, si sentono spiegazzati o, peggio ancora, accartocciati e gettati nel cestino dei rifiuti.
In quei momenti non abbiamo tanta voglia di parlare, di chiedere, perché ci sembra d’aver perso le parole. Vorremmo che l’altro ci capisse al volo, un po’ come facevano quelle mamme “sufficientemente buone” di cui argomentava lo psicoanalista e pediatra Winnicott, alle quali basta un’occhiata per comprendere di cosa hanno bisogno i loro piccoli.
Chi si prende cura di un altro, come quelle madri, ha necessità di ricreazione, di piccoli spazi per sé.
Ricreazione è una parola tanto bella, che a me fa venire in mente due cose: il suono della campanella che a metà mattina stoppava per dieci preziosi minuti la didattica e consentiva a noi allievi di uscire dalle classi, andare di corsa in bagno e poi
in fila per comprare dalla bidella un pezzo di pizza bianca (eravamo a Roma), e di chiacchierare con le amiche del “bel tenebroso”, ovvero quel certo ragazzo della seconda
D. In quel breve lasso di tempo, non eravamo più solo “discenti” ma pienamente “adolescenti”; il fatto che in quei minuti ci ri-creavamo cioè ci plasmavamo nuovamente.
Tutte le volte che ci ri-creiamo facciamo proprio questo: rimodelliamo le nostre forme e i nostri contorni che, con le varie ed eventuali della vita, si sono ammaccati.
Le madri, e tutti/e noi quando ci impegniamo nella cura dell’altro, di questo hanno bisogno: di ri-crearsi, di ritrovare la loro forma, recuperando interessi, passioni, sogni, desideri.
Che non sono in alternativa, o in competizione, con la spinta ad esser di supporto a qualcuno. Concedersi quei momenti di ri-creazione ci rende più forti, più sereni, più equilibrati. Rimandare quei momenti per troppo tempo ci inaridisce e ci disumanizza, a scapito del nostro e dell’altrui benessere.
Ricordo che, dopo svariati anni di accudimento totalizzante ad una persona a me molto cara, andai di nuovo a visitare una mostra d’arte, attività un tempo abituale.
In mostra erano le opere del pittore Duccio di Buoninsegna.
Innanzi a quelle tavole, meravigliosamente dipinte, mi lasciai andare in un pianto sommesso e irrefrenabile. Come si suol dire, mi sciolsi in pianto, come una materia inerte, una durezza compatta che implora di liquefarsi. Intravvedevo l’oro degli sfondi, velato dalle lacrime. Non piangevo perché ero triste, era piuttosto quel tipo di commozione che ci prende quando incontriamo qualcuno che non rivediamo da molto tempo, e ci domandiamo come abbiamo fatto a vivere così a lungo senza la sua
compagnia.
Una parte di me, quella che ama l’arte, Duccio di Buoninsegna e i suoi sfondi d’oro, s’era perduta.
L’altra parte, quella che s’era completamente dedicata all’assistenza come caregiver familiare, in quelle sale espositive l’aveva rincontrata. Quanta commozione in quel riunirsi!
E lì lo scoprii: sottrarsi ogni tanto all’accudimento dell’altro non diminuisce il nostro impegno nei suoi confronti, ma ha un effetto moltiplicatore sulle energie che gli dedichiamo.
CAPITOLO 2
DARE UNA MANO
CAPACI DI SENTIRE
Anni fa una volontaria, durante una formazione, raccontò una sua particolare esperienza. Aveva perso una carissima amica, per un invincibile tumore.
Da quel dolore, che l’aveva chiusa in se stessa, era uscita piano piano, come un animale ferito dalla sua tana.
Dopo un bel po’ di tempo aveva contattato un’associazione di volontariato, che si occupava di dare una mano alle persone ricoverate nell’ospedale di quella cittadina.
La spinta a rendersi utile era grande, ma si sentiva confusa perché non sapeva bene come comportarsi.
Dopo i colloqui motivazionali e una formazione, offerti dall’associazione di volontariato con la quale aveva deciso di collaborare, iniziò.
Era il suo primo giorno. Affiancò una volontaria più esperta e poi toccò a lei.
Entrando in punta di piedi in una delle camere dell’ospedale, vide una giovane ricoverata. Sul comodino, seminascosta, notò una spazzola, ebbe un’intuizione e chiese a quella persona allettata se poteva pettinarla: un “sì” accennato col capo fu la risposta. Si sentì imbarazzata dal contatto tanto ravvicinato che si stabiliva, e fece in modo di non toccarla con la mano, ma solo con la spazzola. Poteva passarla fra i capelli, velocemente o lentamente, con maggiore o minor vigore. Non parlavano, ma la giovane donna sembrava confortata.
Con il tempo arrivarono anche le parole, ma sempre fra loro ci fu la mediazione della spazzola, che ridava cura e
bellezza a quei lunghi capelli, onorava la giovinezza e la femminilità in un luogo che pone in penosa sospensione queste preziosità della vita.
Il sociologo Norbert Elias, afferma che il desiderio più intenso di chi è malato o morente è essere accarezzato.
La nostra distanza culturale dal dolore, dalla malattia, dalla morte ci ammutolisce, ci blocca nell’imbarazzo e nella vergogna, ci rende incapaci di esprimere concretamente compassione e solidarietà.
Invece chi soffre, o chi muore, avrebbe bisogno di percepire del calore umano, di sentire d’appartenere, anche in quelle estreme condizioni, a una comunità.22
Quando la medicina non può più molto, quando la fine s’avvicina, sfidando blocchi culturali molto potenti, si riescono a fare molte carezze a chi ci sta per lasciare.
Per ore e ore. Fino a non sentire più quella mano, che si intorpidisce nella ripetizione degli stessi gesti e che definisce amorevolmente il contorno dell’altro/a, prima della sua definitiva scomparsa.
In quei momenti questo solo posso fare per te: circondarti “nella amorosa quiete” delle mie braccia.23
ELOGIO DELLA MANO
Le parole hanno tanto da dirci.
Le loro etimologie ce ne fanno cogliere ancor meglio il significato, ci permettono di conoscerne la storia, le radici più profonde mentre invece l’uso quotidiano le avvolge d’ovvietà, le fa scolorire.
Giocare con le parole le rende di nuovo frizzanti, sorprendenti.
22 Elias, N., La solitudine del morente, Bologna, Il Mulino, 2011.
23 Barthes, R., Frammenti di un discorso amoroso, Torino, Einaudi, 1979, p.13.
Possiamo farlo anche con i modi di dire, che diamo per scontati nel nostro parlare quotidiano. Condivido con voi quelli relativi alla parola “mano”, utilizzati per dar conto della relazione d’aiuto. Eccone una breve selezione che esalta la mano come simbolo della reciprocità, della relazione, della disponibilità all’altro: - dare una mano - in mani sicure - mettersi nelle mani di qualcuno - mettersi una mano sul cuore - stendere la mano - tendere una mano a qualcuno
A proposito di mani, e di frasi famose che le riguardano, vi racconterò, qualcosa sulla vita dell’attrice Audrey Hepburn, nata nel 1929 a Ixelles, vicino a Bruxelles in Belgio.
Nel 1939 la madre di Audrey scelse di trasferirsi, insieme con i figli, nella città olandese di Arnhem, ritenendola più al riparo da una possibile invasione nazista.
Lì Audrey studiò danza, fino al 1945.
Nel 1940, però, anche Arnhem fu occupata. La carestia e il freddo decimarono la popolazione; anche Audrey patì per la mancanza di cibo e le difficili condizioni di vita.
Quando nel 1948 si spostò a Londra, continuò a prendere lezioni di danza, sognando di diventare una etoile.

Audrey Hepburn Ambasciatrice UNICEF.
Ma a causa della malnutrizione sofferta durante gli anni di guerra, e alle conseguenze sulla sua salute, non furono molte le possibilità di affermarsi come prima ballerina. A sedici anni era alta 1,76 e pesava soltanto 40 chili. I cinque anni di guerra avevano minato la sua salute, con asma, epatite, anemia e malnutrizione, il suo peso non andò mai oltre i 50 chili. Rinunciò alla carriera nella danza e si dedicò al teatro e al cinema.
Dopo decenni di enorme successo e di innumerevoli riconoscimenti, si occupò dell’infanzia più svantaggiata divenendo, dal 1988, una infaticabile Ambasciatrice UNICEF.
A proposito della sua prima missione, che si svolse in Etiopia, così commentò:
«Il termine «Terzo Mondo» non mi piace, perché siamo tutti parte di un mondo solo. Voglio che la gente sappia che la maggior parte degli esseri umani sta soffrendo.»
Un’altra sua frase ci riporta verso il tema delle mani: “Ricordati, se mai dovessi aver bisogno di una mano che ti aiuti, che ne troverai una alla fine del tuo braccio. Nel diventare più maturo scoprirai che hai due mani.
Una per aiutare te stesso, l’altra per aiutare gli altri”.
Quando riusciamo a migliorare le condizioni di vita, o lo stato d’animo, di qualcuno, ci sentiamo colmi di commozione, di vitalità e un’ebbrezza ci pervade, perché diciamolo: aiutare esalta.
In quei momenti è bene ricordare la frase di A. Hepburn, scaturita - credo - dalla parte iniziale della sua vita, nella quale ha affrontato la guerra, il freddo e la fame. Di quelle due mani che abbiamo in dotazione, una offriamola generosamente al nostro prossimo, ma ricordiamoci sempre di serbare l’altra per noi stessi/e. Cerchiamo, insomma, d’essere i nostri migliori aiutanti, attenti alle necessità personali, almeno a quelle più rilevanti!
CON MOLTO TATTO
Nella relazione d’aiuto capita di procedere giorno per giorno, “a mano a mano”, perché a volte arrivare a sera è già un notevole traguardo.
Poi ci sono periodi storici, ed è esperienza recente, nei quali stringere una mano diventa problematico. Così vi racconto una storia di mani che ben conoscete, per non far cadere nell’oblio il periodo della pandemia da Covid-19, per ricordare, ovvero re-cordis: riportare nel cuore e per non dimenticare, cioè far uscire dalla mente: de-mentis.
Anche a voi, allora, sarà mancata l’energia rassicurante d’una stretta di mano, o il sentire la nostra mano accolta nell’ospitale mano altrui.
Durante la pandemia abbiamo perso il contatto, la prossimità, la vicinanza, le relazioni, la spontaneità.
Ma non siamo stati/e con le «mani in mano»: con quelle mani, vuote di relazioni, abbiamo impastato in casa, spesso per la prima volta, il pane.
Fare qualcosa con quelle mani ci ha fatto sentire così, come è descritto in questa poesia di Emily Dickinson, la 61824
Ha agio l’anima
che riceve un colpo tremendo –la lunghezza della vita - le si stende davanti senza niente da fare –
Ti implora di darle un lavoro –anche solo mettere degli spilli –o il più umile rattoppo di pezze – da bambini –per aiutare le sue mani vuote –
24 Dickinson, E., Poesie, a cura di M. Bacigalupo, Milano, Mondadori, 2019, p. 343.
E questo è un gesto tipico dei momenti difficili, quelli che Simone Weil - abbiamo visto - definirebbe “sventurati”: stare con le palme delle mani rivolte verso l’alto, inutili e vuote desiderando, sopra ogni altra cosa, di poterle impegnare in un lavoro qualsiasi, per riuscire a riempirle di senso.
Dall’inizio della pandemia abbiamo avuto modo di rimanere con noi stessi/e per un lungo tempo; a mani vuote, abbiamo scoperto di noi cose che non conoscevamo, o che avevamo dimenticato…
Abbiamo imparato nuovi gesti, insegnati dalla preoccupazione, o dalla paura e quelle mani sono diventate potenziali veicoli di contagio.
Ma, passata la tempesta, abbiamo ripreso in mano la nostra socialità.
Offrendo una mano a noi stessi/e, ma anche a chi ne ha ancora più bisogno perché, come sempre, dare una mano agli altri ci aiuta a stare meglio.
Il tatto è l’unico senso che attiva la reciprocità; possiamo guardare senza esser visti, ma non possiamo toccare senza essere, a nostra volta, toccati/e.
La mano ci trascina con sé, ci espone, ci fa rischiare.
L’essere umano non può sopravvivere senza il senso del tatto.
Le carezze trasmettono malattie contagiose, ma anche germi di sentimenti.
Le mani sono la parte finale, i promontori frastagliati di due penisole: le braccia e, come tutti i promontori, offrono accoglienti approdi.
Attraverso le mani noi possiamo trasformare in azioni concrete sia i moti del cuore, che le intuizioni della mente.
Con le mani stringiamo la nostra luce interiore, le nostre speranze, in un abbraccio insieme forte e delicato.
Grazie alle mani, nell’infanzia, abbiamo conosciuto il
mondo, sperimentato e imparato; le mani sono state le nostre prime maestre.
Come scrive il poeta Carlo Betocchi: 25
Ciò che occorre è un uomo non occorre la saggezza, ciò che occorre è un uomo in spirito e verità: non un paese, non le cose, ciò che occorre è un uomo, un passo sicuro, e tanto salda la mano che porge, che tutti possano afferrarla, e camminare liberi e salvarsi.
Una mano come scialuppa, come approdo, come salvezza.
25 Betocchi, C., Dal definitivo istante: poesie scelte e inediti, a cura di G. Tabanelli, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1999, p.146.
CAPITOLO 3
MANTELLI E COPERTE
MANTELLI OFFRESI
Quanto mi piacciono i mantelli…! In viaggio avvolgersi in un mantello crea intorno a noi uno spazio protetto, morbido e caldo, così come immagino sia lo stare all’interno di una yurta, la tenda di feltro nella quale abitano i nomadi mongoli, kazaki e kirghisi. Sotto un mantello possiamo coprire anche un’altra persona, rinunciando a un po’ del nostro conforto, per condividerlo. Nell’immagine simbolica del mantello è racchiusa la metafora del gesto d’aiuto, dello slancio infinito verso qualcuno che versa in una condizione di bisogno. Ne sanno qualcosa i super eroi e le super eroine che, senza i loro mantelli, sarebbero uomini e donne qualsiasi in calzamaglia.26
Offriva parte del suo mantello san Martino di Tours.

Elemosina di S. Martino, Cattedrale di S. Martino, Lucca, inizio sec. XIII. 26 Cfr.: Lucarelli, C. (a cura di), Il mantello di carta. Eroi a fumetti in favore dei bambini gravemente malati, con illustrazioni di Maestri del fumetto contemporaneo, prefazione di Luca Raffaelli, Pordenone, Vastagamma, 2014.
Nato in Pannonia, l’odierna Ungheria, nel 316 d.c., fu chiamato Martino in onore di Marte, dio della guerra; figlio di un veterano si arruolò nell’esercito romano.
Nel novembre del 335, incontrò un mendicante infreddolito.
Tagliò con la spada il suo mantello e gliene offrì metà.
La notte seguente in sogno vide Gesù che lo elogiava - gli disse - per averlo rivestito.
Al risveglio s’accorse che il suo mantello era di nuovo intero.
Martino è, fra gli altri, il patrono degli albergatori, dei forestieri, dei mendicanti, degli osti e dei sinistrati. Insomma: di quanti cercano ospitalità e di quanti la offrono.
Il mantello che Martino tagliò in latino si chiamava pallium.
Da questa parola deriva la definizione di cure palliative che, come un mantello, coprono e proteggono le persone malate inguaribili, con sollecitudine e attenzione.
Tant’è che la Giornata Nazionale delle Cura Palliative ricorre proprio l’11 novembre, giorno di San Martino.
A Venezia, e in altre parti del Veneto, per la festa del santo, nelle vetrine di fornai e pasticceri compare un dolce che lo rappresenta a cavallo, con la spada e il mantello svolazzante. Di fronte ad una di queste vetrine - ero a Mestre - anni fa pensai che San Martino dovrebbe diventare anche il patrono dei caregiver. Quei mantelli di pasta frolla, decorati con glassa e zuccherini evocano il senso di dolcezza che ci pervade quando qualcuno/a s’accorge delle nostre necessità, della condizione di fragilità che stiamo vivendo.
Un sapore che forse non gustavamo da tempo, abituati all’amaro in bocca dei tanti rifiuti, delle molte teste che si voltano dall’altra parte.

Ma eccola: come Martino quella persona condivide con me ciò che ha: il mantello, e fa suo quel che io ho: il freddo. Anche la spada si converte e, per una volta, fa del bene.
In un’altra versione Martino divide il suo mantello a metà con il povero.
Poi, il giorno seguente, incontra un altro derelitto infreddolito e gli dona la restante parte del mantello. Così due persone hanno beneficiato della sua generosità ma ora è lui, Martino, ad essere allo scoperto.
Così Dio attenua il rigore della temperatura che, miracolosamente, si fa più mite.
È “l’estate di San Martino” che, verso l’undici novembre, riporta tepore e luce nelle giornate ormai quasi invernali. Questa versione esalta ancor di più la generosità del santo che non pensa a sé, ma è tutto proteso nell’aiuto degli altri.
Anche noi, che santi e sante non siamo, a volte diamo tutto dimenticando la frase di Hepburn, più sopra citata: “Scoprirai che hai due mani. Una per aiutare te stesso, l’altra per aiutare gli altri”.
Quante volte, donato tutto il mantello, abbiamo sperato ingenuamente di non soffrire quel freddo pungente, fuori e dentro di noi!
Non sempre l’estate ha sospeso, con il suo calore, il freddo novembrino.
Biscotti di San Martino
L’attenzione verso il nostro mezzo mantello, il preservare una delle due mani, il fare equamente a metà delle risorse disponibili, è saggezza che, come afferma Audrey Hepburn, s’acquisisce “Nel diventare più maturo”.
LA PROTEZIONE DEL MANTELLO
Altra versione del mantello è quello che possiamo ammirare nell’iconografia della Madonna del Soccorso: ampio, lungo sino ai piedi, ai due lati accoglie molte persone, a volte intere città, che trovano riparo nella protezione tessile che Maria offre loro.
La Madonna si umanizza e scende sulla terra. Maria è
Mater Omnium.
Il suo mantello è: protezione, accoglienza, mediazione…
Ne potete ammirare la versione che ne fa Piero della Francesca nel “Polittico della Misericordia”, situato nella Pinacoteca Comunale di Sansepolcro (AR).
Questa maniera di raffigurare Maria si collega a quella che, giuridicamente, veniva chiamata “la protezione del mantello” che consisteva nell’offrire un riparo inviolabile.
“Quando tra gli antichi popoli greci ed ebraici qualcuno metteva un bambino sotto il proprio mantello, dichiarava pubblicamente che questo era suo figlio.
Inoltre, tra gli ebrei, il fidanzato, come segno di protezione e sicurezza, copriva con il mantello la sua fidanzata. Questo tipo di protezione significava anche la garanzia vitale per l’adottato. La prassi si mantenne anche nel medio evo.
Nel rituale latino era usata per l’adozione di orfani o di figli nati da madri non sposate. Nel medio evo l’accusato o il profugo ottenevano diritto d’asilo se venivano messi sotto la protezione del mantello dal vescovo o dal sovrano secolare [..].
Anche San Francesco d’Assisi ottenne conferma del suo agire proprio tramite la simbologia del mantello. Dopo aver rinunciato pubblicamente alle ricchezze paterne, nel desiderio di appartenere nel futuro soltanto al Signore, egli si tolse le sue vesti davanti al vescovo. Il vescovo si alzò dalla sedia, lo abbracciò e lo coprì con il mantello che aveva indosso.”27. Così facendo lo accettò.
La Madonna del Soccorso con il suo mantello rappresenta l’aspetto indulgente, disposto al perdono del divino. Quanti trovano riparo sotto quel misericordioso indumento, non suscitano invece la benevolenza di Dio Padre che, dall’alto dei cieli, lancia loro delle frecce, ma queste andando a colpire quel mantello, si piegano come se non fosse fatto di morbido tessuto, ma di dura pietra.
Tanto forte è la misericordia di Maria!
In questa immagine non si rimanda all’aiuto offerto ad una singola persona, come fu per San Martino, ma a un soccorso reso disponibile a delle comunità. Due modi di aiutare.
L’incontro con tale raffigurazione potente per me è avvenuto in Austria, nel castello di Lienz, lo Schloss Bruck. Dove ho ammirato questa versione della Madonna del Soccorso, opera del pittore Simon von Taisten: la Schutzmantel Muttergottes del 1495, che offre riparo e piega, con la forza dell’accoglienza, le frecce dell’ira di Dio.
27 Batelja, J.- P., La Madonna della Misericordia in Istria, Ministero Affari Esteri, Atti, vol. XLIII, 2013, p. 59-87.

Con altri mantelli, molto particolari, ci si può nascondere. Come fu per la principessa di Pelle d’asino28 che, per sfuggire alle brame incestuose del padre, fugge da palazzo, coperta dalla pelle d’un certo asino, o come nella fiaba D’ogni pelo, tradotta anche con il titolo Tuttapelosa29 dove, per lo stesso sordido motivo, la principessa scappa con un mantello realizzato con un patchwork di pezzetti di pelliccia di molti animali.
Entrambi i mantelli marcano il passaggio dallo splendore della vita di corte, all’oscurità di una condizione di solitudine e di umiliazione, nella quale eclissarsi, e dalla quale, quando sarà il tempo giusto, risorgere.
Il mantello di pelo animale rappresenta la parte selvatica, istintuale, un po’ oscura che deve integrarsi con lo
28 Perrault, C., I racconti di Mamma Oca, traduzione di Carlo Collodi, Roma, L’Unità-Einaudi, 1996, pp.62-84.
29 Grimm, J. e W., Tutte le fiabe, a cura di Brunamaria Dal Lago Veneri, Roma, Newton Compton editori, 2017, pp.232-236.
Simon von Taisten, Schutzmantel Muttergottes, 1495, Schloss Bruck, Lienz
splendore dei tre vestiti, uno color dell’aria, uno color della luna, uno color del sole, che la principessa di Pelle d’Asino conserva in un bauletto in vista di tempi migliori. Collocando questi mantelli d’origine animale in un ambito simbolico, e nella tematica dell’aver cura, possiamo dire che essi ci esortano a non sacrificare le parti di noi forse meno splendenti e idealizzate, ma più vitali, istintuali e primordiali.
Non dovremmo scordarle mai, sono, tanto quanto le altre, necessarie per restare in equilibrio.
MAGHI, MAGI E UN MANTO DI STELLE
Alcuni mantelli fatati riescono a rendere invisibili coloro che li indossano.
Come il Mantello dell’Invisibilità, che Harry Potter riceve in forma anonima da Albus Silente. Appartenuto a James, padre del ragazzo, il mantello è fatto di lana di camuflone, un animale capace di rendersi invisibile, nome che rimanda al termine camouflage: camuffamento. Altrettanto prodigiosi erano i mantelli elfici descritti da Tolkien ne “Il Signore degli anelli”. Ai nove componenti della Compagnia, ospitati nel reame elfico di Lothlòrien, vengono donati dei mantelli con cappuccio, “fatti su misura, di una stoffa di seta leggera ma calda, tessuta da Galadriel”.30 Chi li indossava si poteva mimetizzare con l’ambiente circostante. Della stoffa “sarebbe stato difficile precisarne il colore: grigia, sembrava, del colore del vespero tra gli alberi; eppure muovendola, o cambiando luce, era verde come foglie ombreggiate, o marrone come di notte un campo a maggese, o argento brunito come
30 Tolkien, J.R.R., Il Signore degli anelli, traduzione di V. Alliata di Villafranca, Firenze-Milano, Giunti-Bompiani, 2017, p. 416.
acqua al lume di stelle”. 31
Tant’è che, innumerevoli volte, i nove risultarono invisibili agli occhi altrui.
Capiterà anche a voi, così come è accaduto ad altri volenterosi e valenti caregiver: desiderare che quel mantello, simbolo di dedizione, disponibilità e generosità, ci sottragga - una tantum - alla vista del mondo.
Divenire grazie ad esso invisibili oppure -potrebbe bastare- mimetizzare la nostra presenza, trasformandola in una momentanea assenza.
Non dovremmo sentirci a disagio o in colpa, nel desiderare di indossare uno di questi capi prodigiosi.
Sottrarci alla vista, alle richieste, è un buon modo per evitare di annullarci.
Meglio un segno meno, ogni tanto, che la x dell’esaurimento che ci cancella una volta per tutte. Meglio avere un mantello double-face che, molto più spesso, indosseremo sul lato A, la parte “a la San Martino” per intenderci e che, ogni tanto, va girato su quello B, ovvero sul lato elfico.
Sparire, avvolti in quella stoffa color di nebbia, ci consente di ri-apparire come per magia, ben ritemprati! Et voilà.
31 Tolkien, J.R.R., op.cit. p. 416.

Gislebertus, Il sogno dei Re Magi, prima metà del XII° sec., Cattedrale di Saint-Lazare, Autun.
Ora dal reame elfico, o dalla scuola di magia e stregoneria di Hogwarts, ci spostiamo in Francia, in Borgogna ad Autun, nella cattedrale dedicata a Saint-Lazare.
Su un capitello, ad opera dello scultore Gislebertus, è rappresentato l’episodio del sogno dei Magi. I tre Re si sono messi in cammino seguendo una stella prodigiosa dalla lunga coda luminescente. Sulla via del ritorno, un angelo li avverte in sogno di non ripassare dal crudele Re Erode che è intenzionato, grazie ai loro racconti, a trovare il Bambino Gesù per ucciderlo. Devono percorrere, si raccomanda in sogno l’angelo, una nuova via. Nel capitello, con una mano, l’angelo sveglia uno dei tre Re, con l’altra indica la stella che si è trasformata in forma di fiore. I tre dormono uno accanto all’altro e rappresentano le tre età della vita: la giovinezza, la maturità e la vecchiaia.
A scaldarli è un drappo arrotondato, un grande mantello di maglia di lana che li copre abbastanza. I tre Re sono raffigurati dotati di mantelli, e guidati dalla stella, anche a Ravenna: sia nel mosaico di Sant’Apollinare Nuovo (precedentemente tale basilica fu intitolata a S. Martino di Tours) che in quello di San Vitale dove, in piccolo, appaiono come decorazione sul bordo del mantello color porpora e oro indossato dall’imperatrice Teodora. In entrambi le raffigurazioni musive i mantelli esaltano, con morbidi e scenografici drappeggi, l’atto che i tre i stanno compiendo: offrire dei doni simbolicamente preziosi.

Tre Magi con tre mantelli che, all’occorrenza, fanno da coperte. Ad una chiamata importante - sembrano dirci i tre Re - ponetevi in cammino con quel che avete,
I tre Re Magi, Sant’Apollinare Nuovo, Ravenna, metà del VI° sec.
dividendo le risorse, mettendo in conto di dormire sul duro e di coprirvi approssimativamente.
Sì, partiamo così come siamo, senza indugi, altrimenti non saremo mai pronti.
Gli aiuti, le illuminazioni, i saggi consigli, comunque ci raggiungeranno, provenendo anche da dimensioni inusuali: sogni, stelle del cielo, fruscii di grandi ali.
Questa “magia” non si apprende in una scuola per maghetti.
Ad essa ci conduce l’attenzione alle piccole cose, l’introspezione, il silenzio, la coltivazione di sé, l’empatia, l’ardimento, il desiderio di dare una mano.
Quella stella, che luccica alla nostra finestra, che ci sorprende con la sua coda immensa, può trasformarsi in un piccolo fiore, che mette radici nel profondo. Fare esperienza come caregiver ci esorta ad uscire da noi, per poi ricondurci al nostro interno, ritrovando nelle tasche un po’ della sabbia dei deserti che, inseguendo una stella, abbiamo attraversato.
UN MANTELLO GRANDE COME UNA COPERTA
In un supermercato la mia attenzione viene catturata dal titolo di un testo, posizionato sullo scaffale dei libri: “Il mantello”, della scrittrice cilena Marcela Serrano. Il volume diventerà uno dei miei libri da comodino, quelli che rileggo, anche solo una pagina, aperta a caso.
È la cronaca di un lutto, la morte della sorella Margarita, che Marcela affronta, ritirandosi per cento giorni in una casa di campagna a scrivere, ma anche a realizzare dei collage con i pezzetti delle loro fotografie. La ricomposizione di questi frammenti la collega a Clara Sandoval, madre sia di Violeta Parra (cantautrice, studiosa della cultura popo-
lare, autrice di quadri, sculture, ricami, arazzi e collage) che del poeta, matematico e fisico Nicanor. Clara tirava avanti la famiglia, facendo la sarta e la tessitrice.
Con i resti dei manufatti realizzati per i suoi clienti, frammenti tessili, piccole pezze di consistenze diverse e di molti colori, realizzò per il figlio un mantello grande come una coperta. Quando Nicanor morì a 104 anni, il 23 gennaio 2018, la sua bara durante il funerale fu avvolta con quella coperta, per non fargli patire il freddo del Paese della Morte.
“Un involucro di pietà - lo definisce Marcela Serrano -. Tanti quadrati o rettangoli uniti tra di loro, alcuni ormai sfilacciati, scintille di colore, petardi in un giorno di festa, verdi, rossi, bianchi, stampati, marrone, viola, uno nero qui, uno rosa là, stretti gli uni agli altri […] Quali saranno stati i pensieri di Clara Sandoval mentre l’ago danzava fra le sue mani, come avrà deciso di accostare il rosa al verde, il marrone al nero, avrà vagato la sua mente in quei momenti? Neanche nelle fantasie più deliranti poteva pensare che quel mantello avrebbe finito i suoi giorni nella Cattedrale di Santiago del Cile.”32
Il lavoro del lutto, l’elaborazione di un distacco somiglia al mettere insieme tante piccole parti, porzioni di vita, che hanno bisogno di ritrovare un senso, attraverso l’ago e il filo, i ricordi, i pensieri, le riflessioni, le emozioni.
Lutto è anche smarrire il senso di sé, a seguito di una malattia, di un cambiamento della propria identità, dell’immagine riflessa in uno specchio.
Quello che fa più male, nelle esperienze di perdita, è la frammentazione.
Quello che salva è la ricomposizione, paziente, di una forma nuova, realizzata con ciò che resta; come un collage
32 Serrano, M., Il mantello, traduzione di Michela Finassi Parolo, Milano, Feltrinelli Editore, 2022, pp. 51-52.
o una coperta di toppe.
“Gracias a la vida - cantava Violeta Parra- que me ha dado tanto. Me ha dado la risa y me ha dado el llanto”. Grazie alla vita che mi ha dato tanto, mi ha dato il sorriso e mi ha dato il pianto.33

Funerale di Nicanor Parra: la coperta di Clara Sandoval.
33 Violeta Parra, Gracias a la vida, nell’album Las últimas composiciones, 1966.
COPERTE CERCASI
Nella cattedrale di Saint-Lazare abbiamo incontrato un mantello utilizzato come una coperta, per mitigare il freddo della notte.
Adoro quel momento dell’anno in cui si rende necessario un po’ di tepore in più.
Lo confesso: la mia stagione preferita è l’autunno. So che in percentuale sono più amate la primavera e l’estate, o l’inverno che porta con sé le festività del Natale e della fine d’anno. Dell’autunno amo l’affievolirsi lento dell’estate, la luce che s’ammorbidisce, le prime volte che un plaid compare sul letto… Il plaid è quella piccola coperta che parzialmente ti copre, piuttosto sei tu a doverti raggomitolare.
Con un plaid puoi scaldarti le gambe, o le spalle, mai entrambi.
Credo che quando siamo impegnati/e ad aiutare gli altri è così che ci percepiamo: un plaid, ovvero una coperta troppo corta, alla quale manca sempre un pezzo, ma dalla quale tutti pretendono una copertura al 100%.
Cosa si aspettano gli altri da noi?
Nel profilo del caregiver, o del volontario perfetto, dovrebbero rientrare: capacità organizzative, doti di empatia, resistenza a oltranza, forza fisica e delicatezza d’animo.
Lo capite… tutto questo nelle trame colorate di un plaid non ci può stare!
Quel rettangolo di morbido tessuto viene tirato rudemente, frange comprese.
Sebbene - così ci sembra - ci stiamo impegnando tanto nell’accudire l’altra persona, il nostro sforzo sembra non bastare mai.
Il nostro plaid comincia a deformarsi: tira, tira, tira non
può certo trasformarsi in una ampia coperta. Una piccola coperta può, comunque, avere i suoi estimatori.
Linus van Pelt, personaggio dei Peanuts appare per la prima volta con la sua inseparabile coperta nel 1954, avvalorando le tesi di Winnicott sull’oggetto transizionale. Ovvero quel pupazzo di peluche, quella bambola, oppure quel tessuto morbido che il bambino tiene sempre vicino a sé e che sente, e usa, come “sostituto” della figura materna, per trovare sicurezza e conforto nel corso del processo di separazione.34
Capita lo stesso a Zebrina, gatta soriana, affezionata a una coperta patchwork che una mattina viene buttata perché è molto sporca.
Zebrina la ritrova nella spazzatura. Sta per riprenderla, ma il bidone viene caricato dal camion dell’immondizia.
La gatta passerà una brutta nottata nella discarica.
Il mattino seguente riuscirà a tornare casa; la coperta verrà lavata e ricucita e sarà pronta per nuovi, lunghi pisolini.35
Così come Zebrina, anche Linus cade in vere e proprie crisi di astinenza, quando la coperta della prima infanzia viene infilata in lavatrice, per un necessario lavaggio.
Sempre di piccole dimensioni, e sempre per il lettino di un bimbo, fu la copertina che l’artista Sonia Terk Delaunay cucì nel 1911 per suo figlio Charles.
34 Una prima elaborazione in: International Journal of Psycho-Analysis, vol. 34, parte 2 (1953). Successivamente in: Winnicott, D. W., Dalla pediatria alla psicoanalisi (1958), Firenze, Giunti Psychometrics, 2017.
35 Mayne, W., Zebrina e la coperta a toppe, illustrazioni di N. Bayley, Milano, Emme Edizioni, 1981.

Sonia Terk Delaunay, copertina per il figlio Charles, 1911.
Sonia riprese la tradizione delle contadine dell’Ucraina, sua terra d’origine, che recuperavano scampoli di stoffe di risulta per creare delle coperte, così come fece in Cile Clara Sandoval.
La sua coperta è considerata il primo esempio di arte astratta: un armonioso insieme non figurativo di forme e colori. Immagino il figlio Charles che, come Linus, abbia tenuto vicino a sé, per tutta l’infanzia, quella fantasiosa creazione della madre perché: “sicurezza è una coperta e un dito in bocca” .36
Già…la sicurezza: la piccola protagonista de “Una coperta di parole”37 è costretta dalla guerra ad emigrare dal suo
36 Schulz, C. M., Sicurezza è una coperta e un dito in bocca, Milano, Baldini & Castoldi, 2002.
37 Kobald, I.,F., Una coperta di parole, illustrazioni di Freya Blackwood Milano, Mondadori, 2015.
villaggio in Africa.
Porta con sé una coperta intessuta delle parole, dei colori, delle presenze, degli oggetti, dei paesaggi della sua terra d’origine.
“Quando ero in casa - racconta - me ne stavo avvolta in una coperta di parole e suoni tutti miei. La chiamavo la mia vecchia coperta. La mia vecchia coperta era calda. Era morbida mi riparava. Lì mi sentivo al sicuro. Certe volte non volevo più uscire. Volevo solo restarmene lì, sotto la vecchia coperta per sempre”.38
Quella coperta è tondeggiante come una capanna, ha linee morbide e colori caldi. L’altra è quella che, piano, piano realizza con le parole nuove che una bambina del luogo, conosciuta ai giardini, le offre. “La sera, quando ero stesa nel letto sotto la mia vecchia coperta, bisbigliavo a bassa voce le parole nuove tante, tantissime volte. Ben presto hanno smesso di sembrarmi fredde e taglienti. Cominciavano a suonare calde e morbide. Stavo tessendo una coperta nuova”,39 fatta di forme più squadrate e di colori tenui e freddi.
Le coperte diventano due, la bambina potrà ricorrere ora all’una e ora all’altra.
Il titolo dell’opera originale è: “My Two Blankets”: “le mie due coperte”.
Nella dedica l’Autrice esorta: “Non arrendevi mai: fate diventare sempre più grande la vostra coperta”.40
La coperta, insomma, è sinonimo di protezione e di sollecitudine, tant’è che un proverbio popolare lombardo recita: “La mama l’è na cuèrta de lana”: la mamma è una coperta di lana.
E poi ammettiamolo: non si è mai troppo grandi per desiderare che ci vengano rimboccate le coperte!
38 Kobald, I., op.cit.
39 Kobald, I., op.cit.
40 Kobald, I., op.cit.
LA COPERTA DELLA DISPONIBILITÀ
In una coperta si può racchiudere tutto un mondo. Coperte e cucito sono protagonisti nel libro “Una trama di fili colorati” di Whitney Otto41, da cui è stato tratto il film: “How to make an american quilt” tradotto in italiano con il più banale titolo: “Gli anni dei ricordi”. 42
La protagonista, un’universitaria che sta scrivendo una tesi di laurea su “L’artigianato femminile nelle culture”, riceve una trapunta come dono per le sue imminenti nozze. Costituita da tanti riquadri, è realizzata con il quilting che è l’arte di cucire insieme diversi strati di tessuto e di imbottitura.
La coperta è eseguita dalle partecipanti al gruppo del “Circolo della trapunta” durante i loro incontri serali: delle autobiografie cucite.
In ogni riquadro ciascuna visualizza un episodio importante della propria vita.
Nelle trapunte, nelle coperte, ci possono stare le nostre storie.
Nel romanzo “L’ultima fuggitiva”43 il cucito è un filo conduttore della narrazione.
Due sorelle, Honor e Grace, si imbarcano a Bristol per raggiungere l’America, dove una di loro andrà sposa: due emigrate, come la piccola protagonista de “Una coperta di parole”.
E, come lei, portano i loro quilt - le trapunte - per mantenere un legame con l’Inghilterra.
Un quilt, in particolare, ha un grande valore affettivo perché è stato cucito dai componenti della comunità religiosa - quaqquera - di cui facevano parte.
41 Otto, W., Una trama di fili colorati, Milano, Frassinelli, 1996.
42 Gli anni dei ricordi, USA, regia J. Moorhouse, 1996. 120’.
43 Chevalier, T., L’ultima fuggitiva, Vicenza, Neri Pozza Editore, 2013, p.28.
Non una coperta qualsiasi ma la “trapunta degli affetti”.
Eccone la descrizione: <Donovan sollevò il coperchio e tirò fuori la trapunta degli affetti. […] “Cos’è?” domandò, incuriosito. “Non avevo mai visto una coperta scritta“.
“Quelle firme” spiegò Honor, in tono sommesso, “appartengono ai miei parenti e agli amici della mia famiglia. Me l’hanno regalata quando sono partita per venire qui, è una specie di saluto”.
Ciascun riquadro era composto da quadratini e triangoli marroni, verdi e bianco panna, con in mezzo uno spazio per la firma. […] Era semplice, una fantasia di rombi, e non particolarmente bella, perché risentiva delle diverse mani che ci avevano lavorato […], ma non sarebbe mai riuscita a separarsene: la sua gente gliel’aveva data proprio perché non si dimenticasse di loro.>
Nelle trapunte si utilizzavano tessuti recuperati da indumenti ormai lisi, dei quali si riciclavano i pezzi migliori.
Una parte dei pantaloni del papà, della gonna della mamma, del gilet del nonno, della camicia del fratello.
Queste diverse pezze, tagliate e cucite con precisione nelle trapunte, diventavano l’equivalente, tutto tessile, dell’album di fotografie della famiglia.
Con un gioco di parole, potremmo dire che nelle toppe c’erano le tappe delle vite dei suoi componenti.
Nella coperta quilt, che raffigura momenti importanti nelle esistenze delle protagoniste de “Gli anni dei ricordi”, e nella trapunta degli affetti donata a Honor ne “L’ultima fuggitiva”, possiamo rintracciare una valida alternativa a quel plaid troppo esiguo, a quel tirare in qua e in là una coperta troppo corta.
Vi spiego, secondo me, perché. Assistere qualcuno/a, perché siamo care-giver familiari, oppure dei volontari, non è un’impresa che si può affrontare da soli/e, per
portarla avanti c’è bisogno che intorno a noi ci sia una comunità, grande o piccola.
Non funziona se penso di poter fare tutto da solo/a, e se gli altri si limitano a chiedere, pretendere, esigere, giudicare…
Come nelle coperte quilt ciascuno faccia il suo riquadro, riferendosi alla propria storia, mettendoci la firma.
Come nella trapunta realizzata per Honor al centro ci sarà il nostro nome, insieme con quello dalla persona che stiamo aiutando.
Ma, tutt’intorno, ci sia spazio per le stoffe degli altri.
Che offriranno il loro sostegno e la loro disponibilità, allargando sui quattro lati il mio plaid, perché si trasformi in una grande coperta.
Abbiamo bisogno di cucire insieme, non di tirare, e tirare, e tirare finché non si strappa.
Perché nessuno salva nessuno da solo/a e una coperta patchwork, tutta colorata, è più bella - non trovate? - di un plaid monocromo.
Io la chiamo “la coperta della disponibilità”.
E carezzandola mi - e vi - pongo tre domande: di quanto posso allargarne i bordi prima di renderla di dimensione extralarge?
come preservarne - sempre e comunque - una parte centrale, una zona di rispetto di sé?
cosa fare per non arrivare a piegarla stretta, stretta per poi riporla nel cassetto del burn-out?
Su mantelli e coperte, sulle varie ed eventuali dell’essere caregiver, ci siamo incontrati con un gruppo, grazie all’arte terapia tessile, nell’ottobre del 2022, presso la sede del CESVOL-Perugia, per due pomeriggi, nell’ambito del Festival della Psicologia, attivato ogni anno dall’Ordine degli Psicologi della Regione dell’Umbria.
In quell’occasione abbiamo condiviso una prima, parziale versione di questo libro e creato i nostri mantelli e le nostre coperte. Che bei momenti!

Psicologia Umbria FestivalCESVOL Perugia, 5-6 ottobre, 2022.
CAPITOLO 4
VOLONTARIA/MENTE
IL CLUB EROICO
Chi ha vissuto l’esperienza del prendersi cura di un altro, o degli altri, guarda poi alle cose della vita, agli affanni e alle incombenze del quotidiano, con sguardo un po’ distante, relativizzando tante complicazioni che, a quel punto, appaiono di ben poco conto.
Tra di loro gli eroi e le eroine dell’assistenza si riconoscono con una occhiata, sentono e sanno d’appartenere a un club, a un gruppo a sé.
Sono quelli e quelle che si sono ritrovati, per caso o per scelta, ad andare oltre il noto verso l’ignoto, scoprendo di sé energie, profondità, attitudini impensate e inimmaginabili. Aiutare gli altri ci mette a confronto con la nostra autenticità, come in ogni impresa eroica che si rispetti, e ci pone due domande: di cosa sono fatti gli eroi e le eroine dell’assistenza?
Quali possono essere le qualità richieste a chi si occupa della cura dell’altro?
Così come accade per i veri eroi, e per le vere eroine, qui non si tratta di esibizioni muscolari, di ostentazioni del proprio Io, tutt’altro…
Erasmo da Rotterdam scrive in “Dolce è la guerra per chi non la fa”,44 che nella fragilità del corpo umano vi è l’invocazione alla cura: “La natura ha inoltre voluto che l’uomo fosse creditore dei benefici della vita non tanto a se stesso, quanto alla benevolenza”45 degli altri, poiché “solo
44 Erasmo da Rotterdam, Contro la guerra (Querela Pacis-Dulce bellum inexpertis), a cura di F. Gaeta, L’Aquila, L.U. Japadre Editore, 1992, p.127.
45 Erasmo da Rotterdam, op. cit., p.126.
l’uomo è stato creato nudo, debole, morbido, inerme, con una carne morbida e una pelle liscia, […] soltanto l’uomo viene alla vita in tale condizione da dover per lungo tempo dipendere dall’aiuto degli altri”.46
L’im-potenza evoca, in chi assiste, la bene-volenza.
La sofferenza sbaraglia la tronfia presunzione dell’Io.
Colui, o colei, che si ritrova ad essere im-potente, va indietro nel tempo e torna ad essere in-fante.
Cosa fare, allora? Ce lo spiega Simone Weil: “La pienezza dell’amore per il prossimo è semplicemente la capacità di domandargli <Quale è il tuo tormento?>”.47
Sulle fatiche connesse all’immedesimazione nei problemi altrui, mi ha affascinato un silent book, un libro senza parole, solo di immagini, dal titolo “Il Signor Scaccialacrime”,48 dedicato a “Tutti coloro che hanno bisogno di un abbraccio”.
Il Signor Scaccialacrime è tondeggiante e morbido.
Lo vediamo uscire di casa con una valigetta, prendere il tram e arrivare in un ufficio, dove ci sono: una sedia, un tavolino e un telefono vecchio stile, con il filo.
Il suo lavoro è rispondere a quel telefono, e poi incontrare persone che hanno bisogno di aiuto.
Piangono, lui le abbraccia e, mano a mano, il color azzurro delle loro lacrime comincia a riempirlo, e il filo del telefono si fa sempre più aggrovigliato.
L’ultimo contatto è molto doloroso: una persona anziana colpita da un lutto.
Il Signor Scaccialacrime ormai è completamente azzurro, pieno del dolore che ha accumulato e, quando torna alla sua scrivania, scoppia in lacrime.
È l’ora di andare a casa, di riprendere il tram.
Strada facendo l’azzurro del pianto pian piano si attenua.
46 Erasmo da Rotterdam, op.cit., p.126.
47 Weil, S., Attesa di Dio, Milano, Adelphi Edizioni, 2008, p.200.
48 Jian, Y., Il Signor Scaccialacrime, Milano, Carthusia Edizioni, 2022.
Scompare del tutto quando la porta s’apre e la Signora Scaccialacrime lo accoglie con un abbraccio.

Il Signor Scaccialacrime, illustrazione di Yao Jian.
TANTE
STORIE
La vicenda del Signor Scaccialacrime ha meritato un albo illustrato, un silent book tutto per sé. Ma quanto sono interessanti tutte le storie di chi offre aiuto?
Ciascuna meriterebbe d’essere raccontata, con immagini, poesie, riflessioni, perché, come titola il libro di Erving
Polster: “Ogni vita merita un romanzo”.49
Capire che le vicende della nostra vita sono avvincenti e significative, così come quelle narrate nei romanzi, offre una possibilità di trasformazione e di guarigione.
In ogni esistenza si celano, come in un cofanetto, dei preziosi tesori.
Fra questi la motivazione all’aiuto, che compie dei giri complessi, per poi far attecchire la sua radice nella parte più fertile di noi.
Immaginate ora di avere questi scrigni, cofanetti o forzieri innanzi a voi, con accanto le piccole chiavi che ne consentono l’apertura.
Come resistere? Dai, apriamoli!
All’interno non contengono gioielli o dobloni d’oro, ma fogli e cartigli.
Li condivido con voi… Da ogni testimonianza è distillata una parola speciale, in ciascuna si narra l’aspetto esaltante ma, a volte, anche faticoso dell’offrirsi in aiuto.
Apro per primo il cofanetto di Giusi: la sua parola “magica”, scritta su un foglietto ripiegato in quattro è:
49 Polster, E., Ogni vita merita un romanzo. Quando raccontarsi è terapia, Roma, Casa Editrice Astrolabio, 1988.
MOTIVAZIONE
Vi piace? Mi sembra un buon inizio… Deriva dal latino motus e significa muoversi verso, andare incontro a: la motivazione è quel che muove verso qualcosa. Giusi, già da molto tempo, aveva l’intenzione di fare volontariato in carcere, sinché nel 2008 seguì un corso per volontari penitenziari. Leggo sul foglietto: “Cerco di dare il mio tempo (mai quanto vorrei) e le mie competenze per attività che possano coinvolgere i detenuti e migliorare la qualità della loro permanenza in carcere. Ricevo tanta soddisfazione; i risultati più belli si raggiungono quando si riesce a creare un clima di collaborazione, anche con l’amministrazione, gli agenti e gli educatori. Ho vissuto momenti nei quali gli ergastolani si sciolgono in lacrime e gli agenti e gli educatori si raccontano, insieme ai volontari e ai detenuti. A volte ci si stanca (soprattutto con gli ostacoli burocratici), ma sapere di scambiare una stretta di mano, di far scaturire un sorriso, di aiutare nello studio, di far capire che tutti possono sbagliare (a volte non per scelta), ripaga di tanti sacrifici.
Questo rinforza la mia motivazione e la voglia di tornare, perché il contatto con le persone è più forte del rumore dei cancelli che ti si chiudono alle spalle”.
Accanto al cofanetto di Giusi trovo quello di Caterina che, come lei, fa parte dell’associazione LiberaMente di Cosenza.
All’interno trovo un foglio di quaderno. E la parola scritta in grande è:
GRATUITÀ
Caterina è volontaria in un carcere minorile e chi incontra, come quel foglio strappato via, si è distaccato dalla realtà propria della sua età, facendo esperienze da adulti, ma sbagliate. “A loro -scrive Caterina- dono la mia costanza, il mio tempo, il mio sentimento di equità, il mio nongiudizio.
In cambio ricevo: orizzonti allargati e crescita in tutti i sensi. Se devo fare un bilancio di quest’esperienza d’aiuto, ringrazio la vita per avermi donato l’incontro con il volontariato. Mi ha dato la possibilità di poter esprimere me stessa, quella parte che rischiava di restare silente, in un mondo fatto solo di scambi retributivi precisi e calcolati”. In una realtà che ha un prezzo per ogni cosa, Caterina rivendica la gratuità, che deriva dalle parole latine gratuitus e gratia.
Ovvero: favore, grazia, benevolenza, un qualcosa dato o fatto senza aspettarsi un compenso, per mera bontà, l’avvicinarsi agli altri, non in modo strumentale, per averne un vantaggio, ma per altruismo.
I prossimi due cofanetti ci fanno spostare dal Sud al Centro Italia, in Umbria.
Ecco quello di Paola: giro la chiave e apro. All’interno trovo un foglietto arrotolato, chiuso con un nastrino rosso, con una parola scritta sopra:
EMPATIA
Che sta a significare mettersi nei panni dell’altra persona, offrire la propria attenzione, ponendosi in secondo piano. Il termine origina dal greco antico empátheia, composta da en- “dentro”, e pathos “sofferenza o sentimento”, parola usata durante gli spettacoli teatrali per indicare la
partecipazione emotiva fra autore e pubblico.
Paola è impegnata nell’associazione di volontariato ARONC, che si occupa di persone in cura con la radioterapia.
Di sé offre l’empatia, la “mano calda”. Così lo spiega: “Quando un muscolo è contratto, un poco di calore lo decontrae e offre sollievo.
Questo “calore” può essere espresso in un contatto sia fisico che psicologico, sempre nel rispetto delle persone alle quali è destinato”.
Offrendo quella mano Paola riceve “ciò che vedo negli occhi delle persone che ho seguito: un briciolo di luce e gratitudine. Certo… momenti di sconforto e di esaurimento sono possibili nello svolgere questo delicato ruolo, soprattutto quando si ha che fare con persone immerse nel dolore e nella rabbia. Non posso risolvere tutti i problemi e, con molta umiltà, accetto il mio limite.
Vedere persone d’ogni età messe duramente alla prova dalla vita, vedere il loro coraggio o la loro rabbia, mi permette di ridimensionare la mia stessa vita; attribuisco più valore alle piccole cose e apprezzo ciò che ho, cerco di porgermi con più pazienza e umiltà verso gli altri. Il volontariato è un valido strumento per migliorarsi.”
Il prossimo cofanetto è più grande degli altri, perché deve contenere molti tesori.
Sollevo il coperchio e trovo un cartiglio che sembra una onorificenza.
La parola, scritta in oro, è:
ALTRUISMO
Parola che deriva dal latino alter, altro, e indica il comportamento finalizzato a procurare del bene alle altre persone.
Secondo uno studio del 201150 della Hebrew University di Gerusalemme, gli esseri umani possiedono uno specifico “gene dell’altruismo” che regola un ormone nel nostro cervello, attraverso il quale ad ogni gesto altruistico si sollecita una sensazione di benessere fisico e di gioia. Il comportamento altruistico stimola la produzione di serotonina, ossitocina e endorfine, i così detti “ormoni della felicità”.
Se i risultati di questi studi sono attendibili, allora capiamo meglio la scelta di Ivonne che fa volontariato da 50 anni. Aveva tra i 20 e i 25 anni, quando cominciò ad attivarsi. Da allora ha prestato il suo aiuto a diverse associazioni. Come docente si è avvicinata a varie attività di volontariato, di solidarietà, di prevenzione, di salvaguardia ambientale e di legalità.
Un impegno instancabile: “Il volontariato è diventato parte integrante della mia vita e del mio essere, gli ho dedicato parecchio del mio tempo libero. Si dà molto, è vero, ma si riceve altrettanto: soddisfazione, pace e serenità con se stessi e con gli altri.
La condivisione ti fa percepire realizzata, utile, attiva.
Può capitare in alcuni momenti di sentirti scarica, anche se mai demotivata, ma basta poco per ricominciare, evocare un volto, un ricordo per riprendere. L’esperienza nel volontariato non toglie nulla al resto della mia vita, anzi la arricchisce, la stimola, la rende particolare.
Oggi non saprei immaginare la mia esistenza senza il volontariato; buona parte dei miei ricordi sono legati a fatti, persone, esperienze inerenti al mio essere volontaria. Una vita piena e ben spesa.”
I prossimi due cofanetti custodiscono preziose esperienze, che nascono e si sviluppano nel Nord del nostro Paese.
50 Avinun, R., Israel, S., Shalev, I., Gritsenko, I., Bornstein, G., Ebstein, R. P., & Knafo, A. (2011). AVPR1A variant associated with preschoolers’ lower altruistic behavior.
Ne apro uno molto particolare, ricoperto di stoffa tessuta a telaio, al suo interno trovo un cartoncino con una parola scritta sia in nero, che con l’alfabeto Braille:
VISIONE
Il termine deriva da un verbo del greco antico: εἰδέναι, che significa vedere e ha la stessa radice (ἰδ) della parola εἶδον: idea.
Pensare e vedere, idea e visione sono collegati strettamente. Il nostro mondo ha bisogno di persone idealiste e visionarie.
Per essere luminosi come un faro, non è necessario vederci bene.
Ne sa qualcosa Onoria pedagogista e orientatrice dell’Università degli Studi di Milano, che così si racconta: “Ho una visione: vedo una comunità nella quale ci si sostiene, adulti e bambini, adolescenti e anziani, tante provenienze ma un’unica umanità.
Nella mia zona, Niguarda a Milano, dirigo un coro perché credo che cantare insieme aiuti ad accordare le voci, e anche ad andare d’accordo.
Sono l’animatrice della mia comunità, metto tutta la mia anima negli incontri e nelle relazioni. Come una tessitrice, creo un ordito ampio e stabile, dove ognuno ci può inserire i propri fili: le trame colorate della propria esistenza. Perché siamo necessari, tutti e tutte.
Se qualcuno manca, o non viene incluso, nella trama si crea una smagliatura e il tessuto è meno bello.
E, sebbene i miei occhi non vedano più tanto bene, la mia visione della vita stra-vede e illumina nel buio strade e piazze della mia zona, come una stella lucente.” 51
51 Luciani, T. Che Forza!, illustrazioni di Bimba Landmann, Milano, Carthusia Edizioni, 2021.
Ecco perché il cofanetto di Onoria è ricoperto di una stoffa realizzata al telaio: un omaggio alla sua abilità di tessitrice del sociale!
“In queste esperienze -spiega- offro di me tutte le mie passioni come cantare, giocare, leggere, ballare. La vita è un dono. Io offro al volontariato tutte le mie passioni, e ricevo amicizia e condivisione.”

Onoria Neri, illustrazione di Bimba Landmann.
Ed ecco… sono di fronte all’ultimo cofanetto. Impossibile non notarlo, ricoperto di colori caldi dati con pennellate vigorose.
Lo apro piena di curiosità. La parola che trovo al suo interno è scritta su un pezzo di carta marrone, di quella che si usa per confezionare un pacco da inviare via posta:
CITTADINANZA
Ottenere la cittadinanza nel paese d’arrivo è il sogno di ogni migrante, perché significa sancire l’appartenenza a quello Stato. Ma esiste una cittadinanza che oltrepassa confini e dogane, e deriva, semplicemente dal far parte di un genere, quello umano.
Questo dato di fatto dovrebbe accendere, nel buio dell’indifferenza, le luci del rispetto, della solidarietà, delle opportunità.
Il cofanetto racchiude un’esperienza di volontariato che si è svolta nei pressi di un confine di Stato, su al Nord.
Ce la racconta Monica che vive a Grimaldi (IM), tra Italia e Francia, è professoressa di “Arte e Immagine” alle scuole medie e arte terapeuta, iscritta all’ Associazione Professionale Italiana degli Arte terapeuti e alla Federazione Europea di Arte terapia.
“Era l’11 giugno 2015 quando un gruppo di migranti, per resistere a uno sgombero, trova rifugio sulle rocce dei “Balzi Rossi”, al confine tra Italia e Francia, per evitare l’identificazione e continuare a lottare per la propria libertà e dignità.
La situazione drammatica vissuta da molti migranti, di cui sono stata testimone, mi ha spinto ad aiutarli ascoltando le loro storie, ricostruendo la loro fiducia e la loro identità attraverso l’Arte terapia, prima direttamente sugli scogli al confine, poi presso il Seminario Vescovile
di Bordighera con la Caritas e infine presso la “Croce Rossa” di Ventimiglia. Attraverso questa esperienza molti migranti hanno avuto la possibilità di esprimere ciò che hanno vissuto, compresi i loro traumi psicologici. 52
Nella scuola dove insegno ho invitato sei giovani migranti, per lavorare insieme ai miei studenti sull’interazione/ integrazione e, successivamente, sul superamento delle paure53 .
Questa esperienza di volontariato mi ha arricchita tantissimo: ho imparato tanto dai migranti! Ho scoperto alcune loro tradizioni e mi sono resa conto del grande valore che danno al vivere in comunità, dove ci si aiuta e si condivide tutto!
Non esiste egoismo! Poi il valore del tempo rallentato, che a volte a noi Europei può dar fastidio visto che siamo abituati a correre continuamente. Il volontariato -pratica di cittadinanza solidale- ti ripaga e ti dà tantissimo! Tutti dovrebbero farne esperienza, almeno una volta nella vita. ”54
52 Cfr. Di Rocco, M., Arteterapia. Un viaggio creativo con i migranti alla frontiera del Ponente ligure. Pratiche e resoconto di un’esperienza, Genova, Edizioni De Ferrari, 2018.
53 Cfr. il video Oltre le paure, youtube https://youtu.be/BRapnZ1reN4.
54 Per queste preziose testimonianze si ringraziano: Giusi Ielitro, Caterina Luci, Paola Castellani, Ivonne Fuschiotto, Onoria Neri, Monica Di Rocco.
DA SCATOLA A SCRIGNO

Provate a realizzare il vostro cofanetto. Basta una scatola, anche una di quelle da scarpe. Rendetela preziosa, fuori e dentro. All’interno potete incollate dei piccoli oggetti o delle immagini che evochino l’ambito del vostro impegno come volontari/e. Anche dei ritagli di immagini tratte da riviste, possono andar bene.
Sia l’assemblage (che è tridimensionale), che il collage contribuiscono a trasformare poeticamente un umile oggetto d’uso quotidiano.
Poi scrivete il vostro foglio, un cartiglio oppure una pagina colorata, in cui la personale motivazione al volontariato verrà esplicitata.
Vi può essere d’aiuto, nel ripensarla, seguire questa traccia:
1) Da quanto tempo fai volontariato?
2) Come hai cominciato?
3) Cosa dai di te in questa esperienza?
4) Cosa ricevi in questa esperienza?
5) Hai momenti di esaurimento delle energie o della motivazione?
6) Come le ricarichi?
7) Prova a fare un bilancio di questa tua esperienza d’aiuto alle altre persone…
Poi, però, quando scriverete il vostro testo, con parole più evocative che esplicative; dimenticate la traccia e procedete liberamente.
Senza bussola s’arriva più lontano…
TROPPO CALDO, TROPPO FREDDO…
Aiutare le altre persone ci “illumina di immenso”, come nella poesia intitolata “Mattina”, scritta da Giuseppe Ungaretti il 27 gennaio 1917, mentre era militare sul fronte del Carso, durante la prima guerra mondiale.
Una parte di noi è nell’ombra, tanto quanto l’altra è rischiarata dal sole.
Una parte, quella oscura, è rivolta verso la fatica, il disstress, l’esaurimento psico-fisico, il burnout, parola inglese che ha a che fare con il bruciare e il bruciarsi.
Un processo di deterioramento di sé, che riguarda chi è impegnato nelle relazioni di cura e i caregiver.
Il burnout si vede: portiamo i segni della fatica, le rughe della preoccupazione, di certe notti insonni, del senso di impotenza, del non riuscire sempre a “salvare” l’altro, del dover a volte lasciarlo andare nella malattia, nell’assenza, nella morte.
L’eroe e l’eroina dell’assistenza non sempre vincono, non sempre riescono a trarre in salvo l’altro e devono lasciare la sua mano, vedendolo precipitare in un baratro, in un ignoto altrove.
Forse non vi è prova più terribile, più eroica, che perdere invece che, trionfalmente, sempre vincere.
Nel corso degli anni ho lavorato con molti gruppi di operatori sociali, socio sanitari, infermieri, caregivers, volontari sul burnout.
Se assistendo qualcuno mi colloco nell’eccesso di luce dell’idealismo, ci sta che debba poi ritrovarmi nel buio della depressione.
Così, se offrendo aiuto il mio cuore si scalderà al calore dell’empatia, di contro, sperimenterò il freddo dell’indifferenza, facendomi “di gelo”.
Ma chi sono gli eroi e le eroine colpiti dal burnout?
Quelli che svolgono le professioni d’aiuto; quanti entrano continuamente in contatto con persone che vivono stati di disagio o sofferenza; i caregivers di persone in condizione di fragilità; chi opera in ambiti sociali e sanitari: medici, psicologi, assistenti sociali, insegnanti, orientatori al lavoro, fisioterapisti, operatrici dei centri anti-violenza, assistenti sociali e sanitari, infermieri, guide spirituali, volontari; quelli/e che si occupano della gestione quotidiana dei problemi delle persone in difficoltà.
Sappiamo che il processo del burnout si sviluppa in quattro fasi: la prima è quella dell’entusiasmo idealistico, che spinge la persona a scegliere un lavoro, o un impegno nel volontariato, di tipo assistenziale; nella seconda fase la persona inizia a rendersi conto di come le sue aspettative non coincidano con la realtà. L’entusiasmo, l’interesse, il senso di gratificazione iniziano a diminuire; nella terza fase sorgono sentimenti di inutilità, inadeguatezza, insoddisfazione, si mettono in atto comportamenti di fuga, atteggiamenti aggressivi verso gli altri o verso se stesso/a; infine, nella quarta fase, l’interesse e la passione per l’attività si spengono completamente e all’empatia subentra l’indifferenza, fino ad un vero e proprio esaurimento della motivazione iniziale.
Posso sintetizzare queste fasi con tre coppie di immagini simboliche che evocano la sensazione che “quando è troppo è troppo”, che vivere esperienze in modo eccessivamente unilaterale ci candida a una sopravalutazione delle nostre possibilità.
Se vado troppo nella luminosità, nell’ideale del mio Io, mi candido a ritrovarmi nel buio dell’Ombra.
Se punto troppo in alto, precipiterò molto in basso. Come Icaro, mi fiderò di ali tenute insieme con la cera.
Quando sarò in alto, troppo vicino al calore del sole, alla ipervalutazione delle mie forze, quelle ali si disfaceranno e io precipiterò sulla terra.
Se sono avvolto/a dal calore del coinvolgimento emotivo il mio cuore rischia, per reazione di ghiacciarsi.
Una serie di coppie d’opposti, pervase da una estrema tensione:
Troppa luce Troppo buio
Troppo in alto Troppo in basso
Troppo caldo Troppo freddo
Con l’esperienza impariamo che è unicamente con i nostri limiti, le nostre cicatrici, la nostra fragilità, che possiamo metterci al servizio degli altri.
Non con quello che reputiamo di valere, non con quello che crediamo di sapere, ma piuttosto con ciò che, mano a mano scopriamo di essere.
UN GRUPPO SUL BURNOUT
Delle varie esperienze di sostegno e di elaborazione terapeutica svolte in questo ambito, ne scelgo una del 2018, che mi ha vista impegnata a Perugia presso la sede del CESVOL, Centro Servizi per il Volontariato, in quattro incontri più uno di feed back. Il gruppo, molto numeroso, circa 25/30 persone, era composto da: operatori sociali, o.s.s., arti terapeuti in formazione, operatori del benessere, volontari in servizio sulle ambulanze e nelle corsie degli ospedali, caregiver familiari, psicologi.
Ecco la locandina: il titolo “Di che colore è il burnout?” faceva capire che non sarebbero stati incontri teorici. Il sottotitolo esplicativo: “Esternare il burnout attraverso l’arteterapia”, fugava ogni dubbio in proposito.

Cerco ora di farvi provare qualcosa di quella esperienza.
CON LE MANI
Abbiamo incominciato, nel primo incontro, da un modo di dire: “Dare una mano”.
Sappiamo che le funzioni della mano si possono classificare in: strumentale espressiva relazionale 55
Nell’aiuto alle altre persone tutte e tre le funzioni sono coinvolte.
Quindi, per prima cosa, seguiamo il contorno delle nostre mani, colorandole e dando un titolo all’immagine; cominciamo così a contattare le qualità del nostro “dare una mano”.
Con le mani entriamo in un contatto profondo, tant’è che “i numerosi aggettivi che qualificano il tatto, vengono utilizzati per individuare, anche nel linguaggio più banale, i diversi modi di avere rapporti con gli altri.
Duro, molle, liscio, glaciale, freddo, tiepido, caldo, bollente, ecc. indicano […] le gioie e i dolori dell’incontro. […] Così si parla di parole glaciali, di sguardi duri, di propositi brucianti o di conversazioni tiepide”. 56
55 Cfr. Calmy-Guyot, G., Pedagogia della mano. Una ricerca sull’uso della mano nel rapporto educativo, Firenze, Guaraldi, 1977.
56 Brun, J., Prendre et Comprendre, Paris, PUF, 1963. Citato e tradotto in: Le mani guardano, catalogo della mostra, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma Valle Giulia, 24 settembre-2 novembre 1980, p.27.
IN VIAGGIO VERSO TE
Eccoci al secondo incontro. Sullo sfondo di questo appuntamento c’è la geografia dei mondi interiori, ovvero: paesaggi dell’anima, atlanti delle emozioni, smarrirsi e ritrovarsi andando verso l’altro/a, verso il suo bisogno di aiuto.
In una lettera del 1819, il poeta John Keats scrisse: “Chiamiamo per favore il mondo la “valle dell’anima”, la valle che fa l’anima. Vedrete allora a che serve il mondo”. 57
I paesi inventati sembrano più veri di quelli autentici.
A partire dal 1654, quando la scrittrice Madeleine de Scudéry, inserì in un suo libro la “Carte du Pays de Tendre”, la mappa del Paese della Tenerezza, ma anche in tanta letteratura per l’infanzia e l’adolescenza, nella filosofia o nei romanzi fantasy .58
Mondi interni che segnano il nostro limite e il punto di contatto con i mondi degli altri.
Perché, come scrisse la poetessa Emily Dickinson (1354)
Il cuore è la capitale della menteLa mente è uno stato singolocuore e mente insieme compongono un singolo continenteLa popolazione è unonumerosa quanto bastaquesta nazione estatica cercala - sei tu.59
57 Keats, J., Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Nadia Fusini, Milano, Mondadori, 2019, p.1180.
58 Cfr. Guadalupi, G., Manguel, A., Manuale dei luoghi fantastici, Illustrazioni di Graham Greenfield, mappe e carte di James Cook, Milano, Rizzoli, 1982.
59 Dickinson, E., op.cit, pp.590-593.
Avvicinarsi alla sofferenza di un’altra persona somiglia davvero all’inoltrarsi in un paese sconosciuto, dove il paesaggio racconta la fatica e le gioie della relazione d’aiuto. Nelle mappe dei paesi inventati, dai e dalle componenti del gruppo, i riferimenti geografici rimandano alle emozioni e ai sentimenti tipici dell’essere di aiuto a qualcuno/a: il Monte della Disperazione, i Sentieri del Cuore, il Bosco della Quiete, la Collina della Sincerità, la Montagna del Grido, l’Albero dell’Accoglienza, …
UN LIBRO HOT
Nel terzo incontro realizziamo un libro per raccontare come il calore dell’affetto offerto nelle relazioni d’aiuto, a volte può diventare bruciante per noi e per l’altra persona. A disposizione ci sono: ritagli di carte dai toni caldi, immagini, piccoli materiali di recupero. Insomma –chiedo- cosa resta dopo tanto impegno, tanta energia, tanta emozione? Alcuni/e partecipanti riempiono le pagine dei loro libri di materiali e colori, che stanno a simboleggiare logoramento e svuotamento. Le parole scritte sono terribili: dolore, melma, paura, confusione, buio, vortice, sprofondare. Campeggiano su sfondi dai colori caldi e, questo contrasto, le rende ancora più desolanti.
AL FREDDO E AL GELO
E poi ci si fa di gelo… Siamo nel mondo sotto zero del quarto incontro. Per definirsi, conservarsi, difendersi, anestetizzarsi, la freddezza della ragione ruba il posto al calore del sentimento. Abbiamo a disposizione delle scatole e dei
materiali dai colori e dalle consistenze freddi. Siamo nel regno della Regina della Neve, dall’omonima favola di H.C. Andersen, quella che passa veloce con la sua slitta, rapisce e porta nel suo castello di ghiaccio il piccolo Kay, rendendolo un bambino insensibile, arido e freddo. 60. Una partecipante al gruppo, lavoratrice nel campo dell’assistenza, giustamente teme il burnout, che destabilizzerebbe la sua vita lavorativa, personale e familiare. Intitola la sua scatola “Benvenuti al Polo Nord”, ma davvero non si augura di visitarne le fredde vastità.
COS’È L’ATTENZIONE
Eccoci giunti al finale, al quinto incontro, in cui è bello condividere la restituzione, il feedback. Dopo aver rivisto insieme tutte le opere realizzate, al termine dell’appuntamento abbiamo scritto le questioni aperte, in forma di domande, su un grande foglio.
Eccole:
Come possiamo aiutare?
Cosa è veramente utile?
Perché aiutare?
Quanto siamo disposti a dare?
A che cosa siamo veramente attaccati?
Quali sono i nostri sentimenti rispetto al ruolo che l’aiuto ha nella nostra vita?
Dalle risposte che il gruppo ha dato, dalle parole che sono state dette e scritte, io ho capito che: l’aiuto è la risposta istintiva di ogni essere umano aperto, disponibile;
60 Andersen, H.C., Fiabe, traduzione di Ada Manghi e Marcella Rinaldi, prefazione di Knud Ferlov, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1954, pp.199225.
nell’attenzione per un altro riusciamo a scoprire una parte essenziale di noi; la richiesta di aiuto ci ricorda chi siamo veramente, e che cosa abbiamo da offrirci l’uno all’altro; l’aiuto nasce dalla fiducia in noi stessi e negli altri; troppo spesso, purtroppo, c’è autocompiacimento, indifferenza, avarizia; viviamo nell’ambivalenza: generosità e resistenza, disponibilità al sacrificio e auto protezione; può essere difficile affrontare la sofferenza degli altri, perché non sappiamo come gestire la nostra paura e la nostra sofferenza; per essere il più possibile utili agli altri dobbiamo affrontare dubbi, bisogni, resistenze: i nostri ostacoli; possiamo, con delicatezza e con determinazione, portarli alla luce per cercare di comprenderli; possiamo aiutare noi stessi ad aiutare gli altri, sviluppando l’attenzione nei loro confronti.
Su questa parola ecco il contributo di Simone Weil. Poche, preziosissime parole: “L’attenzione è la forma più rara e più pura della generosità”.61
61Weil, S., Lettera a Joë Bousquet del 13 aprile 1942, in Simone Weil, Joë Bousquet, Corrispondenza, Milano, SE, pp.13-14.
CAPITOLO 5
RITROVERE IL FILO, INSIEME
“LA SAPIENZA DEL GOMITOLO”62
Alcune estati fa ero in montagna, nella Val Pusteria, nel paesino in cui da trenta anni vado in vacanza. È domenica e l’unico negozio è chiuso. Peccato, penso, avrei voluto comprare il giornale. Ma poi noto qualcosa nei pressi: svariati quotidiani infilati ciascuno in una busta di plastica trasparente e, accanto, una cassettina per riporre l’importo dell’acquisto. Facendo scivolare le monete nella fessura provai un senso di benessere: la fiducia genera fiducia. Comportarsi come se il mondo fosse migliore, può rigenerare in noi quel bene che sembra perduto.
Piccoli gesti che hanno una grande valenza. Eccomi di domenica a St. Martin, sfilo l’unico quotidiano in lingua italiana presente: l’ “Avvenire”.
E vi trovo un articolo che mi colpisce perché nel titolo stesso contiene qualcosa di tessile, non un mantello, non una coperta ma un gomitolo. E così comincia, con una citazione: “<Per i seguaci di storture, non t’inquietare, i fabbricanti di falsità non invidiare… Se in qualcuno vedi la via storta riuscire, non ti indignare> (Salmo 37, 1-7)”.
Siamo - scrive l’autore dell’articolo - dentro uno scenario di tentazione. Quella dei giusti, poveri a causa della loro giustizia, circondati da empi che ottengono successo e ricchezza. […] A volte ci sbagliamo, ci crediamo più giusti di quanto siamo realmente. Altre volte invece non ci sbagliamo.” In quei momenti possiamo pensare che chi sbaglia è la vita, o, per chi crede, chi si sbaglia è Dio.
62 Luigino Bruni, La sapienza del gomitolo, Avvenire.it, domenica 28 giugno, 2020. https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/bruni-la-sapienzadel gomitolo.
È in quei momenti, proprio quando è così difficile farlo, che ciò che conta è restare “innocenti”. Che non significa incontaminati, o senza consapevolezza delle ombre, ma vuol dire “restare attaccati per tutta la vita a quella fedecorda cui ci siamo legati nel tempo della giovinezza”, che può essere fede religiosa oppure fede laica riposta in un ideale di umanità.
Restare fedeli a se stessi, a se stesse, significa preferire “essere falliti da giusti che vincenti da empi”.
Smarcarsi da una divisione del genere umano in winner = vincitori e looser = perdenti. Riconoscere - e riconoscersi - nel corso della vita maggiore o minore vicinanza alla propria e alla altrui umanità.
Non aver mollato quell’umile corda - altro elemento tessile - “nelle sterzate e nelle scivolate”, averla preferita “alle seggiovie che promettevano scalate più facili, veloci e spettacolari. L’innocenza è l’abbraccio fedele tra una mano e una corda”.
Torno a noi – a me e a voi - e mi domando: chi glielo fa fare ai caregiver e ai volontari? Perché spendersi tanto senza un ritorno di tipo economico?
A volte anche senza un gratuito: “grazie”?
La risposta è: per via di quella corda che, se siamo in più persone a stringerla fra le mani, diventa una cordata. Che, nell’alpinismo, è un sistema di sicurezza per compiere in gruppo ascensioni e scalate, e consiste nel legare a una stessa corda tutti i componenti del gruppo. Ovvero caregiver o volontari impegnati in una stessa impresa, ardua come scalare una montagna. Glielo fa fare, insomma, una fedeltà alla propria essenza, quel qualcosa capace però di dare senso a tutta una vita. Perché -prosegue il salmo-: “il malvagio prende in prestito e non restituisce, ma il giusto ha compassione e dà in dono”. Dono, si badi, e non regalo!
Due parole che usiamo spesso, impropriamente, come sinonimi.
Regalo deriva dal termine latino regale (derivante da rex), che significa un’offerta fatta al re. Designa una disparità fra chi offre e chi riceve, una dimensione di obbligo, di convenzione sociale, di sudditanza, di debito, di riconoscenza. Il regalo è appariscente, formale, quantitativo. Tutt’altra cosa il dono… deriva dal latino donum, che significa qualcosa che viene dato, senza aspettarsi nulla in cambio.
Il dono è inatteso, spontaneo, affettivo, attento, simbolico, sensibile, qualitativo.
Non deve dimostrare nulla, niente richiede in cambio. Caregiver e volontari/e fanno di se stessi/e un dono. A sostenerli, in questa modalità di vita così inattuale, così poco trendy, quella ruvida corda che, strada facendo, sarà bello collegare con quelle degli altri. E, per chi crede, il salmo 37 ci suggerisce un luogo dove trovare conforto “La tua sorte aggomitola tutta intorno al Signore, làsciagliela” (37,5). Ecco il gomitolo, con la sua confortevole morbidezza, quando quella impegnativa corda ci arrossa le mani.
“QUANDO
LI DONO, INVECE, BRILLANO”
Il tessile richiama il tessile: corde, ed eventualmente gomitoli, evocano mantelli e coperte. Da queste metafore possono scaturire percorsi di formazione, per volontari e caregiver. Con lo stesso titolo di questo libro ne abbiamo attivato uno a Vittorio Veneto (TV), rivolto ai volontari e alle volontarie dell’UCIPEM, persone che offrono in dono la loro qualificata presenza.
Vi spiego, brevemente: il “Centro di Consulenza Familia-
re” di Vittorio Veneto ha iniziato la sua attività nel 1994, grazie a un gruppo di professionisti e volontari. Il Consultorio è Socio dell’U.C.I.P.E.M. (Unione Consultori Prematrimoniali e Matrimoniali).
Gli operatori e le operatrici dell’Equipe fanno parte dell’A.I.C.C. e F. (Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari) e conseguono la loro preparazione nel Corso di Formazione Triennale della “Scuola per Consulenti Familiari” di Roma.
L’Equipe del Consultorio è costituita da volontari e da diverse figure professionali: consulenti familiari, pedagogisti, psicologi, mediatori familiari, consulenti legali, consulenti etici, assistenti sociali. Una cordata composita e numerosa!
L’Equipe si avvale anche della collaborazione di figure professionali esterne: io sono una di quelle figure: una psicologa-psicoterapeuta e arte terapeuta, che da decenni si occupa di formazione degli adulti.
Collaboro con il consultorio di Vittorio Veneto, e anche con quello di Mestre, all’incirca dal 2010, ed è sempre una gioia per me!
Ecco il programma dell’incontro a cui mi sto riferendo, realizzato nel novembre del 2023:
AIUTARE ESALTA, E A VOLTE STANCA…
In questo incontro, con l’aiuto dell’arte terapia tessile, esploreremo le gioie e le fatiche che accompagnano il rendersi disponibili ad aiutare persone in difficoltà, per volontariato e/o per legami familiari. La creatività e le metafore tessili offrono ottimi spunti, per capire meglio, ricaricarsi e ripartire…
Mattina:
“Il mantello che ti offro. La spinta infinita a donarsi”
la motivazione all’aiuto verso gli altri essere di aiuto: nel volontariato, in famiglia le metafore dell’aiuto: San Martino e il suo mantello la Madonna del Soccorso il salmo 37,5: “la sapienza del gomitolo”
Pomeriggio
“La coperta troppo corta. Il rispetto dei propri limiti”
l’esaurimento delle energie in chi aiuta gli altri e come ricaricarle metafore, ricordi e racconti sull’offrire aiuto e, in fine, sull’averne bisogno: la “trapunta degli affetti” ripiegare la coperta della disponibilità: il cassetto del burn-out allargare i bordi: la disponibilità extralarge preservarne la parte centrale: la zona del rispetto di sé buoni propositi cercasi: impegni verso il cambiamento
In questa giornata di formazione, densa ed emozionante, tutte le tematiche affrontate in questo libro, più altre ancora, sono divenute attività di laboratorio d’arte terapia tessile e di narrazione.

Abbiamo realizzato i nostri mantelli e le nostre coperte e affrontato il tema del dare una mano. Così ho messo a disposizione, dei e delle partecipanti, un paio di guanti bianchi di cotone per ciascuno/a, di quelli che si utilizzano per spolverare.
Le dita, il palmo, il dorso di quei guanti sono stati trasformati con: colori, fili e stoffe, brillantini e perline, con parole scritte, e molto altro ancora, per sottrarli alla loro funzione pratica e farli divenire metafora - in movimento - dell’aiutare gli altri, del dono di sé. È bastato spegnere la luce, illuminando le nostre mani guantate con la luminosità del proiettore, per creare la magia dell’andare in scena.
Il buio aiuta… I temi, sui quali mi premeva ricevere testimonianze dal gruppo, erano:
1) cosa provi come volontario/a, quando offri una parte del tuo mantello, ovvero sostegno e aiuto alla persona che viene in consultazione?
2) cosa provi come volontario/a, quando ti percepisci come una coperta troppo piccola per riuscire a coprire tutto, e senti di non riuscire a soddisfare totalmente chi viene in consultazione?
Dopo mesi ho richiesto ai e alle partecipanti delle riflessioni sulla formazione svolta. Mi piace che le esperienze possano sedimentare e distillarsi, per farlo ci vuole tempo.
Eccone una:
“Quando offro sostegno e aiuto sento una forte gioia e gratitudine, sento la fatica mia e quella della persona che ha bisogno, talvolta anche la frustrazione, se non riesco far intravedere la luce in fondo, se non so essere efficace. Così direi a chi viene in consultazione: < Ho grandi orecchie per ascoltare il tuo dolore. Il mio cuore non può sanare la tua sofferenza ma posso offrirti il mio abbraccio, come fosse un mantello di coraggio nel tuo percorso di rinascita.>”
Un’altra:
“La mia disponibilità ad ascoltare parte dal bisogno che io stessa ho d’essere ascoltata. Prestare attenzione ai bisogni dell’altro, offrire il mio mantello, è una mia raggiunta consapevolezza di poter essere d’aiuto.”
Così riflette una volontaria:
“Quando offro parte del mio mantello si instaura un clima di fiducia che cresce col tempo nel rispetto reciproco. In un luogo sicuro e protetto sto nella relazione senza giudizio, senza fretta o necessità di efficacia.
Il mio mantello è composto dai doni ricevuti alla nascita, coltivati in famiglia, sviluppati lungo tutto il percorso della vita che mi ha portata fin qui.
Poterli mettere a disposizione della persona che incontro, mi offre la possibilità di dar loro maggior valore e senso. È come se, nel trattenerli solo per me, si seccassero.
Quando li dono, invece, brillano. Il sentimento che mi pervade è la gratitudine: poter stare a fianco di chi sta costruendo - o ri-costruendo la vita - è un’opportunità che va custodita e sviluppata. I sentimenti che provo, quando sembra che non si risolva nulla, possono essere: la frustrazione, la tristezza e anche la rabbia. Riconoscerli e chiamarli per nome, distinguendo se ci appartengono, o se sono dell’utente, è un modo efficace di restare, in maniera sana, nel rapporto. Lasciando andare l’angoscia di riuscire.”
Si rivolge direttamente a chi aiuta, l’ultimo contributo: “Sono qui per te, per accompagnarti in una parte del tuo cammino e, se lo vorrai, sono qui per offrirti parte del mio mantello per i momenti più difficili, insieme. So che devo rispettare i tuoi tempi, i tuoi bisogni, e cerco di non provare un senso di frustrazione, di non aver fretta, perché è solo così che posso esserti veramente d’aiuto, cogliendo la tua essenza, la tua natura. Sono con te, accanto
a te, anche in silenzio, se lo vorrai”. Oh sì, nel silenzio si può anche dialogare. Le parole non dette, accompagnate da sguardi eloquenti, esprimono più di mille discorsi. In quei momenti della vita, che poi ricorderemo per sempre, la lingua tace, gli occhi dicono, i gesti parlano. Talvolta, nel silenzio, diamo e riceviamo la vicinanza più autentica, l’essenza umana più preziosa, il dono più raro. Nel silenzio scopriamo parole nuove e dimentichiamo, per sempre, quelle destituite di senso. Il silenzio riordina, elimina, pulisce. E’ difficile restare in silenzio, stare accanto all’altrui silenzio, si ha tentazione di riempire quel vuoto. Siamo così abituati al pieno e al rumore…
RIC-AMARE
Al termine della giornata di formazione alcune volontarie hanno tirato fuori una grandissima tovaglia bianca punteggiata dei nomi ricamati di tutte le persone componenti l’Equipe: la cordata al completo. Abbiamo visto già “La trapunta degli Affetti”, ebbene, questa è invece la “Tovaglia degli Incontri”. I docentifacilitatori, che vengono a fare formazione, sono invitati a scriverci sopra il proprio nome, a metterci la firma. Poi, nei giorni successivi, qualche volontaria ricama sopra quel nome, rendendo il ricordo di quell’ esperienza, di quella presenza, indelebile. Ricamare i nomi delle persone presenti ad un incontro è un modo, bello e colorato, per sottrarre quell’esperienza all’effimero.
Dedicare il proprio tempo a ripercorrere quelle vocali e quelle consonanti, con ago e filo, è un’altra variante dell’aver cura.

L’intensità e la profondità di questi incontri di formazione possono - dovrebbero - durare nel tempo. Io stessa sento un bisogno di continuità nelle esperienze formative e temo, sempre più, il consumismo delle emozioni, l’essere tutto un po’ “temporary”. Con un gessetto, scriverei su ogni muro: “Evviva la lentezza dell’assaporare. Abbasso il <vivi e getta>!!!”
Così come si fa con la frutta estiva, vorrei trasformare colori, sapori e aromi della vita in “marmellate” da spalmare - volta, a volta e piano, piano - durante l’inverno. Aver cura richiede tempo, pazienza, concentrazione e fantasia, le attitudini della durata e della lentezza, così come è per quel ricamo di Vittorio Veneto. Se a volte la stanchezza, l’esaurimento delle energie, l’inaridimento della creatività, la frustrazione del desiderio, l’indurimento dell’indole, la ruvidezza della nostra corda ci portano a trascurare l’attitudine all’aver cura, a lasciare inoperoso l’ago, facciamoci guidare la mano da questa poesia di Emily Dickinson, che sin qui ci
ha accompagnato con le sue illuminanti metafore: 63 (617)
Non mettere via il mio ago e filo –riprenderò a cucire quando gli uccelli riprenderanno a trillare –punti migliori -così-
Questi erano sghembi – la mia vista si storse –quando la mente - sarà di nuovo chiara farò trapunte – che la fatica di una regina non arrossirebbe a vantare –
Orli – troppo fini perché una dama li segua fino all’invisibile nodo –pinces di delicato intreccio –come il punto di un punto –
Lascia il mio ago nel solco –dove l’ho messo giù –i punti a zig zag – li raddrizzerò –quando ne avrò la forza –
Intanto – mentre sogno rammendi porta la giunta che ho perduto –più vicino –così – dormendo mi parrà ancora che cucio -–
63 Dickinson, E., Poesie, a cura di M. Bacigalupo, Milano, Mondadori, 2019, pp.341-343.
Così termino il mio intreccio, con l’augurio - a tutte e tutti noi, me compresa - di sognare rammendi e di riprendere a cucire, sempre e per sempre, i nostri punti migliori…

Jim Dine, The Heart called “Rancho Pastel”, coll.privata, 1982.
RINGRAZIAMENTI
GRAZIE A…
Stefania Iacono, responsabile dell’editoria sociale
CESVOL Umbria, sede Perugia
Elisabetta Berellini, responsabile della formazione
CESVOL Umbria, sede Perugia
CESVOL Umbria, sede Perugia
Le volontarie e i volontari di UCIPEM, Vittorio Veneto (TV) e Mestre (VE)
L’associazione TESSERE INCONTRI, Milano
Carthusia Edizioni, Milano
Monique Boever
Francesca Catarci
Ana Culafic Gargiulo
Giusy Da Rios
Martina Gerosa
Stefania Guerrucci
Luciano Luciani
Tania Pedini LLavina
Carlo Rossetti
Tutte le persone che hanno acconsentito a mettere a disposizione le loro riflessioni ed esperienze. Il fatto che qualcuno doni una sua storia, un’immagine che ha creato, una riflessione che ha elaborato è ancora per me, pur dopo tanti anni, fonte di meraviglia, emozione e commozione.
Grazie sempre!
Questo libro è in ricordo di mia madre, Aminta Trazzi
Cosa ci spinge ad aiutare le altre persone?
Aiutare esalta, ma ci può anche stancare.
Come san Martino doniamo un po' del nostro mantello.
Ma anche ci sentiamo come una coperta, tirata da ogni lato.
Si può trovare un equilibrio?

Immagine di copertina:
«A Leap of Action Rather an a Leap of Faith» di Ofra Amit