Al Presente

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Quaderni del volontariato

Edizione 2024

Cesvol

Centro Servizi Volontariato Umbria

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Edizione maggio 2024

Coordinamento editoriale di StefaniaIacono

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ISBN 9788831491686

I QUADERNI DEL VOLONTARIATO

UN VIAGGIO NEL MONDO DEL SOCIALE PER COMUNICARE IL BENE

I valori positivi, le buone notizie, il bene che opera nel mondo hanno bisogno di chi abbia il coraggio di aprire gli occhi per vederli, le orecchie e il cuore per imparare a sentirli e aiutare gli altri a riconoscerli. Il bene va diffuso ed è necessario che i comportamenti ispirati a quei valori siano raccontati.

Ci sono tanti modi per raccontare l’impegno e la cittadinanza attiva. Anche chi opera nel volontariato e nell’associazionismo è ormai pienamente consapevole della potenza e della varietà dei mezzi di comunicazione che il nuovo sistema dei media propone. Il Cesvol ha in un certo senso aderito ai nuovi linguaggi del web ma non ha mai dimenticato quelle modalità di trasmissione della conoscenza e dell’informazione che sembrano comunque aver retto all’urto dei nuovi media. Tra queste la scrittura e, per riflesso, la lettura dei libri di carta. Scrivere un libro per un autore è come un atto di generosa donazione di contenuti. Leggerlo è una risposta al proprio bisogno di vivere il mondo attraverso l’anima, le parole, i segni di un altro. Intraprendendo la lettura di un libro, il lettore comincia una nuova avventura con se stesso, il libro viene ospitato nel proprio vissuto quotidiano, viene accolto in spazi privati, sul comodino accanto al letto, per diventare un amico prezioso che, lontano dal fracasso abituale, sussurra all’orecchio parole cariche di significati e di valore. Ad un libro ci si affeziona. Con il tempo diventa come un maglione che indossavamo in stagioni passate e del quale cerchiamo di privarcene più tardi possibile. Diventa come altri grandi segni che provengono dal passato recente o più antico, per consegnarci insegnamenti e visioni.

Al presente

di Andrea Carbonari

La Pro Todi è lieta di dare il patrocinio a questa nuova produzione del giovane Andrea Carbonari. Doppiamente lieta di lodare, accanto all’autore, il concittadino che non ha mai cessato di essere tale anche “in absentia”, membro di una famiglia che è stata parte integrante della storia di Todi e che lui, l’ultimo dei quattro fratelli (per questo, anche “il giovane Andrea”, a dispetto dell’anagrafe) si incarica di ricordare con la sua scrittura agile, creativa, quasi mai disgiunta da una reminiscenza identitaria.

e attribuendo un nome di fantasia al protagonista che non viene neppure menzionato nel secondo episodio. Quel nome è però tuttora noto nella città di nascita di Andrea, essendo rimasta nella memoria della comunità tuderte la tragedia dello stadio Heysel di Bruxelles, quando alla finale della Coppa dei Campioni, disputata il 29 maggio 1985 tra Juventus e Liverpool, i tafferugli tra le tifoserie ebbero come infausto esito 39 morti di cui 32 italiani, compreso un giovane tuderte a cui sono stati intitolati lo stadio e il “Club Juventus” cittadini. Eliminando pertanto gli elementi identificativi, Carbonari ha inteso evidenziare il carattere esemplificativo e paradigmatico dei due racconti, proponendoli sotto il titolo Al presente come “monito al presente per porre fine ad ogni prodromo di violenza”, perché “succede e continua a succedere”. Ancora qualcos’altro si potrebbe invece dire a proposito del tono e del registro espressivo adottati in entrambi i racconti che pertanto si discostano notevolmente dalla scrittura giocoso - fantastica attraversata da ilare levità a cui l’autore del Favoliere (titolo della raccolta di racconti edita da Bertoni) ha abituato i lettori delle sue “storielle” per ragazzi. Fino all’ultimo e più lungo racconto fantascientifico-distopico Ci sarà una volta... Jacopone (Bertoni Editore, 2023) in cui si immagina che il frate tuderte, tornato nell’anno 3000 nella sua

dalle macabre risonanze in quella terra. Benché l’autore tenga a precisare che nel frattempo il sistema educativo si sia ulteriormente evoluto, rendendo più flessibili e inclusive le regole dell’accoglienza.

Pure la sana passione sportiva può degenerare in patologia sociale, allorché il tifo si trasforma in fanatismo collettivo, veicolando un’ incontrollata violenza che miete vittime, come emblematicamente mostra la rievocazione immedesimativa degli ultimi momenti di vita di chi è cresciuto con il mito e il gioco del pallone, sostenendo la propria squadra del cuore fino a seguirla in una competizione di campionato all’estero, per rimanerne poi coinvolto da spettatore in tribuna nelle cariche degli hooligans. In quella “follia che doveva essere un sogno ed ora è un incubo”

arriverà così per lui “la fine prima della finale, la fine senza finale, la fine senza fine”, in un incalzante ritmo espressivo quasi per far sentire gli estremi affannosi battiti cardiaci.

Di segno alquanto diverso, questi racconti non sono però da considerare del tutto isolati rispetto alla complessiva opera letteraria di Carbonari, perché a loro volta possono essere ricondotti ad altri che in qualche modo costituiscono i prototipi di una parallela linea narrativa. Ci si riferisce precisamente a due precedenti racconti: Bedenetto il pittore (pubblicato in “Città Viva”n.6/2003) che restituisce sofferta umanità

alla figura marginale di un artista di provincia non favorito dalla sorte e Da una terra all’altra (vincitore della terza edizione 1997-98 del Premio Pietro Contisezione narrativa- promosso dalla Regione Umbria, poi incluso nel volume antologico Racconti dal mondo, Editrice FILEF, 1999) che sviluppa il tema dell’emigrazione ed è coevo di Agostino, anch’esso segnalato alla quinta edizione del medesimo Premio Pietro Conti.

Benché dunque a tutt’oggi prevalga nell’ispirazione di Carbonari la vena del “favoliere” si ha qui tuttavia la conferma che ne esiste un’altra, al momento “di riserva”, a cui poter sempre attingere per essere ancora declinata.

Introduzione ai racconti

“Al presente” raccoglie due racconti brevi, anzi brevissimi, come spesso è il presente che ci sfugge di mano, scappa via, senza che ce ne accorgiamo e, a volte, come nei casi qui narrati, lascia tracce indelebili e , spesso, tragiche.

“Al presente” presenta ( e mi si passi il voluto bisticcio), due fatti realmente accaduti e due personaggi, che, prima di tutto, sono state persone che ho conosciuto e poi perso nel corso degli anni.

“Al presente” mette chiaramente a fuoco, in due casi completamente distanti l’uno dall’altro, due forme di violenza ai nostri tempi, ahimè, ancor molto presenti: la violenza psicologica e la violenza fisica.

I due racconti, estremamente diversi per anno di composizione, stile, stilemi, situazioni storiche e personaggi, si coniugano in uno specimen che attinge ed afferisce al mondo sociale, molto spesso causa di disagio per chi è “diverso” o per chi, per passione, persegue una fede sportiva, ignaro di andare incontro alla morte.

Due morti differenti, ma altrettanto cruente e figlie dell’odio quelle di “Agostino” e del protagonista di “La finale”.

“Agostino”, scritto alla fine degli anni 90, in terza persona e forse ad oggi un po’ datato, affronta

la problematica dell’inserimento sociale e, nella fattispecie, scolastico di uno scolaro particolare, che oggi definiremmo diversamente abile, ma, in un contesto particolarmente difficile, come quello dell’emigrazione, per cui oltre alle difficoltà di un carattere ribelle, forse autistico, si uniscono quelle linguistiche e di identità della persona-personaggio della narrazione; dicevo un po’ datato, perché il sistema delle scuole differenziali anche nel Paese di cui si parla, sempre senza farne il nome, le cose sono cambiate, le scuole prevedono l’inclusione, ma le scuole differenziali esistono tuttora. Un bene? Un male? Difficile darne un giudizio anche perché molto complessi e particolari sono sempre i singoli casi, per tentare verdetti definitivi.

Come autore, nel caso specifico, mi sono limitato a riportare dei fatti vissuti e dare ad Agostino un volto che soffre in una dimensione di presente metastorico, che non riesce a convivere con le diversità. Quel presente da cui ora anche noi come educatori e pedagoghi, abbiamo sicuramente imparato a capire di più, grazie anche ai tanti errori commessi in passato.

Ne “La finale”, invece, scritto più di recente, ma basato su un fatto di quasi 40 anni fa, ho voluto dare voce, in prima persona, ad un evento sportivo, nato come gioia, festa, avvenimento da poter ricordare negli anni a venire, che invece finisce in tragedia, nella brutalità

Agostino1

Agostino e la sua storia nascono e si sviluppano al presente, sono quasi un’emanazione di questo tempo.

Al presente perché ogni pur breve realtà non sia mai oblio della coscienza, perché nascondere i propri cadaveri sotto il tappeto del passato, per dire poi “guardate come siamo puliti“ è troppo comodo e non è onesto, e perché se il passato non viene discusso dal presente resta sempre un incubo mai superato.

Al presente perché succede e continua a succedere, anche ora, anche domani, in tutti quei luoghi che vivono nell’arroganza delle proprie certezze, nell’obbedienza cieca e assoluta alle proprie leggi, quando queste rifulgono di brutale e disumana perfezione.

Al presente perché Agostino, come tutti noi, è un attimo che sfugge, un alito di niente, un‘ inesistenza che è e già non è più, se non un’eco di polvere in forma di queste parole, un’eco di presente che presto tacerà. Al presente perché non c’è feritoia possibile che illumini i meandri dei suoi percorsi interni; che riesca a scandagliare nel fondo muto di una vita che resta misteriosamente invischiata in una precarietà di tessiture labili e impenetrabili arabeschi.

1 Racconto segnalato dalla giuria del Premio Pietro Conti, Perugia, IV edizione, 2000.

Al presente perché inafferrabile, inaccessibile, imperscrutabile eppure specchio dei nostri giorni.

Agostino ha gli occhi neri e piccoli, così piccoli che più li guardi, più sembrano ritirarsi nei cavernosi mondi delle sue solitudini, lontani da una realtà che gli è ostile e che non vuole vedere.

Agostino ha i capelli riarsi dal sole impietoso di quel mare che ha dovuto lasciare, senza sapere, senza capire.

Agostino ha la metà del volto bruciata da un angioma che di fuori è segno di quelle lacerazioni interne che la vita, nel giovane corpo, ha già brutalmente prodotto come un marchio a cui non si sfugge.

«È nato così!» - dice la madre alzando gli occhi e rimettendosi alla volontà divina che ogni volta sembra infuriarsi con i più piccoli e i più disgraziati - «Sa, laggiù al paese non c’era lavoro e così siamo venuti quassù, che sembra quasi di stare a casa con tutti i paesani che ci stanno!» e abbozza un sorriso, mentre il sole del ricordo si spegne nel grigio di questa terra atona: grigi i palazzi, grigie le cose, grigia la natura e grigie le persone. Queste poi, incastrate nel meccanismo di “lavoro e soldi” emanano anche un grigio fetore di disumanità.

«Sono venuta perché voglio iscrivere Agostino a scuola, ma non so la lingua di questo posto e vorrei il suo aiuto.» Vent’anni di questo posto, o meglio di

viaggi fra una terra sconnessa che non offre posti ai suoi figli e questo posto, di cui ancora non conosce il linguaggio, perché in realtà non lo vuole imparare! E Agostino, che alle mie domande risponde solo “sì” e “no”, dopo essere nato e cresciuto in Italia, da parenti, viene sradicato e portato qui come un sacco di patate. Come se fosse ovvio e facile per lui risanare tutte quelle ferite che, proprio come il suo angioma, si dilatano sempre più sino a creare blocchi insuperabili. Come se fosse automatico iscriverlo e integrarlo in una terra che si esprime in modo così diverso dai suoi occhi! Andiamo dal direttore che, sfacciatamente grasso, sembra sputare il suo benessere contro madre e figlio, due esserini minuti e impauriti. Senz’altro il suo sadismo viene eccitato, ma deve recitare la parte e comincia: «Certo signora, che lo prendiamo il bambino! Certo, ci mancherebbe altro! Come vede noi siamo per una società multiculturale e per un’ Europa unita senza confini e per una multiculturalità di etnie senza distinzioni! La nostra scuola è costituita, in maggior parte, da allievi turchi, greci, spagnoli, serbo-croati, naturalmente molti italiani e addirittura albanesi. Tutti sono a casa loro, qui, e mai si sono verificati deprecabili episodi di razzismo. La nostra scuola è all’avanguardia nell’ integrazione e nell’ apertura verso tutti i popoli della terra. Noi crediamo infatti che tutti debbano avere le stesse opportunità

e riteniamo che il futuro sia la multiculturalità e il polilinguismo. Che bello sapere più lingue e quanto, quanto successo si aprirà ai nostri ragazzi! »

Tronfio come un tacchino che si pavoneggia nella coda di quelle altisonanti parole prive di significato continua: «Vedrai, Agostino, che ti troverai bene fra noi. Ti piace la città?»

«Sì, sì»

«Ti piace questa scuola?»

«Sì, sì»

«Vuoi vedere che cosa ti offriamo, oltre alle attività scolastiche?»

«Sì, sì»

Le risposte di Agostino, più meccaniche che altro, andavano nella direzione opposta dei suoi occhi, che invece tendevano a chiudersi sempre più per isolarsi nel buio di un silenzio senza scuole, lingue e incomprensibili espressioni.

Naturalmente il direttore si accorge che Agostino è tanto, troppo bassino per la sua età e che non capisce la sua lingua. E allora ecco i primi problemi:

«Beh...signora, in realtà, a ben guardare un piccolo problema ci sarebbe: il bambino è troppo basso!» e detto fatto prende il metro, mette al muro il poveretto per squadrarlo meglio prima del verdetto:

«Eh sì, proprio come pensavo: meno di un metro. Troppo basso, mi dispiace! La legge parla chiaro,

lavoro, perché solo il lavoro ci rende liberi.»

«Sì, sì, sì sì» replica il bambino agli ordini del generale. E la madre quasi gli voleva baciare i piedi per la pietà e la disponibilità.

Effettivamente il direttore aveva mostrato di possedere un cuore, che in realtà non aveva, e ciò gli aveva procurato un senso di gioia, sentimento a lui del tutto estraneo, ma soprattutto aveva dato prova del suo immenso potere: come un Dio, un condottiero, un duce, che delibera e legifera a suo piacimento.

Così dal giorno seguente Agostino si trova accettato e amato nella classe di inserimento.

Soprattutto dall’insegnante: occhi glaciali, orecchi inesistenti, labbra strette e sottili, capelli cortissimi. Tutto meno che una donna.

Quello che più colpiva era la gentilezza e la grazia di un tale essere: rabbiosa, dura e impetuosa quando tuonava gli ordini in un’orgia di consonanti da sterminare masse al solo suono. Si spazientiva poi quando quegli ordini non venivano recepiti e quindi non eseguiti.

Gli occhi di Agostino stavano piano piano sparendo per non vedere quell’obbrobbrio e la sua macchia gli stava inondando il volto intero, tanto quei latrati lo spaventavano.

La brava insegnante si accorse presto che “il rosso”, come lo chiamava lei, non capiva assolutamente nulla

e né si impegnava ad apprendere la lingua che lo avrebbe immesso nel mondo del lavoro. Senza lingua del luogo niente lavoro e quindi ai lavori forzati della disoccupazione e, prima o poi, della delinquenza.

Anche gli altri compagni di classe, tutti stranieri, erano gentili con Agostino e continuamente lo spintonavano, lo facevano cadere e lo beffeggiavano chiamandolo “maialino”, “il signor sì”, “zombi”.

«Non capisce niente e non sa difendersi» - è il commento della docente in questione, quando in accordo con il direttore viene richiesto un consiglio d’istituto straordinario per discutere del caso - «Non reagisce mai e gli altri fanno di lui quello che vogliono. Non ha quella necessaria dose di aggressività per sopravvivere in una società come la nostra. Se non reagisce qui e in queste condizioni, beh allora vuol dire che è destinato a fallire. Inoltre mi pare anche tarato mentalmente. Dice solo “sì, sì”» e scimmiottandone il movimento con la testa provoca le risa di tutti i presenti.

«Tutti uguali questi qua » fa gentilmente un altro collega «Vengono e pretendono di parcheggiare a scuola i loro figli, che neanche vogliono faticare un po’ a imparare le nostre regole. Ma che siamo diventati, un ricettacolo di cani e porci?» e giù altri risolini, ammiccamenti e pigolii di approvazione.

Il primo passo è approvato: aspettiamo, vediamo,

diamogli tempo, forse scatterà anche in lui la molla

della sopravvivenza e magari sarà costretto a mostrare gli artigli per non affogare, altrimenti affogherà e peggio per lui!

Oltre al solito “sì, sì; no,no”, Agostino comincia a mettere insieme altre frasi del tipo “che ore sono?“, “quando finiamo?“ “brutto stronzo!”. Bene, ci siamo! Usa la lingua del luogo e soprattutto comincia a difendersi con le parolacce e sputando verso i compagni. Perfetto, si sta proprio adeguando all’unico modo possibile per resistere in un Paese in cui solo la forza, l’arroganza e la brutalità decidono chi sia in grado di vivere e chi no.

Il corpo docente nutre forti speranze che Agostino si stia integrando adeguatamente e ritiene che la terapia d’urto sia la sola efficace.

Agostino percepisce sì, ma non sa, non capisce, e forse è meglio così, questo strano mondo che gli gira intorno in un‘ accozzaglia di suoni petrosi che gli feriscono le orecchie, gli percuotono la testa e gli tolgono la vista; questo mondo fatto di parole che si sente vomitare addosso e di cui non capisce il significato, di volti disfatti e corrugati, di pance debordanti che lo schiacciano al crepitare del suo rossore accecante, di gesti ordinati eppur minacciosi che schiaffeggiano la sua minuta figura che si aggira trasandata tra le crepe dei muri, una crepa anche lui; questo mondo vorticoso

finiamo, quando finiamo, quando finiamo?“ – altra crassa risata per la riuscita imitazione – E tu gli spieghi che mancano solo cinque minuti, allora volta le spalle e se ne va commentando “Sì, sì; no, no; brutto stronzo. Sì, sì; no, no; brutto stronzo“» Esplosione dell’ilarità generale. Perfetta la collega, sembrava Agostino in persona. Eppure qualche volta sembra essere il contrario e cioè sembra Agostino prendere in giro i bravi e seri maestri: «Su Agostino, da bravo, rispondi alla mia domanda: q u a n t i a n n i h a i?

Hai capito? Allora rispondi!»

«Sì, sì; no, no! Brutto stronzo!»

Già, non è in grado di capire il significato e come un automa ripete ciò che sente dire. Ma i pedagoghi insistono:

«Domanda semplice: c o m e t i c h i a m i??»

«Agosti....no, no; sì, sì! Brutto stronzo, che ora è, quando finiamo?»

Questa volta solo io me la rido senza farmi accorgere, perché Agostino se li sta mangiando in un boccone tutti quei medici e sapienti, anche se non possiede la loro lingua.

Naturalmente Agostino a scuola non si impegna. Non partecipa, non capisce niente e disturba. Dicono.

Scrive male, scarabocchia il quaderno, è disordinato e passa tutto il tempo a disegnare stupidaggini.

È vero. Ma è anche vero che disegna benissimo e le

sue “stupidaggini“ rivelano perizia tecnica, fantasia e creatività. Già, la creatività! Guai ai creativi, da queste parti, sono disordinati e non si lasciano omologare facilmente!

Agostino disegna cavalli azzurri con le ali dorate che nascono come onde dal mare; aquile che assomigliano a delfini e nuotano ridenti; paesaggi fantastici dai toni accesi e soleggiati in cui spiccano colori forti e stridenti; e ovunque, in ogni disegno, c’è l’acqua, il mare, il suo mare. Ora rosso fiammeggiante, ora turchino, ora violaceo, verde, blu notte, striato di rosa e di giallo, addirittura nero. Il mare, un’isola e sull’isola una casa diroccata, quasi scheletrica come i rami degli alberi intorno.

Ma Agostino disegna anche navi lunghissime a forma di serpente che guizzano sulla superficie marina e lanciano fuoco dalle terribili bocche spalancate dei cannoni, mostri tuonanti; e disegna soldati romani che urlano lacerati da fitti fili spinati in un mare di rosso trafitto di nero, e mura crepate, deserti di frane, paesi sospesi tra il sole e la luna o spaccati in pezzi e pezzetti perduti qua e là.

Certo stupidaggini, fantasie insignificanti che lo distolgono dall’apprendimento serio e ordinato. Per questo e per la sua ostinazione a non voler inserirsi come gli altri, si convince la madre a portarlo dall’assistente sociale e dallo psicologo.

A poco servono i tanti colloqui. Agostino non parla, si ritira lontano con gli occhi, neanche disegna quando glielo chiedono.

Sta lì, attaccato alle crepe delle pareti, raggomitolato nei suoi cavernosi segreti che parlano la lingua delle cose mute, degli ondeggiamenti infiniti.

Lo psicologo parla invece con i genitori. Certo, il bambino ha sofferto l’infanzia difficile, a causa della lontananza dei genitori. Ce ne siamo andati e cosa dovevamo fare, morire di fame laggiù? Racconta la madre. Prima mio marito, poi io. Agostino l’abbiamo lasciato a casa dei nonni e degli zii. È cresciuto da solo, per forza, tutti gli altri se ne andavano a lavorare e lui stava da solo con i cuginetti e le galline. Non ha mai parlato molto e preferiva le galline ai cuginetti. Mi hanno detto che passava il tempo da una nostra amica giornalaia: guardava le figure di giornali e giornaletti. Forse per questo che ha imparato a disegnare. Poi se ne andava per ore al mare e raccoglieva conchiglie, granchi, ragnetti e insetti d’ogni specie. Questo ci hanno detto, io, cosa vuole che ne sappia. Niente avevamo laggiù e niente abbiamo lasciato per venire qui in terra straniera, ma almeno terra che ci sfama. A scuola non andava male, così dicono. Non parlava, né aveva amici e spesso se ne stava tutto solo in un cantuccio ad ascoltare il mare da una conchiglia! Mah, cosa vuole

Lo psicologo cerca di consolarla: ma sì, vedrà, con il tempo si adatterà anche lui. L’importante è che collabori e che, almeno con noi che parliamo la sua stessa lingua madre, ecco sì, che con noi si apra e racconti un po’ tutto.

Naturalmente Agostino non dice niente, gli occhi spariscono e il rossore dilaga.

A nulla valgono le sedute successive, anche lo psicologo è costretto a capitolare. Sicuramente lo sradicamento ha contribuito alla chiusura del bambino, spiega ai genitori, e la perdita dell’ambiente a lui familiare ha peggiorato la situazione. Direi che ci troviamo di fronte ad un caso di autismo e vi consiglierei degli specialisti del settore, ma certo, vi costeranno un bel po’...

E chi se lo può permettere! interviene la madre, e poi Agostino non è muto, non soffre di mutismo, è solo che si rifiuta di parlare e se non lo fa con le buone lo farà con le cattive. Che torni a scuola e che si impegni a suon di bastonate!

No signora, prova a chiarire lo psicologo, non ho parlato di mutismo, ma di autismo che è tutta un‘ altra cosa...

Non c’è modo di farle capire che il bambino ha bisogno di un aiuto serio e competente. La madre non sente ragioni e, soprattutto, non vuole perdere tempo e denaro.

Agostino torna a scuola, le cose peggiorano di giorno in giorno e così si decide per la situzione estrema: la scuola differenziale, nota anche come scuola speciale. Insegnanti, psicologi, pedagogisti e assistenti sociali decidono di comune accordo di sottoporre Agostino al test per la scuola speciale.

La madre al sentire “scuola speciale” pensa che si tratti di una scuola particolare per alunni in qualche modo speciali, come il suo Agostino che, anche se non parla, evidentemente ha dato prova di sapersi distinguere.

E poi, cosa ne sa lei che lavora tutto il giorno in fabbrica e non ha tempo di preoccuparsi dei problemi scolastici del figlio? Se dicono scuola speciale vorrà dire che qualcosa di speciale anche Agostino ce l’ha, chissà, la memoria, il disegno.

Così senza rifletterci un attimo, senza chiedere consiglio né spiegazioni che le porterebbero via troppo tempo, dà subito il suo consenso, nero su bianco, per l’attuazione del test.

Quando le spiegano che qui la “scuola speciale” è una specie di anticamera dei forni crematori, dove vengono reclusi gli scarti della società, minorati fisici e mentali, prima di esser definitivamente bruciati in un modo o nell’altro, prima cerca di fare il diavolo a quattro scagliandosi inutilmente contro questo e quello, poi si rassegna al destino che tanto non siamo mai noi quelli che scegliamo e che comunque se c’è

la possibilità di lavoro, poi tanto terribile la scuola speciale non è. Sempre meglio di una scuola normale, laggiù in paese, dove bene che vada ti insegnano il dialetto e poco più; ti insegnano che l’unica salvezza alla disoccupazione è il crimine o l’esilio.

Il test non va malissimo. Certo Agostino è così agitato che i due occhi sono oramai punti lontani lontani e il rossore gli invade il corpo intero.

Riesce a mettere i cubi uno nell’altro dal più grande al più piccolo, riconosce forme e figure, fa dei disegni che denotano talento e creatività, ma poi si imbroglia un po’ con la matematica ed è un vero disastro quando deve mettere in piedi quattro parole e scrivere in quella lingua a lui ostile. Si blocca e si accascia al muro piangendo.

I commenti degli esaminatori non lasciano dubbi: «Non ha forza, non ha carattere. È debole mentalmente e fisicamente»

«Avete visto, colleghi, che disastro con la matematica!? Non è in grado di procedere logicamente. Gli mancano le basi razionali e temo che ci sia qualche lesione cerebrale.»

«Inoltre è proprio troppo basso. Guardate qui, nel nuovo decreto ministeriale si parla chiaramente... vediamo..sì, è sotto la norma di tre centimetri!

«Addirittura tre centimetri? È no, è troppo, non può essere accettato in una scuola normale!»

amorevolmente inserito nella meravigliosa struttura della scuola speciale, in mezzo a bambini che fanno versi strani, urlano, se la fanno sotto, rimangono ore muti in un angolo e ti guardano con gli occhi che chiedono: “Perché?”.

Nessuno sa rispondere, ma tutti che organizzano, puliscono, impartiscono lezioni di canto, di ginnastica, di disegno libero in un’atmosfera movimentata e continuamente ridente di forzata normalità. Il direttore, più spudoratamente grasso del primo, accoglie la madre di Agostino a braccia aperte: «Vedrà, signora, che suo figlio si troverà benissimo da noi. Qui, oltre alle materie ufficiali che vengono insegnate in tutte le scuole di ogni ordine e grado, abbiamo anche psicologi, sociologi, logopedisti e fisioterapisti per garantire al bambino una crescita sana, regolare e normalissima. Tutto il nostro personale è altamente specializzato, dagli insegnanti, ai cuochi; dai terapeuti agli inservienti. Tutti sanno perfettamente cosa devono fare, come lo devono fare e quando lo devono fare. Oltre allo studio universitario infatti, e parlo tanto per i docenti quanto per gli altri collaboratori scolastici, il personale che opera nella nostra struttura ha dovuto affrontare corsi di specializzazione post-universitari, stage in vari Paesi europei ed extraeuropei, esami difficilissimi e lunghi periodi di tirocinio per ottenere quella qualifica

necessaria che permette di entrare in questi luoghi.

Qui, cara signora, niente si improvvisa, ma ogni gioco, ogni intervento terapeutico sui portatori di handicap, oserei dire ogni minimo movimento è frutto di studi, ricerche ed esperimenti che tendono a creare intorno ai ragazzi quel clima di serenità di cui hanno bisogno per crescere sani e normalmente accettati. Non solo, ma gli alunni di questa scuola speciale, una volta giunti al termine degli studi, hanno la possibilità di apprendere un mestiere ed entrare nel mondo del lavoro. Sa, noi abbiamo fabbriche e officine specializzate che assumono soltanto i nostri allievi.»

Alla parola lavoro la madre di Agostino si illumina. Che importa se è un tipo di lavoro per minorati, in fabbrica e alla catena di montaggio. Un lavoro da stupidi per stupidi. Che importa? Non lavora forse anche lei in fabbrica? Non è forse questa la sorte di molti altri paesani così perfettamente inseriti nelle organizzatissime strutture di questa società in grado di prevedere bisogni ed esigenze? Non è forse questa la via per abbattere ghettizzazioni e spiacevoli fenomeni razzistici?

È veramente una terra all’avanguardia quella terra che pianifica ogni minimo dettaglio e trova per ogni problema la soluzione più adeguata! Allora viva le scuole speciali: minorati d’ogni razza e d’ogni età, sono tutte a vostra disposizione per insegnarvi a sorridere,

per isolarvi dagli occhi indiscreti dei normali non qualificati che non vi capiscono e per prepararvi un futuro nel mondo del lavoro.

Anche Agostino ha ora quel sorriso ebete stampato in faccia, proprio come i suoi insegnanti, gli psicologi, i logopedisti, i cuochi e gli accudienti. Tutti che ridono, giocano, cantano, discutono e insegnano tutte le materie normali, come in un incantato e finto mondo normale. «Una gabbia di matti! Una gabbia di matti!» urla ridendo un ragazzino lì accanto, subito contornato e studiato da commoventi operatori scolastici d’ogni tipo.

Forse ha ragione lui, penso, ma la gabbia di matti siamo noi che permettiamo queste perfezioni di crudeltà, credendole addirittura salvifiche.

Agostino comincia ad adattarsi al nuovo ambiente. Tutti sono contenti di lui. Socializza con gli animaletti del giardino, criceti, tartarughe e gatti; ha un buon rapporto con insegnanti e compagni visto che per gioco e per farsi notare li riempe di sputi, e soprattutto parla. Oltre alle sue solite frasi aggiunge meccanicamente: «Non sono mica scemo come questi qua, io!» e poi ride, ride tanto ed è un po‘ gonfio. Chissà forse le medicine, ma la madre è contenta e ringrazia il personale così gentile. Anche i processi logici sembrano tornare a posto. Pensate, riferisce l’insegnante di matematica, è in grado di addizionare

e sottrarre! Uno più uno due, due più due quattro, quattro meno uno tre.

Si vede proprio che la scuola speciale funziona e dà i primi risultati!

Di tempo ne è passato. Agostino è cresciuto tra i “perché?“ senza risposta della scuola, ha gli occhi così piccoli e distanti che non se ne percepisce più il colore, quel nero una volta intenso di profonda mediterraneità, ora spento nei mari lontani della sua memoria e soffocato da quei risolini insistenti e nervosi.

Agostino ha perso ogni libertà, ammesso che ne abbia mai avuta una.

Non parla più e non dice nemmeno “sì, sì”, tanto a che serve? Non interessa a nessuno. Oramai ha un posto e un lavoro, e per tutti è una vittoria del sistema democratico che aiuta i deboli a sentirsi protetti e, soprattutto, accolti.

Come sono lontani i tempi degli orrori razziali! Che grado di civilizzazione ha raggiunto un Paese che sa trovare per ogni caso problematico la scuola speciale giusta!

La madre ringrazia il cielo per aver lasciato allora quella terra maligna che risucchia le quattro ossa di chi rimane ed essere venuta qui, dove è riuscita a inserirsi e a dare un futuro al suo Agostino; un futuro

di fabbrica e scuola speciale. Ma Agostino ride, lei pensa che sia felice ed è contenta.

Questa è l’ultima immagine di Agostino e sua madre che mi sia rimasta in mente.

Eppure la storia di Agostino è così presente e viva nel continuo aggirarmi tra le apparenze e gli inganni del mondo, proprio come i commenti dei colleghi alla notizia che “il rosso“ era entrato nella scuola speciale; commenti che mi ronzano dentro e ancora oggi mi fanno riflettere su un futuro di popoli liberi e fraterni che non conoscono l’emarginazione, ma tante meravigliose strutture perfette, ridenti e soprattutto speciali:

«È la situazione migliore! Tutti quelli che come

Agostino si rifiutano di imparare le nostre regole, devono andare nelle scuole speciali! Che fortuna, le scuole speciali e come sono efficienti! Tutta gente altamente specializzata che compie al meglio il suo lavoro! Proprio quello che ci vuole per molti stranieri che arrivano qui già con molti problemi! E poi insegnano agli allievi delle professioni e gli trovano anche lavoro!

L a v o r o !! Cosa vogliamo di più? Eh sì, è veramente una struttura modello!!!»

La finale

È successo tutto cosí improvvisamente, che neanche me ne sono reso conto, e poi, quando la mano è scivolata e i piedi hanno ceduto, non c’è stato piú niente da fare.

Sono caduto, con un tonfo sordo, nel buio…eterno. Eppure, e alquanto stranamente, quell’improvviso cedere della vita, mi risuona lento alla memoria, come un’interminabile partita a scacchi, dove gli scacchi eravamo noi, mossi da invisibili fili.

La visibilità quel giorno era fantastica; si vedeva benissimo il campo, gli spalti e la curva di fronte alla nostra. Era una tiepida serata di maggio rallegrata dal garrire di rondini inquiete al tramonto; la doppia luce del crepuscolo tinteggiava di carminio quei magici, quasi non veri colori del cielo e delle bandiere: un rosso vivo che ondeggiava in un rosso crepuscolo e sembrava bagnarsi in striate di rosso sangue. Sangue…sí, è sangue!! O Dio... sanguino!! d’improvviso, di colpo, guardavo lo spettacolo del cielo, il sole crepuscolare e le bandiere, quando un sasso, una pietra, non so, mi ha colpito la testa..ahi.. che dolore!! Ma perché? Che succede? È un attimo: vedo gente che corre e corre, si ammassa, cade, come impazzita, inseguita…

Era un sogno che inseguivo da sempre: esserci!!

dovevo esserci, era un appuntamento con la storia, con il destino, che non mi sarei mai lasciato sfuggire! Ma cos’è questo terribile fuggi, fuggi? Mi stanno strappando il sogno..no..non lo permetterò…la bandiera, dov’è la mia bandiera? E la sciarpa? Non la trovo piú..la calca aumenta..ahi..un altro sasso piovuto dal cielo...ma che succede laggiù? Un’orda tinta di rosso con spranghe, bastoni e pietre si sta riversando nel nostro settore..ehi..fermi…che fate.. siete impazziti? Perché nessuno li ferma?? No..non sono esseri umani, ma mostri mandati in guerra! Volti stravolti, ubriachi, fatti, che si lanciano come furie verso di noi e di rosso cospargono le nostre ridenti vesti bianconere, oramai brandelli di carni stracciate. “Fermi!!!” – urlo – “Ma che fate…ohhhh!!”

“Scappa – mi fa eco una voce – non vedi che sono ubriachi, violenti, fuori di senno…scappa…ah!” E la voce si perde, scivola, cade, mentre l’orda barbarica avanza inferocita e mai sazia di sangue umano… Corro, scappo..sí..ma dove?

Vengo schiacciato da una folla che, come me impaurita, corre disperata e mi travolge in una follia che doveva essere un sogno ed ora è un incubo. Scivolo, cado, chiedo aiuto…nessuno mi sente...altri mi cadono sopra...aiuto...non respiro...sprofondo in un buio senza fine e mi rivedo agli inizi.

Da bambino non avevo affatto paura del buio, perché

era nero e, da fiero bianconero, tutto quello che mi ricordava i miei colori preferiti, lo sentivo familiare. E mentre il respiro mi abbandona, rivedo - lo dicono tutti, no?! – frammenti della mia vita in bianco e nero. Come potrebbe non essere così? È un turbinio di eventi cosí veloce, che scorre lento ed ogni fotogramma sembra dilatarsi all’infinito… …come un viaggio allo specchio, la memoria, offuscata, sta tornando indietro ed io ci cado dentro, vorticosamente…eppure tanto lentamente, come se volessi rimanere aggrappato a quel vortice d’immagini, che, indelebili, mi chiamano e sbiadiscono.

La finale, questa finale: il sogno di tutta una vita, il termine da raggiungere, l’incontro voluto con il destino, la fine senza finale…

...a questo appuntamento siamo arrivati in autobus, rigorosamente bianconero, partiti dal mio paesino dove, tra il bianco marmoreo della piazza e il nero plumbeo dei vicoli, ho sempre dato calci ad un pallone, bianconero, con il mio completino: calzoncini neri e maglietta a strisce bianconere e dove ho corso di allegria in allegria, allietando amici, gatti e rondini.

La festa di maturità, camicia bianca e gilet nero, le risate con i compagni di scuola, luminose come il cielo, anche quando il cielo era scuro e minaccioso; le ginocchia sbucciate, le mani sporche, le corse sempre intorno ad una palla e il sigaro del babbo, a volte

l’odore acro della pipa, bianca e nera, e il profumo d’acqua di Colonia della mamma: pelliccia nera su tailleur bianco; l’accecante biancore del sole nelle domeniche d’agosto al mare… il primo pallone di cuoio, ad esagoni bianchi e neri, le prime scarpette nere da pallone con i tacchetti; le prime scale, del duomo, i primi passi; la luce del primo sorriso, della prima carezza e poi…e poi…sempre piú bianco, luminescente, ottundente, assordante, misterioso nel magma dell’inizio, senza il tempo, oltre il tempo, che si illumina, nel silenzio piú nero, e si fonde nel mare nero della fine.

Il bianco è nero e la fine prima della finale. La finale senza fine.

dello stesso premio nell’ambito della IV edizione. Nel 2010 e nel 2011 ha curato il programma radiofonico “Il favoliere”, trasmesso da Radio Colonia, leggendo e interpretando alcune sue storielle per bambini. Nel 2013 ha pubblicato per Ex-Libris, Animali sui pianeti, filastrocche per bambini, nel 2015 per la Casa Editrice Apollo Mo(n)di in rivolta, con annesso eserciziario. Nel 2016 un suo monologo inedito dal titolo Non è vero ha ricevuto il primo premio del concorso internazionale “Regina Margherita” di Bordighera, sezione prosa. Nel 2019 è uscito per Bertoni (Perugia) I racconti del favoliere. Ha ricevuto vari premi, riconoscimenti e menzioni speciali nazionali e internazionali per poesie edite e inedite (nel 2012 anche per un programma di Radio 3, “Chiodo fisso”), nell’ambito di diversi concorsi, tra cui “La città che amo”, promosso dall’ETAB, “Ossi di seppia” XXVII edizione e “Le Occasioni 2021 (di futuro)”, indetto da “Mondo fluttuante”. Nel 2023 ha pubblicato Ci sarà una volta...Jacopone, Bertoni, Perugia. La figlia Elen ha curato la veste grafica dei suoi libri.

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