Emanuele Edilio Pelilli, Anna Luna Astolfi giro d'italia: Ischia
Saverio Verini
studio visit: Daniele Formica
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Valentina Silvestrini architettura
A Milano apre la casa degli archivi di architettura. + Osservatorio Rigenerazione
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Cristina Masturzo mercato
Dobbiamo parlare d’arte, mentre tutto il nostro mondo trema
STORIES
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Alberto Villa
Senza Parole + Giulia Giaume (a cura di)
Alberto Villa
dietro la copertina
Nina Carini.
Sulla soglia dell’invisibile
Dario Moalli
libri
Dentro l’oltre. Ovvero il primo libro biografico su Lucio Fontana
Ferruccio Giromini
opera sexy
Ivy Haldeman, hot dog e banane
Ludovica Palmieri
In arrivo la XV Florence Biennale. Intervista al direttore Jacopo Celona
Claudia Giraud A Monopoli 10 anni di PhEST: festival internazionale di fotografia e arte in Puglia
Caterina Angelucci
osservatorio residenze
MARES, la residenza d’artista in Piemonte che valorizza la provincia
Alberto Villa L’AUSTRIA SPLENDE D’AUTUNNO. COSA VEDERE TRA ARTE, TRADIZIONI E PAESAGGI
Da Vienna alla regione di Saalfelden Leogang, dalla musica all'arte e alla natura, l'Austria non smette mai di sorprendere
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Maria Oppo COME STA LA POESIA ITALIANA? 10 NOMI CHE STANNO RIDEFINENDO LA SCENA EMERGENTE
Non hanno più di 35 anni gli autori e le autrici che abbiamo selezionato per raccontarvi lo stato di salute della poesia italiana contemporanea, tra rottura con il passato e necessità di fare rete
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Valeria Radkevych LE ISTITUZIONI
CULTURALI IN UCRAINA SI TRASFORMANO IN RIFUGI ANTIAEREI (E VICEVERSA)
A oltre tre anni dall’invasione russa, il sistema dell’arte ucraino dimostra una grandissima resilienza, trasformando rifugi antiaerei in spazi espositivi e viceversa. Un reportage tra Kharkiv, Kyiv e Lviv
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Alberto Villa, Livia Montagnoli LE ACCADEMIE DI BELLE
ARTI. INDAGINE SUL PANORAMA ITALIANO (CAPITOLO 1)
Che siano attive dal Seicento o dagli Anni Sessanta, le Accademie di Belle Arti italiane racchiudono un knowhow che vale la pena sottolineare. Una selezione di alcuni fra gli istituiti più rilevanti da Nord a Sud
Alex Urso (a cura di) short novel Alessandro Baronciani Le ali, il vuoto
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Santa Nastro (a cura di) talk show Gaza: serve un intervento più radicale del mondo dell’arte?
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Massimiliano Tonelli Una grande operazione mecenatistica di Barilla che Barilla ha scelto di non far sapere a nessuno
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Anna Detheridge L'ascesa del curatore indipendente (e il silenzio dei musei!)
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Fabrizio Federici Più colore nei musei italiani
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Angela Vettese Cultura nera contro l'antropocene
100
Marcello Faletra L'eredità di "Manhattan Transfer". Un secolo dopo
101
Christian Caliandro A che cosa serve l'arte contemporanea, oggi?
GRANDI MOSTRE #48
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Livia Montagnoli Il pittore della riconciliazione tra uomo e natura protagonista di un’ampia retrospettiva in Veneto
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Nicola Davide Angerame Tutto l’oro dei Faraoni in mostra alle Scuderie del Quirinale di Roma
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Valentina Muzi L’arte informale, surrealista e brut di Slavko Kopač. A Firenze
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Stefano Castelli L’artista Joana Vasconcelos protagonista di una grande mostra in Svizzera
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Sophie Marie Piccoli Dall’astrazione all’impegno politico. Richard Paul Lohse protagonista di una retrospettiva in Svizzera
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Giulia Giaume
Conoscere Leonora Carrington. L’intervista ai curatori in vista della grande mostra a Milano
84
Beatrice Caprioli Nuovi futuri per il New Museum di Manhattan. Intervista al direttore artistico Massimiliano Gioni
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Marta Santacatterina Come si restaura un’opera prima di una grande mostra? Parla Emanuela Daffra, Soprintendente dell’Opificio delle Pietre Dure
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Grandi Mostre in Italia in queste settimane
GIRO D'ITALIA: ISCHIA
Secondo il poema che Esiodo dedica alla nascita degli dèi e all’origine dell’universo, la sua Teogonia, Tifeo era figlio di Gea, la terra, e Tartaro, il regno sotterraneo, ed era incarnazione del caos e della violenza primordiale. La sua nascita si fa risalire ad un atto di vendetta di Gea contro Zeus, colpevole di aver ucciso i titani e i giganti, suoi figli. La battaglia di Tifeo con Zeus rappresenta un momento emblematico nella lotta del nuovo ordine olimpico contro il caos primordiale e sotterraneo. Leggenda vuole che, una volta sconfitto Tifeo, questo venga sepolto da Zeus sottoterra, precisamente sotto l’isola di Ischia e il suo monte Epomeo, vero coperchio e apice, con i suoi 800 metri di altezza. E, proprio la sua presenza mai completamente sopita, dona l’identità ibrida al luogo. Qui, la geologia si intreccia con il mito, e questo alla toponomastica dell’isola, i cui luoghi corrispondono alle parti del corpo del gigante ctonio. E la sua attività spiegherebbe la presenza intensa di attività geotermiche e vulcaniche, acque termali e fumarole. Il ribollire del sotterraneo si fa presenza terrestre, il primordiale si riverbera nel contemporaneo, il mito si intreccia con la storia. Arrivando ad Ischia, ci si accorge immediatamente di raggiungere un odoroso mondo ulteriore, o meglio, un mundus, nell’accezione latina del termine, quella fossa circolare che ricordava la sfera celeste e che metteva in comunicazione il mondo dei vivi e quello dei morti, consacrata ai Mani e aperta tre volte l’anno, nel momento del mundus patet, “il mondo è aperto”. Rito purificatorio teso a mondare il sopra con il sotto, il profano con il sacro, lo storico con lo ctonio.
E questo è quello che avviene in quell’enorme mondo aperto che è l’isola di Ischia, dove le terme e le sorgenti bucherellano ovunque il sopra con il sotto. Come, per citarne una tra molte, nelle sorgenti di Sorgeto dove, scendendo una lunga scalinata, ci si ritrova in una
baia in cui l’acqua fresca del mare si indetermina con quella bollente delle profondità, dove l’esterno si fa intimo e casalingo, diventando anche cucina a cielo aperto, secondo tradizione. Facendosi spazio tra indigeni e forestieri, inoltrandosi in una babele di lingue e dialetti in cui solo la gestualità e le esclamazioni si fanno eloquenti, scottandosi con l’acqua bollente zampillante dal mare che, increduli, si sfida e si dà per scontata, forse ci si riesce ad accaparrare uno spazietto in una delle piscine naturali intermedie, dove le correnti bollenti si toccano con quelle fredde del mare. Oppure le fumarole di Sant’Angelo, dove l’intensa energia termica raggiunge i cento gradi producendo nuvole di vapore e getti bollenti, considerati come l’atavico respiro del sotterraneo gigante Tifeo. Il tutto tra una birra e un gelato, nel via vai del borghetto omonimo, dove le case pallide si affacciano sul mare e si colorano di fioriture viola e lilla. Soglia tra mondi è anche la meravigliosa Mortella, giardino botanico dell’isola, in cui a partire dal terreno vulcanico si entra in un luogo in cui si giustappongono, a valle, coperta e riparata, un clima subtropicale con le sue creature – agavi, palme, aloe, felci – e sulla collina uno squisitamente mediterraneo, con lavande, ginestre e oleandri. Venendo dalla violenza vulcanica, la pacatezza e l’infinita varietà di questi giardini conducono in un ulteriore universo, una surrealtà dove le vegetazioni si mescolano, così come le lingue dei visitatori e l’onirico con il reale. E ci si ritrova, per prender fiato e metabolizzare i colori e le forme, a perdersi in silenzio proprio nella varietà delle ninfee, da quella cerulea dai fiori blu, a quella enorme amazzonica, ai fiori di loto. Qualche bambino si rincorre schiamazzando, qualche signore di una certa età arranca col bastone per colmare i dislivelli dei giardini. Ma da sfondo lo fa sempre il blu del mare in lontananza e la sconclusionata geografia urbana dell’isola.
EMANUELE EDILIO PELILLI, filosofo [testo]
ANNA LUNA ASTOLFI [foto]
Anna Luna Astolfi, Ischia , 2025, Courtesy l’autrice
STUDIO VISIT DANIELE FORMICA
di SAVERIO VERINI
Ènato in Italia, ma nel suo paese d’origine non ha ancora mai esposto. L’irrequietezza che, neanche ventenne, lo ha portato in Olanda è la stessa che si può trovare nelle sue opere. Daniele Formica è un artista iperattivo: pensiero e azione vanno di pari passo nel suo lavoro, come un flusso inarrestabile di coscienza e gesto. Ne nascono interventi alimentati da un eclettismo pantagruelico, che si riflette anche sulle tecniche: disegno, video, pittura, performance, scultura e scrittura sono impiegate con grande disinvoltura da Formica, dando corpo a una pratica nella quale coesistono vitalità e traumi, fibrillazione e riflessone introspettiva. Più che da sentimenti sedimentati, le opere dell’artista sembrano essere generate da intuizioni momentanee: forse è per questo che, osservando il suo lavoro, si ha la sensazione che a regnare nella testa di Formica sia una feconda incertezza.
Nella tua pratica convivono anime diverse, come se dietro alle opere ci fosse un’autorialità collettiva e non immediatamente identificabile. Da dove nasce questa felice “dissociazione” artistica? Il concetto di persona mi ispira e fa adirare allo stesso tempo. Come faccio a considerarmi la stessa persona quando bevo un caffè, voto o faccio sesso? Nome, leggi, fisico, linguaggio, memoria, capitale, materiali, connessioni, emozioni, sentimenti e idee: l’arte è la possibilità di trasformarmi in quello che penso e sento in determinati momenti; di reinterpretare e ricomprendere facendo esperienza del processo di significazione della vita e della persona. Questa proto-performance nasce proprio per ripensarmi verso un trascendentale e continuo miglioramento. Per esempio, nel 2022, su una busta di carta dal mercato di piazza Vittorio a Roma, scrissi la lista “IO NON SONO […]”, sottolineando la fuggevolezza dell’identità quando ci si impegna a pensare di dire ciò che veramente si è.
In un sistema dell’arte che spesso invoca immediata riconoscibilità, la tua posizione sembra piuttosto controcorrente. Quali sono i limiti e le opportunità che derivano da questa attitudine? Sono interessato a utilizzare l’arte proprio per smontare la familiarità con la quale si conquista il circostante, posizionandomi contro la strumentalizzazione della facilità, che automaticamente porta al conformismo. Questo può causare difficoltà nel coinvolgere chi non conosce a fondo il mio lavoro, e come artista emergente posso contare su pochi sostenitori. Promuovere il mio lavoro è una sfida, perché quello che faccio è difficile da verbalizzare sinteticamente, ma in ciò ho potuto contare sul supporto di Ellen De Bruijne, una delle gallerie più riconosciute in Olanda, dove nel 2021 ho avuto la mia prima mostra personale, Boys by the pool. È una collaborazione che va ancora felicemente avanti.
Sono interessato a utilizzare l’arte proprio per smontare la familiarità con la quale si conquista il circostante
La molteplicità di tecniche e mezzi espressivi lascia intendere un orizzonte di riferimenti piuttosto largo. Quali sono le tue fonti d’ispirazione? Il mio orizzonte di riferimenti è largo perché vivo, mutabile, come un paesaggio o una volta celeste: nuove nozioni ed esperienze permettono di approfondire e tessere spontanee connessioni con ciò che ho appreso precedentemente, cambiando la forma del sapere, l’ordine di pensieri e idee. Per esempio, la serie Le Pause (2025) è scaturita, tra altri riferimenti, da letture sul corpo e sulla danza contemporanea, in particolare di Steve Paxton, e dai concetti di esperienza pura e di nulla nel buddismo Zen. Quindi, ispirato ulteriormente dal testo Il farmaco di Platone di Jacques Derrida, dove l’impermanenza della trasmissione orale e la sostanza della forma scritta vengono lette nelle loro influenze sul sapere umano, ho cercato di combinare danza e coreografia con il segno e la sua evanescenza, fra impermanenza e traccia, imprimendo il mio corpo in una successione di pose su tele semitrasparenti.
Quale deriva ti spaventa di più del fare arte?
Tutto mi spaventa e ispira. Più di ogni cosa, temo di diventare arrogante e cinico, perdendo passione e curiosità. Per quello che riguarda la mia pratica, evito di ripetere lavori che non siano necessari, specialmente quando ho concluso una sequenza di riflessioni. Non mi piace tornare indietro, almeno finora, e preferisco spostarmi altrove, aggiungendo e andando verso pensieri nuovi.
La tua formazione artistica è avvenuta integralmente all’estero. Come mai hai scelto di lasciare l’Italia subito dopo la scuola?
Sono nato a Perugia quasi per caso. Lì sono cresciuto sognando nei vicoli stretti e bui, sotto le arcate di chiese e palazzi che s’innalzano screpolati, sentendomi oppresso, insicuro e confinato. Già durante il liceo volevo fuggire, e restare in Italia non era sufficientemente lontano. È stata una fuga per cause
Daniele Formica è nato nel 1996 a Perugia. Nel 2015 si è trasferito a L’Aia, in Olanda per studiare all’Accademia Reale di Belle Arti (KABK), dove si è diplomato nel 2019 ricevendo il Premio di dipartimento. Nello stesso anno fonda Hgtomi Rosa (realtà attiva fino al 2024), che studia e realizza esperimenti collettivi che riguardano il processo artistico e le modalità attraverso cui viene presentato. Dal 2021 è rappresentato dalla galleria EDB Projects di Amsterdam, dove ha tenuto due mostre personali, Boys by the pool (2021) e Lonely Legionnaires (2024). Nel 2022 è tra i fellow del programma di studi CASTRO, a Roma, mentre nel 2024 è in residenza a St.A.i.R. (Styria Artist in Residence), in Austria. Sempre nel 2024 ha esposto in Belgio, alla galleria Fred&Ferry di Anversa, e ha partecipato a fiere d’arte olandesi e internazionali come June art fair (2025) a Basilea, in Svizzera. Attualmente sta lavorando a una mostra personale in dialogo con opere di Joseph Beuys, che inaugurerà al Museum Schloss Moyland di Kleve, in Germania, nel 2026.
PaperBag-3. List of Io non sono (I am not) , 2022, penna su busta di carta, 70 x 42 cm
Five Standing Pauses (a group), 2025, acrilico su tela di cotone, 202.5 x 360 cm
Boys by the pool, 2021, veduta della mostra alla galleria EDB Projects, Amsterdam
U big black wolf, 2022, cotone, 180 x 210 x 15 cm
NEI NUMERI PRECEDENTI
#58 Mattia Pajè
#59 Stefania Carlotti
#61 Lucia Cantò
#62 Giovanni de Cataldo
#63 Giulia Poppi
#64 Leonardo Pellicanò
#65 Ambra Castagnetti
#67 Marco Vitale
#68 Paolo Bufalini
#69 Giuliana Rosso
#70 Alessandro Manfrin
#71 Carmela De Falco
#72 Daniele Di Girolamo
#73 Jacopo Martinotti
#74 Anouk Chambaz
#75 Binta Diaw
#76 Clarissa Baldassarri
#77 Luca Ferrero
#78 Francesco Alberico
#79 Ludovica Anversa
#80 Letizia Lucchetti
#81 Bekhbaatar Enkhtur
#82 Federica Di Pietrantonio
#83 Nicola Bizzarri
#84 Francesca Brugola
#85 Giuseppe Lo Cascio
List of actions that deal with states of matter, 2020, acquerello su carta, 42 x 30 cm
socioculturali più che economiche. Non volevo restare, non mi piaceva il modo in cui pensavano le persone intorno a me. Amo sentirmi straniero, non appartenere, allontanarmi e vedere dov’ero da nuovi punti di vista, allargando il mio orizzonte biografico.
Ti piacerebbe tornare in pianta stabile?
Mi piace guardare il tutto da lontano, come fossi tra le stelle. Il paese continua a vestirsi di antichi cimeli per farsi bello e nascondere le deformità umane della sua anima bugiarda. Sulle pianure nordeuropee si respira l’attesa di un miracolo che viene piano, troppo piano, e che forse non ti raggiunge mai. Il mio viaggio alla scoperta non è ancora finito. In futuro tornerò a pagare le tasse in Italia così da sentirmi più partecipe?
Qual è l’opera da te realizzata alla quale ti senti più attaccato?
La massa di disegni (2025) è una scultura fatta con miei disegni, schizzi e appunti su carta (prodotti tra il 2010 e il 2025) che ho strappato minuziosamente e ridotto in una poltiglia grigia con dei frullatori da cucina aggiungendo acqua. Successivamente ho pressato questa poltiglia in una scatola di cartone per traslochi, che si è deformata per il peso, dando stampo a uno strano blocco gri-
Il mio orizzonte di riferimenti è largo perché vivo, mutabile, come un paesaggio
o una volta celeste
gio che lentamente si è essiccato. Quello che mi piace di questa opera è la compressione analogica di informazione, pensieri e idee di una vita, che diventano irreperibili ed essenzialmente ridotti alle loro dimensioni fisiche di massa, peso, volume e densità. Suggerisce di dare attenzione alla vita e all’arte in termini “quantitativi”.
Puoi raccontare un progetto a cui stai lavorando o che tieni nel cassetto e vorresti realizzare?
C’è una piccola incudine a casa di mia nonna. Apparteneva al mio bisnonno, che faceva coperchi per pentole coi barili contenenti combustibile per areoplani durante la guerra. C’è una poltrona nella camera da letto di mia madre, dove dice di avermi allattato. C’è un mattoncino di fango fatto da un bambino, su cui ha inciso le sue iniziali. Ci sono i giochi del gatto, una Fiat Cinquecento rossa impolverata, e tanti altri oggetti, muti e parlanti, in una stanza immaginaria dove il domestico e il simbolico si intrecciano, astraendo la narrazione di una vita e delle sue cosmiche possibilità. La stanza potrebbe essere un cassetto, un teatro della memoria, o forse esiste davvero, da qualche altra parte nello spazio-tempo.
SENZA PAROLE
Lavoro con le parole tutti i giorni. E tutti i giorni le leggo, le correggo, le scelgo, le scrivo. Da quando faccio questo lavoro ho imparato che c’è la parola corretta per ogni cosa e, se non c’è, abbiamo tutti i mezzi per inventarla. È da un po’ di tempo, tuttavia, che ho una strana sensazione: è come se le parole, quelle che non mi hanno mai abbandonato, si stiano diluendo sempre di più. Si fanno più rare. Come se la punta della penna si sia improvvisamente fatta più stretta, o le parole più grandi, e pesanti. Forse è per questo che tanti si ostinano a non parlare di genocidio in riferimento a quanto, da decenni, sta accadendo a Gaza e nella Palestina tutta. O forse è per una precisa volontà di tenere lontane le parole e le cose, riempiendo il vuoto che si crea non si sa con cosa.
Ad Atene la Fondazione Onassis apre un nuovo spazio multidisciplinare in un’ex fabbrica di plastica
CATERINA ANGELUCCI L Situato nel quartiere industriale Agios Ioannis Rentis, Onassis Ready sarà un centro creativo di 3.760 metri quadri dedicato alla sperimentazione e alla ricerca contemporanea. L’edificio, un’ex fabbrica di plastica che aprirà al pubblico dal 19 ottobre 2025 è stato progettato come un organismo vivo, aperto, in ascolto. Non a caso, ospiterà anche la sede ateniese di Onassis ONX, la piattaforma internazionale nata a New York, sempre su iniziativa della Fondazione Onassis, dedicata agli artisti che operano tra arte, tecnologia e nuovi media. A inaugurare lo spazio sarà la retrospettiva You Are Invited dedicata al fotografo tedesco Juergen Teller (Erlangen, 1964) tra scatti iconici e immagini inedite. Il progetto Onassis Ready si inserisce all’interno del più ampio ecosistema di Onassis Culture, il cui cuore pulsante è Onassis Stegi, teatro e centro culturale che da anni promuove artisti e pensiero critico.
C’è un nuovo museo in Costa Azzurra grazie ad una coppia di mecenati italiani
LIVIA MONTAGNOLI L Il Musée Marabini-Martac, che dai suoi fondatori prende il nome, ha aperto le porte all’inizio dell’estate, nella cittadina francese di Mentone, tra le località più apprezzate della Costa Azzurra, immediatamente dopo il confine con l’Italia. Ed è in parte italiano il progetto che ha portato all’inaugurazione del nuovo spazio culturale – il primo museo privato di Mentone – frutto della ristrutturazione dello storico Hotel des Amabassadeurs, edificio progettato nel 1865 da Gustave Eiffel in stile Belle Epoque, al civico 3 di Rue Partouneaux. Sono infatti i proprietari italiani dell’albergo, Liana Marabini-Martac e Mauro Marabini, ad aver pensato di riconvertire la struttura in museo per esporvi più di 900 opere tra dipinti, sculture, fotografie, libri, manoscritti di artisti e scrittori.
Le mie parole si fanno tanto più rare quanto più si oscura il futuro di chi lotta per l’indipendenza e per la libertà. Non solo in Palestina, ma anche in Ucraina e in tutti i luoghi di conflitto. Le parole scompaiono, come quelle sulla copertina di questo magazine, la partitura dell’opera sonora Le cose in pericolo, dell’artista Nina Carini. Forse ci sarà chi, meglio di me, potrà trovare le parole giuste: i poeti lo hanno sempre fatto e continuano a farlo, come dimostra l’approfondimento di Maria Oppo sulla poesia emergente contemporanea.
Come sempre, la pluralità dei contenuti è tale da non poter essere riassunta in poche righe: per quello c’è l’indice. Nelle prossime pagine vi racconteremo libri e residenze d’artista, Accademie di Belle Arti e novità in
termini di mercato e architettura. Ma in questo numero troverete soprattutto parole forti e parole non dette, parole che fanno arrabbiare e parole che fanno riflettere. Accettare il libero scambio tra posizioni diverse è un fondamento imprescindibile della democrazia, secondo solo al prendersi la responsabilità di tali posizioni. E in questi giorni, in questi mesi, in questi anni, la responsabilità di chi scrive non può essere confusa o sottovalutata. Noi, che lasciamo nero su bianco i nostri pensieri, dobbiamo essere la penna di chi non può scrivere, la voce di chi non può parlare, il grido di chi non può urlare. Per provare, fino all’ultimo, a scalfire occhi che non vogliono guardare e orecchie che non vogliono sentire.
La nuova vita di Villa Manin in Friuli. Diventerà un centro di residenza per le arti performative LIVIA MONTAGNOLI L La storica residenza nel comune di Codroipo, già dimora dei dogi, diventerà presto scuola per le arti performative – Centro di residenza creativa e culturale per lo spettacolo dal vivo – grazie al co-finanziamento frutto dell’accordo tra Regione e Ministero della Cultura, raggiunto alla metà di luglio scorso. L’attivazione del progetto presso il complesso monumentale di Passariano si articola, per ora, nell’arco temporale del triennio 2025-2027. Si punta così a superare il modello Residenze nei territori cui già negli anni passati la Regione aveva aderito attivando spazi temporanei sparsi sul territorio, da destinare alle produzioni creative: Villa Manin, infatti, diventerà residenza artistica stabile, beneficiando di uno stanziamento che supera i 670mila euro solo per il primo anno di attività.
Nel 2026 a New York apre Canyon. Un nuovo centro per l’arte, tra video, suono e performance
LIVIA MONTAGNOLI L Si preannuncia a New York, per il 2026, la nascita di un nuovo spazio culturale che sta destando curiosità. Si chiamerà Canyon, e sarà un centro dedicato alle arti performative e time-based: un progetto promosso dal collezionista e filantropo Robert Rosenkranz con Joe Thompson, già alla guida del MASS MoCA – il Museo di Arte Contemporanea del Massacchusetts – dalla prima fase embrionale alla fine degli Anni Ottanta fino al 2021. Proprio la lunga esperienza di Thompson sarà messa al servizio del nuovo museo newyorkese, che nascerà all’interno di un ex fondo commerciale dismesso da tempo, nel Lower East Side, nei pressi del ponte di Williamsburg (al 200 di Broome Street) come uno spazio conviviale, che invogli le persone a recarsi al museo come farebbero per trascorrere una serata a teatro o a cena con gli amici.
ALBERTO VILLA
DIRETTORE
Massimiliano Tonelli
DIREZIONE
Santa Nastro [vicedirettrice] Giulia Giaume [caporedattrice]
COORDINAMENTO MAGAZINE
Alberto Villa
Valentina Muzi [Grandi Mostre]
REDAZIONE
Caterina Angelucci | Irene Fanizza Claudia Giraud | Livia Montagnoli Ludovica Palmieri | Roberta Pisa Emma Sedini | Valentina Silvestrini Alex Urso
PROGETTI SPECIALI
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PROGETTO GRAFICO
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COPERTINA ARTRIBUNE
Nina Carini, Lacandon, Le cose in pericolo 2023. Partitura, immagine digitale stampata in occasione del libro "Aperçues" (Allemandi, 2023). Estratti di testo da Glossopetrae di Simona Menicocci e interventi degli alunni dell’Istituto Armando Diaz e dell’Istituto Antonio Scarpa di Milano
CSQ — Centro Stampa Quotidiani via dell’Industria 52 — Erbusco (BS)
DIRETTORE RESPONSABILE Paolo Cuccia
EDITORE & REDAZIONE
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Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 184/2011 del 17 giugno 2011
Chiuso in redazione il 16 settembre 2025
A TORINO TORNA LUCI
D’ARTISTA CON NUOVE
INSTALLAZIONI FIRMATE DA ARTISTI INTERNAZIONALI
VALENTINA MUZI L Per la 28esima edizione della manifestazione d’arte a cielo aperto sono attese nuove luci concepite per lo spazio pubblico e firmate da artisti del panorama contemporaneo: sono Tracey Emin, Gintaras Didžiapetris e Riccardo Previdi (nell’ambito della partnership con le Nitto ATP Finals). “Penso si possa affermare che Luci d’Artista è diventata a tutti gli effetti la principale manifestazione di arte pubblica in Italia, e probabilmente la più longeva, visto che continua ininterrottamente dal 1998”, ha detto il curatore Antonio Grulli ad Artribune
sopra: Daniel Buren, Tappeto Volante , ph. Paola Zuliani, courtesy Fiaf sotto: Michelangelo Pistoletto, Amare le differenze , ph. Marco Briola, courtesy Fiaf
Ponte sullo Stretto: nel progetto c’è anche la firma del grande architetto Daniel Libeskind. Farà il Centro Direzionale in Calabria
LIVIA MONTAGNOLI L Chi contesta l’operazione avanza dubbi sulla fattibilità tecnica dell’opera di ingegneria, nonché sul suo impatto ambientale, sui costi elevati del cantiere e sui reali benefici per il territorio. I sostenitori, Consiglio dei Ministri in prima linea, invece, fanno leva sull’ambizione del progetto – il ponte sullo Stretto di Messina dovrebbe essere il più lungo ponte strallato al mondo, coprendo una distanza di 3,3 km tra i due pilastri di estremità, e consentire il transito di mezzi gommati e treni ad alta velocità – oltre che sulla possibilità di influenzare positivamente lo sviluppo economico del Mezzogiorno e sulla riduzione dei tempi di trasporto. Il progetto (il cui valore aggiornato è di circa 13,5 miliardi di euro) è stato sottoposto a diverse revisioni, fino all’approvazione ratificata lo scorso 6 agosto. Sul versante calabrese sembra essere confermata anche la realizzazione di un Centro Direzionale, che sorgerà in località Piale e andrà a ospitare attività connesse alla gestione del Ponte e servizi quali negozi, ristoranti e centro convegni. Dietro c’è la firma dell’architetto Daniel Libeskind, già coinvolto nel primo progetto per il Ponte sullo Stretto datato 2010.
In uno storico palazzo di Mantova apre un importante museo d’arte contemporanea
VALENTINA MUZI L Costruito intorno al 1250, Palazzo della Ragione a Mantova era nato per assolvere funzioni civili, accogliendo assemblee e adunanze cittadine. Nel corso dei secoli, l’edificio fu più volte oggetto di modifiche, fino al 1900 quando fu riportato alla sua struttura originaria dall’architetto mantovano Aldo Andreani che eliminò le sovrapposizioni barocche. Infine, nel 1997, lo storico palazzo si è trasformato in una sede espositiva dei Musei Civici di Mantova, ospitando diverse mostre d’arte organizzate dall’amministrazione comunale. Negli spazi recentemente rinnovati di Palazzo della Ragione verrà inaugurato il 29 novembre 2025 un museo d’arte contemporanea ospitando permanentemente opere provenienti dalla Sonnabend Collection. Diretto da Mario Codognato, il nuovo polo godrà di un progetto allestitivo firmato da Federico Fedel che rifletterà la visione e gli interessi dei Sonnabend. Suddiviso in 11 ambienti, il percorso espositivo riunisce capolavori di Jasper Johns, Roy Lichtenstein, Andy Warhol, Robert Rauschenberg, esposti accanto a opere seminali della Pop Art, dove spiccano i nomi di Jim Dine, James Rosenquist e Tom Wesselmann e la ricerca coeva in Italia di artisti come Michelangelo Pistoletto e Mario Schifano. Il percorso continua e attraversa il Minimalismo con Donald Judd e Robert Morris e i loro rivoluzionari sviluppi nel campo della sculturacon Bruce Nauman e Richard Serra, nonché con l’Arte Povera, che Sonnabend ha esposto per prima a New York con artisti di spessore come Giovanni Anselmo, Jannis Kounellis, Mario Merz, Giulio Paolini e Gilberto Zorio.
NINA CARINI SULLA SOGLIA DELL’INVISIBILE
di ALBERTO VILLA
Non so definire che cosa, dei lavori di Nina Carini (Palermo, 1984), mi colpisca di più. Se la sua capacità di rendere semplici cose estremamente complesse, o la grande eleganza con cui lo fa. Quello che so è che, in un momento così saturo di stimoli, le sue opere – con la loro tensione verso il vuoto, il silenzio, l’invisibile, l’infinito – sono a dir poco rigeneranti. Nel chiederci una pausa, ricambiano con molto di più: ci insegnano ad assaporare lentamente e pienamente ciò che ci circonda, anche mentre tutto scompare. La copertina di questo Artribune Magazine è la partitura dell’opera sonora Le cose in pericolo (A, B, C, D, E…) e – come spiega Nina in questa intervista – è dedicata proprio a tutto ciò che sta andando perduto.
Quando hai iniziato a fare arte e perché?
Non ricordo una data precisa, già da piccola ero molto curiosa verso le immagini, soprattutto quelle astratte. Poi è arrivato il bisogno di creare, non è stata una scelta razionale ma una necessità, non potevo farne a meno. Mi sono formata all’Accademia di Belle Arti di Verona, poi ho frequentato il Biennio a Brera e infine un master alla Ensba di Lione, dove ho concepito la performance Confine (2018), oggi parte della collezione del Museo MART di Rovereto. Ho abbandonato fin dagli studi in Accademia le ricerche in ambito pittorico per concentrarmi sulle possibilità dei medium, già all’ultimo anno di Biennio esploravo il linguaggio sonoro.
Tengo sempre le antenne accese verso il mondo e lavoro molto anche con il mio subconscio: lascio che nascano immagini oniriche, che provengono dai miei sogni o dalle mie letture. Ci sono elementi che attraggono la mia attenzione più di altri, come la luce, la voce, il tempo, la percezione, il linguaggio.
La tua pratica artistica si confronta con tanti medium: la scultura, il disegno, la poesia, la scrittura, l’installazione, la fotografia, il suono. Nella tua mente un’opera nasce prima come forma (e quindi come tecnica) o come concetto?
Gli approcci alla creazione sono diversi, non c’è un modus unico, a volte parte tutto da una domanda e il lungo processo per arrivare alla risposta crea l’opera – di solito in questo caso c’è un tema che mi ossessiona e c’è sempre una lunga fase di studio e ricerca dedicata alla conoscenza o all’approfondimento dei fenomeni che sto esaminando. Altre volte mi appare direttamente la forma, come una visione. Questo è un approccio più recente, avviene da quando mi sono avvicinata alla scultura, come con Mani come rami che toccano cielo, la grande scultura in bronzo prodotta durante la residenza a Fonderia Artistica Battaglia, quando in un quaderno di appunti ho disegnato quelle lunghissime braccia. C’è molto questa pratica diaristica nel mio lavoro, fogli bianchi riempiti di schizzi in matita, versi o mappe di parole. Ogni opera attraversa un periodo di forte tensione prima di nascere. È successo con Lingue di Cielo (2023–2025), una installazione che, dopo due
Nina Carini, Lingue di Cielo , 2023-2025, installation view a Palazzo Lantieri, Gorizia. Photo Lorenzo Palmieri
anni di lavoro è ora esposta a Palazzo Lantieri a Gorizia, dove convivono materiali organici, fossili, sculture e superfici riflettenti. Un insieme che genera una narrazione circolare, un contenitore di energia.
A proposito di Lingue di Cielo: qui, come in altre opere tra cui Occhi in lacrime, insisti sulla trasparenza del materiale e, in una certa misura, anche sul riflesso. Quanto è presente questa tensione nella tua ricerca?
Lingue di Cielo credo abbia raggiunto una sintesi che va oltre l’aspetto riflettente, dal vivo l’opera sembra creare vibrazioni. È un lavoro composto da vari elementi ed ognuno di essi contiene un aspetto energetico. L’installazione è posizionata a pavimento e i vari componenti formano un disegno frutto di una ricerca sui simboli delle costellazioni. È come se avessi sezionato una porzione di cielo e l’avessi portata a terra. All’interno si trovano organismi naturali: prodotti di lunghi processi geologici che avvengono nel sottosuolo – i minerali. I fossili, testimoni del tempo profondo –forme che attraversano ere e sopravvivono alla fine. Il contrasto tra la permanenza minerale e la transitorietà umana – qualcosa di effimero, inafferrabile, ma anche comunicativo e verticale, come un ponte tra terra e infinito. C’è sicuramente una relazione con la luce data dai supporti in vetro e dalle micro-sculture in bronzo lucidato a specchio, creazioni che nascono dalla ricerca su alcuni frammenti di fossile animale: facendo lo stampo di queste forme e lavorando le cere prodotte nascevano nuovi esseri. Mi interessa il contrasto tra ciò che è eterno — la materia geologica — e ciò che è effimero e il ritmo che si crea nella coreografia di questi elementi. L’opera si osserva muovendosi: il fruitore è costretto a girarle intorno, come fa il tempo con noi. Il riflesso diventa movimento, e il movimento un modo per restare nel presente.
Quello che ho notato, sin mio primo incontro i tuoi lavori, è la tua capacità di valorizzare il silenzio, anche visivo. Qual è il ruolo del vuoto, dello spazio negativo, all’interno della tua pratica?
Il vuoto nell’immagine è una delle cose che rincorro, ed è anche uno dei motivi per il quale sono sempre più vicina al suono e alla luce – elementi che scolpiscono lo spazio ma che risultano trasparenti. La diffidenza verso l’immagine è indice del modo di pormi in relazione ai materiali e allo sviluppo del lavoro necessario alla realizzazione dell’opera. Mi pongo alla giusta distanza, accettando che si possano prendere molteplici direzioni per realizzarla. Ecco perché a volte la frammento come con Lingue di Cielo. Penso che l’installazione mi dia la possibilità di tenere insieme più parti attraverso continue trasformazioni. Alla base c’è anche un’urgenza di creare partiture mobili, che si muovano nel tempo. Non mi interessa l’immagine come fissazione, ma come campo di possibilità. The indeterminacy of an encounter, lavoro site specific prodotto per Fondazione Merz, partiva da questa esigenza – creare qualcosa di indeterminato nel tempo, un’opera che attraverso la relazione con la natura risultava diversa ogni giorno.
In Le cose in pericolo (A, B, C, D, E…) hai creato un’installazione sonora ambientale, in cui vengono pronunciate parole legate a lingue, culture e luoghi che rischiano di scomparire. Come ti confronti con l’invisibilità? È un punto di non ritorno, una frontiera o entrambe?
Esatto, l’opera è dedicata a quanto sta per estinguersi nel nostro mondo. Cinque gruppi di bambini della scuola primaria leggono elenchi in una lingua incomprensibile. Sono parole che indicano ciò che sta per scomparire: lingue, tribù, parti geografiche del mondo. Il lavoro nasce da un incontro con il poemetto Glossopetrae di Simona Menicocci. Come rivela il nome, ci troviamo di fronte a pietre di linguaggio, a parole sconosciute. L’installazione è costituita da quattro casse non visibili. L’invisibilità fa parte del mio bisogno di decostruire l’immagine per poi ricrearla. Oggi tutto ci arriva nella sua vulnerabilità: perché dovrei tendere ad un’immagine solida? Allo stesso modo, il suono è invisibile, ma anche presente. Persino disturbante rispetto ad altre presenze. Pensiamo alle mostre con più opere: se ve ne è una sonora investirà anche le altre, non puoi fare a meno di sentirla in quello spazio. La libertà che mi consente il suono è tale da potermi porre all’intersezione tra visibile e invisibile. Per me è anche un modo per discutere la presenza delle mie opere: attraverso di esse richiedo al fruitore molto ascolto ma, dal punto di vista della loro concretezza, non sono ambiziose, hanno sempre un ché di sospeso. Non penso immediatamente la presenza come materialità poiché in fondo ha a che fare con l’essere umano. Possiamo essere presenti ma risultare ugualmente invisibili.
In che direzione si sta rivolgendo la tua pratica?
Quali sono i tuoi progetti futuri?
È un momento di nuove produzioni, in cui sto continuando a esplorare la scultura e l’installazione, con un’attenzione alla narrazione, al ritmo e la coreografia tra più elementi e medium – così che insieme possano generare un paesaggio emotivo. Ho appena concluso una residenza al Museo Carlo Zauli di Faenza,
dove ho sviluppato tre progetti che intrecciano diversi medium in un dialogo aperto. Il tema centrale è il rapporto tra uomo e natura: immagino relazioni tra forme organiche e non – cercando di restituire una tensione tra presenza e scomparsa. I lavori saranno presentati in una mostra a cura di Gaspare Luigi Marcone, che inaugurerà a novembre. Sto anche approfondendo il linguaggio come forma di scrittura, la prossima installazione sonora nascerà proprio da frammenti di testi presenti nel mio diario. Una lettura recente che ha avuto un impatto importante sulla mia ricerca è Cultura profetica di Federico Campagna: il libro indaga il senso della fine del mondo così come lo conosciamo, e si interroga su come, a partire dalle sue rovine, possiamo immaginare e contribuire alla nascita di nuovi mondi. Da qui nasce anche il mio interesse per i fossili e per gli elementi naturali che sono scomparsi o stanno scomparendo. Dopo la mia personale alla Basilica di San Celso, ho iniziato una nuova fase di studio sulle specie vegetali in pericolo o già estinte, consultando archivi e banche dati online specializzate. La biodiversità si sta progressivamente impoverendo, e l’uomo continua a espandersi invadendo lo spazio della natura, senza interrogarsi davvero sulle conseguenze di questo processo. Su queste riflessioni si sta costruendo un nuovo corpo di sculture.
Nina Carini.
Photo Alessandra Canteri
A RISCHIO I MURALES DELLO STADIO DI TERNI SUGLI ESULI CILENI
CLAUDIA GIRAUD L 50 anni fa il poeta, critico d’arte e curatore cileno Antonio Arevalo disegna allo stadio murales politici su Allende, insieme alla Brigata Pablo Neruda: ora rischiano di andare persi per la costruzione di un nuovo stadio. Ma i tifosi della ternana non ci stanno e fanno appello alla Soprintendenza: “I murales del Liberati non sono semplici decorazioni murarie, ma un lascito degli esuli cileni alla nostra città, testimonianza viva di lotta contro la dittatura, solidarietà e accoglienza. La loro perdita o compromissione rappresenterebbe un danno irreparabile dal punto di vista storico, artistico e civile”.
I murales della Brigata Pablo Neruda allo Stadio Liberati di Terni
Al museo newyorkese dedicato all’arte italiana sono state donate due installazioni di Piero Manzoni
VALENTINA MUZI L In un’epoca in cui il concettualismo e le installazioni artistiche iniziavano ad affacciarsi all’orizzonte del mondo dell’arte, Piero Manzoni concepiva nel 1961 quelle due ambienti immersivi. Purtroppo i progetti rimasero irrealizzati al momento della morte dell’artista, ma nel 2019 Rosalia Pasqualino di Marineo, direttrice della Fondazione Piero Manzoni, decise di dare forma a quelle che poi divennero la Stanza pelosa e la Stanza fosforescente, commissionandole all’architetto newyorkese Stephanie Goto in occasione della mostra Piero Manzoni: Materials of His Time da Hauser & Wirth a Los Angeles. Oggi, quelle due installazioni tornano fruibili grazie alla donazione della galleria americana e della fondazione dell’artista in Piero Manzoni: Total Space ospitato negli spazi di Magazzino Italian Art a New York dallo scorso 8 settembre. Curato da Nicola Lucchi, il progetto accompagna il pubblico alla scoperta della ricerca di Manzoni, e della sua eredità nel movimento dell’Arte Povera. Le installazioni saranno accompagnate anche da una copia espositiva della Base magica, un piedistallo concepito nel 1961 per trasformare la realtà stessa in arte e rappresenta un altro aspetto dell’esplorazione di Manzoni dei confini tra opera d’arte e spettatore.
Sarà un’opera di Banksy la star del “nuovo” London Museum, che si trasferisce nello storico mercato di Smithfield
LIVIA MONTAGNOLI L Prima ancora di aprire nella sua nuova sede, il London Museum acquista un pezzo importante per la sua collezione permanente. Già conosciuto come Museum of London, l’istituto ha raccolto l’eredità del Guildhall Museum (fondato nell’Ottocento) e del museo dedicato alla storia della città originariamente ospitato al Kensington Palace. E sempre con l’obiettivo di ricostruire le vicissitudini di Londra nei secoli, negli ultimi cinquant’anni ha trovato sede in due diversi spazi cittadini: il London Wall (dal 1976) e gli storici docklands di Canary Wharf, dove l’allestimento dedicato al rapporto della capitale inglese con il Tamigi ha inaugurato nel 2003. L’ultimo rebranding segue la decisione di trasferire le raccolte ospitate al London Wall in uno spazio in grado di rispondere alle necessità di un museo moderno, individuato nello storico complesso dello Smithfield Market. Nell’ex General Market, a partire dal prossimo anno, il percorso espositivo si articolerà su 10mila metri quadri, aprendo al pubblico anche lo spazio sotterraneo un tempo adibito a deposito della Great Northern Railway. Il progetto è curato dagli architetti Stanton Williams e Asif Khan con lo studio Julian Harrap Architects per il restauro filologico della struttura storica, e tra le opere di punta dell’esposizione permanente del London Museum di Smithfield, infatti, figurerà la “vasca” con piraña di Banksy, parte della serie sugli animali apparsa in diverse zone della città durante l’estate 2024.
BRERA:
MOSTRE E INSTALLAZIONI
→ QUAYOLA ledwall di Palazzo Citterio → da settembre
→ BICE LAZZARI Palazzo Citterio → da ottobre
→ GIOVANNI FRANGI Sala Stirling di Palazzo Citterio → da ottobre
→ COSTUME JEWELRY, The collection of Patrizia Sandretto Re Rebaudengo Biblioteca
Nazionale Braidense→ da ottobre
→ ALICE ZANIN tempietto di Palazzo
Citterio → da novembre
→ EDOARDA MASI E LA CINA
Pensiero, letteratura e traduzione
Biblioteca Nazionale Braidense
→ da novembre
→ GIOVANNI GASTEL Palazzo Citterio
→ da gennaio
→ PIER PAOLO PASOLINI
E YUKIO MISHIMA Biblioteca
Nazionale Braidense→ da gennaio
→ DEBORA HIRSCH ledwall di Palazzo Citterio→ da febbraio
→ WILLIAM KENTRIDGE Palazzo Citterio→ da febbraio
→ UMBERTO ECO Biblioteca
Nazionale Braidense → da aprile
→ MIMMO PALADINO Sala Stirling di Palazzo Citterio → da maggio
L MARIA VITTORIA BACKHAUS (1942 - 8 SETTEMBRE 2025)
L GIORGIO ARMANI (11 LUGLIO 1934 – 5 SETTEMBRE 2025)
L ANNA MERLI (10 LUGLIO 1974 – 2 SETTEMBRE 2025)
L AMALIA DEL PONTE (15 GENNAIO 1936 - 16 AGOSTO 2025)
L AMNON BARZEL (5 LUGLIO 1935 – 10 AGOSTO 2025)
L GIANNI BERENGO GARDIN (10 OTTOBRE 1930 - 6 AGOSTO 2025)
L LUISA LAUREATI (1939 - 3 AGOSTO 2025)
L ADRIANA ASTI (30 APRILE 1931 – 31 LUGLIO 2025)
L ROBERT WILSON (4 OTTOBRE 1941 - 31 LUGLIO 2025)
L MARIO PAGLINO E GIANNI GROSSI (27 LUGLIO 2025)
L OZZY OSBOURNE (3 DICEMBRE 1948 – 22 LUGLIO 2025)
NUOVI SPAZI Milano
RADAR
Via Plinio 11
MU.RO
Viale Campania 33
IPERCUBO
Via dei Bossi 2-A
(già Corso di Porta Ticinese)
Con la fusione tra Monte dei Paschi e Mediobanca si incontrano anche due importanti patrimoni storici e artistici
LIVIA MONTAGNOLI L È notizia di sicuro interesse economico la finalizzazione dell’offerta pubblica di scambio e acquisto con la quale Monte dei Paschi di Siena (istituto a partecipazione pubblica) ha acquisito il controllo di Mediobanca, conquistando il 62,29% del capitale dell’istituto di credito milanese di Piazzetta Cuccia, e dunque la maggioranza assoluta dell’assemblea. Ma la fusione tra le due banche potrà avere risvolti interessanti anche sotto il profilo culturale: entrambi gli istituti, infatti, vantano un impegno di lungo corso nella valorizzazione del patrimonio storico e artistico. Mediobanca, pur non possedendo una vera collezione d’arte aziendale, ha un Dipartimento Cultura e Ricerca e alla conservazione di un Archivio e di una Biblioteca, mentre Monte dei Paschi ha fatto del mecenatismo artistico e culturale una parte fondamentale della sua storia, e oggi conserva e manutiene un patrimonio di oltre 30mila opere, che spazia dalla pittura alla scultura, all’archivistica.
Monte dei Paschi di Siena, Piazza Salimbeni
LE SCOPERTE ARCHEOLOGICHE
PIÙ IMPORTANTI DELL’ESTATE 2025
La tomba etrusca decorata nella necropoli dei Monterozzi - Tarquinia
Torna il Premio Sulmona. La nuova edizione è ispirata alle Metamorfosi di Ovidio
Organizzato da Il Quadrivio Circolo d’Arte e Cultura, il Premio Sulmona giunge alla sua 52ma edizione, e come già lo scorso anno avrà la direzione artistica di Ivan D’Alberto. Con il sottotitolo (ispirato alle Metamorfosi di Ovidio) L’arte contamina lo spazio, che prosegue lungo il tema To Think-l’arte libera la mente della passata edizione, la rassegna abruzzese torna sul rapporto tra tradizione e innovazione aprendosi anche a una riflessione sul rapporto tra spazio e opera, con due nuove sezioni. Oltre alle già note Premio, Gallerie d’arte e Spazi indipendenti (nazionali), Accademia, Territorio (regionale) e Giornalismo, si aggiungeranno le sezioni Omaggio e Collaterali, svincolate dalle logiche del Premio. La rassegna aprirà il 18 ottobre e si chiuderà il 9 novembre: tre saranno i vincitori per la sezione Premio e uno il vincitore per le sezioni Gallerie d’arte e Spazi indipendenti, Accademia e Territorio
La nuova tomba a camera intatta, databile alla fine dell’VIII Secolo a.C., reca tracce di colore rosso e giallo, riconducibili a una semplice decorazione pittorica a fasce: la più antica finora documentata a Tarquinia.
Il tribunale medievale di Segesta
Oltre all’aula di tribunale, identificabile per la presenza della tribuna dei giudici e di diverse sedute intonacate, gli archeologi hanno rinvenuto anche la struttura dedicata all’attività fisica dei giovani, il Ginnasio.
La “Giovinetta” di Mozia
La figura femminile scolpita nel marmo in posa incedente, databile al periodo tardo-arcaico (fine VI – inizi V sec. a.C.), è priva della testa e del torso ma ha dettagli iconografici significativi come il chitone e l’himation.
Il primo mausoleo romano rinvenuto in Albania nella Valle di Bulqizë
Il sepolcro si caratterizza per la presenza di rari elementi architettonici ed epigrafici, tra cui un’iscrizione bilingue con la dedica al personaggio sepolto (Gelliano) e al dio Giove.
L’antico relitto al largo delle coste turche, nel Mediterraneo delle rotte commerciali
A una profondità tra i 33 e i 46 metri, il sito sembrerebbe non avere precedenti nella storia dell’archeologia sottomarina. E la scoperta non sarebbe isolata: il relitto è stato individuato in una zona interessata da intensi traffici commerciali in epoca ellenistica e romana.
L’antica città di Canopo riemerge al largo di Alessandria d’Egitto
Sono emersi reperti di grande impatto: statue (prive di teste e piedi), edifici, cisterne e un antico molo di 125 metri che aiutano a ricostruire la storia di Canopo – che possedeva anche impianti per l’allevamento ittico – e la sua importanza nell’area del Mediterraneo.
LIVIA MONTAGNOLI 1 2 3 4 5 6
In Val di Cecina apre il Museo della Terra per raccontare storia e geologia del territorio
CATERINA ANGELUCCI L Non tutti sanno che è grazie ai minerali contenuti nelle colline metallifere che gli Etruschi si sono insediati a Montecatini, nella Val di Cecina. E che qui hanno dato vita a una fiorente civiltà che poi ha sfruttato i metalli, soprattutto il rame. Fin dal Medioevo, le caratteristiche del territorio hanno fatto sì che i castelli sorgessero proprio dove era garantito approvvigionamento idrico e risorse agro-silvo-pastoriali e minerarie. A raccontarlo, a Montecatini, ci sarà presto un nuovo museo interamente dedicato alla storia e alla geologia del territorio, il Museo della Terra
DENTRO L’OLTRE
OVVERO IL PRIMO LIBRO BIOGRAFICO SU LUCIO FONTANA
Paolo Campiglio racconta un Fontana concreto e radicale: dall’argentina, ai tagli fino agli ambienti spaziali. Dieci anni di ricerca per tracciare il profilo biografico e artistico di uno delle figure più importanti della storia dell’arte mondiale
di DARIO MOALLI
Paolo Campiglio, storico dell’arte e curatore, è docente di Storia dell’arte contemporanea all’Università degli Studi di Pavia. Esperto di Lucio Fontana (Rosario, 1899 – Comabbio, 1968), di cui ha approfondito negli anni i rapporti con l’architettura, l’attività di ceramista, la dimensione del disegno, si è dedicato in particolare a interessi interdisciplinari quali l’analisi delle relazioni tra arti visive e architettura nella seconda metà del Novecento. Lo abbiamo intervistato.
Il titolo, La possibilità di un oltre, sembra una chiave interpretativa più che un semplice omaggio a Fontana. Che cos’è questo “oltre” e come tiene insieme il ragazzo della pampa, l’artista dei “buchi” e l’inventore degli ambienti?
Dovendo dare un titolo al primo libro biografico su Fontana, una ricerca che mi ha occupato per più di dieci anni, mi è parso opportuno coniare un’espressione che restituisse il senso della sua avventura creativa e della sua parabola biografica, essendo strettamente connesse e intrecciate. L’immaginazione di un’altra realtà, artistica, sociale e culturale, è una motivazione alla base delle scelte di Fontana e l’oltre, ha molteplici significati: è l’incognita o la dimensione dell’utopia, percorribile grazie a un atto di libertà. Rompere gli schemi di una convenzione è sempre stato il mezzo di cui si è servito per raggiungere uno stato di libertà, non per puro gusto di contrapposizione nei confronti dei limiti imposti, ma come una strada da percorrere per necessità.
Sui tagli, Attese, lei insiste sia sulla genesi tesa e non estemporanea, sia sull’interpretazione come “ritmiche aperture su uno spazio altro”, anche attraverso la celebre messinscena fotografica di Ugo Mulas. Quanto la fotografia ha contribuito a costruire (o chiarire) il senso dell’attesa? Il capitolo dedicato ai “tagli” è probabilmente il più delicato nell’economia del
Fontana era un uomo semplice, schietto, detestava le politiche astute e furbe del mondo dell'arte
libro: ho dovuto mediare quindi tra la leggenda e la storia, senza dare adito però alle interpretazioni più triviali, magari alimentate, con la sua consueta ironia, dallo stesso Fontana. Ho scelto di riprodurre la testimonianza verbale di Mulas sulla genesi dei “tagli” perché mi pare che sia stato l’unico giovane amico ad aver compreso, attraverso la fotografia, l’uomo e il senso più intimo della sua operazione, come è accaduto anche per molti altri artisti ripresi dal suo obbiettivo. Mulas ha colto un dato
Lucio Fontana. La possibilità di un oltre di Paolo Campiglio Johan & Levi Editore, 2025 pag. 365, € 40
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essenziale: la solitudine dell’artista nel suo rapporto con l’opera. In effetti Fontana era solo nel suo studio nel momento in cui creava i suoi tagli, e questa solitudine di libertà, forse proprio quell’oltre mentale in cui si sentiva immerso, chiarisce più di ogni spiegazione critica. Chiarisce che non si tratta di un atto inteso come messa in scena, ma di un gesto autentico e “sacro”, per così dire, che nasce da lontano e ha origine nel pensiero prima di tutto, ovvero nello spazio che la mente immagina. E quindi il risultato non è una fenditura che distrugge una superficie, come potrebbe facilmente intendersi, e come veniva interpretata dai più allora. Ma è un gesto che attesta la presa di coscienza dell’infinito, come condizione angosciata e insieme come apertura ottimistica verso il nuovo. Circa il significato
ZEN E
I CONSIGLI DI LETTURA DI ARTRIBUNE
L’ARTE DI PERDERE IL CENTRO
Chi pensa allo ZEN di Palermo come alla periferia-simbolo del degrado troverà in Centro senza centro un avvertimento: guardare non basta, bisogna decentrarsi. Paola Nicita scrive un testo stratificato che fonde saggio, racconto urbano e memoria civile; Emanuele Lo Cascio incide con fotografie inedite dove il quartiere pulsa di fughe, cortili improvvisati, vampe notturne. A cucire le due voci, un’intervista inedita a Marc Augé: per l’antropologo dei non-luoghi “la periferia oggi è una circonferenza senza alcun centro”, e ribalta l’idea stessa di periferia. Il libro, pubblicato da Mimesis nella collana Sguardi e visioni, è un montaggio denso: cronaca del “sacco” edilizio, citazioni da Dolci, Gregotti e Baudelaire, ma anche rap, campetti di calcetto autogestiti, statue sradicate dal Foro Italico e ricollocate tra i palazzi-guscio. Ne emerge una geografia mobile – “periferia illimitata” – dove i corpi abitano l’architettura come un abito stretto, pronto però a trasformarsi in costume di scena. La scrittura di Nicita alterna fenditure liriche e puntiglio documentario; Lo Cascio risponde con immagini che rifiutano l’estetica del “caso umano” per cercare luce dove la città la nega. Insieme dimostrano che il quartiere è specchio della polis: se il centro evapora, occorre ricostruire mappe emotive, non solo piani regolatori.
Centro senza centro. Le periferie di Marc Augé di Paola Nicita (Autrice) Emanuele Lo Cascio (Fotografie) Mimesis, 2025 pag. 152, € 15
di “attesa”, le interpretazioni sono molteplici e forse nessuna è quella corretta perché, spesso, nemmeno l’artista ne conosceva a fondo le motivazioni
Dall’Ambiente spaziale a luce nera del 1949 alle sale progettate per mostre e musei, Fontana porta lo spettatore “dentro” l’opera. Cos’erano per Fontana queste opere?
Fontana nel suo primo Ambiente spaziale incarnava in un certo senso, lo spirito della “ricostruzione futurista dell’universo”, ma in più vi aggiungeva il carattere onirico, un po’ surreale, e la componente emotiva o tecnologica legata alla suggestione cromatica della luce di Wood con fluorescenze annesse.
Tutto ciò anticipa l’arte di oggi, il binomio arte-tecnologia e l’immersività, oggi espressa con altri mezzi. Si può dire che l’impatto sulla società, nel
HOMO CURATORIUS.
COME LE PIATTAFORME TRASFORMANO OGNI SCELTA IN PROFITTO
Chi seleziona cosa, per chi e con quale ritorno? Panos Kompatsiaris, sociologo greco di stanza a Mosca, parte da una domanda solo in apparenza ovvia per smascherare il mito più seducente dell’era social: la curatela come pratica emancipatoria. In L’ascesa del cur-autore segue la metamorfosi del curatore – dal guardiano di gallerie al feed designer – e ne racconta la resa al “capitalismo delle piattaforme”, dove ogni click è dato e ogni dato moneta. La trama è doppiamente ibrida. Da un lato la genealogia, che porta dalle avanguardie Anni Sessanta ai meme di Vetements; dall’altro l’etnografia digitale: le “nonne” di Airbnb che servono autenticità, i life-coach che vendono resilienza a colpi di podcast. Sullo sfondo compare l’homo curatorius, figura che ordina il caos informativo per capitalizzare attenzione e desiderio. Non cercate ricette: il libro è uno specchio impietoso. Mostra come dietro la promessa di “selezione personalizzata” si nasconda un imperativo di classe – sembrare irripetibili consumando all’unisono – e come l’atto di curare la propria bacheca sia soltanto il prolungamento domestico di un gigantesco estrattore di valore. Da leggere con lo smartphone in modalità aereo: ogni notifica confermerebbe, in tempo reale, la tesi del libro.
L’ascesa del cur-autore di Panos Kompatsiaris Meltemi, 2025 pag. 276, € 20
SOTTO IL LIVELLO DEL MARE, DENTRO VAN GOGH
Federica Graziani fa scorrere Ad Amsterdam con Van Gogh come un canale: pagine d’acqua bruna, ponti di lettera in lettera, improvvise correnti di invenzione. La narrazione mescola diario di una storica dell’arte in trasferta e romanzo di suspense: un anonimo collezionista la convoca a valutare un probabile Van Gogh inedito, e la città diventa un laboratorio sulla verità dell’immagine. Graziani procede a strati, come si drena un polder. Sul fondo affiora la Amsterdam reale: la rivolta delle patate del 1917, le prostitute del Seicento, l’orecchio di gesso lanciato contro il cantiere del Van Gogh Museum nel ’69. Sopra, la voce di Vincent, citata con precisione filologica, orienta la bussola emotiva del testo. In superficie si muove la detective-story artistica, con personaggi che potrebbero uscire da un thriller ma restano avvolti in una nebbia da quadro olandese. Il risultato è un ibrido agile: guida sentimentale, saggio senza pedanteria, short story che tiene il ritmo grazie a dialoghi cesellati e a una scrittura capace di registrare l’umido dell’asfalto o l’odore di patatine in fila da Fabel Friet. La collana Passaggi di dogana trova qui uno dei suoi titoli più riusciti: un libro da leggere camminando, pronto a confondere il lettore esattamente come Amsterdam confonde chi crede di averne già la mappa.
Ad Amsterdam con Van Gogh di Federica Graziani
Guido Perrone Editore, 2025 pag. 138, € 16,00
senso del coinvolgimento emotivo dello spettatore, doveva essere però molto differente allora rispetto a certe soluzioni che oggi ci paiono scontate. Le ricerche mi hanno condotto a constatare come Fontana ritenesse in quel momento l’ambiente la forma più propria per esprimere il concetto spaziale, tanto è vero che lo propose spontaneamente alla Biennale di Venezia del 1950, ma non fu preso in considerazione.
Oltre al mito dell’artista, che ritratto umano emerge? Che cosa l’ha colpita della sua quotidianità creativa? Dalla mia biografia emerge l’uomo, non il mito. Fontana era un uomo semplice, schietto, detestava le politiche astute e furbe del mondo dell’arte, ed era molto simpatico, aperto, di una generosità proverbiale. Ciò che mi ha stupito è la sua dedizione totale alla ricerca, in stu-
dio. Per cui la sua vita, soprattutto nell’ultimo ventennio, si svolgeva tra quelle mura, senza troppe distrazioni. La sua vita era l’opera. L’amico Carrieri lo aveva definito un “operaio” dell’arte: si svegliava molto presto al mattino, raggiungeva lo studio di Corso Monforte coi mezzi pubblici insieme ad altri operai, lavorava per tutta la mattina in solitudine; pausa pranzo al solito posto, al pomeriggio riceveva amici, critici, galleristi, direttori di museo e tornava a casa alla sera da Teresita, in via Porpora. Ciò detto, non vorrei assecondare l’immagine buonista di Fontana: quando si infuriava, per un’ingiustizia o per un torto, poteva essere un pericolo stargli vicino. Altro tratto caratteristico della sua vita d’artista è infatti la lotta, “la lucha” come diceva lui una condizione che aveva introiettato fin dalle viscere e che lo perseguitava.
OPERA SEXY
IVY HALDEMAN, HOT DOG E BANANE
FERRUCCIO GIROMINI
Come minimo singolare si può definire la “poetica” di Ivy Haldeman (Aurora, Colorado, 1985), artista che attualmente vive e lavora a New York City. Ha iniziato a dipingere su tela grandi hot dog nel 2016, continuando ad affrontare quell’argomento in modo ossessivo: “Mi ero ripromessa che non avrei dipinto altro finché non avessi disegnato quel soggetto cento volte”. Poi naturalmente è passata anche ad altro, ma gli hot dog, sempre più monumentali per dimensioni, sono rimasti uno dei perni della sua attività pittorica. Per la verità si tratta di hot dog relativamente antropomorfi, con un accenno di occhi e bocca e provvisti di arti. In genere appaiono comodamente stravaccati su improbabili cuscini, suggerendo una sorta di sensuale relax, forse un poco annoiato; ma in questi loro stati psicofisici sembrano esprimere caratteri in qualche modo volitivi. Si direbbe un’operazione pop, essendo l’hot dog un’icona della cultura più popolare americana, ma questi agiscono, seppure poco, e non si limitano a rappresentare solo loro stessi.
A un certo punto – in una serie di tele esposte di recente, insieme con altre opere, alla Galleria François Ghebaly di Los Angeles – un altro soggetto allungato si è aggiunto al carniere della vispa Haldeman: la banana. A differenza dell’hot dog, il frutto giallo non si presenta proprio come un personaggio, ma si limita ad apparire come un elegante oggetto luminoso che viene voluttuosamente sbucciato da mani femminili. L’artista, che per queste sue opere (minimaliste ma di grandi dimensioni) fa ricorso a una tecnica grafica pulitissima, basata su linee sinuose e velature di delicati colori pastello, a proposito di questi suoi soggetti favoriti ci tiene a sostenere che non li considera “tanto personaggi quanto piuttosto pretesti per la composizione, forme con cui giocare per scoprire le potenzialità della linea, del colore e del significato. Aspiro a qualcosa di più astratto”. D’accordo, ma intanto diversi osservatori e critici hanno rilevato che tale “istrionismo” di forme chiaramente falliche sembrerebbe alludere in modo neppure tanto velato a “emozioni pubbliche inaccettabili”. E ciò sembra aver creato qualche problemino all’artista, quando così afferma: “Ricordo alcuni personaggi piuttosto libidinosi: galleristi, critici d’arte, artisti. È sempre rischioso cercare di fare l’artista per una giovane donna!”.
@that_ivy
PALAZZO STROZZI: MOSTRE E INSTALLAZIONI
→ BEATO ANGELICO Palazzo Strozzi
→ da settembre
→ KAWS Cortile di Palazzo Strozzi → da ottobre
→ ANDRO ERADZE Project Space di Palazzo Strozzi
ed ex Teatro dell’Oriuolo → da novembre
→ MARK ROTHKO Palazzo Strozzi → da marzo
La Fondazione Sandretto di Torino collaborerà con il New Museum di New York per sostenere l’arte contemporanea
Quando riaprirà al pubblico, il New Museum di New York si presenterà con una superficie espositiva raddoppiata, grazie all’ampliamento progettato dallo studio OMA/Shohei Shigematsu con Rem Koolhaas, e una nuova collaborazione con un’istituzione italiana: la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Incentrata sulla produzione e l’esposizione di nuove opere di artisti internazionali, l’alleanza sarà, nell’auspicio del direttore artistico del New Museum Massimiliano Gioni, ricorrente e pluriennale, aperta a commissioni di ogni genere. A inaugurare il progetto ribattezzato New Futures sarà l’artista e videomaker lombardo Diego Marcon.
Triennale Milano si apre a famiglie e bambini con un nuovo spazio creativo.
Livia Montagnoli L Nell’ambito del processo di riqualificazione avviato in occasione del centenario di Triennale, celebrato nel 2023, si è deciso di lavorare sull’ampliamento degli spazi interni in continuità con il Parco Sempione, implementando al contempo le aree di ricerca. Così nasce Gioco, nuovo spazio creativo pensato per bambine e bambini di diverse fasce d’età. Un luogo aperto a tutti e per tutta la giornata, in cui dare spazio all’immaginazione e alla creatività, che proporrà una programmazione di attività attive o contemplative. In Gioco confluiranno gli incontri e i laboratori curati dal dipartimento educativo di Triennale, ma lo spazio potrà anche essere utilizzato liberamente dalle famiglie, in attuazione del Manifesto per le famiglie di Triennale, presentato nel febbraio 2025. Dietro alla progettazione dello spazio c’è ancora lo studio AR.CH.IT Luca Cipelletti, che sta ripensando l’intero Piano Parco, mentre gli arredi sono stati ideati dallo studio francese smarin. Le progettiste hanno puntato su blocchi modulari di sughero e piani di abete, materiali selezionati per la loro sostenibilità, la longevità e le qualità sensoriali. Assemblati senza chiodi o viti, i blocchi possono essere combinati per formare scrivanie, sedute, divisori, lettini, contenitori o strutture da gioco.
dal 12.09
al 13.11.25
Accademia
delle Arti
del Disegno
Sala delle
Esposizioni
Via Ricasoli
68, Firenze
Maggiori informazioni
KOPAČ
IL TESORO NASCOSTO
IN ARRIVO LA XV FLORENCE BIENNALE. INTERVISTA AL DIRETTORE JACOPO CELONA
Con oltre 550 artisti, da 85 Paesi e 5 continenti, più di 1500 opere negli 11mila mq della Fortezza da Basso di Firenze, dal 18 al 26 ottobre torna la Florence Biennale, che popola la città di artisti e appassionati d’arte di LUDOVICA PALMIERI
La Florence Biennale, giunta alla XV edizione, è una manifestazione singolare che ribalta i convenzionali rapporti tra artisti, Paesi e galleristi. Questa mostra internazionale d’arte contemporanea e design che, dalla Fortezza da Basso, anima la città medicea, segue un format diverso rispetto alle altre biennali. Qui gli artisti sono protagonisti dal momento che la loro candidatura non è subordinata a sovrastrutture di riferimento ma è libera, legata esclusivamente a un’open call. La mostra, risultato di un’accurata selezione, si configura come una preziosa occasione di talent scouting per galleristi, curatori e critici. Per saperne di più ne abbiamo parlato con il direttore Jacopo Celona.
INTERVISTA A JACOPO
CELONA, DIRETTORE
DELLA FLORENCE BIENNALE
Come nasce questa manifestazione? È una Biennale che trae origine dalla volontà ben precisa del Presidente (nonché fondatore e artista) Pasquale Celona di creare a Firenze una piattaforma dedicata all’arte contemporanea. Certo, si tratta di una manifestazione nata nel 1997, quando ancora non c’era il florilegio di biennali a cui assistiamo oggi.
Da qui la scelta di questo format?
Esattamente, l’idea è di mettere gli artisti al centro e l’open call è lo strumento adatto a garantirne l’indipendenza perché permette loro di candidarsi in autonomia. Nell’arco del biennio riceviamo oltre 4mila proposte, da cui poi il Comitato Curatoriale seleziona gli artisti ammessi a partecipare.
collegati, si parlano, convivono, in alcuni casi si sovrappongono. Così nel 2019, in occasione dell’anniversario dei 500 anni della morte di Leonardo da Vinci, abbiamo deciso di integrare la manifestazione con una sezione dedicata design, anche considerando che per Firenze e la Toscana il design rappresenta un’importante vocazione, con la creazione di oggetti iconici entrati a far parte della storia culturale locale.
Quali sono i criteri che guidano una così ampia selezione?
Innanzitutto, gli artisti vengono selezionati in base a un criterio qualitativo, dato da una valutazione rigorosa di portfolio e curriculum. Poi valutiamo i progetti in relazione al tema della Biennale e alla fattibilità. Infine, subentrano altri fattori, come la volontà di dare spazio e visibilità a coloro che provengono da aree remote, in via di sviluppo o in difficoltà, per offrire uno spaccato più ampio possibile del panorama dell’arte contemporanea nel mondo.
A livello allestitivo come si struttura la Florence Biennale?
Anche in questo caso la priorità va agli artisti e al dialogo tra le opere, cercando di eliminare il più possibile le barriere culturali. Il nostro obiettivo è creare un confronto tra i lavori che possa tradursi in avvicinamenti concreti, nella nascita di idee e progetti condivisi; un’eventualità possibile dal momento che la maggior parte degli artisti è presente in sede durante le giornate di apertura. Quindi, anche grazie alla partnership culturale con l’Hotel Savoy di Firenze, indirizzo fiorentino Rocco Forte Hotels, che ospiterà il party inaugurale, oltre a incontri e talk, il network diventerà reale.
Il tema di quest’anno è The sublime essence of light and darkness. Concepts of dualism and unity in contemporary art and design. Da cosa scaturisce e come lo interpretate anche in rapporto alla situazione attuale?
L’arte è sempre specchio del proprio tempo e quindi abbiamo proposto un
tema che, senza essere politico e divisivo, fosse sociale; presentando diversi livelli di lettura e dando a tutti la possibilità di esprimersi in libertà. La Florence Biennale è una manifestazione inclusiva e accogliente. Arte e cultura sono strumenti di riflessione, di pace; lenti di ingrandimento sugli esseri umani e sul mondo.
In termini di allestimento come declinerete il tema del contrasto?
Come un elemento di arricchimento reciproco. La ricerca dell’armonia sarà il cuore di un percorso espositivo dedicato a profonde riflessioni sulla dualità; volto a mettere in evidenza, tramite la metafora di luci e tenebre la complementarità degli opposti, dato che l’uno non può esistere senza l’altro. Attraverso il percorso espositivo verrà fuori come anche dai contrasti possano derivare opportunità e occasioni di crescita.
Oltre alle candidature spontanee La Florence Biennale prevede dei “Guests of Honour”. Ci anticipa gli ospiti di quest’anno?
Ad ogni edizione il Comitato Organizzativo si riserva la facoltà di invitare dei Guests of Honour, oltre ai premiati e alle menzioni speciali. Si tratta di inviti ad personam ad artisti che si ritengono particolarmente rappresentative della scena internazionale. In questa XV edizione i Guest of Honour sono: la designer di gioielli cilena Nicole Albagli Iruretagoyen, anche vincitrice del premio Lorenzo il Magnifico Jewellery Award from the President, conferito dalla Florence Biennale in occasione di Cluster Contemporary Jewellery, London (2024). Il fotografo Gabriel Isak, (Svezia, 1990). Andrea Prandi (San Giovanni Lupato, 1979) artista già vincitore del premio Lorenzo il Magnifico per l’arte digitale con un secondo posto nel 2015 e di una menzione speciale nel 2007. La scultrice britannica Emily Young (Londra, 1951). Il pittore Chao Ge (Mongolia, 1957).
E poi ci sono i due grandi premiati di questa edizione… Quest’anno siamo molto orgogliosi di avere con noi per l’arte contemporanea Tim Burton (California, 1958), conosciutissimo regista ma anche valente e visionario artista, a cui abbiamo conferito il premio Lorenzo il Magnifico alla Carriera per la sua capacità di sviluppare e scandagliare, con la massima profondità, le dinamiche relazionali tra gli opposti, anche a livello emotivo e psicologico, dimostrando che i personaggi più negativi in realtà detengono velleità positive.
E per il design?
Il Direttivo della Biennale, il Comitato Curatoriale e la Giuria Internazionale hanno assegnato il Premio Internazionale Leonardo da Vinci alla Carriera (per il Design) a Patricia Urquiola (Orviedo, Spagna, 1961) architetta, designer e art director di fama internazionale.
Gli artisti premiati parteciperanno alla Biennale?
Certamente con due mostre personali, concepite in spazi creati appositamente. Due eventi inediti focalizzati sul tema proposto anche con opere site-specific.
E i riconoscimenti non finiscono qui… In effetti, siamo felici di presentare Se Jonathan Livingston Seagull fosse un uccello di passaggio, progetto di Liku Maria Takahashi, poliedrica artista giapponese, famosa per aver inventato il metodo Maris, concepito per rendere l’arte accessibile anche a chi ha una visibilità limitata, a cui conferiremo il Premio Lorenzo il Magnifico del Presidente della Florence Biennale 2025.
Poi sono previsti anche gli omaggi alla memoria?
Quest’anno abbiamo voluto rendere omaggio a Oliviero Leonardi (Vezzano, 1921 – Parigi, 2019), pittore, scultore, smaltatore e ceramista, attivo principalmente a Roma, conferendo il Premio Lorenzo il Magnifico del Presidente in memoriam all’omonima associazione, che ne coltiva lo studio e ne promuove l’opera. A Mario Pachioli (Vasto, 1948 –Firenze, 2024) artista e scultore, autore anche del nostro emblema: la medaglia Lorenzo il Magnifico; nonché membro
della Giuria internazionale nelle edizioni 2021 e 2023. Inoltre, lo stesso premio In Memoriam sarà conferito al celebre disegnatore Marcelo Mayorga (Buenos Aires, 1941 -2012).
Ci può parlare dei progetti speciali? Perché la Florence Biennale oltre a promuovere l’arte e il design guarda anche al cinema…
La nostra è una visione dell’arte a trecentosessanta gradi, quindi diamo spazio anche al cinema, quest’anno varie proiezioni tra cui progetti speciali. Die höhenluft – für alle und keinen (L’aria pura di montagna – Per tutti e per nessuno) di Mika’Ela Fisher (Germania). Milk teeth – essere bambine in Afghanistan di Amin Meerzad (Afghanistan), cortometraggio nato da un’idea del regista e autore Giuseppe Carrieri e di Alessandra Mastronardi, Goodwill Ambassador dell’UNICEF Italia, che ne ha sostenuto la produzione. Tango en penumbras (Tango in penombra) di Teresa Mular (Argentina). The sacred art movement di Olusola Otori (Nigeria). Near light di Niccolò Salvato (Italia/UK).
…e al design di gioielli?
Infatti abbiamo un ultimo progetto speciale: la mostra a cura del Prof. Paolo Torriti Florent in Auro. Gioielli per la rosa d’oro Di Pio II.
Per concludere, una parola sul programma di eventi collaterali?
Certo, la manifestazione sarà animata da performance; nell’area teatro ci saranno eventi, conferenze, talk. In particolare, ci tengo a segnalare la presenza, con ben due talk, di Gregorio Luke, conferenziere di fama mondiale, capace di coinvolgere emotivamente il pubblico. Infine, organizzeremo anche workshop per bambini, per coinvolgerli e stimolarne la creatività.
XV FLORENCE BIENNALE
Dal 18 al 26 ottobre
Fortezza da Basso
Viale Filippo Strozzi 1, Firenze
Per maggiori informazioni, inquadra il QR
Jacopo Celona, courtesy
Florence Biennale
A MONOPOLI 10 ANNI DI PHEST: FESTIVAL INTERNAZIONALE DI FOTOGRAFIA
E ARTE IN PUGLIA
L’edizione del decennale è la più estesa di sempre, sia nel tempo che nello spazio. Con 38 mostre legate dal filo conduttore della “capsula temporale”, allestite in nuove sedi frutto di rigenerazione urbana. Fino a novembre 2025
di CLAUDIA GIRAUD
PhEST compie dieci anni. Il festival internazionale di fotografia e arte nato a Monopoli con l’obiettivo di valorizzare il suo centro storico, e metterlo in dialogo con il mondo, coinvolgendo cittadini e visitatori, torna nella città pugliese per celebrare questo importante anniversario. E lo fa con un’edizione speciale e ampliata che, iniziata l’8 agosto, terminerà il 16 novembre con 38 mostre allestite in sedi spettacolari, al chiuso in spazi storici, ma anche direttamente sul mare.
IL TEMA DELLA DECIMA
EDIZIONE DI PhEST
“Nel 1977 con il programma Voyager veniva inviato nello spazio interstellare il Golden Record, un disco per grammofono contenente suoni e immagini, una sorta di capsula temporale con l’intenzione di comunicare la storia del nostro mondo ad eventuali forme di vita extraterrestri. A distanza di quasi cinquant’anni, ci ispiriamo a quella stessa
tensione verso l’altrove per costruire una nostra ‘capsula’”. Con queste parole, il direttore artistico di PhEST, Giovanni Troilo, introduce il tema della decima edizione di questa rassegna che da 10 anni mette in dialogo la fotografia e l’arte internazionale con il territorio e, nello stesso tempo, si fa promotrice di un modello di turismo culturale lento e sostenibile. Seguendo il filo conduttore della “capsula del tempo”, le 38 mostre allestite in diverse sedi della città di mare pugliese danno quest’anno vita a un archivio visivo e immaginifico destinato allo spazio simbolico del futuro, popolato da voci, sguardi, memorie e sogni.
IL MONASTERO DI SAN
LEONARDO: NUOVO
QUARTIER GENERALE
DI PhEST
Cuore nevralgico di PhEST è quest’anno il Monastero di San Leonardo. Uno spazio suggestivo e carico di storia, riportato alla vita grazie all’impegno diretto
Yorgos Lanthimos Courtesy PhEST
del festival, guidato da Cinzia Negherbon che ne fa un bilancio: “Siamo arrivati alla decima edizione di PhEST. Personalmente, seguo il progetto 365 giorni all’anno, e servono proprio tutti per riuscire a portarlo in porto. Un evento che dà grande soddisfazione: abbiamo una squadra portentosa, affiatata e piena di energia, sono persone senza paura. Vedere la coda di visitatori davanti alle sedi ci riserva una gioia infinita. Trovare riscontro in rassegne stampa ricchissime è fonte di grande soddisfazione, così come veder crescere le collaborazioni con partner e sponsor sempre più prestigiosi”. Lo dimostra proprio la rigenerazione urbana di questo monumento della città, fatto rinascere dopo anni di chiusura e ora sede delle mostre principali della rassegna, come quella dedicata al grande fotografo inglese Martin Parr, noto per i suoi scatti all’insegna dello humor, tra manie, street style ed estetica kitsch.
NON SOLO GRANDI NOMI
A PhEST
Ma l’universo visivo di PhEST non si esaurisce nei grandi nomi. Il festival propone un mosaico di storie che si muovono tra la realtà dei luoghi e la finzione dei sogni e che vanno dal Mediterraneo all’esplorazione dello spazio, dai paesaggi rurali alle costellazioni interiori. “Da sempre gli essere umani guardano al cielo con curiosità, paura e fantasia”, spiega Arianna Rinaldo, curatrice fotografica del festival. “PhEST, in questa decima edizione, volge lo sguardo vero il nostro pianeta: e se qualcuno o qualcosa ci guardasse da là fuori, da questo cosmo infinito e misterioso che ci avvolge? In che modo possiamo raccontare chi siamo? Noi ci affidiamo all’arte: ed ecco che le artiste e gli artisti in mostra ci aiutano a svelare e interpretare il meraviglioso e complesso mondo in cui viviamo”. Così, Sam Youkilis presenta Under the Sun, un viaggio visivo nelle quotidianità contemporanee, a cura di Sophia Grieff per c/o Berlin;
MONASTERO DI SAN LEONARDO
Si parte dal nuovo cuore pulsante di PhEST: dopo anni di chiusura, il Monastero di San Leonardo apre le sue porte nella sua interezza diventando il nuovo quartier generale che sostituisce Palazzo Palmieri, non più disponibile per ragioni di inagibilità. Qui spicca la mostra di Martin Parr con Pleased to Meet You (a cura di Arianna Rinaldo e Giovanni Troilo), che sarà anche presente il 27 e 28 settembre per un incontro con il pubblico e la proiezione del film documentario I Am Martin Parr, in collaborazione con Wanted Cinema. L’esposizione sarà affiancata da Zed Nelson – con un allestimento speciale nel cortile del monastero tra le piante messe a disposizione dai Vivai Capitanio, in un dialogo intimo tra natura e arte –, Alexey Titarenko, Phillip Toledano, Rhiannon Adam, Rhi-Entry e Lorenzo Poli. Sempre a San Leonardo, trovano spazio anche i vincitori della Pop-Up Open Call (Angeniet Berkers, Mario Red De Gabriele, Brigitta Tullo) e le menzioni speciali (Magdalena Baranya, Nadia Koldaeva e Ettore Giammatteo)
Monastero di San Leonardo via San Leonardo 9/11
CASTELLO CARLO V
Al Castello Carlo V al piano superiore si trovano invece le incisioni di Francisco Goya, Los Caprichos. La ragione dei mostri, un capolavoro visionario curato da Roberto Lacarbonara e Giovanni Troilo, in collaborazione con il Museo de Bellas Artes de Valencia; mentre nella Sala delle Armi, aperta per la prima volta lo scorso anno, l’artista e fotografo americano Sam Youkilis presenta Under the Sun, un viaggio visivo nelle quotidianità contemporanee, a cura di Sophia Grieff per c/o Berlin.
Castello Carlo V - Largo Castello 5
CHIESA DI SAN SALVATORE
A poca distanza, la sede della Chiesa di San Salvatore ospita, invece, le foto in bianco e nero di Martin Parr.
Chiesa di San Salvatore, Largo S. Salvatore, 7
CHIESETTA DI SAN GIOVANNI
Nella Chiesetta di San Giovanni è allestita la mostra di Piero Percoco, The Silent Sun, Brighton, sguardo intimo e radicato tra Puglia e Inghilterra.
Chiesetta di San Giovanni Largo San Giovanni, 16
Arianna Arcara presenta il frutto della sua residenza artistica nella Daunia.
Mentre Dario Agrimi nel suo progetto Madre Natura (2024) – con l’immagine della disperazione impressa sul corpo e sul volto di una bambina, issata sulla coltre di detriti – rievoca con forza e immediatezza gli scenari bellici di Gaza e dell’Ucraina, componendo un quadro universale di inesorabile declino.
LE GRANDI MOSTRE DI
PhEST: GOYA E IL DECENNALE
DELLE RESIDENZE CURATE
DAL FESTIVAL
Infine, due grandi mostre che confermano il prestigio raggiunto dal festival:
PhEST 2025: LE MOSTRE DA VEDERE IN CITTÀ
MOLO MARGHERITA
CASA SANTA
PORTO VECCHIO
CIRCOLO PESCATORI
CHIESA DI SANT'ANGELO
PIAZZA PALMIERI
VIA CATTEDRALE
SAN LEONARDO
VIA PEROSCIA
CASTELLO CARLO V
LE MOSTRE OUTDOOR
LUNGOMARE SANTA MARIA
CHIESA DI SAN SALVATORE
CHIESETTA DI SAN GIOVANNI
Sul Molo Santa Margherita è allestita la mostra di Mattia Balsamini, mentre sul Porto Vecchio incontriamo Bangers, la mostra di Arianna Arcara frutto della residenza artistica di PhEST 2025. Nel circuito delle mostre diffuse, Aleksandra Mir presenta l’opera Aim at the Stars in vari luoghi della città (a casa di Angelina, 90 anni, residente a Monopoli e custode di memorie e racconti nel cuore del centro storico, al negozio del baratto di Peppino in piazza Palmieri, e al laboratorio artigianale di mosaici di Paolo Mastrofrancesco in via Peroscia); mentre in Via Cattedrale Sanne De Wilde espone Terre di Santi, viaggio fotografico tra sacro e profano. Questi spazi, normalmente privati, sono eccezionalmente aperti al pubblico secondo la disponibilità e i desideri dei loro abitanti, trasformando ogni visita in un gesto di ospitalità autentica e condivisione reale.
ANGELINA
CALA PORTA VECCHIA
CATTEDRALE LAICA
CASA SANTA Altra struttura scelta ancora una volta da PhEST per i suoi allestimenti è Casa Santa, convento risalente alla fine del Cinquecento e luogo di memoria di chi ha passato la propria infanzia tra le sue mura, dove si confrontano le ricerche visive fortemente poetiche e intime di Dylan Hausthor, Sam Gregg e Deanna Dikeman. Arricchisce lo spazio anche la menzione speciale Pop-Up a Hsin I (Camille) Lin. Alle Stalle di Casa Santa, invece, prende vita Out of the Blue. Resistenze 2025 di José Angelino, progetto site-specific a cura di Melania Rossi che intreccia arte e memoria.
Casa Santa - Via Santa Teresa 5
CHIESA DI SANT’ANGELO
E infine la suggestiva Chiesa di Sant’Angelo ospita, in collaborazione con Łódź Fotofestiwal, il regista e fotografo Yorgos Lanthimos tra i più visionari e premiati del cinema contemporaneo (The Lobster, The Favourite, Poor Things) con Jitter Period, mostra a cura di João Linneu e Myrto Steirou che riflette sulle percezioni distorte del reale.
Chiesa di Sant’Angelo in Borgo Via S. Angelo, numeri 3/5
quella celebrativa dei dieci anni di residenze a PhEST che fa il suo esordio anche come editore, con la pubblicazione del primo libro ufficiale che raccoglie un decennio di residenze artistiche, con immagini, visioni e testimonianze; e quella dedicata ai Capricci di Francisco Goya al Castello di Carlo V. “Da dieci anni PhEST ha contribuito a ridefinire i confini dell’immagine attraverso i linguaggi della fotografia e dell’arte contemporanea”, conclude Roberto Lacarbonara, curatore per l’arte contemporanea di PhEST. “In una edizione dedicata alla storia sociale e antropologica dell’uomo – ‘This is us. A capsule to space’ – la scelta di esporre i ‘Caprichos’
SPAZI URBANI E PAESAGGI MARINI
In Largo Palmieri, Fabrizio Bellomo espone Abito Mari, a cura di Roberto Lacarbonara, mentre il progetto Brera x PhEST propone Hey you up in the sky, mostra virtuale degli studenti dell’Accademia di Brera. E ancora, sempre in Largo Palmieri è esposta la residenza artistica di Leo & Pipo del 2018 con il progetto #wewereinpuglia. Ci sono poi due mostre profondamente legate al mare: Piero Martinello al Circolo dei Pescatori e alla Cattedrale Laica dei Pescatori, mentre sul lungomare del Castello Carlo V, è possibile vedere l’opera ironica e pop di Pietro Terzini, oltre alla mostra celebrativa dei 10 anni di residenze a PhEST con il lavoro Nzìm di Caimi&Piccini. Sul lungomare SantaMaria si trova invece 7 Days of Garbage, lavoro di Greg Segal. Infine, a Cala Porta Vecchia, Alejandro Chaskielberg e Roselena Ramistella offrono una potente riflessione sulla natura e il nostro modo di abitarla.
di Francisco Goya assume massima centralità, raccontando gli aspetti più intimi, onirici, indicibili e profondi della platea umana. Fondamentale e prestigiosa la collaborazione con il Museo di Belle Arti di Valencia, uno dei pochi musei al mondo in cui è conservata la completa edizione delle 80 tavole”.
Per maggiori informazioni su PhEST, scansione il QR code qui a fianco
CASA
MARES, LA RESIDENZA D’ARTISTA IN PIEMONTE CHE
VALORIZZA LA PROVINCIA
a cura di CATERINA ANGELUCCI
S’ispira al nome dell’antica popolazione celto-ligure dei Marici, che ha abitato la zona tra le province di Pavia, Alessandria e Piacenza nel IV Secolo a.C., il progetto di residenza d’artista MARES, nato dell’incontro delle curatrici Tatiana Palenzona e Amina Berdin, insieme all’imprenditore Michelangelo Buzzi. MARES ha scelto di radicarsi nel territorio alessandrino, scommettendo su un contesto periferico dal profondo valore storico-artistico, come la sede che lo accoglie, il cinquecentesco Complesso Monumentale di Santa Croce a Bosco Marengo. Con la mostra Ruins, che segna la conclusione del primo ciclo di residenze (2025), l’associazione inaugura un percorso triennale che ha l’ambizione di costruire un nuovo polo culturale attivo, partecipato e capace di dialogare con il tessuto sociale, artistico e storico del luogo. Il titolo stesso della mostra non è solo una riflessione sul passato o sulla fragilità delle strutture architettoniche, ma una lente attraverso cui rileggere il presente e immaginare nuove possibilità di rigenerazione, sia culturale sia sociale. In questa intervista approfondiamo i diversi aspetti che hanno dato forma a MARES: dal processo di selezione degli artisti alla curatela condivisa della mostra, fino al dialogo con la comunità locale e alla riflessione sulla sostenibilità di un progetto indipendente e non profit. Emergono così temi centrali come la cura, la presenza e l’ascolto, parole chiave che restituiscono l’approccio con cui MARES si è avvicinato non solo allo spazio fisico del Complesso, ma anche alla sua memoria, alle persone che lo abitano e al territorio che lo circonda.
Qual è il ruolo di una residenza d’artista in un territorio come quello alessandrino, fuori dai circuiti più frequentati dell’arte contemporanea?
Tatiana Palenzona: Il ruolo di una residenza d’artista in un contesto come quello alessandrino, lontano dai circuiti più battuti dell’arte contemporanea, si è rivelato poliedrico per MARES. Inizialmente, il nostro obiettivo era duplice: far emergere il Complesso di Santa Croce, un luogo di grande valore storico e artistico, e decentrare l’arte contemporanea dai grandi centri urbani, offrendo opportunità agli artisti emergenti. Con il primo ciclo di residenze abbiamo però compreso che il nostro impegno si estende ben oltre. Abbiamo visto la necessità di avvicinare l’arte di oggi ai più giovani, che spesso possiedono un’intuizione naturale ma poche occasioni di confronto con opere e artisti contemporanei. Questo si è concretizzato nei laboratori realizzati con gli artisti in residenza e le scuole del territorio. Un altro aspetto fondamentale è stato quello di costruire ponti e tessere relazioni con altre realtà locali impegnate nello sviluppo culturale. Ne sono esempi la collaborazione per la proiezione gratuita del film La Chimera di Alice Rohrwacher con
Operare in questo territorio significa aggiungere un tassello cruciale a un puzzle altrimenti incompiuto
Radici Urbane e i dialoghi con Radic’Arte, associazione che promuove la danza contemporanea. Operare in questo territorio significa aggiungere un tassello cruciale a un puzzle altrimenti incompiuto, piuttosto che un ulteriore elemento in un mosaico già saturo e meno sostenibile
Avete ricevuto oltre 400 candidature da più di 40 paesi. Cosa vi ha guidato nella selezione degli artisti per questa prima edizione?
Amina Berdin: Il numero di application ricevute è stato davvero sorprendente! Non abbiamo posto limiti di media o di età. Ci siamo interrogate con onestà su cosa avremmo potuto offrire in termini di supporto: la produzione concreta di nuove opere è centrale per MARES, ma abbiamo anche considerato la costruzione di un network, l’esperienza di condivisione, la mostra finale e il catalogo. Abbiamo cercato artisti in grado di portare linguaggi e background differenti in diverse fasi del proprio percorso. Giovanni Chiamenti ha una carriera consolidata; Jade Blackstock lavora con la performance da anni nel Regno
Photo Lorenzo Morandi Courtesy MARES
Unito e oltre. Abbiamo voluto includere un’artista internazionale per offrire uno sguardo diverso sul territorio, e un’artista locale, Teresa Prati, per reinterpretarlo dall’interno. Luca Pagin, il più giovane, ci ha colpito per la solidità della ricerca e la freschezza del linguaggio scultoreo in relazione ai temi di Ruins. Anche la dimensione personale è stata importante: oltre 40 colloqui ci hanno permesso di selezionare personalità complementari, capaci di condividere vita e lavoro per tre mesi e di confrontarsi con progetti site-specific. La scelta delle figure curatoriali ha seguito un processo altrettanto attento: quest’anno abbiamo collaborato con Lemonot, duo curatoriale tra arte, architettura e urbanistica, con una visione fluida, transdisciplinare e sensibile allo spazio urbano.
Ci dite di più sul tema della mostra?
AB: Abbiamo deciso di lavorare sul tema Ruins perché ci sembrava un punto di partenza potente per introdurre l’arte contemporanea all’interno del complesso monumentale di Santa Croce. Ci siamo chieste: qual è la differenza tra “rovina” e “resto”? E cosa determina la conservazione dell’una rispetto al degrado dell’altro? Il complesso stesso si trova in una condizione ambigua sospesa tra ristrutturazione e abbandono. Una condizione che riflette anche il contesto circostante, segnato da una forte vocazione industriale ma disseminato di edifici e strutture ormai dismesse. Cosa raccontano queste tracce? Come possiamo rileggerle per offrire interpretazioni nuove, capaci di evocare tanto il passato quanto il futuro?
Come scrive Magalí Arriola, “forse solo attraverso una riattivazione della memoria di un passato circostanziale si possono opporre le cronache ufficiali della storia e, così, immaginare nuove possibilità per il futuro”.
Ci siamo interrogate su come generare nuovi significati a partire dai segni del tempo impressi nell’architettura e nei materiali, lasciando agli artisti ampia libertà di interpretazione: dal passato remoto evocato da Giovanni Chiamenti al lascito emotivo delle stanze riformatorio esplorato da Luca Pagin.
I linguaggi e le pratiche degli artisti sono molto diversi tra loro. Come avete lavorato per creare un equilibrio e una narrazione coerente all’interno della mostra?
AB:Lo spirito di una residenza sta nello scambio e nel confronto tra ricerche diverse. Per creare equilibrio tra pratiche così differenti, abbiamo chiesto agli artisti di presentare un progetto iniziale, che ha tracciato un filo conduttore rispetto agli assi di Ruins, pur lasciando libertà di evoluzione. In tre mesi, Jade Blackstock ha esplorato la scultura con un’opera in cotone e cera d’api lunga 13 metri; Luca Pagin ha affrontato nuove dimensioni scultoree; Giovanni Chiamenti ha prodotto tele di grande formato; Teresa Prati lavora a un’opera di sound art. L’equilibrio è nato dialogando costantemente con gli artisti e con lo spazio, permettendo alle opere di confrontarsi tra loro e con le stanze. I limiti installativi e gli spazi connotati hanno stimolato scelte consapevoli e caute, mentre mostra e catalogo restituiscono e raccontano il percorso condiviso di questi tre brevi ma intensi mesi
Complesso Monumentale
di Santa Croce, Bosco Marengo, 2024
Courtesy Bosco Marengo
Il Complesso di Santa Croce ha attraversato secoli di trasformazioni: che tipo di relazione si è instaurata tra gli artisti e il territorio?
TP: Il Complesso di Santa Croce è stato il fulcro iniziale della ricerca, ma la nostra visione si è estesa fin da subito all’intero territorio alessandrino. Ruins è
Photo Lorenzo Morandi
nato come un ampio sforzo di esplorazione locale, lasciando agli artisti la libertà di concentrarsi sugli aspetti che più li stimolavano, e siamo rimasti affascinati dalle loro interpretazioni. La relazione personale di ciascun artista con il territorio è stata plasmata sia dalla provenienza sia dalla natura della loro pratica. Per esempio, Jade Blackstock, che è principalmente una performer, ha scelto di concentrarsi sul passato industriale dell’area e sulla sua natura “curata” e votata alla produzione. Ha collaborato con apicoltori locali, creando opere con miele e cera d’api e sperimentando per la prima volta elementi scultorei oltre alla performance. Altri artisti, come Giovanni Chiamenti e Luca Pagin, hanno approfondito musei e archivi storici della provincia. Teresa Prati, unica residente originaria della zona (Novi Ligure), ha invece potuto rivalutare con occhi nuovi luoghi già familiari. Un contributo prezioso è arrivato anche da Pino Nonni e sua moglie Tina, che da oltre trent’anni vivono accanto al Complesso e si prendono cura della Chiesa, offrendo un legame autentico con la memoria viva del luogo.
Quanto è importante il dialogo con la comunità locale?
Michelangelo Buzzi: Fondamentale. Un progetto artistico che ignora il contesto in cui si inserisce rischia di rimanere sospeso, disconnesso dal luogo che lo ospita. Il Complesso Monumentale di Santa Croce, in particolare, è stato costruito per la comunità locale: nasce come punto di riferimento condiviso, un ponte simbolico tra i paesi di Frugarolo e Bosco Marengo. Oggi viene utilizzato prevalentemente come spazio per eventi occasionali o mostre temporanee, senza
però una funzione continuativa o pienamente attiva nel quotidiano del territorio. Riattivarlo significa non solo valorizzarlo come contenitore, ma ricucire un legame che nel tempo si è allentato. Il dialogo con la comunità è quindi essenziale per restituire al luogo la sua funzione originaria di spazio vissuto, riconosciuto e condiviso.
La presenza dell’arte contemporanea può contribuire a un rinnovato senso di appartenenza al luogo? In che modo?
MB: Nel nostro caso sì, e credo che debba farlo. L’arte contemporanea ha la capacità di leggere i luoghi al di là delle narrazioni consuete, di sottrarli all’inerzia e di rimetterli in gioco. È abituata a lavorare in contesti marginali o sospesi, spazi che si trovano in una fase di transizione e che spesso sfuggono a una funzione riconosciuta. In questi contesti non ci si limita a occupare uno spazio, ma si propone un uso critico, aprendo nuovi immaginari e creando relazioni inaspettate. E quando questo accade, il luogo torna a essere parte attiva della vita collettiva, invece di restare sullo sfondo.
Siete un’associazione non profit: come si costruisce un progetto sostenibile?
MB: La sostenibilità per noi non è solo una questione economica, ma relazionale. Un progetto è sostenibile quando riesce a mettere in sinergia i vari attori coinvolti: istituzioni, organizzatori, artisti, pubblico. Ognuno deve avere chiaro il proprio ruolo, il contributo che porta e il valore che riceve in cambio, materiale o immateriale. Le istituzioni devono vedere nel progetto una continuità con le proprie missioni terri-
NEI NUMERI PRECEDENTI
#76 Marea Art Project
#79 Tagli
#82 CBI
Il concetto di rovina ci ha permesso di interrogarci su come generare nuovi significati e nuove possibilità
toriali. Gli organizzatori devono trovare un equilibrio tra visione e fattibilità. Gli artisti devono sentirsi parte attiva di un ecosistema più ampio. E il pubblico deve sentirsi coinvolto e messo nella condizione di entrare in relazione con ciò che accade. Questo si costruisce nel tempo, con ascolto, coerenza e cura dei dettagli. Soprattutto per realtà giovani come la nostra, ogni alleanza conta.
Una parola chiave di Mares?
TP: “cura”. È stato fondamentale applicarla a ogni aspetto dello sviluppo, iniziando dal Complesso stesso. La cura è stata anche il fulcro delle relazioni che abbiamo costruito con le persone che abitano questi spazi quotidianamente da anni, le quali hanno accolto la nostra presenza con grande disponibilità e apertura.
MB: “presenza”. Presenza intesa come impegno ad abitare realmente il luogo, non solo a passarci. Una residenza non può limitarsi a importare un progetto in uno spazio, ma deve costruire un rapporto, anche umano, con il territorio. Questo richiede tempo, pazienza e ascolto.
AB: “ascolto”, saper ascoltare le storie e i racconti legati al luogo, le persone che ogni giorno si prendono cura di Santa Croce e le intuizioni degli artisti ha permesso di costruire relazioni più profonde e di realizzare opere complesse in dialogo con il contesto. L’ascolto si estende anche ai consigli dei curatori che sono passati in visita in residenza, che sono stati preziosi sia in vista della mostra, sia per aiutare MARES a migliorarsi!
A MILANO APRE LA CASA DEGLI ARCHIVI DI ARCHITETTURA. INTERVISTA ALL’ASSESSORE ALLA CULTURA
TOMMASO SACCHI
VALENTINA SILVESTRINI L Dal 30 settembre il QT8 di Milano accoglie la nuova sede del CASVA – Centro di Alti Studi sulle Arti Visive; sorto nel 1999, custodisce e rende accessibili gli archivi di oltre 40 progettisti o studi lombardi, tra cui Vittorio Gregotti, Enzo Mari e Nanda Vigo. Fin qui ospitato al Castello Sforzesco (e alla Fabbrica del Vapore), dispone ora di una casa tutta sua, in un quadrante del capoluogo lombardo dal forte valore architettonico. Si insedia, infatti, nel padiglione espositivo (impiegato in anni recenti come mercato rionale) disegnato dall’architetto e urbanista Piero Bottoni come parte integrante del QT8, un quartiere simbolo della storia urbanistica del Novecento milanese, sorto in occasione dell’VIII Triennale, nel 1947. Finanziata dal Comune di Milano con circa 9 milioni di euro, la rinnovata casa del CASVA è l’esito di “un’operazione pubblica di conversione di uno spazio civico che, senza dubbio, avrà un importante impatto rigenerativo sull’interno quartiere, dal punto di vista culturale e dei servizi” racconta l’Assessore alla Cultura del Comune di Milano Tommaso Sacchi. “Nello stesso tempo, porta con sé un’evidente funzione culturale di respiro cittadino e nazionale, dato il prestigio e la qualità degli archivi conservati e delle proposte culturali che distingueranno il centro” aggiunge. Articolato il programma funzionale messo a punto per i nuovi spazi del CASVA. Come annuncia ancora Sacchi sarà infatti “museo, centro di quartiere e per l’associazionismo, biblioteca, archivio. Vogliamo creare un’istituzione che non c’era a Milano, con un codice diverso da qualsiasi altra. Oggi ragioniamo in termini di ibridazione delle funzioni. Per noi sia quella specialistica, con spazi dedicati a chi ha necessità di studiare, catalogare, conoscere, che quella divulgativa, che coinvolge appassionati e cittadini che vivono e frequentano la cultura, sono entrambe fondamentali. Il centro, quindi, non avrà carattere squisitamente scientifico o tecnico, solo per addetti ai lavori: sarà anche un luogo di divulgazione, con mostre, incontri e altre iniziative”.
OSSERVATORIO RIGENERAZIONE
LO STUDIO JKMM ARCHITECTS VINCE IL CONCORSO PER IL NUOVO MUSEUM OF ARCHITECTURE AND DESIGN DI HELSINKI
Ancora un successo in patria per lo studio di architettura finlandese JKMM Architects. Già artefice a Helsinki del museo Amos Rex e della Dance House, la società fondata da Asmo Jaaksi, Teemu Kurkela, Samuli Miettinen e Juha Mäki-Jyllilä nel 1998 si è aggiudicata l’atteso concorso per il nuovo Museum of Architecture and Design in Helsinki, imponendosi su 624 proposte da tutto il mondo. Dalla realizzazione della struttura di oltre 10mila mq, annunciata per il 2030, è attesa la riqualificazione di dismesso sito portuale della capitale finlandese. (VS)
MUSEI CHE TRAINANO LA RIGENERAZIONE URBANA:
A BERGAMO SI LAVORA (ANCHE) ALLA NUOVA PIAZZA DELLA GAMEC
Al via nell’autunno 2025 il cantiere per la riqualificazione di piazza Tiraboschi a Bergamo, parte integrante della nuova sede della GAMeC: è stato infatti approvato dalla Giunta Comunale il progetto esecutivo; l‘opera è finanziata con 2 milioni di euro. “Vogliamo che la GAMeC diventi città, attrattiva e porosa, in dialogo con adolescenti, cittadini e non umani” ha dichiarato l’architetta Maria Alessandra Segantini cofondatrice di C+S Architects , studio che si sta occupando dell’intervento di retrofit che, entro il 2026, renderà l’ex palasport la nuova sede museale. (VS)
CRESCO: SEMI DI CULTURA NEL CUORE DI LAMEZIA TERME Sviluppato dall'imprenditore e innovatore culturale Stefano Pujia, con il socio Salvatore D’Elia, Cresco è un progetto di rigenerazione urbana che amplia l’esperienza di Pan&Quotidiano, l’edicola di piazza Mazzini a Lamezia Terme riconvertita nel 2024 in spazio multiservizi con giornali, libri, prodotti locali ed eventi. Con le architette Giusy Torrisi e Vanessa Todaro, il duo interviene ora su piazza Santa Maria Maggiore per trasformare uno spazio pubblico abbandonato in luogo di socialità e cultura. Vincitore di un bando comunale, il progetto ha debuttato a luglio scorso con Cantieri, una rassegna di cineforum e teatro civile. (Carolina Chiatto)
Architecture
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sopra: Un ritratto di Tommaso Sacchi, courtesy Comune di Milano
dall'alto: JKMM Architects
& Design Museum Helsinki / C+S ArchitectsPiazza GAMeC-Render by GDA-Visualization / Lamezia Terme e piazza Santa Maria Maggiore. Mappa a cura di Alessandro Naldi per Artribune
CRISTINA MASTURZO L Il primo semestre del 2025 si è chiuso all’insegna di incertezza geopolitica e volatilità economico-finanziaria, con i riflessi della crisi globale e il rallentamento dei mercati che continuano a influenzare gli andamenti della filiera commerciale dell’arte. Un comparto che fa i conti con costi in continuo incremento e riduzione dei margini di profitto.
Alla ripresa di settembre, con l’avvio di Armory Show a New York e Frieze Seoul, dal mondo delle gallerie si evidenzia sempre più fermamente, infatti, l’aumento vertiginoso dei costi delle fiere e continuano le notizie di chiusure, da Clearing a Kasmin, a New York – “Ci abbiamo provato con tutte le nostre forze, ma abbiamo fallito”, ha detto qualche settimana fa Olivier Babin, fondatore della celebre galleria Clearing, che ha chiuso coi conti in rosso –, così come emergono in modo netto i problemi del business model stesso del mercato dell’arte, che scricchiola troppo, e per troppi dei suoi operatori. Comprese le gallerie, appunto, ma anche le fiere, che pure vanno annunciando sospensioni, e gli artisti, che si interrogano se la tradizionale divisione dei ricavi al 50% con le gallerie che li rappresentano sia ancora sensata o equa. Intanto, nel mondo, i conflitti continuano a espandersi, con gli attacchi di Israele arrivati a settembre in modo plateale fino a Doha (dove nel 2026 è prevista la prima edizione di Art Basel Qatar, ora a rischio, vista l’insicurezza dell’area) e i droni russi che hanno sorvolato minacciosamente i cieli polacchi. Dicevamo in apertura del riavvio di stagione con i due eventi fieristici negli Stati Uniti e in Corea del Sud. E a sentire gli espositori dell’Armory Show a New York, le vendite sono andate meglio del previsto, seppure – come ultimamente spesso riportiamo – in range di prezzo più contenuti, rispetto al passato. Che si intende per “contenuti”? Intorno ai $100.000, per lo più, anche se qualche transazione milionaria è andata in porto, come per i lavori di Tracey Emin e Kiki Smith nello stand della galleria Lorcan O’Neill.
Più muscolare il mercato che si è fatto sentire a Frieze Seoul, dove Hauser&Wirth avrebbe venduto un trittico da $4,5 milioni di Mark Bradford, al momento molto desiderato in Oriente.
In Italia, invece, si è tenuta la nuova edizione di Panorama, la mo-
stra organizzata ogni anno in un luogo diverso dal consorzio di gallerie Italics, e che dal 10 al 14 settembre 2025 è approdata a Pozzuoli, abitando i Campi Flegrei con opere d’arte e appuntamenti di approfondimento. Con il desiderio di rintracciare la natura divina del “mondo stesso, nella sua fragile e irripetibile pluralità. Solo così, abbattendo piedistalli per costruire luoghi d’incontro, potremo forse restituire futuro allo spazio comune che condividiamo”, come nelle parole della curatrice Chiara Parisi, che continua: “Pozzuoli è perfetta per parlare di divinità, di metamorfosi, di quelle cose che vanno su e poi giù, come gli dèi, gli artisti e i titoli in borsa. [...] Mettere l’arte in un luogo che trema è un modo onesto per capire se è viva”.
IL VALORE DELL’ARTE
E quale possa essere il suo valore nella società, anche. Così che, al vacillare della tenuta finanziaria degli investimenti artistici, possa subentrare l’apertura di nuovi sentieri di senso e di nuovi rapporti di fiducia con chi è pronto a sostenere il comparto, nei modi che si riterranno etici e praticabili.
Se è vero che dove si assottigliano o spariscono i guadagni non può esistere impresa artistica – e alla base della filiera commerciale dell’arte c’è anche una questione di margini di profitto –, l’acquisto e il collezionismo artistico potrebbero trovare il modo per smarcarsi dall’etichetta di passioni di lusso, che stridono anche con le vicissitudini del mondo esterno, e una nuova narrazione potrebbe subentrare, articolata non più o non solo dalla finanza, ma dalla cultura: e l’opera d’arte e la sua proprietà potrebbero offrirsi come rifugio per gli investitori, ma anche per chi vuole accedere a un mondo di significati.
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Installation view dello stand di Hauser & Wirth a Frieze Seoul. In primo piano il trittico di Mark Bradford. Photo Creative Resources. Courtesy Hauser & Wirth
L’AUSTRIA SPLENDE D’AUTUNNO
COSA VEDERE TRA ARTE, TRADIZIONI E PAESAGGI
Kunsthistorisches Museum, Vienna.
Credits KHM-Museumsverband
Dai tetti di Vienna alle vallate alpine, la proposta culturale austriaca si veste dei toni autunnali. Ecco tutte le cose da non perdere per chi ama l’arte e la bellezza a tutto tondo
di ALBERTO VILLA
L’autunno in Austria non è soltanto una stagione di colori: è un vero e proprio invito a rallentare e immergersi nella cultura, approfittando di un clima più mite, dei paesaggi che si tingono d’oro e rosso, e di un calendario che continua ad essere fitto di appuntamenti musicali e artistici. L’Austria è una terra che unisce natura e cultura in una sintesi rara, capace di sorprendere sia gli amanti della montagna sia coloro che cercano nelle città stimoli intellettuali di alto livello. Vienna, Salisburgo, Innsbruck e le piccole città alpine si dimostrano palcoscenici in cui la tradizione musicale, l’arte e l’architettura convivono con eventi contemporanei e sperimentazioni.
Vienna, capitale imperiale e oggi cuore pulsante della Mitteleuropa, custodisce un patrimonio senza paragoni. Qui la musica non è soltanto un’eredità, ma una presenza viva: dalla Wiener Staatsoper alle moderne installazioni interattive della Haus der Musik, che permettono di sperimentare in prima persona l’universo sonoro di Mozart, Strauss e Beethoven, fino ai festival che animano la città durante tutto l’anno. Nel 2025, in particolare, Vienna celebra il bicentenario della nascita di Johann Strauss figlio, “re del valzer”, con eventi che si susseguono tra concerti, rievocazioni e spettacoli. E come dimenticare la Mozarthaus, la dimora viennese di Wolfgang Amadeus Mozart, che ancora oggi restituisce l’atmosfera quotidiana del genio musicale. Non solo valzer e sinfonie: Vienna è Vienna anche per i suoi musei di altissimo profilo, che raccontano storie universali attraverso collezioni artistiche senza pari. Tra questi brillano il Leopold Museum, custode del Secessionismo e delle avanguardie di Klimt e Schiele, e il Kunsthistorisches Museum, che raccoglie i capolavori dei secoli d’oro dell’arte europea. Ma i tesori dell’Austria vanno ben oltre la sua capitale: si diffondono sulle vette e nelle vallate, tra laghi e borghi in cui antichi racconti e nuove letture si intrecciano. Percorrere tra ottobre e novembre la Strada Alpina del Großglockner è un’esperienza indimenticabile: questa grande opera ingegneristica compie 90 anni e continua a offrire ai viaggiatori vedute spettacolari sul massiccio più alto del Paese. I tornanti si snodano fra pascoli e rocce, accompagnando chi percorre i suoi 48 km alla scoperta della flora alpina e della fauna selvatica, in un connubio fra bellezza naturale e testimonianze archeologiche di secoli di commerci e transiti. Accanto a questi panorami, la vita culturale delle regioni non si ferma mai: dalle vallate del Tirolo fino al Salisburghese, passando per il Salzkammergut, la cultura è protagonista di un calendario che si prolunga per tutto l’autunno e oltre. È il caso della regione di Saalfelden Leogang, che dopo il successo del suo Jazz Festival di agosto, si prepara ad accogliere visitatori curiosi di scoprire le sue tradizioni secolari. Questa Austria d’autunno è quindi un mosaico fatto di musica e silenzio, città e paesaggi, antiche memorie e nuovi stimoli. Un invito a viaggiare per ascoltare, osservare, vivere la cultura in ogni sua forma.
TRE TEMPLI DELL’ARTE E DELLA MUSICA A VIENNA
Per raccontarvi la capitale austriaca abbiamo scelto tre luoghi che celebrano i suoi più importanti contributi per la cultura internazionale: il Leopold Museum, il vicino Kunsthistorisches Museum e l’appartamento in cui Mozart trascorse i più prolifi ci dei suoi anni viennesi, la Mozarthaus
LEOPOLD MUSEUM
DOVE IL GOTHA DELLA PITTURA VIENNESE È DI CASA
Basterebbe fare i nomi dei pittori Gustav Klimt ed Egon Schiele per raccontare la grandezza del Leopold Museum, cuore pulsante di uno dei distretti culturali più estesi del mondo, il Museumsquartier. L’edificio cubico che ospita la collezione dei coniugi Rudolph ed Elizabeth Leopold è infatti la dimora della più grande raccolta di opere di Schiele, pittore definito “maledetto” per la sua vita tormentata. A fargli compagnia, niente meno che il suo maestro Klimt, massimo interprete dei bagliori di Vienna a cavallo tra Ottocento e Novecento. Insieme rappresentano gli apici del Secessionismo Viennese, movimento culturale che ambiva alla creazione della Gesamtkunstwerk (“opera d’arte totale”) e che ha costituito uno dei momenti più vitali della storia dell’arte antiaccademica.
Abbiamo aperto con il condizionale, perché di fatto Klimt e Schiele non esauriscono la ricchezza del Leopold Museum. Gran parte della sua collezione, proprio nello spirito della Gesamtkunstwerk, è dedicata non alle belle arti, ma a quelle applicate. In una totale assenza di vetuste gerarchie, il Leopold dà infatti grande risalto anche a tutte quelle arti decorative che hanno fatto sì che l’epoca d’oro viennese si espandesse al di là dei confini della tela, per raggiungere i palazzi imperiali così come le abitazioni dei cittadini.
TUTTO L’ORO DELLA SECESSIONE VIENNESE
Oltre alla collezione permanente, il museo si impegna nella realizzazione di mostre di ampio respiro. La più recente, inaugurata il 4 settembre e in programma fino al 18 gennaio 2026, è da brividi: Hidden Modernism, infatti, esplora la fascinazione dell’arte moderna per l’occultismo e lo spiritismo, sulla scorta delle nuove filosofie di inizio Novecento. Una mostra che può contare sui grandi nomi di Edvard Munch, Ferdinand Hodler, Oskar Kokoschka, Max Oppenheimer, oltre a quello del principe del Leopold: ancora una volta, Egon Schiele.
sopra: Leopold Museum, Vienna. Photo Alexander Eugen Koller
a destra in alto: Visitatori davanti alla Torre di Babele di Pieter Brueghel il Vecchio, Kunsthistorisches Museum, Vienna. Courtesy Museumsverband
a destra in basso: Kunsthistorisches Museum, Vienna. Courtesy Oesterreich Werbung. Photo Antoine Bonin
Di Secessioni, nella storia dell’arte, ce ne sono state diverse. Con questo termine si intende una presa di posizione antiaccademica da parte di un gruppo di artisti e intellettuali, un fenomeno tipicamente tardo-ottocentesco che precede e dà il La alle avanguardie storiche del primo Novecento. Diverse le città europee coinvolte, a partire da Monaco nel 1892. Eppure, quella che passerà alla storia come la Secessione per antonomasia è quella viennese. Non solo per la qualità dei suoi artisti (Monaco ad esempio contava sul nome illustrissimo di Franz von Stuck), ma soprattutto per la sua capacità rivoluzionaria in tutti i campi della cultura del tempo: dalle riviste all’architettura, dalla pittura alle arti decorative, lo “stil” proposto da pittori (Gustav Klimt, Egon Schiele e Oskar Kokoschka), progettisti (Otto Wagner, Josef Hoffmann e Joseph Maria Olbrich) e designer (su tutti Koloman Moser) fu dirompente e dilagante a tal punto da definire l’estetica cittadina, dal 1897 ad oggi. A testimonianza di ciò, il Palazzo della Secessione nel cuore di Vienna è oggi una delle mete più ambite per i visitatori della città, complice anche il grande Fregio di Beethoven dipinto da Gustav Klimt e qui conservato.
KUNSTHISTORISCHES MUSEUM. IL TESORO DEGLI ASBURGO
Usciti dal Leopold Museum e dal Museumsquartier, basta attraversare la strada Museumsplatz per trovarsi in Maria-Theresien Platz, circondati da due palazzi gemelli di grande splendore. A sinistra, il Naturhistorisches Museum raccoglie il meglio della storia naturale austriaca ed europea. A destra, il Kunsthistoriches Museum conserva una collezione di storia dell’arte di inestimabile valore, che si estende dall’Antico Egitto all’Ottocento. Nato per custodire le collezioni degli Asburgo, il museo riflette la grandezza di una dinastia che fece della cultura uno strumento di potere e prestigio. Millenni di storia dell’arte sono condensati in un solo edificio, con capolavori della pittura occidentale firmati da Bruegel il Vecchio – presente con la più grande collezione al mondo delle sue opere –, Caravaggio, Rubens, Tiziano, Vermeer. Tra i tesori del museo c’è anche la preziosissima Saliera di Francesco I, un manufatto in ebano, oro e smalto realizzato da Benvenuto Cellini tra il 1540 e il 1543. La saliera è anche protagonista di una storia rocambolesca: fu trafugata dal museo nel 2003, per essere poi ritrovata tre anni dopo in un bosco a circa 90 km da Vienna. Non è solo la sua imponente collezione fare del Kunsthistorisches Museum un punto di riferimento per studiosi e appassionati da tutto il mondo: il suo prestigio si deve anche ai suoi ottimi laboratori di studio e conservazione delle opere, in grado di supportare progetti di ricerca internazionali e di corroborare un approccio sempre più scientifico nei confronti della museologia. Anche in questo caso, e proprio per la loro rigorosità scientifica, dobbiamo menzionare le mostre permanenti organizzate dal museo: dal 30 settembre 2025 al 22 febbraio 2026 sarà visitabile la prima monografia dedicata alla pittrice fiamminga Michaelina Wautier, attiva nel XVII Secolo. Come ci raccontava il direttore Jonathan Fine in un’intervista di alcuni mesi fa, Wautier si differenzia dalle altre pittrici del suo tempo perché “non si limitò alle nature morte o ai ritratti, ma gareggiò con gli artisti maschi nel campo più prestigioso: la pittura di storia”.
OSPITI A CASA (E ALLA TAVOLA) DI WOLFGANG AMADEUS MOZART
Legata ai grandi nomi di Beethoven, Schubert, Mahler, Strauss e Haydn (tra gli altri), Vienna potrebbe facilmente essere una città nostalgica del suo passato musicale. Tuttavia, istituzioni di primissimo piano quali la Wiener Staatsoper, il Konzerthaus, il Musikverein e la Haus der Musik dimostrano la vitalità tutta contemporanea del fare musica nella capitale austriaca. Per questo visitare la Mozarthaus non ha affatto il sapore di una sindrome dell’epoca d’oro, quanto piuttosto quello di una dovuta celebrazione che supera il tempo: qui, nel centralissimo appartamento di Domgasse 5, Wolfgang Amadeus Mozart (Salisburgo, 1756 – Vienna, 1791) ha trascorso i più felici dei suoi anni viennesi, dal 1784 al 1787. Soli tre anni, eppure estremamente decisivi per la sua carriera: è in queste stanze che compose alcune delle sue opere più celebri, tra cui Le nozze di Figaro. Inaugurato nel 2006, in occasione dei 250 anni dalla nascita di Mozart, il museo si sviluppa su tre piani, per un totale di 1000 metri quadrati di spazio espositivo. Il piano nobile ospita l’appartamento più grande e più lussuoso – nonché l’unico oggi rimasto – dei dodici occupati da Mozart durante la sua decennale permanenza a Vienna: composto di quattro ampie stanze, due più piccole e una cucina, lo spazio mantiene la sua disposizione originale, permettendo al visitatore di vivere un’esperienza quanto più autentica possibile. La visita prosegue ai due piani superiori, dove vengono approfondite le opere di Mozart e la Vienna settecentesca tramite installazioni, video e mostre temporanee. Inoltre, il seminterrato dell’edificio, con il suo soffitto a cupola, è stato trasformato in uno spazio eventi. Qui, grazie all’acustica perfetta, hanno luogo concerti di vario genere: dalla musica da camera al blues.
sopra: Entrata, Mozarthaus, Vienna. Credits OesterreichWerbung. Photo Jorge A. Munar
Attualmente è in corso una mostra curiosa, di sicuro interesse per chi vuole conoscere lo stile di vita austriaco del XVIII Secolo: Mozart At The Dining Table (visitabile fino all’11 gennaio 2026, a cura di Otto Biba e Ingrid Fuchs) è un affondo sulle tracce gastronomiche all’interno della vita e dell’arte del compositore. Cosa mangiava e cosa beveva Mozart? E ancora: cosa faceva mangiare e bere ai personaggi che metteva in musica e perché? Lo raccontano lettere, annotazioni e documenti eccezionalmente esposti in questa mostra tanto intrigante quanto fattuale.
Per chi vuole tuffarsi ulteriormente nell’arte di Mozart, non lontano dal suo appartamento è possibile vivere un’esperienza immersiva all’insegna del compositore austriaco: Mythos Mozart è un percorso multisensoriale composto da cinque ambienti, in cui si alternano filmati e installazioni sulle note del celeberrimo Requiem
Non è da tutti conquistarsi un titolo come “re del valzer”. Soprattutto nella Vienna dell’Ottocento, quando il valzer era ovunque. Johann Strauss figlio (1825-1899) ci riuscì. Dopotutto, il talento era di famiglia: tanto il suo omonimo padre, quanto i suoi fratelli Eduard e Josef furono compositori. Nell’anno che segna il bicentenario dalla sua nascita, Vienna rende omaggio al genio dietro al celebre valzer Sul bel Danubio blu con mostre ed eventi nelle maggiori istituzioni musicali cittadine. Non solo teatri e sale concerti: a chi vuole scoprire tutto – ma proprio tutto – di Johann Strauss figlio, Vienna offre la possibilità di visitare musei a lui dedicati, i suoi appartamenti e persino la sua tomba. Oltre allo splendido monumento nel cuore del parco cittadino, lo Stadtpark: una statua in bronzo rivestito d’oro realizzata da Edmund von Hellmer, che immortala Strauss elegantemente impegnato a suonare il suo violino.
sotto: Monumento a Johann Strauss II, Stadtpark, Vienna. Courtesy Österreich Werbung. Photo Sebastian Burziwal
a destra: La catena montuosa del Leoganger Steinberge, SaalfeldenLeogang. Credits Saalfelden-Leogang Touristik GmbH. Photo Christoph Oberschneider
200 ANNI DI JOHANN STRAUSS FIGLIO
SAALFELDEN LEOGANG, REGIONE DI NATURA E STORIA MINERARIA
Nel nostro speciale estivo dedicato all’Austria e alle sue bellezze, avevamo parlato della regione di Saalfelden Leogang, nel Salisburghese, soprattutto per il suo annuale Saalfelden Jazz Festival, che da 45 anni attira appassionati e musicisti da tutto il mondo. Ora che il festival è alle nostre spalle (si è tenuto dal 21 al 24 agosto), vuol dire che questa regione non ha più nulla da offrire? Tutt’altro.
Tra le valli alla base dell’altopiano Steinernes Meer (che in italiano significa “Mare di Pietra”), le città di Saalfelden e Leogang sono i centri da cui partono escursioni per tutti i gusti. Dall’hiking d’alta quota allo sci, passando per il ciclismo e alcune delle zip-line più lunghe e veloci del mondo, le attività offerte si arricchiscono di vedute panoramiche mozzafiato.
Chi invece vuole scoprire le ricchezze storico-culturali di questo territorio, troverà pane per i suoi denti: nella città di Leogang, il Museo Minerario e Gotico esplora l’arte gotica nel contesto
minerario. Nonostante le attività di estrazione nella regione vantino una storia di 3mila anni, il loro sviluppo nel corso del XIV Secolo è andato di pari passo alla crescente ricchezza artistica della regione: tra le opere conservate, si segnalano una statua raffigurante il soggetto tardo-gotico della “Bella Madonna”, una “noce da preghiera” appartenuta a Maria di Borgogna, una litografia di Albrecht Dürer e un dipinto su tavola del Maestro di Laufen. Il passato minerario di Saalfelden Leogang è testimoniato in modo ancor più efficace dalle Miniere di Leogang: qui, tra il Trecento e l’Ottocento, si estraevano argento, mercurio, cobalto, rame, piombo e nichel. Solo questa delle quattro aree minerarie è stata aperta al pubblico, a partire dal 1989. Grazie alle visite guidate (attive per tutto settembre e ottobre, prima della pausa invernale), ci si può avventurare all’interno dei cunicoli che hanno garantito la stabilità economica della regione per cinquecento anni.
COME STA LA POESIA ITALIANA?
10 NOMI CHE STANNO RIDEFINENDO LA SCENA EMERGENTE
di MARIA OPPO
La domanda è sempre la stessa, arcinota. Un assillo che si mantiene intatto attraverso gli spazi e le epoche, tanto da essere diventato più un feticcio, una maniera che un interrogativo reale. Una questione che diventa imprescindibile o superflua a seconda di chi sia a sollevarla, o a cercare di risolverla. È ancora possibile la poesia? Questa è la domanda. Arcinota, come si diceva. Ecco, non so se in questa sede si riuscirà a rispondere più di quanto abbiano fatto decine di scritti prima di questo; le probabilità virano sul no. Posso però provare a raccontare di un signore, di cui non dirò il nome, che riteneva che sì, che fosse possibile e anzi dovesse esserlo. Che le sue fisionomie sarebbero state oggetto di rimodellamento, forse; che si sarebbe contrattato sulle definizioni da darle, magari. Ma che comunque, finché fosse esistito l’uomo, il verso lo avrebbe seguito. Sono parole, quelle di questo signore, che dovrebbero risultare consolatorie per tutti coloro, tra critici ed estimatori, che gridano al tracollo di un genere che in realtà non sembra mai essere stato, almeno nella storia occidentale recente, un mezzo di intrattenimento di massa. È infatti un’arte, quella della poesia, in perenne via d’estinzione a detta di molti; così tanti che, in realtà, sembrano essere perfino più dei fruitori. E al tempo stesso teorizzata – anche dallo stesso signore
di poco fa – come elemento popolare per eccellenza, uno dei più diffusi, in virtù principalmente del suo carattere universale e del suo essere, per dirla con Hegel, la più illimitata tra le forme artistiche.
È VERO CHE LA POESIA NON CRESCE
MA NON MUORE?
C’è un piccolo paese in provincia di Nuoro, chiamato Lollove, che secondo il mito fu condannato da un gruppo di monache con la seguente maledizione: “Lollove, sarai come l’acqua del mare: non crescerai e non morirai mai”. La leggenda nacque proprio perché Lollove contava e conta ormai da anni poche decine di abitanti; nonostante questo non è mai stato abbandonato del tutto e anzi, nel tempo ha attirato a sé diverse iniziative (più o meno efficaci) pensate per preservarlo dall’involuzione demografica. Volendomi concedere una semplificazione, da questo punto di vista anche la poesia sembrerebbe essere “come l’acqua del mare”; la quale non cresce, ma non muore neanche. Si potrebbe provare per esercizio dialettico a chiederci se, tra le due asserzioni, ce ne sia una più corretta dell’altra. O se siano entrambe vere, o quasi vere, oppure per niente. Ecco, il qui presente articolo si ripromette di parlare di questo: dello stato di salute della poesia oggi in Italia e se essa sia cresciuta, o viceversa
Signore e signori
Questa è la nostra ultima parola – La nostra prima e ultima parola –: I poeti sono scesi dall’Olimpo.
LE CASE EDITRICI ITALIANE SPECIALIZZATE IN POESIA
MILANO Crocetti crocettieditore.it
Marco Saya marcosayaedizioni.net
BRESCIA
Interno Poesia internopoesialibri.com
Nicanor Parra
TORINO Miraggi miraggiedizioni.it
FIRENZE
Vallecchi vallecchi-firenze.it
ROMA Ensemble edizioniensemble.it
BUCCINO (SA) Eretica ereticaedizioni.it
OSIMO (AN) Arcipelago Itaca arcipelagoitaca.it
se stia per morire. Se abbia bisogno di nutrimento e quale sia quello più adatto da offrirle. Proverò a individuare dieci nomi di giovani autrici e autori che rappresentano la poesia contemporanea e che verosimilmente continueranno a farlo nei prossimi anni; consapevole del fatto che ogni operazione di selezione lascia fuori dal discorso una rosa di nomi altrettanto validi. Da un’osservazione di questi dieci poeti, e dalle loro stesse parole, cercheremo dunque di comprendere se una scena poetica contemporanea effettivamente esista; di farci un’idea del punto di partenza e delle traiettorie in corso, di che ruolo abbiano in tutto questo i concorsi come il Premio Strega Poesia e di come sia percepita la poesia italiana nel resto del mondo. Tenteremo di capire se abbia ancora senso operare delle distinzioni tra sottogeneri, tra poesia scritta, performativa e installativa, tra poesia civile e poesia sociale; ci guarderemo un po’ intorno, ci incuriosiremo.
C’È
MERCATO PER LA POESIA?
E per mettere in atto tutto questo, un buon punto di partenza (dal momento che è soprattutto nelle librerie che inizia il processo di diffusione della poesia) può essere un tentativo di ragionare sugli aspetti editoriali e di mercato. Per questo ho rivolto la domanda iniziale, “è ancora possibile la poesia?”, proprio a chi di renderla possibile si occupa:
“La poesia da sempre vive una vita editoriale moribonda, con picchi di euforia e stati depressivi che sembrano annunciare l’imminente autodistruzione, la scomparsa dai pochi scaffali che accolgono e dedicano spazio alle raccolte in versi” sostiene Andrea Cati, fondatore della casa editrice indipendente Interno Poesia, “È un genere letterario amato e temuto, seguito da pochi, visto da molti con sguardo indifferente, un micromondo che vive da sempre nel paradosso, basti vedere la scena contemporanea: una nicchia letteraria sempre più diffusa e cercata via social; un mercato fragile ma anche una conquista sempre maggiore di spazi inattesi grazie a festival, reading, spettacoli di vario tipo e forme ibride di comunicazione”
Ciò che si diceva prima, dunque: una poesia che, per quello che possiamo constatare, tende a non crescere ma neanche a morire. Ma allora esistono delle buone pratiche perché si smuova qualcosa o quantomeno si ipotizzi di poterlo fare succedere?
LO SGUARDO RETROSPETTIVO DELL’EDITORIA DI POESIA
Un tema su cui può essere interessante aprire un dibattito è quello dello sguardo esterno; di come sia vissuta e percepita dunque la poesia contemporanea italiana da parte del resto del mondo. A giudicare
Mattia Tarantino (Napoli, 2001) dirige Inverso – Giornale di poesia e fa parte della redazione di Atelier. Per i suoi versi, tradotti in più di dieci lingue, ha vinto numerosi premi. La sua ultima raccolta di poesie è Se giuri sull’arca (Fallone Editore, 2024).
Vedi, non restano che i nostri
frutti sulla tavola:
mia madre che li sbuccia; i loro nomi che pendono dall’orlo e cadono tra il pavimento e l’invisibile. Ora all’uva basta un soffio per marcire in fretta e diventare una preghiera.
Gloria Riggio (Agrigento, 2000) è la campionessa italiana di poetry slam 2023. Fa parte della redazione di Inverso – Giornale di poesia. Ospite ad Agorà (Rai3), alla redazione del Corriere della sera e su Vogue, ha collaborato con vari artisti quali Giovanni Truppi e Anna Castiglia e si è esibita al Parlamento Europeo. AVE MARIA PIENA DI RABBIA (BeccoGiallo, 2025) è il suo ultimo libro.
Ave Maria piena di rabbia tu sei benestretta tra le gogne e bene stretto è il lutto del tuo senso: gestante obbediente, e lodi e penitenze ti nutrono la piaga che t’hanno aperta in ventre.
dalle traduzioni e dalle residenze in atto sembra che ci sia curiosità, che si guardi alla poesia italiana con rispetto; tuttavia, un rispetto rivolto alla tradizione. I nomi che vengono tradotti maggiormente, ma questo è anche banale da dire, sono ancora quelli dei poeti classici. C’è inoltre da dire che attualmente in Italia (questo è un dato che ho ricavato di recente da una conversazione informale con il poeta svizzero Marko Miladinovic) non esistono residenze di traduzione dedicate alla poesia, le quali tuttavia potrebbero dare slancio al processo di diffusione all’estero delle raccolte di poeti e poete locali. O quantomeno allargare lo sguardo, creare qualche stimolo in più.
IL CASO DEL PREMIO STREGA POESIA
Uno dei principali veicoli di promozione del genere poetico in Italia è probabilmente il neonato Premio Strega Poesia, che da tre anni affianca il più noto e antico corrispettivo in prosa. Una vetrina che porta al genere un picco di popolarità – se così si può chiamare qualche titolo in più sulle testate principali e un rigoglio di fascette colorate in libreria – e ha il merito di rendere più semplice per il grande pubblico orientarsi sulle ultime uscite, o perlomeno su una piccola parte di esse. La poeta Maria Grazia Calandrone, che fa parte dell’organizzazione del Premio, afferma: “I libri che hanno vinto nelle due edizioni precedenti sono raccolte di poeti già affermati [Vivian Lamarque nel 2023 e Stefano Dal Bianco nel 2024, ndr] pubblicate da grosse case editrici (rispettivamente Mondadori e Garzanti), però ogni volta in cinquina ci sono anche persone che il grande pubblico non ha mai sentito nominare”. Quest’anno la finale dello Strega Poesia si terrà l’8 ottobre 2025 all’Acquario Romano, e sarà lì che si scoprirà la vincitrice o il vincitore. La cinquina finalista, presentata nel maggio 2025, include Alfonso Guida (Diario di un autodidatta, Guanda), Giancarlo Pontiggia (La materia del contendere, Garzanti), Jonida Prifti (Sorelle di confine, Marco Saya Edizioni), Marilena Renda (Cinema Persefone, Arcipelago Itaca Edizioni) e Tiziano Rossi (Il brusìo, Einaudi). Prosegue Maria Grazia Calandrone: “Leggere i libri della dozzina o della cinquina è un modo per fare delle scoperte interessanti; il tentativo è quello di fornire un panorama fedele della poesia che si sta facendo in questo momento in Italia. Il fatto che in giuria ci sia Andrea Cortellessa, poi, già di per sé è una garanzia di quello che dico, ovvero che all’interno del Premio c’è attenzione a ogni genere di poesia. E questo io sono contenta di farlo, mi sembra un’operazione importante. Difficilmente un poeta, anche una affermata come Lamarque, avrebbe quel numero di lettori altrimenti”.
Sui giovani autori Calandrone aggiunge “Nel contesto del Premio Strega c’è attenzione massima, soprattutto da parte di alcuni giurati, su ciò che viene fatto nella poesia emergente. Questo è provato anche dalla presenza in dozzina finalista di un poeta come Antonio Perozzi. E io, quando scopro poeti così, sono contenta”.
AVVENTURE RECENTI
DELLA POESIA ITALIANA
I poeti emergenti, dunque. Persone da cui, stando alla crisi conclamata del loro campo, ci si aspetterebbe una postura di sconforto o quantomeno un perenne guardarsi le spalle. Vediamo se è davvero così. Negli anni del Gruppo 63 (1963-69) i numeri su cui ragionare erano certamente diversi, più rassicuranti. Il
pubblico della poesia di allora, come diceva Nanni Balestrini, era entusiasta e numeroso.
Che questo fosse vero oppure no, dopo che il Gruppo ha esaurito la sua parabola è diventato più complesso individuare un progetto che fosse altrettanto coeso e ben connotato. Non che siano mancate esperienze simili, quali il collettivo torinese Sparajurij, il laboratorio Bib(h)icante a Genova, la redazione della rivista gammm e il LARP (Laboratorio Aperto di Ricerca Poetica). Uno dei più interessanti e partecipati fu probabilmente il progetto ESCargot, dal nome della sede (l’Atelier Autogestito ESC a Roma) dove venivano organizzate rassegne poetiche e manifestazioni di “poesia plurale”. Calandrone, che ha fatto parte del gruppo insieme con Vincenzo Ostuni, Laura Pugno, Andrea Cortellessa e tanti altri, ci ha parlato anche di questo: “ESC era un collettivo, nato nel 2009, che aveva lo scopo di confrontarsi sulla poesia che si stava scrivendo in quel momento in Italia; eppure in un modo che era diverso rispetto al Gruppo 63. Ciò che ci univa non erano, infatti, gli obiettivi politici – non solo, almeno – ma principalmente la passione per la poesia. Non era un gruppo di rottura politica e sociale, o meglio lo era forse nelle intenzioni ma non nei fatti. È stata un’esperienza bellissima” conclude Calandrone “in senso poetico ma anche personale”.
UNA NUOVA GENERAZIONE DI POESIA
Negli ultimi quindici anni pare che la situazione sia cambiata ancora e che nel contesto della scena poetica emergente sia stato sancito un nuovo patto generazionale. Per spiegarlo meglio, mi affido alle parole di Mattia Tarantino: “Non so quanto il discorso possa essere sull’emergente, perché a me questa sembra esattamente la scena emersa” confida l’autore di Se giuri sull’arca (Fallone Editore). “Mi sembra però che la nostra sia la prima vera generazione da molto, molto tempo” aggiunge Tarantino “dagli Anni Settanta, a volerla sparare grossa” ride.
LA POESIA – QUANDO È BEN SCRITTA
– FUNZIONA E SA CONVINCERE IN OGNI SUA FORMA
Non è l’unico, in realtà, a sottolineare questo aspetto e a prendere le distanze rispetto al passato. “Forse è questo che accomuna la nuova scena poetica” dice infatti Giorgiomaria Cornelio, appena uscito per Tlon Edizioni con L’ufficio delle tenebre – in prefazione al quale Aldo Nove stesso lo definisce “il più grande poeta italiano vivente”. Ad accomunare l’ultima generazione di poeti, dicevamo, per Cornelio sarebbe “la ritrovata capacità di dismettere i recinti parentali, per lavorare a un mescolamento che tuttavia non cancella le differenze”. Per certi versi si è trovato d’accordo anche Dimitri Milleri, fondatore di lay0ut magazine e uscito con Nel pieno di Nor nel 2023, raccolta pubblicata nel contesto dei Quaderni di Poesia Contemporanea di Marcos y Marcos. Milleri, infatti, ritiene di avere in comune con i poeti della “nuova leva” – tra le altre cose – alcuni nuovi paradigmi della cognizione, il superamento della dicotomia tra poesia lirica-di ricerca e “l’insofferenza per il petrarchismo”.
Anche Riccardo Frolloni, maceratese come Cornelio e con all’attivo tre raccolte (più diverse traduzioni
Giorgiomaria Cornelio (Macerata, 1997) è poeta, scrittore, regista, e redattore di Nazione indiana. Con le sue opere ha vinto il Premio Montano, Gozzano e ha partecipato a festival come Biennale Venezia College, Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Rencontres Internationales Paris/Berlin. La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la Raiziss/De Palchi Fellowship della Academy of American Poets. La sua ultima raccolta di poesie è L’ufficio delle tenebre (Tlon Edizioni, 2025).
Amore, oggi l’incontro ci spatria le ossa. Ci incurva le giunture del difetto. Tutta l’officina del corpo barluma. Ruota e sciacqua, con nuovo diluvio universale.
Dimitri Milleri (Bibbiena, 1995) è uno scrittore e insegnante di sostegno. È tra i fondatori di lay0ut magazine, rivista di letteratura, traduzione e ricerca visuale. La sua ultima raccolta di poesie è Nel pieno di Nor (XVI Quaderno italiano di poesia contemporanea, Marcos y Marcos 2023).
Non puoi nasconderti o perderti perché qui è ovunque, prova un attimo da questa prospettiva. Ci sono specie per cui la vita ha un corso, l’occhio non è contratto e il tempo intero, lo spazio qualcosa che puoi toccare dall’esterno.
Giulia Martini (Pistoia, 1993) ha collaborato con diverse realtà di spicco quali Mondadori Education e Radio 3 Rai; ha curato per Interno Poesia l’antologia Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90, uscita in tre volumi fra il 2019 e il 2022. La sua ultima raccolta di poesie è Tresor (Interno Poesia, 2024).
e inclusioni in antologie) di cui l’ultima è Amigdala (Nino Aragno Editore, 2024) sostiene una posizione simile. “Io credo che la nostra sia la generazione che ha superato alcune barriere stilistiche e contenutistiche e sia riuscita a riunire alcuni generi poetici. I poeti di oggi hanno una formazione caleidoscopica, non si sentono addosso alcuna etichetta e hanno addosso un concetto di tradizione rotto, scoppiato, frammentato e personale”.
So soltanto che quelle terre per quei confini che ti mostrai se le contesero per anni.
Questo tesoro volevo darti.
Demetrio Marra (Reggio Calabria, 1995) è insegnante e attivista. Scrive per diverse riviste, tra cui lay0ut magazine e Treccani. La sua ultima raccolta di poesie è Non sappiamo come continuare. Nove processi biofisici. (autoedizione, 2024).
Vedo doppio oppure ho due felpe Gkn amaranto nell’armadio di due taglie diverse, ci siamo svegliati con Rafah a fuoco, mi sento un po’ fanboy del movimento, che complemento è?
La coincidenza di avere quattro autori distinti con punti di vista simili potrebbe essere imputabile anche all’intersecarsi dei rispettivi percorsi e carriere, che ha permesso loro di frequentarsi nello spazio di presentazioni e festival. Aggiunge infatti Milleri “i poeti e le poete contemporanee che hanno avuto la fortuna di ottenere un minimo di riconoscimento si conoscono tutti”. La scena poetica emergente, o per meglio dire quella che vede come protagonisti gli autori e le autrici più giovani (per esempio Tarantino, Cornelio, Milleri e Frolloni hanno rispettivamente ventiquattro, ventotto, trenta e trentadue anni), avrebbe quindi il merito di disfarsi di determinate classificazioni e presentarsi invece come un gruppo che non si dà nomi né etichette se non quella di autori e autrici di poesia.
LA ROTTURA CON IL PASSATO E
CON I GENERI
Una posizione più nichilista (ma non per questo meno interessante) è quella di Demetrio Marra, fondatore con Milleri, Noemi Nagy, Martina Santurri e Bernardo Pacini della rivista lay0ut, che nell’articolo La ridondanza: come il Premio Strega Poesia espone le ipocrisie di un intero sistema culturale, uscito a marzo sulla propria testata, critica un apparato editoriale poetico talmente contaminato con logiche di mercato da richiedere una prassi collettiva che lo contesti e lo ricostruisca radicalmente diverso. Un posizionamento da fuori, come lui stesso lo descrive, che può offrire un ulteriore spunto per definire la scena poetica contemporanea (sebbene, appunto, attraverso parole di denuncia) immaginando delle alternative che rompano con il passato. Perfino il binomio più tenace della storia della storia del verso, quello cioè tra poesia scritta e poesia performativa, sembra stia andando incontro a un superamento. Questa distinzione, ancora molto forte nell’immaginario, viene spesso contraddetta dalle commistioni che si creano, dai legami che intercorrono. Dal fatto, per esempio, che nella redazione della rivista fondata da Mattia Tarantino Inverso – Giornale di poesia sia presente anche l’ex campionessa italiana di poetry slam Gloria Riggio, artista performativa che di recente ha pubblicato una sua raccolta con BeccoGiallo, dal nome Ave Maria Piena di Rabbia. Si mescolano, dunque, questi canali della poesia, si confondono tra loro. Sempre Gloria Riggio ha curato il libro di un altro performativo di successo, Giuliano Logos. Il progetto si chiama Möbius e prende la forma di un libro d’artista a edizione limitata pubblicato da Archivio Tipografico. L’autore è stato nel 2021 campione del mondo di poetry slam, portando i suoi versi sui palchi di Asia, America e Africa. Rimanendo nello stesso ambito, la performer Eugenia Galli ha studiato (come Riccardo Frolloni, anche se in anni diversi) all’Università degli Studi di Bologna, è stata intervistata su lay0ut e ha partecipato come ospite a diversi festival con i poeti cosiddetti lirici. Ag-
Eugenia Galli (Rimini, 1996) è operatrice culturale, performer e poeta facente parte di Zoopalco, collettivo che ricerca e produce nell’ambito della poesia performativa e multimediale. Suoi sono i testi e la voce della Monosportiva, progetto di spoken music di cui l’ultimo EP (uscito nel 2024) è Atlantide/Siccità
giungerei che questi ultimi spesso non disdegnano di effettuare letture espressive in pubblico, a ulteriore prova di quanto sia sottile e poroso il limite che separa i due canali. La raccolta Risolza (Miraggi Edizioni, 2025) di Sergio Garau (componente dello storico collettivo menzionato in precedenza Sparajurij), che mette su carta venticinque anni di testi concepiti per la produzione orale, da quando è uscita sta ottenendo un successo di critica sorprendente. Questo a riprova del fatto che la poesia – quando è ben scritta – funziona e sa convincere in ogni sua forma.
IL LEGAME TRA POESIA
E PERFORMANCE
“La poesia è una ed è sempre performance” conferma Lello Voce, poeta e artista performativo che ha introdotto in Italia il poetry slam e nel mondo gli slam internazionali in più lingue “anche quando passa attraverso una lettura silenziosa è performance, perché è fatta di suoni, di accenti. Noi non siamo performer o lirici; noi siamo semplicemente poeti. Possiamo fare i poeti in forma orale o affidandoci alla pagina ma la sostanza non cambia”. È un fatto che agli autori performativi si imputino vari fallimenti sulla prova della carta, e – anche se meno di frequente – ai lirici si attribuisca una deludente resa nella lettura ad alta voce. Potrebbe essere utile, invece, spostare il dibattito su un altro piano. “Le vere differenze non stanno qui” aggiunge infatti Lello Voce “ma nella complessità della ricerca formale sul linguaggio che ognuno porta avanti. Brecht diceva che la semplicità è difficile a farsi, e il nostro obiettivo è sempre quello: rendere la realtà in modo diverso e complesso. Altrimenti siamo dei politici.
Ti lascio questo spazio in interlinea per prendere parola, per farti narratrice, finalmente, della storia (o narratore) - faccio posto al tuo punto di vista marginale - ti lascio un margine di risposta (ma a margine, in glossa) - ti sciolgo la lingua - ti includo - ti rendo la tua prima persona
e ti inculo.
PERFINO IL BINOMIO
PIÙ
TENACE DELLA STORIA
DELLA STORIA DEL VERSO, QUELLO CIOÈ TRA
POESIA SCRITTA E POESIA
PERFORMATIVA, SEMBRA
STIA ANDANDO INCONTRO
A UN SUPERAMENTO
Per il resto, secondo me il presente - per meccanismi di trasmissione di ciò che viene detto - sta andando verso l’oralità e sarà presto quello il canale più frequente”. Aggiunge, su questo tema, Maria Grazia Calandrone: “Le divisioni tra poesia lirica, performativa e di ricerca sono superate da tempo, penso che anzi all’inizio siano state imposte”. E si spiega “Sono state forse necessarie, negli Anni Sessanta e Settanta, quando c’era bisogno di rompere la cultura dominante borghese; ma oggi queste definizioni fanno ridere anche perché il pubblico della poesia è molto esiguo. Negli anni in cui ho lavorato io sono arrivata a odiare queste definizioni, tutt’ora mi irritano. Io credo che la poesia abbia una potenza sociale e culturale fortissima e queste mi sembrano questioni che tengono lontani dall’obiettivo, che è ricordarci chi siamo”. È quindi questo il tempo, a volergli ironicamente dargli un’etichetta, del superamento delle etichette stesse – almeno per quanto riguarda la poesia. “Se volessimo essere puntuali, oltretutto, dovremmo ricordarci che ogni poeta è diverso, è uno stile ed è un mondo a sé”, prosegue Calandrone. “Possiamo raggrupparli per comodità; ma il concetto di divisione tra stili, ormai, è superato dalla storia. Due autori come Edoardo Sanguineti ed Elio Pagliarani cosa hanno a che fare l’uno con l’altro? Eppure facevano parte della stessa compagnia, il Gruppo 63. Si sono aggregati per costruire insieme un punto di rottura rispetto alla massa, ma erano profondamente diversi come lo è ciascun poeta. L’importante è che l’at-
Riccardo Frolloni (Macerata, 1993) è poeta e insegnante. Laureato in Italianistica presso l’Università degli Studi di Bologna, dove è stato direttore del Centro di poesia contemporanea, ha fondato l’associazione Lo Spazio Letterario La sua ultima raccolta di poesie è Amigdala (Nino Aragno Editore, 2024).
La regola era che tutte le donne fossero baciate in bocca, io invece non volevo fare le divisioni, spiego che non le avevo ancora fatte a scuola, le divisioni, e forse ci aveva creduto, Ideale, vorrei tanto ricordare lo sguardo di mio padre deluso del genio che non ero.
Giuliano Logos (Bari, 1993), all’anagrafe Giuliano Carlo De Santis, è poeta, performer, artivista, primo italiano Campione del Mondo di Poetry Slam (Parigi, 2021). Fondatore del collettivo WOW – Incendi Spontanei, è stato scelto dalle redazioni congiunte di Vanity Fair Italia, Francia e Spagna tra i 30 «artisti, attivisti e pionieri» che stanno ridisegnando il futuro dell’Europa. Di me volevo si dicesse che danzavo che fui piuma nel vento d’agosto, ma dentro.
Anche quando, all’esterno, composto, fui vittima, esule e schiavo. Di me volevo si dicesse che fui biglia impazzita sul tavolo immenso del fato.
tenzione alla lingua sia estrema; questo è l’aspetto che si deve sempre avere in comune”.
Lello Voce, infine: “il compito del poeta è dire le cose in maniera diversa, particolare, con delle forme che mettano in discussione il linguaggio del potere. Il nostro compito è lavorare sul contenitore, non sul contenuto. Ultimamente stiamo vivendo in bilico tra l’accettazione totale delle forme della lirica e un atteggiamento di rifiuto che tuttavia dice poco, quando invece bisognerebbe fare uno sforzo per cercare forme nuove”. Quest’ultimo aspetto (l’attenzione agli aspetti formali della lingua) è anche, secondo Umberto Eco, la principale differenza tra poesia a prosa. Verba tene, res sequentur: la parola come fine ultimo, e la qualità di essa, e la sua esaltazione. Un discrimine che forse non basta a fornire una definizione esauriente dei due campi ma che ha il merito di darci una valida suggestione e una possibile chiave di lettura sul mutamento del genere poetico.
COME TRACCIARE IL FARE RETE NELLA POESIA CONTEMPORANEA?
Proseguendo dunque nel gioco associativo di somiglianze (ovvero tra ciò che evidentemente non è semplificabile né assimilabile – ma qua stiamo facendo finta tra poete e poeti dell’ultima generazione) potrei menzionare June Scialpi, appena uscita per Tic Edizioni con Retriever. Scialpi pone al centro della sua ricerca le tematiche queer e una certa tensione all'intersezionalità; aspetto che caratterizza in modo importante (tra le altre) anche la poetica di Galli. Ad avere condiviso diversi spazi con Galli, come per esempio il festival Parco Poesia nel 2019 o il podcast Un podcast di poesia di Edoardo Molteni è stata invece la poeta Giulia Martini, che credo abbia particolarmente senso consultare sulla nuova scena poetica in quanto autrice dell’antologia, uscita in tre volumi tra il 2019 e il 2022 per Interno Poesia, dal titolo Poeti italiani nati negli anni ‘80 e ‘90. “Quello che possiamo avere in comune (o di divergente, che è la stessa cosa) con gli altri poeti della nuova generazione mi sembra una circostanza rispetto al gesto poetico che tutti pratichiamo, ognuno a modo suo, ognuno in modo radicalmente ulteriore ai concetti di scena, di rete, di strumento” ha dichiarato Martini. “Certo che la scena esiste, certo che la rete esiste, certo che ci incontriamo grazie agli strumenti che ognuno di noi ne deriva, certo che l’esercizio dei rapporti e la dimensione relazionale restano la sostanza della nostra poesia: ma quello che ci potrebbe unire davvero, secondo me, è l’intensità di un desiderio, la fedeltà a quel gesto, che quando si realizza lo fa superando geografie, temi, stili, canali. Io per prima ho antologizzato, ho proposto affinità, e tornassi indietro lo rifarei; ma adesso, a qualche metro di distanza in più, riconosco che le cose che vedevo erano dentro il mio occhio (ovvio, questo non le rendeva meno reali). Riconosco che ho sempre ricercato relazioni, ma alla fine quando scrivo sono da sola”.
POESIA E SOLITUDINE
Sulla dimensione solitaria del momento creativo conferma Calandrone: “La scrittura è necessariamente un momento di isolamento, che non si può mettere in comune. E personalmente non sento il bisogno di mettere in comune il momento creativo. Se si decide di farlo, invece, è importante che avvenga in modo spontaneo, perché fa piacere, e senza forzature”. La collettività,
June Scialpi (Gallipoli, 1998), voce poetica vincitrice del Premio Flaiano Poesia Under 35, si interessa di studi queer e transfemminismo. La sua ultima raccolta di poesie è Retriever (Tic Edizioni, 2025).
ci squamiamo tutta la notte come pelle amputata; se di scatto si alza lascia lì la voragine: ascolta:
lo sente risalire piano e quando esce: sangue marrone come cosa che non si lava
lui è fatto di fango: noi con lui; ora che noi siamo loro –mi dici siamo immortali (i mostri non muoiono
insomma, la rete “non può essere studiata a tavolino, la comunità si crea nel momento in cui ci sono le condizioni. Nasce perché alcune persone con la stessa passione si mettono in testa di parlare di quello, come fu nel caso di ESC. L’importante è condividere lo stesso obiettivo. Ma anche litigare, ecco, litigare è fondamentale”.
Ancora Andrea Cati di Interno Poesia: “Il futuro, ogni futuro, richiede da sempre alcuni ingredienti essenziali: capacità di tenere insieme la qualità letteraria e la vicinanza con le comunità di lettori, attenzione alle nuove forme di divulgazione e disponibilità a contaminarsi con altri linguaggi e spazi culturali. È in questo equilibrio instabile che la poesia continua a trovare la sua forza”.
LA RETE COME STRUMENTO
Chiuderei con una considerazione tratta dall’abstract di Metaverso di Gilda Policastro (Quodlibet, 2024): “Quel che si va perdendo oggi, nell’esperienza concreta, è proprio la dimensione orizzontale, ovvero il legame, per dirla con Barthes. Non solo tra le parole, quindi nella testualità immediatamente riconoscibile, ma tra gli individui in società, ovvero tra coloro che praticano la poesia in varie forme e coloro che ne fruiscono (distantissimi, numericamente, i primi dai secondi). I cenacoli e i circoli di una volta sono stati rimpiazzati da un nomadismo narcisista che è specchio e portato del mondo social in cui siamo immersi; scuole, poetiche e
SI POTREBBE INIZIARE A COSTRUIRE L’IMMAGINAZIONE DEL DOPO, OVVERO RIPARTIRE DALL’IDEA CHE LA RETE PUÒ
ESSERE STRUMENTO, E NON SOLO EFFETTO SECONDARIO, DELLA POESIA
correnti non hanno resistito al salto di millennio: salvo qualche spiffero tardivo, i poeti sono soli”. Ecco: è proprio da qui, da “qualche spiffero tardivo” di non solitudine, che si potrebbe iniziare a costruire l’immaginazione del dopo, ovvero ripartire dall’idea che la rete può essere strumento, e non solo effetto secondario, della poesia. Prendere maggiore consapevolezza di chi siamo nel mondo, costruire insieme residenze di traduzione, festival. Mescolare le generazioni e gli stili. Lavorare sui linguaggi e le forme, confrontarsi, litigare. Ma soprattutto provare a godersi il viaggio senza farsi prendere dal panico da sala vuota, perché la poesia non morirà e non può morire; ed è qui che sta il trucco. Come disse quel signore che citavo all’inizio e che – ora posso rivelarvelo – era Eugenio Montale nel suo discorso in occasione del Premio Nobel vinto nel 1975, chiedersi quale sia il destino delle arti è inutile. Sarebbe come chiedersi se un domani l’uomo riuscirà mai a risolvere le sue miserie, le sue più ancestrali contraddizioni. “E se di tale giorno, che può essere un’epoca sterminata, possa ancora parlarsi”.
ARTE SOTTO ASSEDIO LE ISTITUZIONI CULTURALI IN UCRAINA
SI TRASFORMANO IN RIFUGI ANTIAEREI (E VICEVERSA)
Dopo più di tre anni di guerra, in Ucraina arte e resistenza continuano a sovrapporsi. Un reportage tra le città di Kharkiv, Kyiv e Lviv per scoprire come gli spazi espositivi diventano luoghi di riparo dalle bombe, raccontando storie di coraggio e solidarietà
Lutsk
Lviv
Ternopil
Ivano-Frankivsk
Territori liberati
Territori occupati
Kharkiv
Poltava
Dnipro Zaporizhzhia
Slov'jansk Kramatorsk
Lysychansk
Luhansk
Ilovajsk Debaltseve Avdiïvka
Donetsk
fonte:
Crimea occupata e distretti separati delle regioni di Donetsk e Luhansk (2014-2015)
di VALERIA RADKEVYCH
Nelle prime ore del 24 febbraio 2022, le sirene antiaeree hanno squarciato l’alba su Kyiv, Kharkiv, Odessa, Chernihiv, Sumy e altre città, annunciando il collasso della vita abituale. Le esplosioni hanno illuminato l’orizzonte; a Kharkiv e Kyiv, il boato dei bombardamenti è stato seguito dal rombo frenetico del traffico, con auto, autobus e treni che intasavano le strade verso ovest. Le ferrovie ucraine hanno sospeso le tariffe, trasformando i binari in un’ancora di salvezza, mentre stazioni e autostrade diventavano punti di congestione di un esodo civile senza precedenti. Donne, bambini e anziani si sono ammassati in vagoni già sovraffollati, viaggiando
sotto l’eco degli allarmi antiaerei. Intanto i missili colpivano l’intero Paese, dalla zona di esclusione di Chernobyl all’aeroporto di Ivano-Frankivsk, ricordando che nessun luogo era completamente sicuro. Mentre il cambiamento rapido e doloroso travolgeva individui, istituzioni pubbliche e private, gli attori culturali si trovavano in prima linea nell’assistenza alla popolazione civile. La comunità artistica e culturale è stata tra le prime ad agire con sensibilità e compassione. La trasformazione degli spazi d’arte in tempo di guerra non è solo una storia di resilienza, ma anche un tragico promemoria di ciò che può andare perduto. Tra i casi più emblematici c’è quello di IZOLYATSIA a Donetsk. Fondata nel 2010 sui terreni di una fabbrica di materiali isolanti in disuso, era diventata in pochi anni una delle istituzioni di arte contemporanea più
Krasnodar
BIELORUSSIA
RUSSIA
POLONIA
ROMANIA
Annessione della Crimea da parte della Russia; combattimenti per Slov'jansk, Kramatorsk e Mariupol'; provocazione con le conseguenze tragiche in Odessa (2 maggio); sacca di Ilovajsk e pesanti perdite durante il “corridoio verde”; firma degli accordi di Minsk I.
Battaglie per l’aeroporto di Donetsk (“cyborg”); Debaltseve: accerchiamento delle forze ucraine con il diretto coinvolgimento delle truppe regolari russe; firma di Minsk II.
Avdiïvka – zona industriale: aspri combattimenti e bombardamenti d’artiglieria; guerra di posizione.
Crisi ad Avdiïvka (interruzioni invernali di luce e riscaldamento sotto i bombardamenti); scontri locali presso Svitlodarsk; l’Occidente proroga le sanzioni contro la Russia.
Conclusione dell’ATO (zona d’operazioni antiterrorismo) e inizio dell’Operazione delle Forze Congiunte (OOS); incidente nello stretto di Kerč (cattura dei marinai ucraini); creazione della Chiesa ortodossa d’Ucraina e concessione del Tomos.
Elezione di Volodymyr Zelenskyj come presidente; ampio scambio di prigionieri (ritorno di Oleg Sentsov e altri); vertice del Formato Normandia a Parigi.
“Tregua del pane” (cessate il fuoco di luglio); la pandemia di COVID-19 colpisce esercito ed economia; scontri locali nel Donbas (Mar’inka, Zolote).
La Russia concentra oltre 100mila soldati ai confini ucraini; Avdiïvka, Pisky e Mar’inka nuovamente sotto attacco; articolo di Putin “sull’unità dei popoli” come preparazione ideologica all’invasione.
24 febbraio: la Russia avvia l’invasione su vasta scala. Kyiv respinge l’assalto; Bucha e Irpin' diventano simboli del genocidio. Mariupol' cade dopo l’assedio dell’Azovstal. In autunno controffensiva: liberazione di Kharkiv e Kherson. Creazione dell’“accordo sul grano” con mediazione ONU e Turchia.
Battaglia di Bakhmut (presa dalla Russia dopo mesi di scontri); la controffensiva ucraina nel sud avanza lentamente. L’Occidente fornisce carri armati (Leopard, Challenger), promette F-16 e armi a lunga gittata.
Guerra di logoramento: la linea del fronte rimane quasi invariata. La Russia attacca sistematicamente le infrastrutture energetiche con droni e missili; l’Ucraina colpisce basi militari e raffinerie in Russia. Mosca riceve armi da Iran e Corea del Nord.
L’UE adotta nuove sanzioni e istituisce un tribunale speciale sull’aggressione. 7 settembre: la Russia lancia il più grande attacco aereo (centinaia di droni e missili su Kyiv e altre città). 9 settembre: esplosione a Jarova (Donetsk) provoca oltre 20 vittime civili. Proteste di massa in Ucraina contro una legge che minacciava l’indipendenza degli organi anticorruzione. Questioni di elezioni e mobilitazione diventano le principali sfide interne. L’Ucraina chiede al FMI un nuovo programma di sostegno.
dinamiche dell’Ucraina, ospitando mostre, residenze e programmi pubblici che riunivano artisti ucraini e internazionali. Il suo ambiente post-industriale, con ampi saloni e spazi all’aperto, era un laboratorio per installazioni su larga scala e progetti sperimentali, che avevano trasformato Donetsk in un punto di riferimento della mappa culturale dell’Europa orientale. Nel giugno 2014, i locali furono sequestrati dai militanti filorussi e trasformati in prigione e luogo di tortura. Da allora IZOLYATSIA opera in esilio a Kyiv, continuando mostre, residenze e attività di diplomazia culturale, documentando al tempo stesso le perdite e sostenendo la protezione del patrimonio ucraino. Nel corso della guerra su vasta scala, la comunità culturale e artistica ucraina non solo ha resistito, ma è diventata portavoce dell’identità nazionale. Artisti,
curatori e istituzioni hanno continuato a produrre opere, organizzare mostre e impegnarsi nella diplomazia culturale, assicurando la presenza delle voci ucraine sulla scena mondiale. Nei musei, nelle biennali e nei progetti indipendenti all’estero, l’arte ucraina si è imposta come finestra sulla tragedia in corso, trasmettendo resilienza e umanità al pubblico internazionale. In questa atmosfera di paura, incertezza e dislocazione, la questione della sicurezza e il concetto stesso di rifugio sono diventati realtà condivise da artisti, operatori culturali e pubblico. Sono entrati nel linguaggio delle mostre e delle performance, hanno plasmato i ritmi della vita culturale e ridefinito il ruolo dell’arte in una società sotto attacco.
KHARKIV. ARTE VIVA NEL CEMENTO ARMATO
Fin dai primi giorni della guerra, Kharkiv ha mantenuto un notevole impulso culturale, trovando il modo di fondere la sopravvivenza con l’espressione artistica in spazi sia sopra che sottoterra. Anche sotto i continui attacchi, che non cessano dall’inizio dell’invasione russa, Kharkiv rimane un faro di speranza, resilienza e rinascita culturale. Un esempio commovente è quello dell’artista Valentina Guk, che trasforma i frammenti di vetro frantumati dai bombardamenti in intricati mosaici capaci di riportare colore e ritmo alle pareti danneggiate. I suoi pannelli compaiono proprio nei punti di impatto, tracciando un percorso di memoria e rinnovamento. Nel suo lavoro, ogni frammento diventa un mattone per
ricostruire l’integrità, trasformando i detriti in un mezzo di narrazione. Questi mosaici sono diventati emblematici della capacità di Kharkiv di riparare, ricordare e reimmaginare il suo paesaggio urbano anche in mezzo alla devastazione. Anche le istituzioni si sono adattate. Il seminterrato della Galleria Municipale di Kharkiv, noto come spazio ARTpidval, ha riaperto come luogo ibrido, fungendo contemporaneamente da rifugio e da sede per mostre, conferenze di artisti e serate letterarie. Qui, l’atto di riunirsi rimane inseparabile dall’atto di proteggersi, sostenendo le comunità creative quando le strade sopra non possono offrire sicurezza.
LA RESILIENZA DI KHARKIV. IL CASO DELLO YERMILOV CENTRE
Lo Yermilov Centre, che prende il nome dal celebre artista d’avanguardia ucraino Vasyl Yermilov, si è affermato come punto di riferimento fondamentale per l’arte ucraina in tempo di guerra, portando la resilienza e la creatività degli artisti di Kharkiv al pubblico e fondendo le funzioni di rifugio e mostra. Situato nei piani inferiori rinforzati dell’Università Karazin, le spesse pareti in cemento, la profondità e l’architettura compartimentata del Centro consentono ai visitatori di vivere l’arte senza paura costante, garantendo sicurezza sia fisica che emotiva. Lo spazio stesso influenza il modo in cui gli artisti concepiscono il loro lavoro e il modo in cui il pubblico interagisce con esso, creando una maggiore consapevolezza del fatto che la cultura a Kharkiv persiste non nonostante la minaccia, ma al suo interno. Abbiamo intervistato la direttrice Natalia Ivanova
Kharkiv è sempre stata l’anima tenera dell’arte contemporanea ucraina. La sua sensibilità si affianca al cemento armato della sua architettura e al costruttivismo apparentemente freddo. Ma mentre si presenta come una struttura solenne, al suo interno pulsa la vita culturale. E lo Yermilov Center è sempre stato il cuore di questo ecosistema. Allora, dimmi, cosa è successo nei primissimi giorni dopo l’invasione russa? Il 24 febbraio ha cambiato le nostre vite. In un solo giorno, lo Yermilov Centre si è trasformato da centro d’arte contemporanea a rifugio antiaereo completamente attrezzato. Il centro è davvero un buon rifugio, si trova sottoterra, c’è un bagno e tre uscite aggiuntive. È un monumento al costruttivismo, con pareti in cemento armato e praticamente senza finestre. La mattina del 24 febbraio abbiamo ini-
Natalia Ivanova, direttrice di Yermilov Centre
ziato a telefonare agli artisti, e loro hanno iniziato a mettersi d’accordo e a invitare altri artisti. Nella comunità artistica tutti si conoscono molto bene, hanno chat in comune e progetti comuni. Pertanto, il nostro invito a rifugiarsi nello Yermilov Center si è rapidamente diffuso tra gli artisti e i loro familiari. Le prime ad arrivare sono state le ragazze che lavorano con noi, perché le bombe hanno iniziato a cadere proprio vicino al loro dormitorio alle cinque del mattino. Molti sono arrivati con le loro famiglie, quindi c’erano molti bambini. Non era affatto importante che fossero tutti artisti, per noi era importante fornire riparo a chi ne aveva bisogno nel miglior modo possibile. Quando abbiamo chiamato l’artista Pavlo Makov, all’inizio ha rifiutato, dicendo che avrebbero cercato di restare a casa. Ma venti minuti dopo, un missile è caduto vicino alla loro casa, senza però esplodere. È chiaro che chiunque si sarebbe sentito a disagio in quella situazione; quindi, Pavlo ha richiamato dicendo che sarebbero venuti. All’epoca non sapevamo ancora distinguere i tipi di armi che arrivavano, se volavano veloci o lenti, da lontano o da vicino.
Come siete riusciti a organizzare lo spazio per ospitare tutte queste persone? Quanti di voi hanno trovato rifugio nella galleria?
Eravamo circa cinquanta persone nella galleria, molti bambini, un grosso cane ben educato e un sacco di gatti. Per i gatti abbiamo liberato una stanza separata con degli scaffali, così potevano vivere lì. L’unica cosa che non avevamo era la doccia, ma siamo riusciti a organizzare una stanzetta per l’igiene personale. In quei giorni è diventato molto chiaro che gli artisti sanno davvero fare tutto. Hanno costruito dei posti letto con le strutture da esposizione che si
erano accumulate nel nostro magazzino. Io dormivo su un grande plinto da esposizione coperto da trapunte, per esempio. Ho portato dal mio appartamento tutto ciò che poteva essere utile: cuscini, coperte, piumoni, sacchi a pelo, e gli artisti hanno rapidamente trasformato i pannelli espositivi e i tavoli in letti improvvisati. Avevamo un lungo tavolo, postazioni per conservare il cibo. Lo spazio era organizzato molto bene. Due finestre alte sono state coperte con dei pannelli. Così, quando un missile ha colpito lil palazzo dell’Amministrazione Comunale di fronte, l’onda d’urto ha distrutto cinquecento finestre dell’università, mentre le nostre sono rimaste intatte. Ma le nostre finestre sono saltate in aria più tardi, all’inizio del 2024. I pannelli hanno resistito, tutto il vetro è caduto all’esterno e nessuno è stato ferito.
Prima hai parlato di Pavlo Makov. È una delle figure principali della scena artistica contemporanea di Kharkiv (e dell’Ucraina in generale). La nuova invasione è iniziata pochi mesi prima dell’apertura della 59. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, dove Makov rappresentava l’Ucraina. Immagino che sia stato piuttosto difficile realizzare il progetto, vero?
Nel 2022 Pavlo Makov doveva rappresentare l’Ucraina alla Biennale di Venezia con l’opera The Fountain of Exhaustion. Acqua alta. Il gruppo curatoriale del progetto era composto da Maria Lanko, Lizaveta German e Boris Filonenko. Non era possibile trasportare tutte le attrezzature e l’opera finita a Venezia, quindi la curatrice Maria Lanko ha deciso di portare l’elemento principale, i coni di bronzo della fontana, con la propria auto. E così ha fatto. In quei giorni discutevano continuamente con Makov su cosa fare. Lui era a Kharkiv, i curatori a Kiev, era una situazione pericolosa ovunque. Makov non capiva affatto se sarebbe riuscito ad arrivare a Venezia. Ma Maria disse che avrebbe portato i coni e che, anche se avessero dovuto semplicemente di-
sporli sul pavimento, avrebbero realizzato il progetto. Perché penso che qui non si trattasse solo di arte, ma anche dell’importanza per l’Ucraina di essere presente a questo evento, di parlare a nome dell’Ucraina, di patriottismo e di posizione cittadina.
Ma nel frattempo era con te, al riparo nella galleria? Avete parlato del suo progetto?
Oleh Kalashnyk, Enfant Terrible 2022, installation view, ph Andrii Yaryhin, courtesy Yermilov Centre
Mentre eravamo nel rifugio, ho chiesto a Pavlo se volesse raccontare a tutti del progetto, della Biennale. Così abbiamo dato il via a una serie di eventi nel nostro rifugio. Tutti avevano bisogno di uno stimolo intellettuale, tutti avevano bisogno di distrarsi da ciò che stava accadendo all’esterno: i colpi dei missili e dei droni, i combattimenti di strada e i mezzi pesanti sui viali della città. Quindi ci siamo seduti e abbiamo parlato di arte. Più tardi, Roman Minin ha portato da casa gli occhiali per la realtà virtuale e ha tenuto una lezione sulla creazione artistica nella realtà virtuale, così abbiamo provato tutti questi occhiali. Abbiamo organizzato serate cinematografiche e dibattiti. Vlad Yudin ha portato l’argilla dal suo laboratorio, così abbiamo fatto un corso di ceramica. È un’arte molto tattile, quindi era rilassante. Tutto per mantenere la salute mentale in qualche maniera. Più tardi, tutto ciò che abbiamo realizzato è stato esposto alla mostra, in occasione del primo anniversario dell’invasione.
Hai avuto modo di vedere com’era la situazione in città nel primo periodo dopo l’invasione?
La situazione generale a Kharkiv nei primi giorni dell’invasione era spaventosa. Tornavo a casa per assistere mio padre malato e per farlo dovevo attraversare tutta la città. In quei giorni nelle strade c’erano combattimenti, entravano carri armati e blindati russi. Il cielo rimbombava: c’erano aerei che svolazzavano. È un’esperienza terrificante, non importa quanti carri armati ci siano per strada, cento o tre, è comunque una realtà tremenda. Una realtà in cui ti senti completamente indifeso. Ora ripenso a tutti quei viaggi e capisco quanto fosse pericoloso, ma non avevo scelta. Nel frattempo, gli artisti sentivano il bisogno di rendersi utili non solo nei rifugi. Cercavano contatti con organizzazioni di volontariato e diventavano loro stessi volontari. Il volontariato è complesso, richiede conoscenze e competenze, anche perché dove trovare tutto ciò che serve ai soldati in prima linea?
So che poco prima dell’invasione avete inaugurato la mostra Enfant
Terrible di Oleh Kalashnyk. L’idea alla base della mostra era straordinariamente in sintonia con gli eventi. Intendo dire che analizzava l’ossessione infantile per l’industria militare e la propaganda sovietica della guerra attraverso i giocattoli per bambini. Quando è nata questa idea? Oleh mi aveva proposto questa idea già nel 2021, e anche prima. Ha detto che sarebbe stato interessante approfondire il tema dell’infanzia e dei suoi attributi, in particolare questi soldatini di metallo con cui tutti giocavano. Kalashnyk ha creato una serie di oggetti, ha fuso questi soldatini con materiali e dimensioni diverse – alcuni erano grandi sculture in cemento – e ha dipinto diversi quadri con loro. Ha attinto a tutti i tipi di guerrieri, dagli antichi vichinghi alle futuristiche truppe spaziali. Ma soprattutto, sottolineava che i soldatini erano un giocattolo popolare tra i bambini, molto presente nelle vetrine dell’Unione Sovietica, per esempio. Si trattava, in sostanza, di un giocattolo propagandistico, che imponeva ai bambini il culto della guerra, normalizzandola e mostrando il soldato come un amico da seguire in battaglia. Oltre a tutto ciò, nella mostra era presente un mappamondo, sulla cui superficie erano disposti questi soldatini, come un esercito che aveva conquistato l’intero pianeta, o che intendeva farlo e non si vergognava di dirlo. Il mappamondo era appeso contro una parete bianca e la sua ombra ricordava la forma caratteristica di una mina sottomarina con punte. Tutto questo si inseriva molto bene nello spazio costruttivista della galleria con pareti di cemento. C’era anche un’installazione con una sabbiera (naturalmente, nella varietà dei giochi per bambini non poteva mancare). Oleh ha fuso dei soldatini di cera che stavano su questa sabbia. Devo dire che non ho capito fino in fondo questa installazione, ma nel rifugio, circondata dai bambini, è diventata una salvezza.
Quindi hai finito per vivere nel bel mezzo della mostra di Oleh Kalashnyk quando la galleria è diventata un rifugio?
In effetti, la mostra ha vissuto tre vite. Il giorno dopo l’inaugurazione è iniziata l’invasione, il centro si è trasformato in un rifugio antiaereo e molti oggetti hanno dovuto essere rimossi. Alcuni di essi hanno vissuto con noi le prime settimane terribili, ci hanno confortato e hanno creato uno spazio per conversare, riflettere e giocare. Kharkiv è ancora sotto tiro, ma noi lavoriamo come al solito, continuiamo le mostre e resistiamo.
KYIV UNDERGROUND. DOVE L’ARTE RESISTE ALLA GUERRA
Nel 2023, Kyiv ha affermato la sua resilienza culturale attraverso un progetto emblematico: la mostra How Are You? presso la Casa Ucraina. Il team curatoriale comprendeva Yehor Antsyhin, Olha Balashova, Halyna Hleba, Yuliia Karpets, Anna-Mariia Kucherenko, Katia Libkind, Tetiana Lysun e Oleksandr Soloviov. Il progetto si è svolto nell’ambito del programma Post-War Memory Culture in Ukraine, realizzato dall’ONG MOCA in collaborazione con la piattaforma culturale Memory Past / Future / Art, con il sostegno della Svizzera. Distribuita su cinque piani e con opere di quasi cento artisti provenienti da tutta l’Ucraina, la mostra si è articolata in una cronologia libera, ripercorrendo le mutevoli esperienze emotive e sociali a partire dall’inizio della nuova invasione russa. Il titolo, una semplice domanda quotidiana, è diventato un silenzioso emblema di solidarietà, compassione e resistenza. Qui, dipinti, fotografie, installazioni e materiali documentari si sono intrecciati per formare un autoritratto collettivo di un paese sotto assedio. Piuttosto che offrire una registrazione statica degli eventi, la mostra ha intessuto
una narrazione vivente, in cui l’arte è diventata uno strumento di presenza e continuità. Sotto le strade della città, la vita culturale si è riconfigurata per rispondere sia alle esigenze di sicurezza sia al bisogno di condivisione. Le stazioni della metropolitana hanno offerto rifugio agli abitanti di Kyiv sin dall’inizio dell’invasione e, di conseguenza, sono divenute spesso palcoscenico di iniziative culturali. Nelle settimane successive al 24 febbraio 2022, il Centro Dovzhenko, il più importante archivio cinematografico dell’Ucraina, ha ampliato il proprio ruolo oltre la conservazione, collaborando con il dipartimento culturale della città per organizzare proiezioni nelle stazioni. Questi cinema sotterranei, illuminati solo dal bagliore del proiettore, hanno offerto rari momenti di quiete e riflessione. Il ronzio costante dei treni e gli annunci della stazione sono entrati a far parte della colonna sonora, legando i film alla trama della vita in tempo di guerra. Nel Centro stesso, la programmazione adattata ha continuato a garantire che il patrimonio cinematografico di Kyiv rimanesse una risorsa pubblica attiva.
VOLOSHYN GALLERY. ALLESTIRE MOSTRE SOTTOTERRA
A Kyiv, la Voloshyn Gallery è emersa come uno dei principali canali di diffusione dell’arte ucraina in tempo di guerra sulla scena internazionale, collegando la realtà vissuta dal Paese con un pubblico globale attraverso mostre e fiere che trasmettono l’urgenza e l’intimità della creazione sotto assedio. Situata nello spazio sotterraneo di un edificio nel centro di Kyiv, è divenuta sia un rifugio sicuro sia un luogo dedicato all’arte contemporanea. Tra i suoi progetti di maggiore risonanza vi è stato Anxiety (Tryvoha), curato dall’artista Nikita Kadan. Vivendo nello spazio sotterraneo della galleria per oltre due mesi, Kadan ha allestito opere di artisti ucraini del XX Secolo che ave-
vano creato all’ombra di precedenti traumi nazionali — rivoluzioni, carestie, purghe politiche — accanto a lavori di voci contemporanee. La realtà spaziale della mostra era inseparabile dal suo significato: i visitatori incontravano l’arte all’interno di un’architettura di protezione, dove la vicinanza di materassi e scorte di emergenza accentuava la meditazione delle opere sulla resistenza, la fragilità e la ciclicità delle crisi nella storia ucraina. Ne parliamo con i fondatori della galleria, Iulia e Maksym Voloshyn
Negli ultimi anni, la vostra galleria ha svolto un ruolo fondamentale nell’informare il mondo dell’arte
Max e Julia Voloshyn, fondatori della Voloshyn Gallery
sulla guerra in Ucraina, sia dalla sede di Kyiv che da quella di Miami. E lo avete fatto con compassione ed eleganza, attraverso progetti espositivi e fiere d’arte. Il vostro spazio espositivo di Kyiv si è trovato al centro dell’azione quando è iniziata l’invasione. So che il vostro quartiere è stato bombardato più volte. Ma prima di diventare un rifugio per artisti e vicini, quali erano i vostri progetti per la galleria?
Iulia Voloshyn: Il 24 febbraio 2022 avremmo dovuto inaugurare la mostra di Oleksii Sai Rozbombleni (Bombardati), dove le opere sono state costellate da piccoli crateri e buchi, simili ai segni di proiettili o frammenti di bombe. In quel momento eravamo ancora a Miami, ma dovevamo tornare a Kiev per l’apertura. Avevamo programmato l’inaugurazione per il 24 febbraio, ma l’artista ha chiesto di posticiparla perché non si sentiva bene. Quindi l’inaugurazione era fissata per il 25 febbraio e l’allestimento per il 24 febbraio. I quadri erano stati disposti nella galleria, ma l’allestitore non si è più presentato, ovviamente.
Maksym Voloshyn: Allo stesso tempo, meno di dieci giorni prima dell’inizio dell’invasione, abbiamo inaugurato la mostra pop-up Memory of her face a Miami. Abbiamo sollevato il tema della guerra in Ucraina che andava avanti dal 2014, dell’occupazione del Donbas e della Crimea. Volevamo fare una piccola inaugurazione intima per gli amici e poi partire per Kyiv. Nei primi giorni dopo l’invasione, le persone hanno iniziato ad arrivare e si sono stupite che
avessimo raccolto così rapidamente il materiale per la mostra: non sapevano o non ricordavano da quanto tempo fosse in realtà in corso la guerra. È stata la prima e unica mostra sulla guerra in Ucraina negli Stati Uniti. Non siamo più riusciti a rientrare a Kyiv in quel periodo.
Cosa è successo dopo quella mattina, quando ci siamo svegliati tutti con le sirene antiaeree e i missili che solcavano il cielo sopra l’Ucraina?
IV: È scoppiato il panico, abbiamo detto ai nostri artisti di venire alla galleria perché lì era caldo. Sono arrivati Sai con la sua famiglia, Lesya Khomenko e anche i vicini del palazzo in cui ci troviamo. Nel condominio c’è un rifugio ufficiale, ma in realtà è solo un seminterrato umido. Quindi abbiamo invitato tutti a rifugiarsi nella galleria, che era più accogliente.
MV: Le persone dormivano accanto ai quadri di Sai della serie Bombardati, è impressionante e spaventoso allo stesso tempo.
IV: Non abbiamo dormito per diversi giorni, provando fisicamente questo orrore e questo stress. In realtà non credevamo che l’invasione sarebbe davvero iniziata, pensavamo fossero solo minacce a vuoto. Cosa fare adesso? La galleria è chiusa, la città è sotto attacco.
E Nikita Kadan? So che è stato uno di quelli che hanno trovato rifugio nella vostra galleria. Molti dei suoi ultimi lavori derivano da questa esperienza, dal nascondersi sottoterra, dalle bombe che esplodevano proprio davanti alla galleria. Potreste anche dirmi qualcosa su Anxiety (Allarme), mostra che ha curato mentre viveva nella galleria?
IV: Nikita si è trasferito nella galleria e ha iniziato a viverci insieme ad altre persone. All’inizio, le opere d’arte conservate nel deposito della galleria sono state messe in pila per non danneggiarle. Poi Nikita ha iniziato a disporle intorno alla stanza perché gli sembrava vuota.
MV: Proprio in quel periodo, Sai si recò nella parte occidentale del Paese e Lesya Khomenko portò il bambino a Vienna. Quindi nella galleria rimasero i nostri manager e Nikita. Lui rimase lì a lungo, fino a maggio circa. Usciva solo per mangiare e fare la doccia. In quel periodo realizzò la mostra Anxiety Dopo un po’ di tempo, i vicini sono partiti per l’estero e ci hanno lasciato le chiavi dell’appartamento, così potevamo preparare da mangiare. Tra maggio e ottobre Kyiv non è stata quasi mai
bombardata. Così abbiamo deciso di riaprire la galleria. Ma proprio in quel momento un razzo è caduto nel parco Shevchenko, nel giardino dei bambini proprio davanti al nostro edificio.
IV: Abbiamo deciso di riaprire in primavera. L’inverno è stato difficile, perché c’erano interruzioni di corrente e di Internet. Dopo l’attacco al parco, Nikita, colpito dall’evento, ha iniziato a disegnare le sue “Voragini”, le opere dalla serie Depression. Riportano sempre la terra squartata dalle bombe, i paesaggi feriti. Per lui era qualcosa di molto personale, perché sua figlia ha giocato in quel parco da quando era nata.
MV: Nel 2024 ha creato un’installazione che ricorda le strutture dei parchi giochi sovietici a cui siamo abituati. Ma tutte hanno componenti pericolosi, come le baionette ed elementi taglienti. Dopo i bombardamenti di Kyiv, Nikita è convinto che nessun luogo sia sicuro, nemmeno un parco giochi.
Quando finalmente avete riaperto la galleria, qual è stato il vostro primo progetto? Cosa era importante sottolineare in quel momento?
MV: Il progetto dal titolo Camera oscura. Abbiamo riunito artisti ucraini in un dialogo con artisti provenienti da Croazia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo. Tutti loro sono accomunati dall’esperienza umana della guerra e dalla riflessione sulle guerre contemporanee. IV: C’era l’opera di Yevgen Samborsky Never again and again, due tele nere con graffiti bianchi. Sai come spesso si vedeva per strada questo never again,
che si riferiva ai crimini della Seconda guerra mondiale? Ecco, Samborsky ha cercato di rispondere a questo motto, aggiornandolo con un avviso che tutto sta succedendo di nuovo.
MV: Molto interessante anche il lavoro di Mila Panic: Marmellata di fragole. Ha raccolto con le sue mani le fragole da un campo sminato a Brčko, in Bosnia-Erzegovina, e ne ha fatto una marmellata. È molto simile all’esperienza ucraina della coltivazione di grano nei campi sminati, una sorta di incarnazione della gravità delle conseguenze della guerra in un oggetto d’arte.
Rifugio con le opere di Oleksiy Sai, 2022, foto Anna Kopylova
Infatti, paesi come la Croazia e la Bosnia sono quelli che hanno vissuto una delle guerre contemporanee più sanguinose e possono comprendere molto dell’esperienza ucraina. È interessante esaminare la loro pratica artistica ora, trent’anni dopo la fine della guerra. D’altra parte, abbiamo anche l’opportunità di osservare l’arte e la cultura di una guerra totale in tempo reale. Gli artisti ucraini lavorano sotto i bombardamenti e voi, come galleria, trasmettete la loro esperienza al mondo come un canale di informazione, ma a un livello più profondo, che non parla solo di numeri e luoghi geografici, ma di ogni vittima della guerra, umana e non umana.
IV: Gli artisti parlano molto delle vittime non umane, di come soffrono il paesaggio, gli ecosistemi, gli animali. Kadan, nella serie con i crateri, parla di come la terra sia avvelenata dal metallo incandescente della guerra. E noi lo esponiamo nelle mostre e nelle fiere.
MV: Quest’anno abbiamo già partecipato a sei fiere, da Frieze NY ad Arcomadrid, e spesso ci dicono che siamo gli unici a ricordare che nel mondo c’è una guerra, nel bel mezzo di una fiera, di questa celebrazione della vita con champagne e feste. Penso che per le persone sia più facile percepire le informazioni attraverso l’arte che attraverso le notizie. Quando vengono al nostro stand e Nikita racconta loro dell’Ucraina, della guerra e dell’arte, tutti ascoltano con attenzione e interesse, fanno domande. E spero che trasmettano queste informazioni ad altri, che le diffondano. Allora la nostra missione trova il suo senso: informare, creare uno spazio per la ricerca, il dialogo e l’empatia. In questo momento stiamo lavorando alla mostra di Pavlo Kerestey nella nostra galleria a Miami. Ci aspettano anche Art Basel Paris e Art Basel Miami Beach, dove saremo la prima galleria ucraina nella storia delle fiere. È una grande gioia e responsabilità.
LVIV E LA CULTURA COME RIPARO
Nei primi giorni della guerra, Lviv è diventata un rifugio per coloro che fuggivano dalla devastazione dell’Ucraina orientale e meridionale. Oltre a offrire protezione, le istituzioni culturali della città si sono trasformate in spazi di solidarietà ed espressione creativa. Il Lviv Art Center, fondato nel 2020, si è rapidamente adattato alla crisi. Inizialmente utilizzato come luogo di accoglienza per gli sfollati, ha poi avviato il progetto espositivo Shelter. Questa iniziativa ha invitato artisti ucraini a curare mostre all’interno degli spazi più sicuri del centro, come scantinati e stanze rinforzate. Le esposizioni, che includevano opere di artisti come Vlada Ralko e Kinder Album, hanno usato il concetto di protezione per trasmettere messaggi di resilienza e riflessione. Le dichiarazioni degli artisti hanno
sottolineato il ruolo cruciale dell’arte in tempi di guerra, con Ralko che ha osservato: “La pittura è l’unico linguaggio che mi è tornato in mente dai primi giorni della nuova invasione”. Parallelamente, il programma Lviv Welcomes ha mobilitato le organizzazioni culturali locali per sostenere i rifugiati attraverso workshop, spettacoli e incontri di comunità. Questa iniziativa ha posto l’accento tanto sull’integrazione sociale quanto su quella creativa, combinando l’aiuto pratico con esperienze artistiche condivise. L’Associazione dei Galleristi, in collaborazione con il Consiglio Comunale, ha organizzato visite guidate della città, concerti, lezioni e ingressi gratuiti ai musei per offrire momenti di bellezza, riflessione e solidarietà nei giorni più difficili.
YA GALLERY, DA RIFUGIO ANTIAEREO A SPAZIO ESPOSITIVO E VICEVERSA
Attiva tra Kyiv e Lviv, Ya Gallery è diventata uno dei centri dell’arte contemporanea ucraina trasformando il suo rifugio sotterraneo in un luogo in cui l’immediatezza del conflitto e la persistenza della pratica creativa convergono per il pubblico locale e internazionale. La sua architettura sotterranea non solo offre sicurezza, ma accoglie anche mostre, creando una sovrapposizione tra rifugio e attività culturale. Artisti e curatori che lavorano in questo spazio affrontano costantemente la tensione tra urgenza e riflessione. Ce lo racconta il gallerista e fondatore Pavlo Gudimov
Ya Gallery ha due sedi, una a Kyiv e una a Lviv. Due città con scene artistiche molto diverse, ma soprattutto con un diverso grado di esperienza della guerra in corso. Mentre Kyiv è sotto costante attacco da parte di missili e droni, Lviv è più lontana dal confine russo e quindi le armi non la raggiungono con la stessa frequenza. Ciononostante, entrambi i vostri centri d’arte hanno offerto rifugi antiaerei. Può dirmi qualcosa di più al riguardo?
Il centro artistico Ya Gallery di Kyiv si trova nel seminterrato di un edificio risalente all’inizio del XX secolo, dove lo spessore delle pareti raggiunge un metro. Questi edifici sono stati costruiti con il mattone giallo, un materiale estremamente resistente che può essere tagliato solo con una speciale mola diamantata. L’edificio ha diverse finestre piccole che si affacciano su fossati e cortili interni, più o meno protetti dall’onda d’urto. C’è un bagno e una cucina, uno spazio completamente attrezzato per lunghi soggiorni.
Come e quando è accessibile il rifugio? Ospita ancora persone?
Fin dalle prime ore dell’invasione ab-
Pavlo
Gudimov, fondatore di Ya Gallery
biamo iniziato a funzionare come rifugio. I vicini hanno iniziato a portare materassi e coperte per poter stare comodi, riposare o dormire durante la notte. Nessuno sapeva ancora cosa sarebbe successo, quindi tutti scendevano nel rifugio, che era decisamente più sicuro. Abbiamo gestito il rifugio per i primi mesi, finché i vicini hanno smesso di venire, ma con la nuova ondata di attacchi notturni a Kyiv nel 2025 hanno ripreso a venire da noi. Sulla porta della galleria ci sono informazioni e contatti, le chiavi sono dai vicini che sono persone di fiducia, il locale è sempre disponibile come rifugio. Dopo alcuni mesi dopo l’inizio dell’invasione abbiamo ripreso le mostre regolari e
continuiamo a lavorare sistematicamente fino ad oggi.
E il centro artistico di Lviv? Dev’essere tutta un’altra storia.
Ya Gallery a Lviv ha altre specificità e una storia diversa. Anche Lviv è nel mirino dei missili e dei droni russi, quindi da questo punto di vista non esiste una città veramente sicura in Ucraina. Ma fin dall’inizio Lviv ha subito meno attacchi rispetto alle città al confine con la Russia, quindi qui hanno trovato rifugio persone provenienti da Odessa, Kyiv, Kharkiv, Dnipro, Zaporizhzhia, Kherson e altre città. Si è posto il problema di dove sistemare intere famiglie, come aiutarle.
Lo spazio della galleria sotterranea a Lviv è molto particolare ed è difficile immaginarlo come spazio espositivo, ma tu hai fatto un ottimo lavoro.
Lo spazio di Lviv ha un bellissimo seminterrato con pareti in mattoni, quelli che noi chiamiamo mattoni rossi austriaci. Sono un buon gestore, quindi è stato deciso rapidamente di trasformare questo spazio in una sala espositiva, per non lasciarlo inutilizzato e dimenticato. È diventato uno studio di scultura, dove esponiamo opere plastiche della nostra collezione o oggetti presi in prestito da altre collezioni. Oltre all’arte in sé, lo spazio stesso è un interessante esempio di architettura di Lviv dell’inizio del XX Secolo in stile Secessione, che merita particolare attenzione. Così, nel seminterrato abbiamo costruito degli scaffali, li abbiamo dipinti e li abbiamo adattati per l’esposizione delle sculture. Ma questo è avvenuto solo otto mesi dopo l’inizio dell’invasione russa.
Quindi, prima di diventare una mostra di sculture, ospitava i cittadini durante i bombardamenti?
Prima di diventare uno studio di scultura, questo locale era un rifugio antiaereo. È piccolo, quindi non poteva ospitare molte persone: i bambini potevano dormire su brandine e gli adulti riposarsi su sedie vicino alla stufa. L’invasione è iniziata a febbraio, quando i seminterrati sono freddi e umidi. Ma noi avevamo la luce e i termosifoni. Qui venivano anche i vicini del palazzo, ma per lo più erano amici e colleghi della comunità culturale e artistica che erano riusciti a raggiungere rapidamente Lviv. Tutti scendevano nel rifugio in modo molto organizzato, letteral-
mente pochi secondi dopo l’inizio dell’allarme, tutto era ben organizzato.
E per quanto tempo ha funzionato come rifugio? So che in quel periodo Ya Gallery ha partecipato a diverse iniziative culturali in città e che hai lavorato molto con persone provenienti da altre località.
La Galleria è diventata una sorta di centro culturale dove sono nate nuove idee per i programmi che erano necessari all’inizio della guerra. Dopo due settimane dall’inizio dell’invasione, la maggior parte delle persone ha trovato un alloggio, e il rifugio e lo spazio al secondo piano sono tornati alla loro funzione espositiva. A quel punto abbiamo continuato la nostra attività riformandola. Il numero di persone a Lviv era aumentato notevolmente, erano arrivate qui per sfuggire ai bombardamenti intensi, lasciandosi alle spalle le loro
sopra e sotto: Studio di scultura nel semiterrato di Ya Gallery a Lviv
case. Quindi, come prima cosa, abbiamo elaborato un programma culturale gratuito chiamato “Lviv incontra”, in collaborazione con il Consiglio Comunale e l’Associazione Ucraina dei Galleristi. Si trattava di escursioni nei parchi, in città e nei musei, concerti, conferenze e mostre. Per noi era importante creare uno spazio accogliente e sicuro, distrarre i nuovi arrivati dai loro problemi e dallo stress costante, stare insieme e superare insieme questo periodo terribile.
E gli artisti? È ormai evidente che la loro attività non si è mai realmente interrotta; hanno continuato a lavorare, guerra o meno. Hai mantenuto i contatti con loro durante quel periodo? Cosa hai scoperto?
Sì, l’arte non è rimasta ferma. Abbiamo iniziato a raccogliere materiale dagli artisti che hanno lavorato ai loro progetti dall’inizio dell’invasione. Ovviamente, la guerra ha avuto un impatto molto forte sulla loro pratica. Certo, avremmo potuto aspettare e guardare tutto questo con il distacco di cinque o dieci anni, ma mi interessava di più la reazione immediata di artisti, designer e architetti. Questo materiale è stato alla base della mostra Le muse non tacciono, che abbiamo inaugurato nel giugno 2022 nella Porokhova Vezha (La Polveriera), il Centro di architettura, design e urbanistica. La cultura e l’arte in tempo di guerra si sono rivelate estremamente feconde, e questa ricerca era semplicemente necessaria. Inizialmente Le muse non tacciono era una serie di interviste con artisti sul nostro canale YouTube, ma da lì si è trasformato in una mostra, inaugurata a Lviv e ricostruita a Copenaghen l’anno successivo nella Casa Ucraina.
LE ACCADEMIE DI BELLE ARTI
INDAGINE SUL PANORAMA ITALIANO (CAPITOLO 1)
Da Milano a Catania, da Reggio Calabria a Venezia, il sistema AFAM (Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica) è capillare e altamente specializzato. Qui vi raccontiamo 12 Accademie di Belle Arti che vale la pena scoprire
di ALBERTO VILLA
Nel numero estivo di Artribune Magazine, avevamo selezionato alcune delle più rilevanti accademie private nell’ambito della creatività, del design, della moda, delle arti. Con la fine dell’estate, e quindi l’inizio dell’anno accademico, è adesso il turno di scoprire quali sono gli istituti pubblici italiani AFAM (Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica) che più riescono a intercettare l’evoluzione dell’educazione artistica. Tra accademie attive da secoli, che hanno maturato una rilevante caratura storica (e collezionistica), e altre nate nella seconda metà del Novecento sulla scia di quell’impulso post-bellico che ha permesso di portare l’istruzione superiore artistica anche al di fuori dei grandi centri, soprattutto per quanto riguarda il Sud Italia, o le aree più marginali del Paese. Un merito a cui si aggiunge, negli Anni Novanta, la richiesta di equiparare il diploma accademico alla laurea universitaria, dopo che Mussolini aveva declassato le accademie a istituzioni scolastiche. Nel 1999 il Governo D’Alema approva l’equipollenza, reintegrando del tutto lo spessore formativo delle accademie per le industrie creative. Questa selezione da Nord a Sud è necessariamente incompleta: il sistema AFAM è ricchissimo di istituti capillarmente distribuiti nel Paese, tanto che realizzarne una ricognizione completa in questa sede sarebbe non solo un lavoro infinito, ma anche poco utile. Tra i grandi assenti c’è la Puglia, che per la sua particolare conformazione territoriale si trova ad essere l’unica regione con tre accademie di belle arti AFAM (Foggia, Bari, Lecce), ma anche l’Accademia dell’Aquila e quella di Frosinone. Le accademie e gli istituti approfonditi nelle prossime pagine sono quindi solo una piccola parte dell’offerta formativa italiana: intendiamo questo approfondimento, infatti, come il primo capitolo di un lavoro più esteso, volto a dare risalto a tutte quelle accademie che quotidianamente dimostrano grande impegno. Con storie diverse e diversi approcci alla didattica artistica, ciascuna istituzione ha le sue peculiarità, le sue aree di interesse accademico, oltre a preziosissimi dialoghi con il suo territorio di riferimento. Da Milano a Catania, da Reggio Calabria a Venezia, passando per Napoli, Roma, Firenze, Ravenna, Torino, Urbino, Bologna e Bergamo.
ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI BRERA – MILANO Il sogno di un centro
culturale universale diventato realtà
Anno di fondazione: 1776
Sede principale: Milano
Direttrice: Franco Marocco
Studenti iscritti: 4.323
La fondazione dell’Accademia di Brera è legata al buon proposito dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria di organizzare in modo rigoroso l’insegnamento delle Belle Arti. Dunque bisogna andare indietro nel tempo, fino alla Milano del 1776, per risalire alla nascita di un’istituzione che sin dall’inizio ambì a proporsi come avamposto culturale aperto alla ricerca, alla contaminazione tra discipline, al futuro. L’ambizioso progetto dell’imperatrice prevedeva la creazione di un centro culturale gravitante intorno al secentesco Palazzo di Brera, ma il primo statuto dell’Accademia data al 1803 e si deve al segretario Giuseppe Bossi, negli anni in cui andavano costituendosi le raccolte d’arte (e non solo) necessarie per la didattica. Attualmente l’Accademia è un ateneo pubblico nel settore dell’Alta Formazione Artistica e Musicale e le sue raccolte comprendono: Quadreria, Gipsoteca, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, Fototeca, Biblioteca e Archivio storico. L’offerta formativa si articola nel campo delle arti visive, con corsi di pittura, scultura, decorazione e grafica, e delle discipline legate alla progettazione artistica, alla scenografia, al graphic design, alla moda, al restauro e alle nuove tecnologie dell’arte. Assidua è l’organizzazione di mostre, residenze ed eventi. (Livia Montagnoli)
Il render per il nuovo studentato dell'Accademia di Brera, vista della hall. ParisRender per Mate
ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI RAVENNA
Un centro d’eccellenza per lo studio del mosaico, antico e contemporaneo
Con quasi due secoli di storia all’attivo, l’Accademia di Belle Arti di Ravenna inaugurava ufficialmente nel 1829, e ha saputo sin dall’inizio conciliare l’attività formativa con la costituzione di un patrimonio culturale di riferimento per la città e di rilievo nazionale. L’Accademia custodisce, infatti, un’importante gipsoteca e un lascito di oltre 700 manifesti pubblicitari datati tra fine Ottocento e inizio Novecento.
Anno di fondazione: 1827
Sede principale: Ravenna
Direttrice: Paola Babini
Studenti iscritti: oltre 200
Ad avviare la Gipsoteca, fu il primo direttore dell’istituto, Ignazio Sarti: oggi raccoglie copie di statuaria antica e opere uniche di Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen; il nucleo principale è conservato presso il MAR di Ravenna. Ma è un altro aspetto, fortemente intrecciato con la storia secolare della città, a caratterizzare più di ogni altro l’identità dell’Accademia: il mosaico. Fu Corrado Ricci (1858-1934), archeologo e storico dell’arte, a determinare la nascita della Scuola del Mosaico presso l’Accademia, nel 1924, con la complicità del direttore dell’epoca, Vittorio Guaccimanni (1859-1938) e dell’incisore Giovanni Guerrini (1887 – 1972), fautore dell’Arts & Crafts in Italia. A loro si deve, innanzitutto, la riscoperta e la valorizzazione dell’antica tecnica musiva, riletta in chiave di sperimentazione formale; ma anche l’elezione dell’Accademia di Belle Arti di Ravenna a luogo specializzato nella formazione di professionisti nell’ambito del restauro musivo. Ancora oggi, infatti, l’insegnamento del mosaico – in relazione con i molteplici linguaggi dell’arte – caratterizza l’offerta formativa dell’istituto, divenuto all’inizio del 2023 Accademia di Belle Arti Statale e da allora impegnato in collaborazioni con realtà artistiche di alto livello e partecipazioni a progetti nazionali e internazionali. Accanto al corso di Mosaico, sono attivi altri tre percorsi: Pittura, Design del Gioiello (dalla lavorazione dei metalli al micromosaico) e Nuove Tecnologie dell’Arte. Gli studenti sono coinvolti anche nell’organizzazione di mostre collettive e progetti culturali, o eventi come Tende al mare a Cesenatico, ideato da Dario Fo e il Simposio di Scultura di Fanano, con la realizzazione di mosaici permanenti lungo un percorso naturalistico. Numerosi sono i progetti di arte pubblica e partecipata, per la realizzazione di opere site-specific, interventi urbani e installazioni in spazi pubblici o museali. L’Accademia attualmente presenta due sedi operative: in via delle Industrie (ex Albe Steiner), dove sono i laboratori di mosaico e in Piazza Kennedy, 7, Polo delle Arti, dove si tiene il corso di Nuove Tecnologie. (LM)
ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI FIRENZE
Un moderno polo formativo internazionale nato su radici rinascimentali
Ospitata nell’ex ospedale di San Matteo in via Ricasoli (piazza San Marco), anche l’Accademia di Belle Arti di Firenze vanta un’importanza storica dovuta al contesto in cui è nata e maturata. Nel 1784 fu Pietro Leopoldo I, Granduca di Toscana, a riformare la vecchia Accademia delle arti del disegno (istituita da Cosimo I de Medici nel 1562) per farne un centro di formazione artistica pubblico e gratuito, per l’insegnamento delle discipline di Pittura, Scultura, Architettura, Grottesco (l’odierna Decorazione) e Incisione. All’epoca si affiancò all’Istituto, con fini didattici, una raccolta d’arte antica e moderna, oggi confluita nelle collezioni della Galleria dell’Accademia e della Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti. Molti sono stati gli artisti di rilievo che, nel corso del Novecento, hanno tenuto docenze presso l’Accademia, da Ottone Rosai a Pericle Fazzini. Oggi frequentata da circa 2mila studenti, raccoglie iscrizioni da tutto il mondo e coinvolge gli allievi in mostre, rassegne d’arte, eventi performativi. Peculiare dell’offerta formativa è la Scuola Libera del Nudo, che raccoglie una tradizione secolare della scuola fiorentina. (LM)
Anno di fondazione: 1784
Sede principale: Firenze
Direttrice: Gaia Bindi
Studenti iscritti: 1.896
ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI NAPOLI
Tre secoli di storia dell’educazione alle arti. In vista di una nuova crescita
Il primo embrione dell’Accademia di Belle Arti di Napoli è stato, alla metà del Settecento, la Real Accademia del Disegno istituita da Carlo di Borbone in scia al movimento culturale delle grandi capitali europee. Poco dopo, fu annessa l’Accademia del Nudo e l’istituzione fu la prima, in città, dedicata all’educazione alle arti figurative sotto la tutela e il controllo dello Stato, con funzione di pubblica utilità. Il primo assetto didattico “moderno” si ebbe però solo con l’arrivo a Napoli del tedesco J. H. Wilhelm Tischbein, nominato direttore nel 1890, insieme al napoletano Domenico Mondo. Altra tappa fondamentale, un secolo più tardi, sarebbe stata la direzione di Gianni Pisani, che supervisionò il restauro del complesso di San Giovanni Battista delle Monache (sede attuale dell’Accademia) e avviò una politica di apertura sostenuta da mostre, dibattiti, convegni, concerti, conferenze, rassegne cinematografiche e spettacoli teatrali, ossatura odierna dell’istituzione. Oggi l’Accademia conta circa 4mila iscritti, 30 corsi di studio di primo e di secondo livello, 3 dipartimenti con un’offerta formativa che va dalle arti visive al design, dalle discipline dello spettacolo alle nuove tecnologie, dal restauro di beni culturali al cinema, alla fotografia, alla didattica dell’arte. E una nuova sede nascerà nell’ex Convento Gesù delle Monache. (LM)
ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI ROMA Ricerca e sperimentazione nella “prima” Accademia d’Italia
Anno di fondazione: 1870
Sede principale: Roma
Direttrice: Cecilia Casorati
Numero di studenti iscritti: 3.094
Anno di fondazione: 1752
Sede principale: Napoli
Direttore: Giuseppe Gaeta Numero di studenti iscritti: 3.847
Prima Accademia legalmente riconosciuta dal Ministero dell’Istruzione dopo l’Unità d’Italia e la proclamazione di Roma Capitale, l’istituto romano trae origine dall’Accademia di San Luca, nata sul finire del Cinquecento e divenuta sede pontificia per gli studi artistici. Il complesso storico che la ospita in via di Ripetta, tradizionalmente chiamato “Il ferro di cavallo”, fu costruito negli Anni Quaranta dell’Ottocento come edificio residenziale e adattato in seguito a sede dell’Accademia con l’aggiunta dei locali progettati appositamente per la Scuola Libera del Nudo. Qui, nel 2024, è nata la Galleria Accademia Contemporanea, spazio espositivo aperto a tutti e gratuito, luogo di ricerca e sperimentazione, per mostre e installazioni e con l’intenzione di dare spazio agli artisti che hanno fatto la storia dell’istituzione. Oggi le attività formative sono dislocate anche presso le sedi del Campo Boario, degli Ex Fienili e di Via del Corso, e molteplici sono i corsi proposti: anatomia artistica, decorazione, disegno, pittura, architettura ed urbanistica, scultura, computer grafica, fashion design, web design, fotografia, storia dell’arte, museografia, scenografia, regia, tecniche d’incisione, tecniche sartoriali e altri ancora. (LM)
a sinistra: Il giardino botanico dell'accademia di Belle Arti di Napoli
sopra: Accademia di Belle Arti di Roma
Master Suono e Immagine Accademia di Belle Arti di Firenze
ISIA – URBINO
Progettare cultura visiva tra linguaggi, archivi e sperimentazione
Anno di fondazione: 1962
Sede principale: Urbino
Direttrice: Giuseppe-Roberto Biagetti
Numero di studenti iscritti: 255
Con una storia intrecciata a nomi come Albe Steiner e Michele Provinciali, l’ISIA di Urbino è oggi uno degli istituti più autorevoli in Italia nel campo della progettazione grafica e della comunicazione visiva. La scuola di alta formazione, ha sede nell’omonima città marchigiana, e da sempre fonda la sua identità su una didattica laboratoriale che coniuga ricerca, progettualità e consapevolezza critica. L’offerta formativa prevede un triennio in Progettazione grafica e comunicazione visiva, a cui si affiancano tre corsi specialistici biennali in Editoria, Fotografia e Illustrazione. L’accesso a numero chiuso e la frequenza obbligatoria favoriscono un confronto diretto tra studentesse, studenti e docenti, questi/e ultimi/e selezionati/e tra figure professionali attive in ambito nazionale e internazionale. L’impostazione interdisciplinare dei corsi consente di affrontare il progetto grafico come strumento di indagine sul contemporaneo, alimentato dal dialogo tra teoria e pratica. L’istituto non è solo uno spazio di formazione, ma anche un laboratorio di produzione culturale: molte tesi e progetti prendono la forma del libro, dell’albo illustrato, del fumetto, della mappa o del graphic journalism. Di qui l’organizzazione della giornata degli editori, che ogni anno mette in contatto studentesse, studenti e case editrici indipendenti nell’ambito del festival Urbino e le città del libro. Tra i progetti attivi si segnala IDA (Immagini Digitali Accessibili), una mappatura delle fonti visive online nata nel 2021; la residenza annuale delle studentesse e degli studenti di Fotografia nel borgo di Atena Lucana, che trasforma la pratica didattica in intervento culturale sul territorio; la partecipazione attiva su diversi progetti a Strategia e Fotografia, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Ancora, il lavoro sul cinegiornale Settimana Incom in collaborazione con l’Archivio Luce ha dato vita a cortometraggi che mettono in relazione le immagini del passato con le tensioni del presente. L’illustrazione animata, invece, è al centro del docudrama collettivo ispirato all’eredità letteraria e politica di Paolo Volponi, mentre le studentesse e gli studenti di tutti i corsi esplorano la narrazione editoriale come pratica ricorrente nei progetti di tesi. Un modello formativo che fa della grafica un linguaggio vivo, in grado di leggere e trasformare il mondo. (Alessia Caliendo)
Courtesy Isia Urbino - Elisa Marchesini
ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI REGGIO CALABRIA
Formazione artistica a tutto tondo sulla punta dello Stivale
Anno di fondazione: 1967
Sede principale: Reggio Calabria
Direttore: Pietro Sacchetti
Studenti iscritti: 550
Fondata nel 1967, l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria (ABARC), è la prima in ordine di istituzione in Calabria, e la quarta nell’Italia Meridionale. Posta in punta allo Stivale, si apre, a vertice, sul bacino culturale del Mediterraneo rappresentando un ancoraggio tra l’antichità classica e la stringente postmodernità. Qui lo studente può partecipare ad un’esperienza di alta formazione, capace di costruire e stimolare ambienti didattici strutturati sull’integrazione tra linguaggi artistici e tecnologie informatiche ed ingegneristiche, secondo l’idea di un sistema complesso e in continua evoluzione, in cui il vecchio cliché dell’artista romantico e solitario viene sostituito (o integrato) dal concetto di team. Tutto ciò, è completato da un approccio storico-teorico per l’analisi dei fenomeni artistici a 360 gradi e sotto ogni latitudine dell’espressione e della ricerca.
L’offerta formativa, strutturata con la finalità di predisporre un solido e ampio know how, è suddivisa in tredici corsi di studio triennali (I Livello) e nove corsi di specializzazione biennale (II Livello). Tra i corsi triennali, le possibilità, si estendono ad ampio raggio: dalla Pittura alla Cinematografia e Tecnologie per il Cinema; dalla Progettazione della Moda, al Fumetto e Illustrazione, dal Graphic Design alle Nuove Tecnologie dell’arte. Tra i corsi Biennali, ci si può orientare tra la Decorazione dello spazio audiovisivo e multimediale e la Scultura Pubblica ambientale. Il Nucleo dell’ABARC è rappresentato dalla specificità e singolarità delle attività laboratoriali che spaziano dalla fusione in bronzo, alla scenografia per il cinema, alla modellazione 3D; dalla stampa d’arte agli spazi sonori, dalla pittura alla fotografia analogica, fino al gioiello. Insieme a solide basi tecniche, l’ABARC si distende come un ponte, verso il mondo professionale, attraverso collaborazioni con istituzioni pubbliche e private del territorio nazionale; con le istituzioni formative internazionali attivando progetti di scambio interculturale. A tal proposito, l’attenzione che, negli ultimi anni, la Film Commission riserva alla Calabria, ha generato l’apertura non solo della Scuola di Cinema, ma anche la specializzazione cinematografica in percorsi di Moda, Scenografia, con l’obbiettivo di garantire un più solido posizionamento, per gli studenti, nel mondo del lavoro. In tal modo, tuteliamo il passato investendo nelle nuove generazioni di artisti. (Marcello Francolini)
Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria
ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI CATANIA
Un’offerta multidisciplinare, dal design dell’editoria al cinema
Comprendere il passato, vivere il presente, progettare il futuro è il motto che guida le attività dell’Accademia di Belle Arti di Catania – fondata nel 1967 – che si prefigge molteplici obiettivi: trasmettere agli studenti un metodo e permettergli di elaborare uno stile, per poi intraprendere un percorso professionale; produrre attività artistico-culturali, momenti di confronto, eventi, mostre, pubblicazioni, con lo scopo di analizzare in modo creativo la contemporaneità; lavorare con e per il territorio. L’offerta formativa comprende corsi di pittura e linguaggi contemporanei, scultura, decorazione urbana, grafica, illustrazione e fumetto, sceneggiatura, design (con un biennio specialistico in design dell’editoria, che Catania ha introdotto per prima tra le accademie pubbliche), moda, fotografia, nuove tecnologie dell’arte, mediazione culturale e cinema. Proprio per sostenere l’arte cinematografica, l’Accademia ha stretto nel corso del 2025 un’alleanza con l’Accademia di Napoli per la costituzione di Studios cittadini e la realizzazione di nuove produzioni – a partire da una serie tv originale – con la partecipazione diretta degli studenti. Il progetto è finanziato dall’Unione Europea tramite PNRR. (LM)
Anno di fondazione: 1967
Sede principale: Catania
Direttore: Gianni Latino Studenti iscritti: 2.210
ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI VENEZIA
Nomi illustri e una pittura sempre contemporanea
Pochi istituti di educazione artistica italiani (e non solo) possono vantare, nella loro storia, una concentrazione di docenti di prestigio quanto l’Accademia di Belle Arti di Venezia. Una vicenda che comincia nel 1756, quando il suo statuto fu formalizzato sotto la presidenza di Giambattista Tiepolo. Egli, tuttavia, fu solo il primo di tanti grandi nomi, tra cui Antonio Canova, Francesco Hayez, Luigi Nono, Carlo Scarpa, Emilio Vedova. Oggi l’Accademia è un punto di riferimento per chi vuole imparare a fare arte, e soprattutto pittura: questo dipartimento (con i suoi corsi di primo e secondo livello) sforna alcuni tra i più interessanti pittori emergenti in circolazione, spesso usciti dall’atelier del professor Carlo Di Raco. Ma la pittura è solo una parte: l’Accademia offre anche corsi di decorazione, scultura, grafica, scenografia, didattica e nuove tecnologie dell’arte. A tutto ciò si aggiunge, anche se sembra superfluo dirlo, la formazione sul campo che solo una città con un tale patrimonio artistico può dare, comprese le Gallerie dell’Accademia poco distanti, oltre alle possibilità di esposizione negli spazi esterni dell’Accademia, tra cui i Magazzini del Sale a Dorsoduro e il Padiglione Antares a Marghera. (AV)
Anno di fondazione: 1756
Sede principale: Venezia
Direttore: Riccardo Caldura
Studenti iscritti: 1.683
Accademia di Belle Arti di Catania
Accademia di Belle Arti di Venezia
ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI BOLOGNA
Dai Carracci alla multidisciplinarietà del contemporaneo
Sebbene nasca ufficialmente all’inizio del XVIII Secolo con il nome di Accademia Clementina per volontà del generale Marsili, già fondatore dell’Istituto delle Scienze, l’Accademia di Belle Arti di Bologna raccoglie l’eredità di una scuola più antica e altrettanto illustre: l’Accademia degli Incamminati, fondata da Annibale, Agostino e Ludovico Carracci, padri della pittura bolognese moderna. Una tradizione di grandi nomi che prosegue nei secoli, basti pensare che anche Giorgio Morandi fu docente dell’Accademia, tra gli Anni Trenta e Cinquanta del Novecento. Ma qual è la caratura contemporanea dell’ABABO? Le aree di studio vanno ben al di là dei confini tradizionali delle arti visive: oltre alla pittura e alla scultura, infatti, l’offerta didattica prevede (tra primo e secondo livello) corsi di design del prodotto, del videogioco e della moda, cinema e animazione, grafica, fumetto, comunicazione, scenografia, decorazione e fotografia, per non dimenticare i corsi a ciclo unico dedicati al restauro. Un affondo davvero omnicomprensivo nella produzione culturale contemporanea, che fa dell’Accademia di Belle Arti di Bologna uno dei poli dell’educazione artistica più variegati del Paese. (AV)
Anno di fondazione: 1710
Sede principale: Bologna
Direttore: Enrico Fornaroli
Studenti iscritti: 2.091
ACCADEMIA ALBERTINA
Dai Savoia all’avanguardia
Anno di fondazione: 1833
Sede principale: Torino
Direttore: Salvatore Bitonti
Studenti iscritti: 1.425
Basta il nome dell’Accademia Albertina per evincere il suo legame con la famiglia reale, e in particolare con Carlo Alberto di Savoia. Eppure la sua, nel 1833, non fu una fondazione, bensì una “rifondazione” di una scuola già esistente e operativa dal XVII Secolo: l’Accademia dei Pittori, Scultori e Architetti, istituita ufficialmente nel 1678. Con il nuovo nome, la Regia Accademia Albertina riceve anche una nuova sede, che è anche quella attuale. L’offerta formativa è variegata, e comprende diversi dipartimenti: dalla pittura alla scultura, dalla decorazione alla grafica, dalla scenografia alle nuove tecnologie dell’arte e alle tecniche dell’audiovisivo. Ma anche materie più trasversali e meno incentrate sull’effettiva produzione artistica, come la didattica dell’arte, la comunicazione e valorizzazione del patrimonio artistico contemporaneo e la progettazione artistica per l’impresa. Quest’ultimo campo di studi, infatti, è fra quelli che stanno conoscendo maggiore sviluppo: il corso, infatti, integra (tra le altre) competenze in fashion design, product design e comunicazione pubblicitaria per formare professionisti in grado di approcciare le imprese creative non solo dal punto di vista della produzione ma anche della strategia comunicativa. (AV)
Accademia di Belle Arti di Bologna
Accademia Albertina, Torino
ACCADEMIA CARRARA – BERGAMO
Oltre due secoli di educazione artistica
Come raccontare una delle accademie più antiche sul territorio italiano e, senza dubbio, una delle più prestigiose? La storia dell’Accademia Carrara di Bergamo comincia nel 1796, quando il suo fondatore, Giacomo Carrara, vi stabilì la sede della sua collezione personale di dipinti (attualmente più di 1700), tutt’oggi celebrata per il suo valore. Accanto alla Pinacoteca, Carrara istituì anche una Scuola, in modo che gli studenti potessero trarre beneficio dal confronto con i maestri del passato. Due secoli dopo, nel 1988 per la precisione, l’Accademia entra a far parte del sistema di Alta Formazione Artistica e Musicale per poi – nel 2023 – unirsi al Conservatorio Gaetano Donizetti diventando il primo Politecnico delle Arti in Italia.
Anno di fondazione: 1796
Sede principale: Bergamo
Direttore: Maria Luisa Pacelli
Studenti iscritti: 238
Oggi l’Accademia vanta collaborazioni con istituzioni pubbliche e private, internazionali e locali. L’inserimento nel tessuto artistico cittadino è enfatizzato inoltre dalla vicinanza con la GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, che ha sede proprio di fronte all’Accademia e al suo Museo. Ma veniamo all’educazione: i tre corsi triennali (Pittura/Arti Visive; Multimedia; Design della Comunicazione Visiva) e i due corsi biennali (Pittura; Audiovisivi e Multimedia) incarnano perfettamente la doppia anima dell’Accademia. Se da un lato è innegabile (data anche la storia dell’istituzione e della sua collezione) l’interesse per un medium consolidato ma ancora vitalissimo quale la pittura, dall’altro l’Accademia Carrara guarda al presente e ai nuovi modi di fare arte: multimedialità e digitale diventano così parole chiave nell’offerta formativa, così da intercettare le forme più contemporanee della produzione artistica. Gli studenti sono quindi liberi di (e incoraggiati a) sperimentare il più possibile, sempre nell’ottica dello sviluppo di una ricerca artistica personale, coadiuvata da un rapporto diretto con il corpo docente grazie anche a classi numericamente contenute. La didattica è inoltre ulteriormente arricchita da progetti espositivi, workshop intensivi, mobilità Erasmus, tirocini e collaborazioni con enti pubblici e privati, nonché figure professionali e artistiche esterne all’Accademia. (AV)
Courtesy Accademia Carrara, Bergamo
Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica
Giovanni Segantini. Il pittore della riconciliazione tra uomo e natura protagonista di un’ampia retrospettiva in Veneto
Livia Montagnoli
Il nome di Giovanni Segantini (Arco, 1858 –Svizzera, 1899) evoca immediatamente la grande stagione del Divisionismo italiano, corrente artistica che non divenne mai movimento, ma che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del XX secolo, attraverso un gruppo di artisti motivati a uscire dagli schemi, portò avanti quella rivoluzione pittorica fondata sulla tecnica della divisione dei toni cromatici (influenzata a propria volta dalle scoperte dell’ottica moderna) che avrebbe avuto grande peso sullo sviluppo delle successive Avanguardie. Gli artisti del Divisionismo, inoltre, seppero mettere al centro della loro ricerca le questioni sociali, cavalcando con convinzione l’introduzione di soggetti prosaici iniziata per primo da Courbet. E Segantini, accanto a nomi quali Giuseppe Pellizza da Volpedo, Gaetano Previati, Plinio Nomellini, ne fu tra i principali esponenti, concentrandosi, però, principalmente sull’osservazione del paesaggio e sul rapporto tra uomo e natura.
LA MOSTRA
Seppur condensata nell’arco di soli vent’anni, la carriera di Segantini fu appassionata e intensa. E la mostra promossa dai Musei Civici di Bassano del Grappa si propone di presentare un ritratto dell’artista inedito per varietà dei contributi raccolti, capace di offrire una rilettura della sua opera in confronto all’arte coeva (in dialogo con i maggiori artisti europei del tempo, da Millet a Van Gogh).
Una mostra su Segantini, in Italia, mancava da più di dieci anni. Promossa e organizzata dal Comune e i Musei Civici di Bassano del Grappa, all'interno del Programma Regionale per la promozione dei Grandi Eventi e patrocinata dalla Regione del Veneto e nell’ambito dell’Olimpiade Culturale di Milano Cortina 2026, il progetto si avvale della collaborazione con il Segantini Museum di St. Moritz e con la Galleria Civica G. Segantini di Arco per seguire in ordine cronologico le tappe fondamentali della parabola del pittore arcense – dagli esordi “scapigliati” a Milano alle ultime sperimentazioni simboliste sulla natura: quattro sezioni per altrettanti focus tematici – attraverso prestiti nazionali e internazionali provenienti da alcuni dei più importanti musei d’Europa.
UN’IDEALE COMUNIONE TRA UOMO, PAESAGGIO
E ANIMALI
Nato ad Arco da una famiglia di umili origini, Segantini arriva presto a Milano, e dopo un’infanzia travagliata entra come garzone nella bottega del decoratore Luigi Tettamanzi. Dal 1875, frequenta un corso serale all’Accademia di Brera. Sin dagli esordi milanesi, e successivamente al suo trasferimento prima in Brianza e poi sulle Alpi Retiche, la sua opera si caratterizza per una profonda comunione con la natura, esaltata dallo studio delle potenzialità espressive della luce e del colore. Nel Divisionismo, Segantini troverà la strada più soddisfacente, virando alla fine della sua carriera verso esiti simbolisti, in rappresentazioni degli spazi
Dal 25 ottobre 2025 al 22 febbraio 2026
GIOVANNI SEGANTINI
A cura di Niccolò D’Agati Museo Civico di Bassano del Grappa museibassano.it
alpini illuminati da una visione panteistica, che ambiscono a catturare lo spirito della montagna e a celebrarne il mito.
La mostra, a cura di Niccolò D’Agati, espone un centinaio di opere provenienti dalle principali collezioni pubbliche e private italiane ed europee – dal Musée d’Orsay al Rijksmuseum di Amsterdam – e propone al pubblico un percorso tra i capolavori più noti di Segantini accanto a opere mai presentate in Italia, o assenti da molti anni. Si passa, così, dall’incontro con il gallerista Vittore Grubicy De Dragon, nella Milano della Scapigliatura e del naturalismo colorista, alla vita di campagna in Brianza, dove i temi pastorali assorbono la ricerca del pittore, in vista di un’ideale comunione tra uomo, paesaggio e animali. La fase svizzera prende avvio nel 1886 con il trasferimento nella piccola cittadina di Savognin e porta alle celebri composizioni sulla vita montana. A partire dal 1894, Segantini si trasferisce a Maloja e la sua ricerca si assesta sulla formula di quel “simbolismo naturalistico” che diventerà ossessione, fino a provocarne la morte prematura a soli 41 anni, per peritonite.
L’alto profilo del lavoro scientifico svolto ha permesso di presentare alcune importanti scoperte confluite anche nel catalogo pubblicato da Dario Cimorelli Editore, che attraverso i contributi dei più autorevoli studiosi dell’opera segantiniana, con ampi apparati dedicati alla ricostruzione del percorso dell’artista, alla sua tecnica pittorica e alle indagini diagnostiche più recenti, si candida a diventare un testo fondamentale per l’evoluzione degli studi su Segantini.
Segantini e non solo. L’intervista a Barbara Guidi, direttrice del Museo Civico di Bassano del Grappa
Negli ultimi anni, le mostre organizzate dal Museo Civico stanno rafforzando l’idea di una città, Bassano, capace di proporsi tra le grandi destinazioni della cultura in Italia. Anche la retrospettiva su Segantini va in questa direzione. Come si lavora per mantenere alta l’attenzione in tal senso, fuori dalle grandi città? È un percorso che abbiamo iniziato ormai 5 anni fa. Il Museo è uno dei più antichi del Veneto e più importanti per ricchezza delle collezioni, pur in una cittadina di solo 45mila abitanti. Abbiamo dunque cercato di riconfigurarne la missione e la visione senza tradire la sua storia, lavorando su un restyling interno dell’istituzione. Sono percorsi che hanno bisogno di tempo, ma se si lavora su visione, qualità, e una prospettiva di lungo raggio, i risultati arrivano. Abbiamo raggiunto una quota di fidelizzazione del pubblico pari al 50%: i visitatori tornano, a prescindere dalla tipologia di programmazione, perché sanno di trovare un’offerta culturale di qualità.
Come si colloca la mostra su Segantini in questo percorso?
In questi anni, alla riorganizzazione delle collezioni permanenti ha fatto da contraltare un programma espositivo regolare, che spazia da mostre più attente al territorio a progetti che esprimono uno sguardo a 360 gradi sui grandi capitoli della storia dell’arte. La mostra su Canova ci ha portato 82mila visitatori, siamo inoltre diventati centro di riferimento nel Veneto per progetti ed esposizioni sulla fotografia. Giovanni Segantini è un artista molto conosciuto e rappresenta un capitolo del lavoro dedicato ai grandi maestri della storia dell’arte. Abbiamo lavorato al progetto per due anni, con un team di lavoro di altissimo livello, a cominciare dal curatore Niccolò D’Agati.
Non a caso, questa retrospettiva è frutto di una condivisione di intenti con altre istituzioni (il Segantini Museum di St. Moritz e la Galleria Civica G. Segantini di Arco): che beneficio ne ha tratto la mostra?
Si tratta di una partnership con i due grandi musei custodi dell’eredità segantiniana. La collaborazione è una modalità a cui tengo molto da sempre, e oggi contraddistingue il percorso del Museo. Serve a conquistare la fiducia dei curatori, dei prestatori, del pubblico.
Il progetto scientifico ha portato alla luce aspetti inediti o meno conosciuti del profilo di Segantini?
Segantini è un pittore molto amato, ma da circa dieci anni non gli si dedicava una mostra in Italia. Era necessaria una profonda rilettura del suo cammino, che si basa sugli studi più recenti e su indagini scientifiche non invasive effettuate
con la Bicocca, che hanno portato alle scoperte che restituiremo in mostra e in catalogo. Per esempio, sotto l’Ave Maria a trasbordo, che ha lasciato eccezionalmente St. Moritz per la mostra, abbiamo trovato indizi di una precedente versione dell’opera così come le tracce del cruciale passaggio tecnico con cui Segantini compie la sua svolta divisionista. E anche Ritorno dal bosco nasconde un altro quadro, che si credeva perduto da un secolo.
Può anticiparci qualche progetto per il futuro prossimo del Museo? Una peculiarità della sua direzione, finora, è stata quella di accogliere stimoli diversi e aprirsi a collaborazioni e relazioni con diversi soggetti culturali. È la strada migliore per proporsi come museo aggiornato sulle esigenze contemporanee?
Oltre a lavorare sui progetti per il prossimo anno, siamo già impegnati sulla programmazione fino al 2028, quando il Museo compirà
200 anni. Dedicheremo iniziative ad artisti importanti, ci saranno un nuovo capitolo della grande fotografia, e anche una grande mostra per festeggiare il compleanno, oltre ai focus su campi meno tradizionali della pittura e della scultura, e sulla grande grafica, valorizzando la nostra Collezione Remondini. Tutto quello che realizziamo lo facciamo per il più ampio pubblico possibile, l’accessibilità è un obiettivo imprescindibile: per la mostra di Segantini, per esempio, abbiamo chiamato l'artista e fotografo Mustafa Sabbagh, che ci ha aiutato a mettere in evidenza il portato più contemporaneo della pittura dell’artista, per offrire chiavi di lettura molteplici a utenti diversi. Ma tra i progetti in corso ricorderei anche il restauro del Cavallo colossale di Canova, iniziato a febbraio 2025: per ora raccontiamo il cantiere online, al termine saremo in grado di riportare al suo stato originale un’opera unica al mondo.
40 anni di attività con la ceramica di Faenza a cura di Luca Nannipieri
Piazza Nenni, Faenza
Tutto l’oro dei Faraoni in mostra alle Scuderie del Quirinale di Roma
Nicola Davide Angerame
La Collana delle mosche d’oro appartenuta alla regina Ahhotep, intorno al 1550 a.C., è un’opera d’arte orafa egizia che, insieme ad altri 130 capolavori provenienti dalle tombe più preziose sulle rive del Nilo, costituisce una mostra epocale in Italia (superando i fasti della già mitologica esposizione tenutasi a Palazzo Grassi vent’anni fa), avvalorata dalle recenti scoperte che segnano un passo ulteriore nella conoscenza della civiltà dell’Antico Egitto.
La collana è una rara decorazione militare, normalmente riservata ai guerrieri più valorosi della XVII Dinastia. Un periodo cruciale di transizione storica, compreso tra la fine del Secondo Periodo Intermedio (circa 1650-1550 a.C.), quando l’Egitto è frammentato e l’ampio delta del Nilo è sotto il dominio degli Hyksos (da alcuni identificati con gli ebrei di Mosè), e l’inizio del Nuovo Regno, l’età di riunificazione e di massimo splendore dell’Antico Egitto. Intorno al collo di una regina, questa collana ci dice che in quel tempo le donne potevano
esercitare potere, difendere il regno e guidare la memoria degli antenati.
LA MOSTRA
L’esposizione Tesori dei Faraoni mostra la vitalità, l’ingegno e la complessità di un’arte, quella egizia, che ha saputo plasmare l’eternità; ed è curata dall’egittologo Tarek El Awady, che dal 1994 scava in siti archeologici di prima grandezza, come le Piramidi di Giza, Saqqara, Abu Sir, l’Oasi di Bahariya, la Valle dei Re e Deir elBahari a Luxor. Già direttore del Museo Egizio del Cairo e poi del Museo delle Antichità di Alessandria, El Awady ha contribuito alla curatela di numerose mostre internazionali. Adesso prepara quella di Roma che sarà ospitata negli spazi delle Scuderie del Quirinale a partire dal 24 ottobre, e che si annuncia radiosa. Lo abbiamo intervistato per comprendere meglio la portata di una tale operazione culturale che rappresenta un forte legame tra Italia ed Egitto e persegue quel Piano Mattei che dal 2024 intende mettere la cultura al centro dei rapporti di scambio equo e non predatorio tra il Bel Paese e nove nazioni africane, tra cui l’Egitto.
INTERVISTA A TAREK EL AWADY, CURATORE DELLA MOSTRA ALLE SCUDERIE DEL QUIRINALE
Professore, curando Tesori dei Faraoni quale immagine di quella civiltà lontana, ma sempre così presente, ha voluto restituire, correggere o magari decostruire?
Spero di mettere in luce il loro amore per la vita. Molte persone credono che i faraoni abbiano speso immani ricchezze per costruire piramidi e tombe con l’unico fine di nascondervi tesori: è del tutto errata, la vera preoccupazione degli antichi egizi era la vita, non la morte. Per loro, la morte era solo l’inizio di un viaggio misterioso verso la vita eterna e bisognava prepararsi bene per affrontarlo. Fu proprio l’amore per la vita a portarli a costruire quelle piramidi, tombe lussuose, templi funerari e magnifici monumenti che sono giunti fino a noi.
La mostra propone un percorso tematico, articolato in sei sezioni. Come sono stati scelti e in che modo guidano il visitatore attraverso un’eredità tanto vasta e simbolicamente ricca?
La storia dell’Antico Egitto è attraversata nei suoi elementi fondamentali, come l’istituzione della Regalità Divina, ossatura portante della civiltà egizia. Il popolo attorno ai faraoni, la società egizia, ha costruito un sistema di vita
A cura di Tarek El Awady
Scuderie del Quirinale
Via Ventiquattro Maggio 16 - Roma scuderiequirinale.it
basato sul concetto di Maat: verità, giustizia e ordine. Questo principio ha permesso la continuità della civiltà egizia per oltre tremila anni. La mostra racconta anche la vita quotidiana nell’Antico Egitto, la vita religiosa, il rapporto con il mondo degli dei e delle dee, la vita dopo la morte intesa come un viaggio verso un mondo misterioso. Abbiamo incluso anche venti reperti provenienti dalla cosiddetta Città d’oro, una recente scoperta archeologica sulla riva occidentale di Luxor che offre ai visitatori un biglietto d’ingresso al mondo dei faraoni.
Collana d’oro della regina Ahhotep, sembra evocare la questione femminile nella civiltà di allora. Cosa ci dice sullo status delle donne reali nell’Antico Egitto e come viene rappresentato il loro ruolo nella mostra?
L’Antico Egitto si fonda sul mito di Osiride e Iside, in cui si riconosce il ruolo centrale di Iside come moglie fedele che difende il corpo di Osiride, lo ricompone e lo riporta in vita per concepire Horus, legittimo erede al trono. In seguito, lei lotta per difendere il diritto del figlio contro Seth, lo zio geloso, incarnazione del male. Fin dagli albori della civiltà egizia, le donne sono state partner essenziali nella salvaguardia della vita, ma anche della stabilità dell’intero universo. Non a caso, Maat, verità, giustizia e ordine, era raffigurata come una divinità femminile. La collana del coraggio donata alla Grande Sposa Reale Ahhotep II testimonia il suo ruolo nella resistenza all’occupazione degli Hyksos e il suo sostegno al marito, il re Kamose. In ogni sezione della mostra il visitatore potrà esplorare il ruolo delle donne, fino alla sala finale dedicata ai faraoni, dove è ben rappresentata anche la figura di Hatshepsut, regina regnante della XVIII Dinastia.
Il focus sulla Città d’oro aggiunge una dimensione affascinante alla mostra, offrendo uno sguardo raro sulla vita quotidiana ai tempi di Amenhotep III e Akhenaten. In che modo questa scoperta archeologica recente cambia la nostra comprensione di quelle epoche? Si tratta di una scoperta unica, che ci offre un’occasione rara nel campo dell’archeologia: vedere uno stato urbano completo nel momento esatto in cui fu abbandonato in seguito al decreto reale di Akhenaten, che ordinò il trasferimento della capitale più a nord, in quella oggi conosciuta come Tell el-Amarna. La città è rimasta cristallizzata nel tempo, così com’era al momento del suo abbandono. Non occorre fare sforzi interpretativi: le botteghe per la lavorazione di cuoio, amuleti, gioielli e ceramiche parlano da sé, rivelando aspetti fondamentali della vita quotidiana di artigiani e lavoratori durante la XVIII Dinastia.
Come curatore della mostra ed egittologo, qual è stato il reperto più difficile da includere, per motivi logistici, diplomatici o conservativi? E perché è stato comunque fondamentale per lei inserirlo?
Senza dubbio l’involucro funebre del re Psusennes I, interamente realizzato in oro massiccio. Questo rarissimo manufatto testimonia la maestria degli artigiani egizi nella lavorazione dell’oro e nella rappresentazione di scene funerarie e iscrizioni geroglifiche. Chi lo osserva ha bisogno di molto tempo per coglierne la bellezza e la ricchezza simbolica. È un’opera d’arte senza pari.
Esporre questi tesori a Roma, una città che un tempo dominò l’Egitto, può influire sulla loro ricezione su un ipotetico dialogo simbolico? Il politico, retore e filosofo romano Marco Tullio Cicerone, nel primo secolo a.C. definiva l’Egitto come culla della saggezza, sostenendo che la filosofia romana nacque dai semi piantati dai sacerdoti di Tebe. Un comandante romano descrisse i contadini egizi dicendo: “lavorano sotto un sole cocente eppure cantano come se fossero a una festa, perché il Nilo li ricompensa con tre raccolti all’anno”. Lo storico Plinio il Vecchio, nel primo secolo d.C. ammirava l’invenzione egizia della scrittura su papiro, dicendo: “hanno conservato la storia inventando la scrittura su carta generata dal fiume”. E definì la mummificazione: “un’arte che sfida la morte”. Potremmo scrivere interi volumi su come l’antica Roma percepiva l’Egitto. Questo ha rappresentato per me una sfida durante la progettazione della mostra. Attraverso i preziosi reperti, ogni visitatore potrà vedere l’Antico Egitto dalla propria prospettiva e stabilire un dialogo intimo con chi ha costruito una delle più antiche civiltà della terra.
Ha detto che questa mostra non porta solo oggetti d’oro, ma anche storie. Qual è, tra tutte, quella che la commuove più profondamente, come studioso e come uomo?
Gli egizi credevano che la vera morte e la cancellazione della memoria di qualcuno avvenisse soltanto quando moriva l’ultima persona capace di ricordarne il nome. L’immortalità, per loro, era legata al mantenimento del nome e della memoria. Per questo motivo, la cosa più comune tra i reperti della mostra è la presenza dei nomi dei loro proprietari, scritti o incisi, talvolta in punti nascosti sugli oggetti stessi.
L’arte informale, surrealista e brut di Slavko Kopač. A Firenze
Valentina Muzi
Croato di nascita, e francese d’adozione, Slavko Kopač (Vinkovci 1913 – Parigi, 1995) è tra le figure centrali nella fondazione della Compagnie de l’Art Brut nonché primo conservatore della Collection de l’Art Brut, incarico che ha rivestito per quasi trent’anni al fianco di Jean Dubuffet Molto amato anche dai colleghi André Breton e Michel Tapié, Kopač ha saputo dare forma alla rinascita culturale del Secondo Dopoguerra con uno spirito innovativo e interdisciplinare.
LA MOSTRA
Curata da Roberta Trapani e Pietro Nocita, Il tesoro nascosto. Arte informale, surrealista, art brut è la prima grande retrospettiva in Italia dedicata all’artista franco-croato, ospitata nella Sala delle Esposizioni dell’Accademia delle Arti del Disegno
La mostra, come il libro editato per questa occasione, è sostenuta dall’Associazione ArtRencontre - Pola, Tamara e Kristijan Floričić, Maja Ivić (come il libro editato per questa occasione), e segna un ritorno in città dopo la sua prima mostra personale ospitata nel 1945 alla Galleria Michelangelo, e invita il pubblico a scoprire l’eredità di un artista carismatico che continua a influenzare profondamente l’arte contemporanea. Oltre alle opere dell’artista, in mostra spiccano anche materiali d’archivio e lavori di figure che hanno influenzato la sua ricerca, tra cui Jean Dubuffet, Jean Paulhan, Cesare Zavattini, Michel Tapié e André Breton, che conservò diverse
opere di Kopač nella propria collezione, e Giordano Falzoni (Zagabria, 1925- Milano, 1998), artista poliedrico e critico che promosse in Italia il dibattito sull’opera di Dubuffet con articoli su Il Mondo Europeo (1947) e Les Cahiers de la Pléiade (1948), nonché corrispondente italiano della Compagnie de l’Art Brut.
FIRENZE E PARIGI: LE CITTÀ DELLA FORMAZIONE
“Nel 1948 Slavko Kopač torna a Parigi (dove aveva soggiornato tra il 1939 e il 1940) imponendosi come una delle voci più originali dell’arte europea del dopoguerra”, spiegano i curatori Roberta Trapani e Pietro Nocita. “Per oltre vent’anni sarà conservatore della Collezione dell’Art Brut, affiancando Dubuffet in un progetto che rivoluzionerà il concetto stesso di arte. Parallelamente, in dialogo con Breton,
Dal 12 settembre al 13 novembre 2025
Tapié e Paulhan, sviluppa una pratica artistica in cui gesto istintivo, sperimentazione materica e slancio visionario si intrecciano. Questa identità si radica a Firenze, dove Kopač approda nel 1944, lasciandosi gradualmente alle spalle l’impronta impressionista delle sue prime opere, esposte alla Biennale di Venezia del 1942. Muovendosi in una città segnata dalla guerra e dalla censura, ma attraversata da correnti di rinascita, frequenta l’Accademia di Belle Arti. Studia con Giovanni Colacicchi, che ne riconosce la forza creativa e ne promuove la personale del 1945 alla Galleria Michelangelo”.
TRA IMPEGNO CIVILE E ISTANZE CONTEMPORANEE
A cura di Roberta Trapani e Pietro Nicita Accademia delle Arti del Disegno Via Ricasoli 68, Firenze www.aadfi.it
in alto a sinistra: Slavko Kopač, Motherhood, 1949, Pastello su carta, 22,5x26,5 cm
in alto a destra: Slavko Kopač, Hommage to Christopher Columbus, 1949, olio su tela, 54x65 cm
“Con la Liberazione, si orienta verso una pittura sintetica e gestuale, costruita su tensioni formali e cromatiche”, concludono i curatori. “Spinto dal desiderio di contribuire alla rinascita culturale della città coniugando impegno civile e istanze contemporanee, aderisce al gruppo Arte d’Oggi e nel 1947 fonda con Fiamma Vigo la sezione fiorentina dell’Art Club, instaurando un dialogo diretto con le avanguardie europee. L’incontro con Giordano Falzoni, artista e critico vicino ai surrealisti, segna un’ulteriore svolta, spingendolo a esplorare la dimensione primitiva e ludica dell’atto creativo. Opere come ‘Cervo alla fonte’ (1947-48) e ‘Cavalli’ (1948) testimoniano la maturazione di un linguaggio libero, pronto a trovare a Parigi –dove resterà fino alla morte nel 1995 – un terreno fertile per la sua piena affermazione”.
JOANA VASCONCELOS / ASCONA
L’artista Joana Vasconcelos protagonista di una grande mostra in Svizzera
Stefano Castelli
Apochi chilometri dall’Italia è certamente da non perdere la mostra al Museo Comunale d’Arte Moderna di Ascona di Joana Vasconcelos (Lisbona, 1971), dal titolo Flowers of my desire. Non solo perché riunisce diversi dei suoi lavori spettacolari che sorprendono, divertono e allo stesso tempo fanno riflettere, ma anche perché getta uno sguardo retrospettivo sulla costruzione progressiva della sua poetica, con diverse opere poco conosciute. Tra i lavori esposti nel palazzo cinquecentesco ci sono una delle sue Valchirie, sterminate costruzioni di tessuto che omaggiano grandi donne, Cama Valium (1998), letto il cui lenzuolo è composto da una enorme quantità di confezioni di medicinali calmanti, Menu do dia (2001), installazione “animalista” con pellicce incastrate in sportelli di frigoriferi d’epoca, Coração Independente Vermelho (2013), uno dei suoi cuori pendenti e rotanti composti con posate di plastica. Abbiamo incontrato l’artista in mostra per scoprire i sottintesi della sua ricerca, il suo rapporto con la percezione del pubblico, gli aneddoti relativi ai suoi inizi.
INTERVISTA ALL’ARTISTA JOANA VASCONCELOS
La mostra si apre con un “passaggio obbligato”. Per entrare, il visitatore deve affrontare l’opera Wash and go (1998), una sorta di autolavaggio per umani. Un modo per purificarsi prima di accedere all’esposizione, per lavare via i propri pregiudizi? Prima di tutto va detto che l’installazione è fatta di collant. Quelli industriali, con colori sorprendenti, Anni Sessanta. All’epoca si portavano già in Inghilterra, in Francia, assieme alle minigonne. In Portogallo invece no, ci si vestiva soprattutto di nero e beige. C’è voluto del tempo perché arrivasse da noi la prima linea di collant con colori alla moda. E in effetti sì, si può dire che per entrare in mostra bisogna pulirsi, purificarsi: lasciare fuori la vita quotidiana e entrare in un altro universo. La trasformazione, d’altronde, è presente anche in tante opere all’interno delle sale.
C’è un potenziale di liberazione, una magia nascosta negli oggetti quotidiani, che lei trasfigura nei suoi lavori? Oppure bisogna difendersi dalla proliferazione di beni di consumo?
Nel quotidiano c’è una magia nascosta, che non notiamo. La dinamica interna alle famiglie è una dinamica di trasformazione. Le tecniche che si tramandano di generazione in generazione, ad esempio nel campo della cucina o dell’uncinetto, del canto, della musica, delle arti visive come nel mio caso, si imparano in casa. Le tradizioni mantenute influenzano e perciò trasformano le generazioni. Certo, gli oggetti nelle mie opere alludono anche al consumismo, ma l’argomento è più quello delle tradizioni che si tramandano in famiglia.
L’esposizione si intitola Flowers of my desire. I desideri oggi vengono rimossi, oppure fin troppo sollecitati? Sono una risorsa, politica, da sfruttare?
Credo che il desiderio sia un argomento sul quale bisogna riflettere. Si tende a nascondere i desideri ma ovviamente sono sempre presenti. Ciò di cui si parla troppo poco sono i desideri delle donne, non solo storicamente ma anche oggi. In questa mostra non sono esposti i pezzi più radicali su questo argomento, ma in passato ne ho realizzati molti.
Diversamente da molta arte contemporanea, le sue opere hanno anche una marcata componente festante, gioiosa. È una scelta precisa, una rivendicazione? La disturba quando viene notata solo questa componente e non il contenuto più impegnato?
Fino al 12 ottobre 2025 JOANA VASCONCELOS. FLOWERS OF MY DESIRE
A cura di Mara Folini e Alberto Fiz Museo Comunale d’Arte Moderna Via Borgo 34, Ascona (Svizzera) museoascona.ch
Ognuno coglie l’opera a modo suo. Dipende da chi è, dal suo livello di consapevolezza, dagli studi, dall’età, dal sesso. Ci sono persone che notano soprattutto il lato “commerciale” delle mie opere, mentre altri vedono subito l’aspetto concettuale. Lei per esempio commentando Wash and go ha subito parlato di purificazione e trasformazione, ma è piuttosto raro: più spesso le persone notano l’aspetto della “moda”, data la presenza dei collant, o semplicemente l’idea dell’autolavaggio. Ci sono tre livelli nei miei lavori: all’inizio i trenta secondi di meraviglia e stupore, legati all’idea di gioiosità. Poi un secondo momento decisamente concettuale e infine il momento spirituale, che riguarda la trascendenza. Il mio ruolo non è quello di confinare lo spettatore in una lettura prestabilita, ma di rendere il discorso aperto.
Anche in questa mostra troneggia una delle sue enormi Valchirie. Che tipo di personaggi sono? Cosa chiedono, cosa rivendicano? Il mio riferimento parte ovviamente dalla tradizione nordica: le valchirie sono dee guerriere che sorvolano il campo di battaglia e scelgono a quali guerrieri ridare la vita, valutando la loro valorosità, per portarli nel Valhalla a comporre l’esercito degli dei. C’è però tuttora disparità di vedute su quale sia il senso del loro mito. Sono dee guerriere ma allo stesso tempo hanno il potere di ridare la vita; a seconda delle epoche sono state immaginate come straordinariamente belle oppure mascolinizzate. Quello che io ho ripreso è quest’idea di dea guerriera che però sorvola non il campo di battaglia, ma il mondo delle arti. Con le mie Valchirie “rido vita” ad artiste valorose: ogni volta che vado in una nazione diversa scelgo una donna importante per la cultura e le intitolo l’opera. È il mio modo di comporre un esercito per gli dei – ma nel mio caso è un esercito al femminile, destinato alle dee.
Lei pratica meditazione, yoga, tecniche sciamaniche e ha creato Corpo infinito, programma di pratiche come terapia olistica, yoga, astrologia, in principio destinato ai suoi assistenti e ora aperto al pubblico. Pensa che la nostra epoca e la nostra società abbiano bisogno di un approccio meno razionalista? Sono convinta che l’essere umano possieda tre dimensioni: fisica, mentale, spirituale – un po’ il discorso che facevamo prima a proposito dei tre livelli di un’opera d’arte. Tutte e tre le dimensioni sono in noi, non si possono separare. Però siamo in un momento della storia del mondo nel quale ci si è dimenticati della spiritualità. Dipende in effetti dai paesi, va detto: ad esempio in India sono completamente dentro la dimensione spirituale e per niente in quella corporea, noi troppo in quella corporea e intellettuale e poco nella spirituale. E dipende anche dalle famiglie, ce ne sono alcune che sono immerse nella spiritualità, che hanno un approccio alla vita completamente astratto, e altre immerse nella materialità, nel consumo. In questo momento bisogna restaurare la comunicazione tra le tre dimensioni. Ricostruire un’armonia che si è persa. Personalmente, nelle mie opere porto tutti e tre questi livelli, poi dipende da chi le osserva.
I suoi inizi come artista sono legati all’attività come capo della sicurezza in un locale… Avevo già cominciato a fare l’artista e a realizzare le mie prime installazioni. Il proprietario di una famosa discoteca di Lisbona, il Lux, invitava alcuni artisti a realizzare installazioni, organizzava serate di vjing. Era anche una comunità di artisti e io ne facevo già parte e, siccome praticavo il karate da quando avevo 8 anni, mi chiese di lavorare da lui come capo della sicurezza. Il che era fantastico, perché era molto ben retribuito e con quei soldi potevo continuare a fare l’artista. Ma dopo due anni di lavoro ho capito
che la notte era tossica. Io non bevo, non fumo; amavo l’ambiente, ballare, incontrare le persone, frequentare il gruppo, ma la “struttura” era tossica. Quando l’ho capito mi sono licenziata. Ho continuato a frequentare il locale, ma non ho mai più lavorato di notte. La notte è un luogo molto difficile.
In quel periodo si è parlato di lei per un’installazione costruita con gli assorbenti. E partì da lì il suo invito alla Biennale di Venezia nel 2005? Sì, l’opera era A noiva (“La fidanzata”). Non lavoravo già più in quel locale, ma il proprietario mi invitò a esporla sulle scale, tra un piano e l’altro della discoteca. Rosa Martinez, curatrice spagnola, andò a Lisbona e vide la mia opera, mi chiamò pur non conoscendomi e mi invitò a lavorare con lei. Un anno dopo mi richiamò dicendomi: “Non ci crederai, mi hanno nominata curatrice della Biennale di Venezia, vorresti che un tuo lavoro aprisse la mostra?”. Era un momento storico importante: la prima edizione della Biennale curata da una donna. Esporre in apertura della mostra mi ha davvero cambiato la vita, fu allora che smisi di essere una “artista locale”. Sono ancora qui grazie a quella Biennale. E tutto è cominciato in una discoteca! Se ci penso, mi sorprendo ancora oggi. Non si sa mai come andranno le cose. Io accetto la sfida di esporre in luoghi “incredibili”, come il Museo di Ascona: non puoi mai sapere chi visiterà la mostra, chi ne scriverà, ne parlerà, diffonderà fotografie. Quel che ho imparato nel tempo è che si parte da un punto e si arriva in un altro che non avresti mai potuto immaginare. Non bisogna pensare di comprendere il futuro perché è impossibile. E questo è molto spirituale, bisogna “crederci”: credere che il mondo e l’universo stiano costruendo qualcosa di molto più grande di noi.
RICHARD PAUL LOHSE / LUGANO
Dall’astrazione all’impegno politico. Richard Paul Lohse protagonista di una retrospettiva in Svizzera
L’artista svizzero Richard Paul Lohse (Zurigo, 1902 – 1988) torna con un’importante retrospettiva a cura di Taisse Grandi Venturi e Tobia Bezzola, allestita negli spazi ipogei di MASI Lugano: un richiamo all’attenzione collettiva verso un personaggio che risuona e interroga il nostro presente.
LA MOSTRA
“L’idea della mostra arriva anche dal fatto che l’ultima retrospettiva a lui dedicata è stata più di 20 anni fa a Zurigo: ci piaceva l’idea di presentare quello che a tutti gli effetti è stato un grande protagonista del modernismo svizzero e che tuttavia negli anni non è stato più così presente su quel panorama che invece aveva ampiamente frequentato”, spiega la curatrice Taisse Grandi Venturi.
La figura di Richard Paul Lohse inizia a stagliarsi nel palinsesto pittorico non prima dei suoi quarant’anni, dopo una carriera che lo vede grafico e tipografo, ma anche attivista e fervente antifascista tra gli Anni Trenta e Quaranta: l’idea di un’arte impegnata e portatrice di un messaggio per un futuro migliore, che Lohse ritrova nelle esperienze del Costruttivismo russo o nel movimento olandese De Stijl, lo avvicinano progressivamente alla sua personale via per l’astrazione, dove l’opera non è che il risultato dell’applicazione di regole matematiche e sequenze numeriche, specchio dell’ordine democratico che l’artista sognava di ritrovare nel reale. Il metodo di Lohse genera variazioni pressoché infinite: “Il metodo si rappresenta da sé, esso stesso è l’immagine”, scrive nei suoi appunti.
LA FORZA ESPRESSIVA DEL COLORE IN RICHARD PAUL LOHSE
Il progetto curatoriale si propone come un viaggio tra le capitali che hanno scandito nel tempo le fasi della carriera dell’artista: a partire dal suo studio personale, di cui vengono riproposti schizzi e studi preliminari, si approda nella Zurigo del 1942, anno di nascita del gruppo Allianz, per poi arrivare ad Amsterdam nel 1961, con la mostra allo Stedelijk Museum, passando dalla Biennale di San Paolo o ancora immergersi nella trentaseiesima Biennale di Venezia, del 1972.
Il capitolo finale del percorso espositivo culmina a Marfa e New York, con l’ultima fase della produzione di Lohse che lo consacra definitivamente, in un periodo a cavallo tra la tradizione compositiva europea e l’inizio delle tendenze minimaliste e concettuali degli anni a venire. “Le opere seguono sì un metodo estremamente rigoroso e matematico però dal vivo quello che colpisce è la forza espressiva del colore, ed è molto interessante vedere che al di là della razionalità il colore non può lasciare indifferenti”, continua la curatrice.
UN APPROCCIO CREATIVO
ED ESTETICO, MA ANCHE UN AUSPICIO POLITICO E SOCIALE
Sebbene l’impatto di Lohse verrà direttamente ereditato dai fautori dell’arte concettuale, come Sol LeWitt, quella di Lohse è in ogni caso una concezione moderna dell’arte, intesa come veicolo di messaggi confluenti in una visione, quella di un mondo utopico, libero, egualitario e giusto: non è un caso infatti se una regola
cardine della pratica dell’artista, la cosiddetta uguaglianza quantitativa del colore (principio per cui una data tonalità cromatica è presente una sola volta per colonna o riga della griglia impostata) designa non solo un approccio creativo ed estetico ma anche un auspicio politico e sociale. Ritornare a Lohse significa scoprire un protagonista del modernismo che ha custodito nel rigore della forma, la potenza della libertà e la bellezza di un mondo più egualitario.
Fino all’11 gennaio 2026
RICHARD PAUL LOHSE
A cura di Tobia Bezzola e Taisse Grandi Venturi Masi Lugano luganolac.ch
Conoscere Leonora Carrington. L’intervista ai curatori in vista della grande mostra a Milano
Osservando la vita dell’artista Leonora Carrington (Clayton Green, 1917Città del Messico, 2011), nata britannica e naturalizzata messicana, molte cose saltano all’occhio: la giovanissima età di debutto tra i surrealisti, la visione profondamente sperimentale e la capacità di muoversi con agilità tra le diverse discipline, l’amore travagliato con Max Ernst e gli anni del sanatorio, la fuga in Messico e, lì, la creazione di un florido ambiente intellettuale e femminista. Non bastano però i pinnacoli della sua storia a raccontarci chi realmente fosse, e perché dovremmo considerarla un’artista imprescindibile del Novecento. Ce lo spiegano Tere Arcq e Carlos Martin, curatori della grande mostra in apertura il 20 settembre al Palazzo Reale di Milano, prima vera mostra italiana dedicata all’artista.
Spesso si dà per scontato che Leonora Carrington fosse surrealista: è così?
C. M. Walter Benjamin scrisse in uno dei suoi ultimi testi che il Surrealismo è l’ultima scintilla dell’intelligenza europea. Uniti dai loro interessi, gli artisti surrealisti appartengono però a generazioni molto diverse: ciò che il Surrealismo significava negli Anni ‘20 non era più lo stesso negli Anni ‘50 o ‘60 e così via. Penso che sia stato un ottimo catalizzatore, per Carrington,
T.A. Quando è cresciuta era molto vicina allo spirito del Surrealismo, che non era un movimento artistico come gli altri - perché non c’era un ideale o un programma plastico specifico come per il Cubismo, per esempio – ma era un
Dal 20 settembre all’11 gennaio 2026
LEONORA CARRINGTON
A cura di Tere Arcq e Carlos Martín Palazzo Reale, Milano palazzorealemilano.it
modo di vedere il mondo attraverso molti punti di vista diversi. Stare con i surrealisti le ha permesso di avere molta libertà e trovarsi in un ambiente in cui finalmente le donne erano in qualche modo in grado di far parte di una scena più ampia e di esprimersi. Con gli anni, però, non ha più voluto essere definita surrealista perché faceva le cose in un modo completamente diverso, per esempio quando, in Messico, abbandonò il concetto di casualità e rivendicò il significato delle sue opere.
Perché il fattore biografico è importante per Carrington?
C.M. La sua vita e la sua arte sono molto legate, a volte in modo strano e contorto, perché, ad esempio, lei viene dall’Inghilterra, ma le fiabe e la letteratura inglese che leggeva da bambina arrivano molto più tardi nei suoi dipinti, quando è in Messico. Poi, pur essendo un’artista che sta diventando popolare, non è molto conosciuta: la gente non saprebbe dire se sia messicana, britannica, americana o così via, avendo viaggiato e lavorato in tutti questi Paesi. Per questo ci sarà una mappa, all’inizio della mostra, con il suo itinerario, che apre alle prime tre sezioni. Poi ci sono le tre sezioni tematiche, in cui seguiamo Carrington come donna curiosa e coltissima, soprattutto di argomenti di mistica - la religione ma anche i tarocchi e l’alchimia -, che metteva in pratica e che univa allo studio della scienza.
Carrington è anche nota per il suo studio del femminismo, che però non era del tutto simile a quello delle esponenti a lei contemporanee. T.A. La sezione finale contiene proprio una sua dichiarazione femminista, la sua cucina alchemica. Negli Anni ‘70 le femministe più ortodosse consideravano la casa e la cucina un luogo di costrizione per le donne: per Carrington, invece, la cucina, la casa, lo studio erano un luogo di creazione e collaborazione, l’equivalente di un amore alchemico. Questo rifletteva la posizione sul femminismo a cui aveva aderito, il “femminismo della coscienza”, che voleva tornare a comprendere il potere delle donne nell’era pre-patriarcale, quando erano le donne a guidare la vita spirituale della comunità e a prendersi cura della natura. Il suo era un femminismo che evidenziava le differenze tra uomini e donne, a parità di diritti, e che proponeva una compenetrazione e un equilibrio tra il femminile e il maschile. Ecco perché era molto attratta dagli insegnamenti di Jung sull’ermafrodita, che
Giulia Giaume
ma cercherei di non etichettarla: Leonor Fini diceva che non è mai stata una surrealista, ma una vera rivoluzionaria.
a sua volta aveva questa idea di raggiungere un equilibrio duale. Tutto questo è racchiuso nell’opera La cucina aromatica di nonna Moorhead, che è anche l’immagine della mostra: un omaggio alla nonna, fondamentale nella sua formazione, e un’invocazione magica alla grande dea.
Il suo è un femminismo politico?
C.M. Il suo lavoro non è un pamphlet. È politico in molti modi, o può essere interpretato politicamente, perché lei sosteneva certe cause e difendeva i diritti delle donne. Ma le fonti che usava per cercare di illustrare queste idee erano molto arcane e molto difficili da comprendere. Ecco perché i suoi dipinti degli Anni ‘60, ‘70, ‘80 sono come dei geroglifici. Questa complessità è uno dei motivi per cui ci è voluto così tanto tempo per averla nel posto in cui doveva essere.
Questa sua visione olistica l’ha isolata?
T.A. Non credo che per lei fosse difficile, come persona, riuscire a legare con le persone, perché trovava i suoi simili. In Messico, per esempio, la sua migliore amica era la pittrice Remedios Varo, e fino alla sua morte si scambiarono libri e sperimentarono insieme. E anche nella ricerca: quando studiava la Cabala aveva un rabbino residente in casa, per il Buddismo aveva un monaco con sé, quando guardò all’arazzo come mezzo di espressione venne a vivere con lei una intera famiglia di tessitori. Anche quando si interessò al femminismo si unì a un piccolo gruppo, le Mujeres Consciencia, e negli
Stati Uniti era coinvolta con le femministe che stavano recuperando il culto delle dee.
Questa complessità l’ha espressa anche nei libri, e molti, che ha scritto nell’arco della vita. Avete incorporato questo aspetto nella mostra? C.M. Oh, sì. Lei era sempre stata una scrittrice, fin da bambina: il suo primo testo letterario non l’ha scritto lei, ma sua madre, perché lei ancora non sapeva scrivere, visto che aveva più o meno tre o quattro anni. Ha scritto per tutta la vita, in francese, inglese e spagnolo, e con entrambe le mani: quando viveva con Max Ernst credo che abbia scritto più di quanto abbia dipinto. E anche i libri sono autobiografici: il primo libro che ha pubblicato in Francia, La Maison de la Peur et La Dame ovale, è una raccolta di storie che parlano della sua vita in modo sottile. Per esempio il racconto Little Francis è la storia di lei ed Ernst ma è la storia di due giovani uomini, sempre a proposito di quelle qualità maschili e femminili insieme. C’è un altro romanzo, The Hearing Trumpet, che ha molto a che fare con la sua esperienza nelle scuole cattoliche ma anche in quella nel sanatorio in Spagna. La sua scrittura doveva far parte della mostra: c’è il manoscritto per il romanzo The Stone Door e una storia illustrata che ha realizzato all’età di 10 anni, la prima sopravvissuta: dato che era troppo fragile per viaggiare l’abbiamo scannerizzata e la gente potrà vederla tutta su uno schermo.
E la storia con Ernst?
T.A. È molto particolare: devi pensare che lei aveva 20 anni quando lo incontrò, anche se già ne aveva visto le opere e in un certo senso si “immedesimava” in lui. Lui aveva circa 25 anni più di lei ed era già un esponente affermato del Surrealismo.
Un amore troncato di netto dalla guerra, e dalla fuga oltremare, o semplicemente finito?
T.A. C’è una storia interessante di quando furono separati e lei scappò in Spagna, e attraversò la dura prova dell’ospedale psichiatrico. Poi incontrò di nuovo Ernst a Lisbona quando cercavano entrambi di andare a New York. Lei era cresciuta e le era molto chiaro che non sarebbero tornati insieme: Ernst venne arrestato, e lei diede il suo passaporto a un ufficiale nazista. Questo, contro la sua aspettativa, le venne restituito: “Allora ho capito che dovevo uccidere Max Ernst io stessa”. E così, metaforicamente, ha fatto.
Una consapevolezza e una crescita che confluiscono anche nella sua percezione del sesso.
T.A. Era molto rivoluzionaria nella sua visione del sesso. Studiava il lato più alchemico, l’uso della droga, le connessioni con la kundalini e cercava di usare il sesso come un modo per integrare il femminile e il maschile in modo equilibrato. Ha persino parlato del sesso come di un modo per consentire alle donne di esorcizzare il male e la violenza dagli uomini. Che il sesso lo monopolizzavano. C’è un famoso libro che raccoglie alcune conversazioni avute tra i surrealisti negli Anni ‘30 proprio sul sesso, e gli artisti organizzarono anche una specie di simposio: la loro visione era esclusivamente maschile. Anche quando parlavano di sesso femminile, discutevano di quanto la prestazione di un uomo potesse permettere a una donna di provare piacere e cose del genere. È facile immaginare a cosa pensasse una giovane donna in quell’ambiente: c’è qualcosa qui di cui nessuno parla, cioè la sessualità femminile. E in effetti Freud la chiamava la zona oscura, ma era oscura solo perché era un uomo.
Nuovi futuri per il New Museum di Manhattan. Intervista al direttore artistico Massimiliano Gioni
Aquasi cinquant’anni dalla sua nascita, il New Museum di New York si prepara a rinnovare la propria visione del contemporaneo con un ampliamento firmato da OMA (Office for Metropolitan Architecture), lo studio di Rem Koolhaas e Shohei Shigematsu, in collaborazione con Cooper Robertson. Il nuovo edificio, destinato ad affiancare la sede su Bowery progettata da SANAA nel 2007, aggiunge oltre 5.600 mq, raddoppiando gli spazi espositivi e includendo studi per artisti, una piazza pubblica e la sede permanente di NEW INC., l’incubatore culturale nato in seno all’istituzione. Ad accompagnare l’apertura saranno tre commissioni: una scultura di Sarah Lucas, prima vincitrice del William “Beau” Wrigley Jr. Foundation Sculpture Award, un intervento site specific di Klára Hosnedlová per la scala dell’atrio, e una scultura di Tschabalala Self sulla facciata, nell’ambito del Facade Sculpture Program sostenuto dalla Jacques and Natasha Gelman Foundation.
Scelte che si inseriscono nella traiettoria del museo, fondato nel 1977 da Marcia Tucker, già curatrice al Whitney Museum of American Art, con l’intento di dare voce alle pratiche artistiche del presente, allora escluse dai circuiti ufficiali. Fin dagli esordi il New Museum si afferma come spazio fuori asse rispetto alle dinamiche tradizionali, configurandosi come laboratorio
di idee e banco di prova per pratiche curatoriali in qualche modo eterodosse: un esperimento continuo su cosa un museo possa — e non debba — essere. A raccontare questa nuova stagione è Massimiliano Gioni, direttore artistico Edlis Neeson.
La nuova apertura segna un passaggio importante per il New Museum: in che modo questo ampliamento ne ridefinisce spazi e prospettive?
Il nuovo edificio non è solo un ampliamento architettonico, ma l’occasione per rafforzare alcune linee che da sempre caratterizzano il museo. Raddoppieremo gli spazi espositivi, avremo finalmente un luogo stabile per residenze d’artisti e riporteremo all’interno NEW INC., la piattaforma dedicata ad arte, tecnologia e design. È in questa continuità che si definisce la specificità del New Museum, l’unico a New York interamente dedicato all’arte contemporanea, con una vocazione fortemente internazionale. Una delle nostre caratteristiche è presentare la prima mostra newyorkese o americana di molti artisti, sia giovani che affermati ma non ancora riconosciuti pienamente. Penso a Judy Chicago, a cui abbiamo dedicato la prima grande retrospettiva solo l’anno scorso, o a Faith Ringgold, Pippilotti Rist, Carsten Höller Al tempo stesso restiamo un museo reattivo e rapido: non programmiamo con sei anni di anticipo, ma cerchiamo di rispondere al presente, affrontando temi urgenti per artisti e società. È così che abbiamo realizzato mostre tematiche su arte e tecnologia o grandi rassegne geografiche come Here and Elsewhere, sull’arte dai paesi arabi. In questa stessa prospettiva si colloca anche l’espansione: continuare a dedicarci all’arte di oggi e, se vuoi, a quella di domani. L’apertura del nuovo edificio sarà segnata dalla collettiva New Humans: Memories of the Future, che indaga come gli sviluppi tecnologici abbiano ridefinito in modi sempre nuovi ciò che significa essere “umani”.
Prima di entrare nel merito di New Humans, vorrei soffermarmi sul tuo percorso. Dalle biennali al New Museum e alla Fondazione Trussardi, come si è evoluto il tuo ruolo nei vari contesti istituzionali?
Una peculiarità del New Museum – e della mia direttrice Lisa Phillips – è avermi lasciato la libertà di lavorare anche altrove, dal Qatar al Libano fino alla Cina. Un’apertura rara nei musei americani, che per noi è stata un’occasione di apprendimento e di scambio con realtà culturali diverse. Il mio ruolo, intanto, è cresciuto: sono direttore artistico dal 2014, con responsabilità che vanno oltre la programmazione. Oggi mi occupo anche della visione complessiva e del funzionamento quotidiano del museo: un impegno che si allontana un po’ dalla curatela in senso stretto, ma che trovo stimolante. Allo stesso tempo, è cambiata anche la figura del curatore, influenzata da molti fattori. Ci
Beatrice Caprioli
troviamo a filtrare una quantità enorme di materiali e informazioni: da un lato è stimolante, dall’altro ci ricorda che il nostro ruolo è forse meno centrale di quanto immaginiamo. È un esercizio salutare di relativizzazione e di modestia. L’idea del curatore come figura sovrana, capace di dettare i trend, mi sembra ormai superata – ed è un bene. Anche l’espansione geografica del nostro lavoro ha contribuito a questo sano relativismo. È qualcosa in cui credo molto: il fatto che l’arte, nella pratica come nella fruizione, ci metta davanti all’ignoto, inteso nel senso più concreto del termine. Un’esperienza di alterità e di disorientamento, che possiamo chiamare estraneità, e che non è poi così lontana da quella che affrontiamo ogni giorno in un mondo sempre più complesso.
Parlando di mostre collettive penso alle tue biennali: più volte le hai descritte come “musei temporanei”. Come interpreti oggi questo concetto, anche alla luce della tua direzione al New Museum?
L’idea di biennale come “museo temporaneo” l’ho iniziata a formulare con la Biennale di Gwangju, ma si è sviluppata nel tempo. Quando ho curato Manifesta nel 2004, la Biennale di Berlino nel 2006 o la prima Triennale al New Museum nel 2009, avevo una visione che oggi mi sembra più semplicistica o forse più agonistica, diciamo: pensavo che una biennale dovesse mettere in dialogo gli artisti più significativi del momento. A Gwangju le dimensioni degli spazi e del pubblico – oltre mezzo milione di visitatori – mi hanno spinto a riflettere sui destinatari e sui linguaggi. Intanto il formato biennale mi sembrava irrigidirsi, con una retorica fatta di intrattenimento, partecipazione e spettacolarità. Forse anche perché lavoravo già al New Museum, istituzione atipica, senza collezione e più ricettiva, ho iniziato a chiedermi se fosse possibile ripensare la biennale a partire da alcune caratteristiche museali. Nei musei storici o etnografici, ad esempio, l’esperienza
è diversa rispetto a gallerie o musei moderni: maggiore densità, più apparati informativi, spesso assenti nelle biennali. Da qui l’idea di trasferire quella grammatica al formato biennale: un museo tematico, costruito attorno a un nucleo concettuale che si apre in molte direzioni. Un modello forse un po’ bulimico, ma che riflette la mia passione per mostre affollate di immagini e riferimenti: universi da attraversare più che da visitare.
Mi colpisce spesso il tuo desiderio di accostare linguaggi, discipline, personalità che non sono soltanto artisti, ma anche pensatori, creativi, scienziati. C’è, in sostanza, una transdisciplinarità nel modo in cui costruisci le mostre, un’attitudine quasi “enciclopedica”, che diventa anche uno strumento per guardare alla storia. Quella che chiami un’attitudine “enciclopedica” ho iniziato a esplorarla sempre attorno alla Biennale di Gwangju. Una delle ragioni nasce dalla mia curiosità verso mostre curate da
in alto a sinistra: Exterior View in basso a sinistra: Atrium Stair in alto: Galleries / in basso: Forum Rendering of the expanded New Museum. Courtesy OMA/bloomimages.de
artisti – Mike Kelley, Rosemarie Trockel, Jeremy Deller, Robert Gober – dove opere d’arte convivevano con oggetti di varia natura. Questo mi ha fatto capire che la mia definizione di arte era allora limitata e influenzava anche le mostre che curavo. Con After Nature al New Museum nel 2008 ho iniziato ad ampliare quello spettro, mettendo da parte il problema di stabilire se qualcosa fosse “arte” o se avesse “qualità”. Questo mi ha liberato anche dal vincolo del mercato. Certo, siamo tutti un po’ complici del sistema, e includere artisti outsider nella Biennale ne ha persino aumentato il valore. Ma quell’approccio mi ha permesso di muovermi fuori dalle gerarchie consolidate. Il mio metodo è guardare non solo alle opere, ma a una cultura visiva più ampia, oggi sempre più complessa e quantificata. Ogni immagine, se dotata di intensità, può essere degna di attenzione. Così a Gwangju ho incluso elementi di varia natura, e ancor più a Venezia, dove accanto alle opere c’erano il Libro Rosso di Jung ed ex voto. Quindi sì, questo approccio si può definire enciclopedico, ma non in senso illuminista. L’enciclopedia che mi interessa è quella di Marino Auriti: utopica, destinata a fallire La mia Biennale era piena di enciclopedie incompiute e visionarie, progetti fragili la cui forza stava proprio nel fallimento.
Vorrei chiudere con uno sguardo al presente e al futuro: cosa porterà New Humans e quali altri progetti ti aspettano oltre il New Museum? New Humans è una mostra che ha avuto una lunga gestazione e che ho ripensato più volte nel tempo. Le sue radici risalgono a ricerche storiche che mi hanno segnato, come Identità e alterità, la mostra curata da Jean Clair alla Biennale di Venezia del 1995, e i suoi studi sul mito del “nuovo uomo”. Con l’apertura del nuovo edificio del New Museum mi è sembrato naturale affrontare questo tema. In mostra ci sono oltre 150 artisti, ma anche scienziati, scrittori e figure eccentriche: da Dalí a Carlo Rambaldi con il suo E.T., fino a materiali scientifici e macchine curiose. Al centro ho scelto di porre una frase di Karel Čapek, l’inventore della parola “robot”: come diceva, lo cito a memoria dall’inglese, “non c’è nulla di più strano per l’umano che la sua stessa immagine”. Perché, in fondo, la mostra parla di come ci rappresentiamo sotto la pressione delle nuove tecnologie. Parallelamente, a ottobre inaugurerò a Milano Fata Morgana, una mostra con la Fondazione Trussardi che riflette sullo spiritismo e sulla sua influenza sull’arte tra Ottocento e Novecento, fino alle radici dell’astrazione. Saranno presenti opere di Hilma af Klint, disegni di Emma Jung e Annie Besant, figure legate alla teosofia e all’esoterismo che hanno contribuito anche alle avanguardie. È un progetto che intreccia surrealismo e riscoperte femministe degli Anni Sessanta e Settanta e che, per la Fondazione, rappresenta un ritorno al formato delle grandi mostre tematiche, dopo esperienze come La Grande Madre o La Terra Inquieta
Come si restaura un’opera prima di una grande mostra?
Parla Emanuela Daffra, Soprintendente dell’Opificio delle Pietre Dure
Marta Santacatterina
L’Opificio delle Pietre Dure è il centro di restauro più prestigioso in Italia - e non solo - e talvolta chi organizza una grande mostra affida ai suoi team di professionisti alcune opere da restaurare o su cui fare indagini approfondite. Ne abbiamo parlato con Emanuela Daffra, Soprintendente dell’istituto di Firenze che dipende dal Ministero della Cultura.
Capita spesso che gli organizzatori di grandi mostre vi affidino delle opere da restaurare o da esaminare prima della loro esposizione?
Sì, ma è riduttivo pensare solo ai restauri, poiché l’Opificio è un concentrato di competenze: storici dell’arte, restauratori, esperti di diagnostica ci permettono di avviare collaborazioni di ampio respiro con i musei italiani e stranieri, ad esempio per effettuare campagne di indagini sistematiche su alcune opere o per progettare le migliori soluzioni per l’esposizione. Con alcuni istituti, come Palazzo Strozzi, abbiamo anche un rapporto strutturato e seguiamo tutte le operazioni di allestimento e di verifica dello stato conservativo di opere che arrivano da tutto il mondo.
Il restauro di un’opera destinata a tornare in un museo o a essere esposta in una mostra prevede modalità diverse?
Sostanzialmente no, tranne che per l’aspetto delle tempistiche. Bisogna infatti lavorare con il giusto anticipo anche per offrire ai curatori i nuovi dati che emergono dal restauro e che sono funzionali sia agli studi sia all’allestimento. Ad esempio possono cambiare le dimensioni di un’opera o si deve predisporre un’illuminazione particolare.
Ci descrive in breve i passaggi fondamentali di un restauro?
Quando si prende in carico un’opera è cruciale partire da un’attenta osservazione e dalla raccolta di tutte le informazioni storiche e delle sue vicende storico-artistiche. Hanno un ruolo fondamentale le indagini non invasive sia di imaging multispettrale (riflettografie, UV) sia spettroscopiche che servono a direzionare le ricerche successive. Dopo avere individuato le tecniche e i materiali originali e di restauro, si iniziano le operazioni vere e proprie. Spesso, nei dipinti su tavola, è prioritario intervenire sul supporto dopo aver messo in sicurezza la pellicola pittorica; in altri casi è opportuno eliminare le ridipinture superficiali per poi consolidare ciò che si vuole mantenere. L’ultimo atto consiste nel prendersi cura della vita dell’opera, esaminando in quali ambienti andrà a risiedere:
nel caso dei musei il microclima è solitamente controllato; quando non è così, la cura nel tempo fa parte integrante del progetto di conservazione. Se l’opera è oggetto di una mostra, talvolta verifichiamo anche le sue condizioni prima che ritorni al prestatore.
Di recente avete restaurato dei capolavori assoluti destinati a una grande mostra?
Abbiamo lavorato su un trittico di Beato Angelico che sarà esposto nella grande mostra di Palazzo Strozzi. Il recupero ci ha entusiasmati perché l’opera ha avuto una vicenda complessa e oggi si configura come un inedito: fu realizzata per un altare di Santa Croce a Firenze per poi essere smembrata. Probabilmente la predella è stata tolta precocemente, disperdendosi nel mercato antiquario, mentre le tre tavole principali sono state separate a inizio Ottocento: la Madonna con il Bambino è confluita nel museo di San Marco; le due coppie laterali di santi sono finite prima nella Certosa di Galluzzo e poi in deposito, con un’autografia non consolidata di Beato Angelico. Tutte le tavole avevano ricevuto una patinatura che si era molto inscurita e che non era mai stata rimossa perché era molto resistente, ma oggi, grazie a migliori tecnologie, è stato possibile eliminarla. Perciò in mostra si ammireranno non solo il trittico finalmente riunito, ma anche le straordinarie finezze della pittura di Beato Angelico.
Le Stanze della Fotografia lestanzedellafotografia.it
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ALPHONSE MUCHA Un trionfo di bellezza e seduzione
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Fino al 17 novembre
PIETRO LISTA – IN CONTROLUCE
Madre – Museo d’arte contemporanea Donnaregina Via Settembrini 79 madrenapoli.it
NAPOLI
ROMA
GAZA: SERVE UN INTERVENTO
PIÙ RADICALE DEL MONDO
DELL’ARTE?
A due anni dall’inasprimento della guerra in Palestina (e a molti decenni dal suo inizio), siamo tutte e tutti chiamati a schierarci contro la distruzione di un popolo. Ma qual è il ruolo dell’arte? Ne parliamo con artisti, curatori e giornalisti
CHIARA CAMONI
ARTISTA
Qualche mese fa, quando ho visitato a Berlino la retrospettiva di Nan Goldin, ho guardato poi su YouTube il discorso che ha fatto in apertura della mostra: forte, commovente e molto contestato dalle istituzioni. Ho pensato che lei fosse per me una donna meravigliosa. Le opere d’arte non devono necessariamente avere argomento politico, perché le buone opere d’arte sono sempre politiche. Ma gli artisti, soprattutto quando sono famosi hanno una posizione privilegiata poiché possono prendere parola, hanno possibilità di avere un microfono. Quindi sì, serve un intervento più radicale nel mondo dell’arte rispetto alla tragedia in corso, che passi attraverso le posizioni e le parole di tutti coloro che hanno voce.
ALESSANDRO
BULGINI
ARTISTA
“L’arte non c’entra niente con la morte, con la distruzione, con la fame. Queste tragedie competono al potere, non agli artisti”. Lo ha detto Giancarlo Giannini a Venezia. Ogni giorno dall’etere mi viene fornita una motivazione per la quale sento che si debba agire per quel che si può e dinanzi alle affermazioni di cui sopra non rimane che riconoscermi, come artista, altro da quello. Entrando poi nello specifico, penso che di radicale ci sia già quel che sta accadendo in Palestina: lo sterminio totale, la devastazione incontrollata quotidiana, la morte degli innocenti, per cui quel che può l’artista non è d’essere radicale, ma per quel che gli si confà, artefice di qualcosa di disperatamente simbolico ed evocativo, confidando che la necessità d’agire in lui si manifesti ancora perché dotato d’empatia umana. Da molto tempo la realtà viene manipolata con efficacia tramite l’utilizzo di tutti i mezzi di comunicazione, probabilmente grazie al fatto che “la veloce e scaltra malafede” attinga a piene mani dagli strumenti della cultura, producendo in tal modo aberrazioni speculative molto efficaci. Da questo assunto credo che gli artisti possano e debbano utilizzare il loro potere, essere ancora protagonisti di quel che gli è dato d’essere, nel tentativo di sovvertire il destino che si sta prospettando: la pena, intendo la fine della ragione, del senso, della capacità di giudizio, della giustizia stessa. Agli artisti conviene darsi una mossa, altrimenti di loro, solo orpelli per cannibali.
EDOARDO BONASPETTI
CURATORE
La domanda è urgente e complessa, ma cosa significa oggi un “intervento radicale”?
E verso chi o cosa dovrebbe rivolgersi?
L’arte non cambia le leggi, non detta norme, ma di certo dovrebbe partecipare a un dibattito culturale sui nostri impegni civili e valori. Credo siano necessarie misure e posizioni più decise nei confronti del governo israeliano, ma non penso sia mai utile recidere i legami con un Paese o un popolo. Purtroppo, la debolezza con cui affrontiamo la questione palestinese –che non si limita a Gaza – riflette anche le profonde fragilità delle nostre società, segnate da debolezze e contraddizioni. Penso che qualsiasi iniziativa rivolta ad arginare il genocidio in corso dovrebbe essere sostenuta, e che le trasformazioni avvengano quando cultura e società si incontrano. In questo senso, sì: serve un intervento più radicale del mondo dell’arte perché ciò che sta accadendo sta minando anche le stesse fondamenta delle nostre democrazie che diciamo di voler difendere.
MATTEO LUCCHETTI
CURATORE
Nel 1945 il Museo di Malmö, in Svezia, divenne un rifugio durante la Seconda guerra mondiale per sei mesi, accogliendo centinaia di persone sopravvissute ai campi di concentramento nazisti, poi accudite da personale medico e dallo staff del Museo. Ricordiamo ancora oggi questo evento grazie all’artista Sven “X-et” Leonard Erixson, che in quell’anno dipinse il quadro Refugees at Malmö Museum, immortalando l’idea di Museo come luogo di cura, non solo di oggetti e opere, ma anche di persone, senza le quali non ci sarebbe nessun genere di cultura da conservare, tramandare e raccontare. Questo episodio ci fa riflettere probabilmente sulla disconnessione avvenuta in ambito istituzionale rispetto alle urgenze contemporanee, come quella del genocidio palestinese in corso a Gaza. Vedo invece l’impegno individuale di molte artiste e artisti, colleghe curatrici e curatori, che sono attivamente parte di movimenti e organizzazioni che non solo offrono aiuto e supporto, ma soprattutto usano le loro piattaforme per denunciare lo stato delle cose, evitando di normalizzare l’illegale atrocità degli eventi in corso.
a cura di SANTA NASTRO
MANUELA GANDINI
GIORNALISTA
“L’umanità è stata hackerata” ha scritto la giornalista turca Ece Temelkuran. Il volto della Crudeltà guarda impassibile la sofferenza umana della Striscia. L’opinione pubblica non ha più peso in questa sperimentazione totalitaria per la creazione di nuove controllatissime smart city e di lager a cielo aperto a fianco di lussuosi resort. Il linguaggio contagioso della guerra impera dall’inizio della pandemia in tutto l’Occidente: parole semplici, mortifere, faziose, volte alla rassegnazione. L’arte non ferma la mattanza, ma costruisce altri scenari e scava la coscienza con migliaia di micro-azioni delle quali una si è svolta ad Alghero, alla Galleria Bonaire Contemporanea. Un centinaio di artisti sono intervenuti con il rosso su cartoline che raffigurano Gaza. Stese su un filo con le mollette dei panni, chiunque poteva sostituirle con una banconota. In due giorni si è creato un tessuto fortemente partecipe e sono stati raccolti 7.210 euro donati all’Associazione “Ponti non Muri” per la gazawa “PaliHope”.
PIETRO GAGLIANÒ CURATORE
Il ritardo con cui ci poniamo la domanda è sintomo di un’anomalia culturale. L’universo nord-atlantico non ha mai interrotto, se non a slogan, la politica coloniale e predatoria che caratterizza la cosiddetta modernità, e il genocidio sistematico del popolo palestinese (la cui origine è nel 1948, val la pena ricordarlo) ne è la prova più evidente. Il mondo dell’arte avrebbe dovuto schierarsi da decenni. Oggi, con il clamore mediatico e la pulsione gregaria tipica del tempo, la questione sembra stringente anche in insospettabili frange della società. Le istituzioni culturali e noi operatori non abbiamo scuse: dobbiamo essere cristallini nella condanna del genocidio e agire di conseguenza. Agli artisti è data una doppia facoltà: il linguaggio artistico e quello civico. Se non sei un artista che agisce politicamente (sacrosanto) puoi essere un cittadino che agisce politicamente. L’alternativa, per tutti noi, è una miserabile prudenza, una colpevole astensione, una grigia irrilevanza.
DAVIDE DORMINO ARTISTA
La domanda arriva fuori tempo massimo. Ormai è tardi, ed è fin troppo facile. Credo che, prima ancora di essere ciò che pensiamo di essere, dovremmo ricordarci di essere umani. Avremmo dovuto provare a immedesimarci da subito e usare la voce, o qualsiasi mezzo possibile, per schierarci contro questo genocidio, contro questo disumanesimo. Perché la Palestina non è solo una terra: è il nome stesso della libertà. È evidente che una parte del sistema dell’arte è completamente scollegata dalla realtà, o teme ripercussioni sulle proprie “carriere”. Ma la vita è fatta di scelte. Se mpre. Per me l’arte è incisiva quando è militante.
MILTOS MANETAS ARTISTA
Interventi radicali, salvo smettere del tutto di lavorare, comunicare e consumare, non esistono. Dai grandi artisti — per me grande è semplicemente chi si riconosce tale ancor prima del successo — non mi aspetto proteste: le atrocità in Israele e Palestina, più che resistenza, guerra o genocidio, sono una competizione accelerata per lo sviluppo che, dopotutto, resta il nostro grande sponsor. Serve allora l’impegno di dipingere il conflitto dal dentro: accettare pubblicamente il proprio conformismo, mostrarne la meccanica del nostro insanguinato privilegio e rappresentarla. A volte questo significa capire, e persino glorificare con la nostra arte, “le fatiche” di quell’1%” e del suo staff (che poi include tutti noi, l’equalmente infame 99%) nella nostra impresa di sterminare una moltitudine che oggi serve più morta che viva. Non ci resta dunque che lavorare con entusiasmo e apertamente per il Male, e vedere poi come ci si sente.
SARA ALBERANI CURATRICE
Il mondo dell’arte, dopo quasi due anni di genocidio a Gaza, non ha rifiutato le forme di occupazione e colonizzazione che hanno responsabilità occidentali, ma ne è stato complice. In contesto italiano basti pensare alla recente mostra Mediterranea. Visioni di un mare antico e complesso organizzata da Leonardo Spa al MAXXI di Roma, o al Padiglione Israele alla Biennale Arte di Venezia 2024, chiuso grazie alle pressioni dell3 lavorator3 culturali. Spesso sono mostre che “parlano” di decolonizzazione e Sud Globale, mentre istituzioni e finanziamenti partecipano all’economia del genocidio. Se non interrompono i loro legami di complicità, tali istituzioni vanno abolite, non validate con operazioni di art washing come la prossima documenta16. Si è creata una distinzione netta tra lavorator3 (spesso precar3) che boicottano e organizzano forme autonome di cultura, e chi legittima un sistema fuori tempo massimo, che ha abdicato al ruolo critico dell’arte nei momenti in cui è più necessaria.
GAIA SCARAMELLA ARTISTA
Da mesi io e pochi altri portiamo avanti denuncia, dissociazione e attivismo sulla situazione a Gaza, soprattutto sui social. Il mondo dell’arte non è stato radicale: procede con inerzia, quando invece servirebbe forza e visione. Chi, se non intellettuali e operatori culturali, dovrebbe esporsi? Invece domina la paura di pestare i piedi a qualcuno. Per questo stiamo provando a unire persone, creare un collettivo e agire in modo radicale e deciso. Con la collaborazione di galleristi, presso Curva Pura a Roma, ci stiamo incontrando con chi ha avuto il coraggio di esporsi senza mezzi termini. Sarà un confronto costruttivo, orientato al da farsi. Non fermeremo il genocidio in atto da parte di Israele, né salveremo vite, ma l’epoca di un’arte non militante deve finire. Serve rumore, serve fastidio a un governo complice e silente. Deve restare chiaro, per generazioni: questo abominio non è stato compiuto in nostro nome. Basta!
UNA GRANDE OPERAZIONE MECENATISTICA DI BARILLA CHE BARILLA HA SCELTO DI NON FAR SAPERE A NESSUNO
MASSIMILIANO TONELLI
Cosa potrà mai entrarci un vasetto di pesto con ragionamenti sul mecenatismo e su come andrebbe comunicato? Eppure, qualcosa c’entra, ma per capirlo dobbiamo andare indietro di alcuni mesi. Per la precisione a inizio giugno 2025. Il vasetto di pesto è un nuovo sugo del brand italiano Barilla e, come spesso accade per il lancio di un nuovo prodotto, l’azienda decide di organizzare un evento. Barilla avrebbe potuto optare per una location qualsiasi, organizzare una festa, invitare persone popolari e far parlare di sé. E invece sceglie un museo, uno dei più interessanti di Milano per le sue particolarità: la Casa degli Artisti. Un luogo – ne abbiamo parlato tanto su Artribune – dove si organizzano mostre, presentazioni, incontri, dove c’è tanto spazio espositivo ma altrettanto spazio per le residenze degli artisti e c’è pure un ristorante di prim’ordine che è anche bottega, mercato e spazio verde all’esterno. La Casa degli Artisti è una realtà gestita da una serie di associazioni non profit di Milano e la collaborazione con aziende private è un elemento fondante della sostenibilità del progetto.
Barilla ha quindi scelto di lanciare un suo nuovo prodotto in uno spazio di questo tipo. Il ristorante interno della Casa degli Artisti è stato trasformato in un “Basil Bar”, ma il personale non è stato estromesso, bensì coinvolto nel progetto gastronomico. Il progetto prevedeva un bancone bar per i cocktail (affidati a uno dei migliori cocktail bar di Milano), una serie di piatti serviti al bistrot (congegnati da uno dei più talentuosi giovani chef italiani), il tutto per la durata di ben dieci giorni. Ma benché si trattasse del lancio di un prodotto gastronomico, non si è parlato solo di gastronomia.
Eh già, perché Barilla, ben conscia di essere in un museo dalle certe caratteristiche, ha affiancato al party di lancio e poi ai successivi giorni di apertura al pubblico del Basil Bar altri eventi culturali. Le mostre sono state realizzate anche qui con alcune accortezze: a volte i brand arrivano in una location e, come schiacciasassi, se ne fregano dell’identità del luogo e portano i loro contenuti. Non è andata così: Barilla ha coinvolto gli artisti residenti alla Casa e si è avvalsa dei curatori della casa stessa, sostenendo la comunità che abitualmente viveva e operava in quello spazio. Insomma, un’operazione di mecenatismo piuttosto esemplare: Barilla ha lanciato un nuovo prodotto, il Basil Bar è stato sempre pieno per tutti i giorni di apertura e la Casa degli Artisti, le sue varie componenti e il suo ristorante hanno avuto un introito economico capace di determinare positivamente l’intero bilancio annuale.
Tutto molto virtuoso, salvo le scelte di comunicazione. Barilla infatti (oppure l’agenzia che per Barilla segue le strategie di comunicazione) ha deciso di veicolare il contenuto Basil Bar quasi esclusivamente mediante influencer, con il linguaggio, i ritmi e la superficialità tipici degli influencer.
Inutile parlare di cose complesse e profonde, il target di quei profili è interessato ad altro e tutto deve essere
Il
Basil Bar di Barilla alla Casa degli Artisti, Milano
“pazzesco” e “incredibile”. “Vi porto con me nel nuovo progetto immersivo di Barilla” tuonavano a dozzine i reel dopo l’inaugurazione, con alla fine l’ormai pressoché obbligatorio hashtag ‘#adv’. Il risultato dopo qualche mese? Di questa operazione nessuno ha parlato in termini di valore, di profondità, di visione culturale. Nessuno. Non troverete pressoché nessuna copertura stampa a riguardo cercando online: per questo ho aspettato tre mesi per scriverne, per avere la certezza di quale sarebbe stata la legacy di una progettualità simile. Quasi zero. Forse una comunicazione così sbilanciata su una sola tipologia di linguaggio e di canale (Instagram o TikTok) potrà avere risultati immediati di grande circolazione, ma alla lunga mortifica il valore delle operazioni che si fanno, specie quando non sono esclusivamente commerciali ma anche culturali e identitarie.
Forse Barilla ha messo in piedi una significativa operazione culturale senza accorgersene. Oppure ha davvero pensato che un’iniziativa culturale che meritava spiegazioni e mediazione potesse essere veicolata tramite imbarazzanti reel di sessanta secondi. Barilla non è l’unica ovviamente: consigliate da geniali agenzie di comunicazione, sono molte le aziende che si stanno muovendo così. Ma sottrarre risorse all’editoria per spostarle sul “marchettodromo” degli influencer non crea danni solo all’editoria, ma probabilmente alle aziende stesse.
L'ASCESA DEL CURATORE INDIPENDENTE (E IL SILENZIO DEI MUSEI!)
ANNA DETHERIDGE
Che significato ha all’epoca di una globalizzazione calante, il ruolo del curatore/curatrice nell’ambito delle arti contemporanee? E se una parte del mondo dell’arte critica aspramente una sorta di “professionalizzazione” dell’artista, il moltiplicarsi di corsi, master e dottorati dedicati alla curatela, quali nuove competenze fornisce? La complicazione delle dialettiche e delle pratiche artistiche riguardano anche la curatela che oggi non comprende soltanto competenze di tutela, ma si diversifica assumendo mille vesti, dall’affiancamento degli artisti, alla mediazione, alla creazione di spazi di sperimentazione, narrazione e contro narrazione. Tra i fenomeni più interessanti negli ultimi decenni, spesso sottovalutati, è l’emergere della figura del curatore indipendente che negli Anni Novanta diventa protagonista nell’organizzazione di mostre collettive, ricerche e progetti/processi che si sviluppano nel tempo, che l’artista Andrea Fraser nel suo libro Institutional Critique and After (2006) ha chiamato service oriented. Chi lavora a fianco degli artisti anche a livelli locali, nella curatela di mostre collettive assume in quegli anni, quasi naturalmente, un ruolo più centrale, al tempo stesso creativo e politico, per non dire autoriale.
La complicazione delle dialettiche e delle pratiche artistiche riguardano anche la curatela
Intorno al nuovo millennio, in piena globalizzazione irrompe sugli scenari nazionali di tutto il mondo il fenomeno delle Biennali, tra le più importanti, la Biennale di Venezia, nata come Esposizione Internazionale nel 1895. Attrattori per un nuovo turismo globale, insieme ai voli low cost, le grandi mostre internazionali hanno contribuito da un lato a portare a conoscenza di un pubblico più vasto il lavoro di tanti artisti di Paesi e culture lontani, trasformando la percezione profondamente autoriferita delle istituzioni occidentali. Dall’altro, tuttavia, le forme convenzionali di presentazione del lavoro degli artisti provenienti da altri continenti perpe-
Deller, The Battle of Orgreave , 2002. Photo Martin Jenkinson
tuano un fraintendimento dell’opera d’arte come passepartout, come oggetto o forma che si comprende proprio in quanto non contestualizzato. Intorno ai primi anni del nuovo millennio l’interesse per la curatela sfocia in un fiorire di incontri, saggi e antologie dedicati alla figura del curatore, tra le quali Curating subjects (2007) a cura di Paul O’Neill oppure il progetto di interviste storiche di Hans Ulrich Obrist Tra i temi più dibattuti sono una crescente sensibilità più contestuale, sincronica e spaziale; un interrogarsi a fondo su come si produce un significato e con quali mezzi dare senso alle cose. Una destrutturazione dei linguaggi che è parte dell’eredità dell’arte concettuale. L’espansione o diffusione (per la miscellanea di ruoli e temi) della curatela come pratica sociale ha portato i teorici a distinguere la parola curation dal termine the curatorial, sostantivi che rimandano a due pratiche differenti. Secondo Irit Rogoff e Beatrice von Bismarck in Cultures of the Curatorial, (2012), il primo riguarda una serie di competenze necessarie per generare una mostra o un allestimento, mentre il secondo identifica una capacità di articolare un momento di consapevolezza o di conoscenza in relazione ad altri. Quest’ultima accezione porta la curatela lontano dall’ambito della rappresentazione museale; rende invece pubblico tutto ciò che abilita e permette allo spettatore/partecipante di meglio comprendere e apprendere
una funzione critica. Oggi sarebbe necessario capire e chiarire la natura di questa differenza, e dell’indubbia amplificazione delle mansioni del curatore/trice. La curatela come pratica sociale può portare alla luce squilibri e ingiustizie che vengono sepolte sotto il peso di narrazioni egemoniche. La storia degli ultimi decenni ha visto degli esempi notevoli di rimarrazioni “dal basso” come la Battaglia di Orgreave di Jeremy Deller che reinscena la distruzione di una comunità – quella dei minatori nel Regno Unito – e la criminalizzazione di una categoria di lavoratori affatto incline alla rivolta.
In questo caso è lo stesso artista che assume il ruolo di curatore, ossia regista. E poiché tali pratiche artistiche pescano a piene mani nella Storia e negli immaginari del passato, tali contronarrazioni hanno una rilevanza crescente che si afferisce al ripensamento della storiografia di Marc Bloch e in particolare alle ricerche di L’École des Annales che riportano alla luce aspetti della memoria collettiva mai rilevati prima.
Ma anche la curatela museale che spesso delega a un public program la rinarrazione della memoria collettiva, avrebbe da imparare dalle pratiche di curatela fuori dal museo per la risignificazione profonda delle collezioni museali, perché gli oggetti a modo loro parlano, non sono inerti e nel silenzio generale possono rendere le istituzioni stesse irrilevanti.
Jeremy
PIô COLORE NEI MUSEI ITALIANI
FABRIZIO FEDERICI
Nell’editoriale pubblicato sul numero 84 di Artribune Magazine si è parlato dell’infausta moda di illuminare i dipinti con forti fasci di luce riquadrati, che trasformano le tele in smartpainting. Ora è il caso di spendere qualche parola sulle modalità di fruizione della scultura. Più che sul tema della luce – altrettanto centrale per statue e rilievi, che richiederebbero un’illuminazione diffusa e naturale, e invece sono spesso bersagliati da luci direzionate che distorcono i volumi e lasciano parti in ombra – si intende concentrare l’attenzione sul tema, contiguo, del colore.
Si ha l’impressione che la condanna winckelmanniana del colore nella scultura si sia estesa anche agli spazi che accolgono le statue
Si ha l’impressione che la condanna winckelmanniana del colore nella scultura si sia estesa anche agli spazi che accolgono le statue: spesso nei musei italiani, archeologici o meno, le pareti contro cui sono esposti i marmorei simulacri sono bianche, con un effetto tristanzuolo, e soprattutto con la conseguenza che i profili e in generale i volumi delle opere vengono smorzati, anziché risaltare contro uno sfondo di un altro colore (si veda da ultimo il riallestimento del Corridoio Vasariano con una teoria di busti antichi). Fatti salvi quei casi in cui l’effetto total white riesce ad attingere una significativa dimensione estetica e poetica (il più rilevante è probabilmente quello della Gipsoteca Canoviana di Possagno), in altre situazioni si potrebbe dare, per così dire, un tocco di colore, magari con tinte non troppo aggressive, magari evitando i pannelli (non di rado, anche loro, un po’ tristi) e intonacando direttamente le pareti (non saranno sempre intonaci vecchi di mille anni quelli delle sale dei nostri musei, no?). Un rivestimento che si pone ottimamente al servizio di una buona ostensione della scultura, classica e non solo, è quello in mattoni, con le sue tinte calde e la sua origine naturale, che ben si sposa con la naturalezza del
La Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen
marmo e della pietra. Lo troviamo impiegato in importanti musei archeologici: dalla Glyptothek di Monaco di Baviera (dove però il laterizio a vista è una conseguenza dei danni dell’ultima guerra, quando le decorazioni neoclassiche degli ambienti andarono distrutte) al Museo Nacional de Arte Romano di Mérida, in Estremadura, gioiello di Rafael Moneo costruito tra il 1981 e il 1986, in cui il ricorso al rivestimento in laterizio delle pareti si inserisce in un discorso di ripresa di forme e volumi dell’architettura romana e meravigliosamente si presta, assieme a una luce in buona parte naturale, all’esposizione dei reperti dell’antica colonia di Emerita Augusta. A questi casi se ne può affiancare un altro, in cui a essere esposta non è la scultura classica, ma una gigantesca scultura della nostra epoca: la Calamita cosmica di Gino De Dominicis, che riposa nella ex chiesa della Santissima Trinità in Annunziata a Foligno, ormai divenuta l’immenso reliquiario dell’opera. Qui la presenza del mattone a vista è dovuta a una storia ancora diversa: il tempio, innalzato tra il 1760 e il 1765 su disegno dell’architetto Carlo Murena, rimase incompiuto, privo delle decorazioni interne. Per l’esposizione della Calamita questo è stato un bene: sicuramente lo “scheletrone” di De Dominicis è assai meglio leggibile nel contesto dell’attuale opus latericium, che non avvolto dagli intonaci chiari e dagli stucchi che avrebbero dovuto rivestire l’interno della chiesa.
L’ostilità al colore sembra riguardare non solo gli spazi, ma le sculture stesse: non certo quando si trovano tracce della policromia originaria, che vengono attentamente preservate e, nel caso della scultura classica, danno il là a ricostruzioni in technicolor dell’aspetto primigenio delle statue; ma quando restauri troppo solerti nel riportare indietro le lancette del tempo si accaniscono a rimuovere ogni traccia del passaggio dei secoli, e dunque la famosa patina, quella particolare “pelle” che le opere prendono col
È pieno di sculture divenute di un candore abbacinante a seguito di un intervento di restauro
tempo e che, nel caso dei marmi, dona loro un tono caldo di straordinario fascino. È pieno di sculture divenute di un candore abbacinante a seguito di un intervento di restauro: statue in esterno, al colmo di fontane, così come pezzi da collezione, a cominciare dai rischiaratissimi Marmi Torlonia. Questo peculiare colore del marmo andrebbe invece salvaguardato: il candore del materiale principe della scultura può essere esaltato non mediante puliture troppo invasive, ma grazie ad allestimenti in cui il colore giochi un ruolo significativo.
CULTURA NERA CONTRO L'ANTROPOCENE
ANGELA VETTESE
Nell’ultima classifica sulle persone di maggior potere nel mondo dell’arte, pubblicata da ArtReview alla fine del 2024, undici tra i primi venti nominati sono persone nere e solo tre sono bianchi. Considerando che la prossima Biennale di Venezia sarà guidata dallo staff che fu della scomparsa Koyo Kuoh, africana, e che la prossima Documenta sarà anch’essa curata da Naomi Beckwith, un’afroamericana proveniente dallo staff del Guggenheim, è probabile che ci sia un’epidemia di negritudine nelle prossime mostre leader del settore. Altra presenza importante è quella di protagonisti di cultura araba, a partire dalle due super-collezioniste e curatrici Sheika Hoor Al Qasimi (Sharjah) e Sheikha Al-Mayassa Bint Hamad Bin Khalifa Al Tani (Qatar).
Ora è più facile capire perché Trump se la prenda con le università come Harward o il MIT: rappresentano l’élite intellettuale, quelli che a Boston chiamano “bramini” per il loro ruolo sacerdotale, che a partire dal senso di colpa occidentale per l’attitudine alla conquista dell’altro hanno intrapreso la via dei diritti civili, primo tra tutti la decolonizzazione. Gli intellettuali di riferimento sono molti, a parte la cosiddetta French Theory, portata negli Stati Uniti da Silvère Lotringer con la sua rivista Semiotext(e) e andata a nutrire le pagine di October e di Artforum. Libri come I luoghi della cultura di Homi Bhabha dettano legge dagli Anni Novanta, così come alcuni testi di Saskia Sassen, di Arundati Roy, di Amartya Sen. In più si sono riscoperti scritti bizzarri ma fondativi, come il Manifesto Antropofago del brasiliano Oswald de Andrade (1928), e sono state fatte ricerche di antropologia rivolte alla riscoperta dei riti mesoamericani o africani o asiatici. Per averli portati in superficie, la mostra molto discussa Magiciens de la Terre (Centre Pompidou, Parigi, 1989) resta seminale per tutte le mostre decoloniali che sono venute dagli Anni Novanta in poi: autori che inneggiano alla creolizzazione come modo per affrontare e annullare la differenza etnico-culturale senza sopprimerla, come Edouard Glissant, sono diventati dei punti di riferimento, come pure tutta la letteratura nera: dai lasciti di Martin Luther King e di Malcom X agli studi sul rapporto tra razza,
genere e capitalismo di Angela Davis, alle incitazioni di bell hooks a “disimparare” i lati oppressivi della cultura dominante, fino ai romanzi del premio Nobel Tony Morrison. Le nuove teorie che rileggono l’antropocene includono autori afroamericani: nei programmi di Arti Visive del MIT sono stati decisivi artisti come Renée Green, che a sua volta ha studiato ad Harvard; in quelli di Cornell è stata fondamentale la presenza di Salah Hassan; a Santa Cruz, dove è docente emerita Donna Haraway, Isaac Julien insegna “Storia della Coscienza”. Tra i teorici più citati troviamo Saidiya Hartman della Columbia University, che propone una rilettura della creatività nera attraverso la mescolanza di documentari veri e narrazioni fittizie, nonché sudafricani come Achille Mbembe: nel suo ultimo libro The Earthly Community (2022), propone di riscoprire l’animismo, l’estetica oggettuale e le cosmologie africane come contromisure al flusso depauperante del tecnocapitalismo.
La cultura universitaria ha accompagnato le tendenze dell’arte in due percorsi precisi. Il primo è stato fare dell’arte “altra” un ennesimo oggetto di prestigio, culto, vendite stratosferiche e in definitiva una commodity. Ma il secondo percorso va in direzione contraria: diminuisce proprio la pressione che l’idea occidentale di arte ha sparso nel mondo, fondata sull’oggetto unico, capace di esprimere idee, nato da un individuo dotato di un’intuizione quasi geniale: una tipologia che si è diffusa in Occidente e che l’Occidente ha diffuso nel mondo perché è adatta al sistema economico liberista; e non da oggi, ma da quando nacque il capitalismo commerciale, tra basso Medioevo e Rinascimento. Momenti espositivi come Documenta Fifteen (2022) e Sharjah 2025 hanno mostrato la volontà di tornare indietro e di costruire un’estetica basata sulla cooperazione più che sull’individuo singolo. Tutto è iniziato dopo una presa di coscienza della debolezza occidentale nel contesto di un mondo globalizzato, avvenuta dagli Anni Novanta in poi, contemporanea all’emergere della Cina e dell’India e all’inizio della decadenza americana. È da allora che anche nell’arte si sono aperti spazi di risarcimento per le culture oppresse: già nel 2002 Documenta aveva chiamato il ni-
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geriano Okwui Enwezor (poi alla Biennale nel 2015) che ha veramente cambiato le regole del gioco. È anche merito suo se oggi gli artisti più visibili sono neri, da Yinka Shonibare a Steve McQueen, Theaster Gates, Simone Leigh, Mark Bradford, Precious Okoyomon, John Akomfrah, El Anatsui, Ibrahim Mahama, Carrie Mae Weems, Kerry James Marshall, Isaac Julien (di cui attendiamo una clamorosa prima mondiale a Palazzo Te, dal 4 ottobre) fino a Otobong Nganka (reduce da una personale al MoMA l’estate scorsa). Tutti coloro che ho menzionato, seppure con grandi carenze, sono fautori di una direzione culturale opposta, inevitabilmente, agli sforzi fatti dagli USA, dai tardi Anni Quaranta, perché la supremazia culturale passasse dall’Europa all’America bianca. Non si contemplavano altri continenti rivali. Per quell’operazione si mobilitarono critici del tenore di Clement Greenberg, membri del Congresso e la CIA stessa. Ma intellettuali e artisti non sono più i benvenuti negli USA di oggi: l’elettorato di Trump, bianco e povero, non sopporta CEO danarosi, scienziati distanti e una cultura politica e umanistica in cui a emergere sono valori lontani da quelli del cittadino medio americano; se non altro per il timore ragionevole che gli afroamericani, nel mondo del lavoro, accettino paghe più basse e sopportino comportamenti più violenti, quindi abbassino la retribuzione in termini sia monetari che di rispetto. Considerando che rappresentano solo il 22% della popolazione, la mobilitazione in loro favore a molti sembra eccessiva. Il fatto è che non importa più di quale negritudine si stia parlando: lo Shaulager di Basilea, che Steve McQueen ha trasformato in un luogo di meditazione e rinascita, riempiendolo quest’estate di neon colorati e di un misto di jazz e blues, parla di un’oppressione generale e di una cultura da guarire, da qualsiasi ex impero sia scaturita.
Come andrà a finire? Più che alla fine del sogno americano, vogliamo sperare di essere all’inizio di un sogno che connette, agevola, guarisce. Difficile dirlo mentre, fuori dal mondo dell’arte, si spara ai civili e si affamano i bambini. Ma questo è un altro capitolo, o più probabilmente lo stesso, quello della rivalità tra gruppi etnici, ampliato e portato fuori da musei e università.
L'EREDITç DI "MANHATTAN TRANSFER". UN SECOLO DOPO
MARCELLO FALETRA
Cent’anni fa – 1925 – John Dos Passos pubblicava Manhattan Transfer, ritenuto uno dei capolavori letterari della modernità. Il romanzo è animato da una ventina di figure di varia estrazione sociale, che cercano la propria affermazione individuale sullo sfondo di una metropoli in continua espansione fino all’apocalisse. Per Cesare Pavese, che recensì il racconto nel 1933, tutte queste figure erano varianti biografiche di un’unica persona, accomunati dalla sete di ricchezza. Una metropoli che fagocita chi vi abita (Dos Passos studiò architettura), al punto che uno dei protagonisti – Jimmy Herf – si chiede: “A che serve passare la vita intera a fuggire dalla Città del disastro?”. Cerca di fuggire lontano, ma non sa dove: è intrappolato in un girone dantesco che arde di grattacieli. Il capitalismo aveva trasformato tutte queste esistenze in disastri personali, fino alla cacciata dal porto di Ellis Island (luogo di quarantena degli immigrati) di chi era in odore di comunismo: “Il ruggito dell’Internazionale sull’acqua che svaniva come un so-
Lo sfruttamento intensivo dello spazio urbano non può essere separato dalle condizioni sociali, economiche e ambientali di una città
spiro nella foschia”. In questo romanzo Dos Passos, al modo di un ritmo sincopato, si scaglia contro l’organizzazione industriale della depressione, del razzismo e del fallimento, che va addosso alle vite di donne e uomini, i quali, a loro volta, non hanno altra scelta che il suicidio. Tutte le anomalie descritte nel romanzo prefigurano l’auto-annientamento. In questa metropoli chi vi vive non è diverso dalla bestia da soma. Bestia da consumo. Bestia da ricambiare con altre bestie al momento del loro fallimento sociale. Qui, l’umano (ridotto a biografie allucinate) e il bestiale coincidono. Manhattan Transfer è una specie antelitteram di non-luogo letterario, che si adatta al soggetto, che è a sua volta un non-luogo urbano, dove lo spaesamento individuale è l’unica relazione sociale condivisa da milioni di persone. Dos Passos per certi aspetti anticipa le osservazioni di Rem Koolhaas nel suo Delirius
Skyline di Milano dal Duomo.
Photo Irene Fanizza
New York (1978), quando osserva che la metropoli produce menzogna e delirio. È in questo contesto che l’espressione del primo cittadino di Milano (Sala) deve essere misurata: “Io mi dissocio dalla paura dei grattacieli”, come se fossero dei lego – giocattoli che non saziano mai la volontà di costruire mondi dei bambini. La domanda piuttosto è: cosa rappresentano i grattacieli e a chi servono? Dal piano psicologico – la paura – al piano sociale c’è una differenza sostanziale. Lo sfruttamento intensivo dello spazio urbano non può essere separato dalle condizioni sociali, economiche e ambientali di una città. La paura è l’opposto del coraggio. Il primo cittadino di Milano evidentemente è un uomo coraggioso, è un Robin Hood di queste povere creature malate di gigantismo per colpa di qualche architetto giocherellone, ma felice di aver creato dei Frankenstein di cemento. Se queste escrescenze di cemento verticali servono a qualcosa, è certo che servono il potere finanziario e la speculazione che gli è congenita. D’altra parte, le superfici riflettenti dei grattacieli richiamano le preziose cristallerie delle case principesche, dove al capriccio del disegno architettonico
corrisponde quello del magnate insaziabile e vanitoso. Non servono certo i milanesi come quelli che hanno animato le canzoni di Jannacci e dopo, costretti ad abbandonare la loro città per via dei costi impossibili. Non si tratta di aver paura, ma di subire un sistema di potere che uniforma la storia singolare di una città a quelle di altre di metropoli del mondo. Mettere una città nelle mani di una ristretta minoranza, che gioca liberamente ad accaparrarsi ciò che resta del bene pubblico è forse l’unica paura legittima che sorge spontanea di fronte allo scempio di Milano contrabbandata per “rigenerazione urbana”. Ho vissuto per 12 anni a Milano (1986-1998), casa in Corso Como, studio in via Butti (traversa di viale Jenner). E già la trasformazione della città era in corso. Corso Garibaldi era preda di facoltosi faccendieri che intimidivano gli affittuari delle case di ringhiera per farli sloggiare – quando questi quartieri erano ancora popolari. Oggi l’operazione è compiuta. In una intervista che feci a Tomas Maldonado (1998), tra le altre cose, mi disse che Milano sta adottando il modello statunitense di ciò che oggi si chiama con orgoglio gentrificazione. “Crescita”, “città sostenibile”, “città intelligente”, “boschetti verticali”, “rigenerazione urbana”, tutto questo sciocchezzaio linguistico, questo gergo che fonde economia ed ecologia, sorregge l’impresa in corso della sottrazione dell’ambiente e dello spazio urbano alla fruizione pubblica. Come l’espressione “smart city”, che risale agli Anni Trenta del secolo scorso introdotta da Lewis Mumford, dove avvertiva che in queste parole si nasconde l’inganno: sono esche lanciate nel groviglio di parole che servono a nascondere interessi di parte. Sono parole giustificatrici del maltolto. L’euforia per i grattacieli, la patologia delle torri rappresentano bene l’oscenità urbana condannata alla speculazione finanziaria. E l’accusa di aver “paura” dei grattacieli suona come una intimidazione. Certo, ci vuole molto coraggio per giustificare l’ingiustificabile: la sottrazione del bene comune. E ci vuole molta paura nel sopravvivere in un sistema che da un giorno all’altro ti sbatte la porta in faccia, come accade alle figure di Dos Passos in Manhattan Transfer.
A CHE COSA SERVE L'ARTE CONTEMPORANEA, OGGI?
CHRISTIAN CALIANDRO
In fondo, questa è la domanda più urgente: a che cosa serve l’arte contemporanea, oggi? E se ci pensiamo bene lo era anche prima (negli anni scorsi, nei decenni scorsi), lo è sempre stata: solo che preferivamo non considerarlo. Era più comodo, per l’arte e per il sistema dell’arte, escludere e/o rimuovere la “politica” dall’equazione – riammettendola solo nel caso delle “opere politiche”. La politica, dopo gli Anni Ottanta e la “fine della Storia” e con l’avvento dell’era della globalizzazione (oggi ufficialmente conclusa, mi pare), è stata per lungo tempo per artisti curatori collezionisti galleristi e persino critici – con le eccezioni del caso –qualcosa da tenere a debita distanza; qualcosa che faceva abbastanza a pugni con il cinismo e l’individualismo (la politica infatti ha a che fare non con l’io ma con il noi, con la società, con la comunità; e anche l’economia, del resto…) così di moda in quegli anni sfolgoranti e provocatori. Meglio, molto meglio concentrarsi su questo villaggio di gente ben vestita e in carriera che viaggiava in aereo da un continente all’altro, da un hotel all’altro, da una biennale all’altra, e riflettere sul tema possibile della prossima megacollettiva… Mi spiego meglio.
L’arte contemporanea ha barattato il proprio potere trasformativo con un approccio mercantile
La progressiva deresponsabilizzazione dell’arte si è tradotta, nell’arco degli ultimi trenta-quarant’anni, in un approccio piuttosto ‘decorativo’ alle principali questioni economiche, geopolitiche e sociali della nostra epoca. L’arte contemporanea, nel divenire un “genere” a sé stante (come aveva sottolineato già venticinque anni fa Natalie Heinich), governato da sue logiche interne ed espressione di un sistema sempre più elitario (che non a caso, come nelle migliori giravolte del nostro tempo, ha spesso amato presentarsi come “inclusivo”), ha barattato il proprio potere trasformativo con un approccio mercantile che nella migliore delle ipotesi propugna l’indifferenza e la distanza rispetto ai temi considerati “scomodi”.
Anche il mercato infatti, come la guerra, insieme al profitto di solito segue la legge del più forte. Il contesto che abbiamo alle spalle rappresenta il retroterra di ciò a cui si sta assistendo (o di ciò a cui non si sta assistendo) in questi giorni: il postmodernismo (o meglio, una specifica versione del postmodernismo, e non esattamente quella più progressista), il suo relativismo e la sua sfiducia nei confronti della verità, l’indifferenza come cifra di distinzione e di sofisticazione. Quando poi, a partire dal Covid (che sempre più, a cinque anni di distanza, si presenta come un discrimine, una cesura epocale), la realtà ha presentato il conto – la famosa Storia che doveva essere finita con il crollo del muro di Berlino, e che invece è ripartita nel XXI Secolo seguendo solchi atroci che sembravano svaniti – tutto ciò che l’arte per ora sembra aver fatto è stato sbatterci contro i denti e rinchiudersi nella formula olimpica, perfetta per le anime belle, della denuncia-senza-conseguenze (vale a dire: senza compiere azioni conseguenti). E allora, a che cosa non stiamo assistendo? A un’arte e a una cultura che si assumono il compito, come accaduto in altre epoche, di dissolvere il gioco crudele delle opposte tifoserie e di introdurre, con i propri strumenti e con le proprie modalità, gli anticorpi necessari. Se infatti tutta quest’arte colta
Alessandro Scarabello, Fuga , 2025, olio su tela, 144,5 x 204,2 cm.
Courtesy l'artista.
Photo Leonardo Morfini
e sofisticata e fatta in modo professionale non ci fa riflettere per bene e in maniera logica (consequenziale, appunto) su tutto ciò che ci mostruoso e folle sta accadendo nel mondo, sulle motivazioni e sulle conseguenze non solo a breve ma anche e soprattutto a lungo termine, se cioè non ci permette di pensare a lungo termine, di qui a venti-trenta-cinquant’anni, di valutare impatti e relazioni tra dimensioni, territori, settori anche lontani, ma allora a che cosa serve esattamente? Se non serve a farti considerare, come individuo e come membro di una comunità, ciò che sta accadendo e a farti prendere posizione in merito, a che serve l’arte oggi? A essere scambiata all’interno di una fiera di lusso in una città pulita ma noiosa, per poi essere appesa sul muro di una casa di lusso o rinchiusa a tempo indeterminato in un freeport di lusso, per poi essere rivenduta in un’altra fiera di lusso oppure al proprietario di un’altra casa di lusso sul cui muro essere nuovamente appesa?
Potrebbe saltare fuori (dico solo potrebbe, eh) che tutti quegli anni di biennali e grandi mostre, di grandi sforzi curatoriali e inaugurazioni e aperitivi e cene ed entusiasmi e pubbliche e indubbiamente anche di sacrifici – beh, che siano andati tutto sommato sprecati.
63 ª biennale i nternazionale della Cerami C a d’a rte Contemporanea