
Tutte le intelligenze della Biennale Architettura di Venezia +
Gli intrecci tra storia dell’arte e potere in Corea del Sud +
100 anni di Art Déco. Storie e protagonisti
Tutte le intelligenze della Biennale Architettura di Venezia +
Gli intrecci tra storia dell’arte e potere in Corea del Sud +
100 anni di Art Déco. Storie e protagonisti
Emilia Giorgi (a cura di) Giangavino Pazzola, Arianna Arcara giro d'italia: Aosta 14
Saverio Verini studio visit: Francesca Brugola
Alberto Villa
L’era delle Intelligenze Altre + Giulia Giaume (a cura di) news
Alberto Villa
dietro la copertina Da soli non si fa niente
Intervista all’artista Arcangelo Sassolino 28
Santa Nastro focus palazzo maffei 5 anni di Palazzo Maffei a Verona. Intervista a Vanessa Carlon 30
Dario Moalli libri
Parlano come noi, ma non sono noi: le IA nel nuovo libro di Guido Vetere
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Caterina Angelucci osservatorio non profit Lo spazio Settantaventidue a Milano e l’arte di prossimità
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Ferruccio Giromini
opera sexy I baci forti di Sara Stefanini 37
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Elisabetta Roncati (a cura di) queerspectives
Alireza Shojaian. Nuove logiche del corpo
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Valentina Silvestrini architettura
Un centro culturale in un capolavoro razionalista del comasco + Osservatorio Rigenerazione
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Cristina Masturzo mercato
New York: cosa aspettarsi dalle aste di maggio nella Grande Mela
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Valentina Silvestrini
TUTTE LE INTELLIGENZE DEL PRESENTE. UNA PANORAMICA SULLA
BIENNALE DI ARCHITETTURA DI VENEZIA DEL 2025 Scopriamo la nuova edizione della Biennale Architettura di Carlo Ratti attraverso approfondimenti, interviste ai protagonisti e l’immancabile mappa delle mostre e degli eventi da non perdere a Venezia
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Beatrice Timillero PITTURA, POTERE E SANGUE. LA STRAORDINARIA EPOPEA DELL’ARTE IN COREA DEL SUD
Ripercorriamo la storia recente coreana, per comprendere meglio il successo contemporaneo della sua arte, della sua musica e del suo lifestyle. Una storia che intreccia sangue, cultura e identità
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Livia Montagnoli ART DÉCO. INDAGINE DENTRO AL GUSTO DI UN’EPOCA
L’EXPO di Parigi del 1925 consacra l’Art Déco e la sua capacità di rappresentare al meglio i ruggenti Anni Venti. Ne scopriamo le storie e i protagonisti, in Occidente ma non solo
Alex Urso (a cura di) short novel Sergio Vanello My House
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Santa Nastro (a cura di) talk show
Intelligenze Artificiali e creatività: ma ci sono davvero delle criticità?
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Massimiliano Tonelli Musei ed eventi culturali dovrebbero avere il loro mobility manager
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Angela Vettese L'intelligenza non é prerogativa umana: piante e animali lo dimostrano
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Fabrizio Federici Dallo smartphone allo smartpainting
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Valentina Tanni Tutto é computer. Il tecno-ottimismo e la distrazione della macchina
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Anna Detheridge Architettura: quale futuro?
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Marcello Faletra Disimparare Las Vegas
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Marco Senaldi Deleuze, pittore della filosofia
#46
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Valentina Muzi Tra perdono, redenzione e amore sublime. Maria Maddalena protagonista di una mostra a Treviso
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Fausto Politino
L’acqua e il segreto della grande onda di Hokusai in mostra a Treviso
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Alberto Villa
Le mille e una Vieira da Silva. In mostra a Venezia
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Santa Nastro Tra sesso e solitudine. La prima mostra istituzionale di Tracey Emin a Firenze
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Nicola Davide Angerame Caravaggio 2025, Roma celebra Michelangelo Merisi
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Marta Santacatterina Robert Mapplethorpe: a Venezia va in scena il primo atto di una trilogia
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Valentina Silvestrini
Indagine sulla nuova architettura giapponese al Teatro dell’Architettura Mendrisio, in Svizzera
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Tutte le mostre da vedere nella Roma del Giubileo. La mappa
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Grandi Mostre in Italia in queste settimane
13 MARZO - 19 LUGLIO 2025
Giovedì, Venerdì, Sabato 10:00-12:45 e 13:45-18:00
Riva Antonio Caccia 6a, Lugano
a cura di EMILIA GIORGI
GIANGAVINO PAZZOLA
Curatore CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia [testo]
ARIANNA ARCARA [foto]
Ci sono cose che nessuno ci dirà. E poi ce ne sono altre che non conosciamo e altre ancora che rischiano di non poter essere conosciute. Nessuno mi ha suggerito di andare ad Aosta, una volta solamente sono stato invitato al MAR - Museo archeologico regionale e al MegaMuseo – Area Megalitica di Aosta per visitarne le collezioni e i tesori nascosti nelle pieghe di una città dalla storia plurimillenaria. La visita all’Area Megalitica è stata una sorpresa notevole, poiché essa rappresenta non solo un caso studio eccezionale di musealizzazione di un sito archeologico, ma anche perché racchiude un sito con reperti di oltre 6mila anni di storia e, tra i suoi simili, è il più esteso di Europa al coperto. Una manciata di altre volte mi è capitato di passare del tempo in quelle valli per puro piacere, scoprendone un paesaggio sublime fatto di vallate profonde, ghiacciai imponenti e vette maestose. Altre ancora ho goduto alla vista di interventi contemporanei di Olivo Barbieri, Hamish Fulton, Laura Pugno e tanti altri artisti in interazione con la fragile complessità del contesto per ragionare sulla questione ambientale. Ormai più di dieci anni fa, direi, quando la questione non era abbondantemente dibattuta e presente nell’arena pubblica. Voci che raccontano dell’unicità degli istanti. Un paesaggio che ho conosciuto più attraverso le immagini e l’immaginazione che dall’esperienza diretta. Una città e un territorio che, in un modo o nell’altro, sono collegati all’idea di custodia, svelamento, traduzione della tradizione. Uno degli aspetti che rende l’umanità unica è la capacità di creare e trasmettere storie per attuare nuove visioni del mondo e, in questo senso, Aosta e il suo territorio rappresentano una delle “dodici meraviglie d’Italia”. L’articolo 6 della Costituzione Italiana, infatti, inscrive questa popolazione tra le cosiddette “minoranze linguistiche”, ovvero tra quelle comunità storiche di parlanti che ricorrono e si riconoscono nell’uso di una lingua materna diversa da quella della maggioranza dei parlanti dello Stato di appartenenza. Aosta non è soltanto una città alpina, dunque, ma è anche un territorio-frontiera, dove lingue e identità diverse si stratificano come le rocce delle sue valli, come studiato dal linguista Berruto. In questo angolo di nord-ovest italiano, infatti, il paesaggio umano è disegnato da voci molteplici: il francese, lingua co-ufficiale; il francoprovenzale, ancora vivo nei piccoli comuni delle vallate; e il walser, un tedesco arcaico custodito nelle alte quote della Valle del Lys. Per di più, impostosi nelle forme scritte nel XV secolo, il francese era stato riconosciuto lingua ufficiale nel XVI secolo, arrivando oggi ad essere tutelato per legge dello statuto speciale regionale e vivendo – così – in regime di co-ufficialità con l’italiano. Quando i Savoia passarono la mano, infatti, fu il regime fascista a modificare il profilo linguistico di un’area porosa come questa, strategica e dedita agli scambi di merci e persone, istituendo il ruolo unico per l’italiano come lingua per l’istruzione e l’avvio della politica di italianizzazione della toponomastica.
La Valle d’Aosta è l’unica regione italiana in cui il bilinguismo istituzionale è sancito dalla Costituzione e praticato – almeno formalmente – nella vita pubblica, anche se le ultime rilevazioni dicono che l’italiano è oggi la lingua principale per il 72% dei residenti, mentre l’uso attivo del francese è marginale. Ciò che distingue le minoranze linguistiche di Aosta da quelle di altre regioni italiane – come il friulano, il ladino o il sardo – è il rapporto storicamente istituzionalizzato con la lingua dominante. Anche in questo contesto “protetto”, tuttavia, le lingue minoritarie mostrano segni di fragilità, erose da mutamenti sociali e dall’impatto delle tecnologie. La lingua, qui, non solo trasforma ma è un paesaggio sonoro, una forma di esistenza, una geografia culturale.
di SAVERIO VERINI
La pratica di Francesca Brugola si esprime attraverso gesti minimi: si tratta, talvolta, di opere al limite del mimetico rispetto allo spazio che le accoglie; in altri casi, invece, i lavori hanno una presenza più marcata, ma mai muscolare. Sembra che l’artista desideri instaurare un dialogo con gli ambienti basato sulla seduzione piuttosto che sull’imposizione. È in questa prospettiva che sono da leggere i suoi interventi, che presentano sempre un che di residuale: disegni poggiati a contatto con il pavimento o realizzati direttamente a parete; installazioni luminose che emettono flebili bagliori, simili a lampadine che ci si è dimenticati di spegnere; fogli stampati e attaccati al muro con del nastro adesivo; sculture formate da elementi sottili, che si reggono su un equilibrio incerto. Oggetti prelevati dalla vita di tutti i giorni come una lista della spesa trovano nel lavoro di Brugola un’attivazione magica e misteriosa, a metà tra quotidianità e dimensione onirica. La lettura delle opere non conduce a un solo tema. A unirle, sembra sia piuttosto un’attitudine – un garbo, mi verrebbe da dire – che va al di là di contenuti e significati.
L’interpretazione delle tue opere è tutt’altro che esplicita. È forse questo uno degli aspetti che più mi intriga della tua pratica, che mi pare rinvii sempre a qualcos’altro, qualcosa da cercare magari lontano dall’opera. Mi chiedo se sia effettivamente così o se in realtà i riferimenti siano più concreti di quanto io creda.
Mi verrebbe da dire che la mia pratica sia incerta di costituzione, che si posiziona in bilico tra universi semantici e visivi. Il percorso per arrivare a una forma più o meno definita è spesso molto lungo, e in questo tempo i miei lavori si stratificano di allusioni a questo e quell’altro. Così, io credo, che in tale accumulo prolungato anche i riferimenti più chiari si opacizzino fino a non essere più distinguibili, ed è qui forse che si delinea l’aspetto evasivo che individui. Se dovessi identificare un intento dietro la mia pratica sarebbe quello di innescare in chi osserva una confusione mirata, quella della messinscena e del dubbio. Ti ringrazio molto per questa osservazione, perché mi fa pensare che in una certa misura, accada.
Ho l’impressione che la tua ricerca si nutra di rimandi ad altre discipline. È così?
Alla base della mia ricerca c’è una mania, direi, per il testo, come forma e spazio. Così, spesso, i miei ragionamenti iniziano spontaneamente da testi letterari, poesie, script teatrali, lettere, liste, note. Osservando il testo non tanto, o non solo, nel suo contenuto ma piuttosto nella sua architettura, è fisiologico trovare connessioni tra la mia ricerca e teorie inerenti ambiti come la linguistica, la semiotica e la traduzione. Di queste discipline mi interessa la metodicità e di come io, che non ho alcuna formazione specifica in questo senso, possa attingervi assecondando un certo tipo di
Se dovessi identificare un intento dietro la mia pratica sarebbe quello di innescare in chi osserva una confusione mirata
spontaneità piuttosto che un tentativo di applicazione corretta. In aggiunta, mi sembra di poter dire che anche la sociologia e la filosofia politica definiscono il contesto all’interno di cui la mia ricerca si muove.
Ora però sarei curioso di conoscere i tuoi riferimenti in ambito più strettamente visivo… Ho una lista approssimativa di artiste e artisti che osservo attentamente, la quale si amplia e restringe nel tempo. In ordine sparso: Chiara Fumai, Shilpa Gupta, Myriam Laplante, Liliana Moro, Dora Garcia Lopez, Cally Spooner, Sophie Calle, Monica Bonvicini, Marisa Merz, Sarah Haynes, Iván Argote, Nora Turato, Micheal E. Smith, Claire Fontaine, Tomaso Binga, Mika Rottenberg, David Horvitz, Zara Schuster. E altri nomi sicuramente si aggiungeranno nel tempo.
Alla soglia dei trent’anni e con alle spalle alcune esperienze espositive che si sono progressivamente intensificate tra il 2021 e oggi, come valuti il tuo percorso artistico? Quali sono le difficoltà, le gratificazioni e i compromessi con cui ti misuri?
A oggi definirei il mio percorso artistico misurato. Di certo c’è che, dagli studi in poi, ho preferito occupare spazi riconducibili alla soglia piuttosto che al centro; fare il giro lungo, come si dice. Mi sono spesso ritrovata a dedicare lunghi periodi allo studio, senza mai formalizzare. Questa necessità ha determinato dei rallentamenti nella produzione, per come spesso viene intesa in ottiche più commerciali. La mia difficoltà più grande sta, infatti, nel trovare un compromesso tra le richieste di tempo della ricerca e le richieste della professione d’artista, ovvero far uscire qualcosa dallo studio, ogni tanto. Forse è però anche grazie a questo approccio al lavoro che sono riuscita in questi anni a costruire rapporti e collaborazioni con colleghe e colleghi senza aspettative grandiose, ma solo per la volontà di attivare delle conversazioni, degli spazi, evadendo l’individualismo dell’artista
Francesca Brugola è nata a Carate Brianza nel 1996. Dopo il diploma triennale in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera ottiene nel 2022 un MFA alla Manchester School of Art, Manchester Metropolitan University, con il progetto Unintentional Legacies. Attualmente vive e lavora a Milano. Il suo lavoro è stato esposto in diversi spazi, tra cui: Colli Gallery, Foligno (2025); Cité Internationale des Arts, Parigi (2023); Confort Mental, Parigi (2023); Associazione 21, Lodi (2023), Condominio xyz, Milano (2023); Manchester Art Gallery, Manchester (2022); Galerie Interface, Digione (2019). È stata residente nel 2023 alla Cité Internationale des Arts, Parigi, attraverso il programma Nuovo Grand Tour promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea. È artista selezionata per l’edizione 2025 de il Premio Sparti, Ascoli Piceno, e il Premio San Fedele, Milano. Ha collaborato con Balloon project e curato testi critici in collaborazione con Les Atelier Vortex, Digione; LAMBX e AcidoLattico magazine, Mestre; SpazioLaLepre, Tortoreto Lido, Genealogie del futuro, Milano
Francesca Brugola, Your first lover never dies, polistirolo, fibra di canapa, spilli, 30 x 40 x 4cm, 2022. Ph. Michael Pollard. Courtesy l’artista.
Francesca Brugola, veduta dell’installazione I want to buy you groceries, 2023. Ph. Anna Chiara Calvo, Pierluca Luccarelli, Enrico Zanetti. Courtesy l’artista.
NEI NUMERI PRECEDENTI
#58 Mattia Pajè
#59 Stefania Carlotti
#61 Lucia Cantò
#62 Giovanni de Cataldo
#63 Giulia Poppi
#64 Leonardo Pellicanò
#65 Ambra Castagnetti
#67 Marco Vitale
#68 Paolo Bufalini
#69 Giuliana Rosso
#70 Alessandro Manfrin
#71 Carmela De Falco
#72 Daniele Di Girolamo
#73 Jacopo Martinotti
#74 Anouk Chambaz
#75 Binta Diaw
#76 Clarissa Baldassarri
#77 Luca Ferrero
#78 Francesco Alberico
#79 Ludovica Anversa
#80 Letizia Lucchetti
#81 Bekhbaatar Enkhtur
#82 Federica Di Pietrantonio
#83 Nicola Bizzarri
genio e iper-performativo. Di sicuro è qui che ho trovato i momenti più gratificanti del mio percorso finora.
A quali progetti ti stai dedicando in questo momento?
Sto lavorando a due nuovi progetti che verranno presentati rispettivamente ad Ascoli Piceno e Milano tra maggio e settembre. In entrambi i casi le riflessioni si estendono attorno ai binomi voce-identità, voce-collettività. Per Ascoli sto preparando un’installazione audio che sarà posizionata nelle aree di passaggio dello storico Palazzo dei Capitani. A essere esposte saranno le confessioni di una ghostwriter circa la sua esperienza professionale all’interno del generico, o assoluto, palazzo del potere. È una riflessione attorno al fenomeno del dog whistling in politica (l’abitudine di inserire nel discorso politico delle parole chiave che nascondono un messaggio assai più sottile e velenoso, NdR), ma soprattutto circa il processo attraverso il quale la protagonista riconosce di poter avere un ruolo attivo e destabilizzante all’interno del palazzo. In un’operazione di estrazione della grammatica spaziale del palazzo,
Alla base della mia ricerca c’è una mania, direi, per il testo, come forma e spazio
attraverso azioni ridotte al minimo, la protagonista inizia a decodificare le informazioni di questa specifica architettura, la quale diventa spazio simbolico del linguaggio e del suo sabotaggio.
E invece, cosa stai preparando per Milano?
Per il secondo progetto, che sarà presentato nell’ambito del Premio San Fedele a Milano, la riflessione si sviluppa a partire dal fenomeno acustico dell’eco. Fin dal mito di Eco vi è l’equivoco che la ripetizione delle parole (dell’ultima nel caso della ninfa) di altre persone sia sempre una sentenza e mai una scelta consapevole. Ragionando sulle teorie di Spivak circa il silenziamento sistemico e il reclamo della propria voce da parte della classe subalterna e riferendoci a teorie di Butler e Lorde circa processi di risignificazione linguistica, insieme a Stefano Cavaliero stiamo lavorando a quella che sarà un’installazione audiovisiva. In questo lavoro la ripetizione attiverà processi di distorsione fonologica e di significato che suggeriscono un’autonomia d’azione del linguaggio stesso.
ALBERTO VILLA
Attraversiamo un momento storico caratterizzato dalla profonda ridefinizione di molti concetti chiave dell’esistenza umana, per come l’abbiamo conosciuta finora. Parole come verità, democrazia o identità acquistano e perdono significato costantemente, in una continua partita di tennis tra rivendicazione e smantellamento. Per rimanere a contatto con questa ambiguità, in questo numero di Artribune Magazine si è voluto indagare un altro concetto chiave le cui coordinate, negli anni recenti, stanno affrontando cambiamenti paradigmatici e non indifferenti: l’intelligenza. Un termine talmente vasto da comportare una certa difficoltà di definizione, ma da sempre limitato alla sola esperienza umana. Oggi – dopo decenni di studi zoologici, botanici, informatici, sociali, eccetera – possiamo comprendere come la nostra sia solo una delle tante intelligenze che informano il mondo che abitiamo. Questa pluralità è anche il punto di partenza della Biennale Architettura di Venezia curata da Carlo Ratti, raccontata su queste pagine da Valentina Silvestrini, ma anche delle nuove sfide dell’architettura sottoline-
ate dall’editoriale di Anna Detheridge e della pratica artistica di Arcangelo Sassolino (che firma la copertina e che abbiamo intervistato): una pratica che punta tutto sulla collaborazione di settori disciplinari e produttivi differenti, dimostrando quanto sia vicendevolmente proficuo il legame tra arte e aziende. Nel medesimo spirito, Livia Montagnoli ci accompagna alla scoperta di un eminente esempio che il Novecento ci ha lasciato, in merito alla collaborazione fra arte e industria: l’Art Déco, che quest’anno compie esattamente un secolo e di cui indaghiamo la portata di movimento internazionale. Per restare all’estero, e in particolare in Estremo Oriente, Beatrice Timillero conduce un affondo nel rapporto tra arte e potere in Corea del Sud, rileggendo la complessa storia del Paese e dei suoi movimenti culturali per comprenderne il successo globale contemporaneo. Non si può parlare di intelligenze nel 2025 senza citare l’opposizione sempre più marcata tra natura e tecnologia: se da un lato, come spiega Angela Vettese nel suo editoriale, gli artisti sono sempre più coscienti delle capacità intelligenti di piante, animali e funghi, dall’altro l’avanzamento
La storia del Cavallo Colossale di Canova fatto a pezzi e abbandonato per 50 anni: sarà restaurato
CLAUDIA GIRAUD L Possagno e Bassano del Grappa sono le due città custodi del più importante patrimonio artistico al mondo di Antonio Canova (Possagno, 1757–Venezia, 1822). Ora, insieme a Padova, sono teatro di mostre e importanti restauri. Come quello che vedrà il Cavallo Colossale di Canova tornare a risplendere nella sua interezza, dopo oltre 50 anni di oblio: fatto a pezzi e abbandonato nei depositi del Museo Civico di Bassano del Grappa, sarà presto ricomposto, restaurato e qui ricollocato. Realizzato tra il 1819 e il 1821 come modello in gesso per una scultura equestre in bronzo per il re di Napoli Ferdinando I di Borbone, il Cavallo fu completato per la sola parte dell’animale a causa della sopraggiunta morte dello scultore. Nel 1849 fu poi donato al Museo di Bassano del Grappa dal fratello Giambattista Sartori Canova. Sopravvissuta ai bombardamenti del 1945, l’opera fu poi sezionata in varie parti per trovarle altra collocazione. Un proposito disatteso che ha visto i numerosi frammenti giacere, per oltre 50 anni, nei depositi: solo la testa è rimasta nel percorso espositivo del museo. Tutte le fasi del restauro saranno documentate in un video e sarà possibile partecipare a delle dirette streaming sul sito del museo, dove tutti gli interessati potranno assistere a due fasi salienti e particolarmente significative dei lavori.
tecnico nell’ambito dell’intelligenza artificiale sembra essere esponenziale – e in molti casi mette in luce, come fa anche Valentina Tanni nel suo contributo, una demenza ingenuamente tecno-ottimista piuttosto preoccupante, soprattutto se proveniente dalle alte sfere. Di intelligenza artificiale (e del suo rapporto con la creatività) si parla nel Talk Show condotto da Santa Nastro, ma anche nel nuovo libro di Guido Vetere, recensito da Dario Moalli. In molti ancora dubitano su quanto effettivamente possiamo definire “intelligenti” i modelli attuali di IA, ma il tecnocapitalismo sembra esserne convinto: la progressiva “macchinificazione” punta, dopotutto, ad un altro sistema di intelligenza, che Nick Bostrom (vate di quanti oggi si dicono transumanisti) aveva definito “Superintelligenza”. Le pagine seguenti sono un invito, più che a osservare l’intelligenza da un punto di vista umano (o superumano), a considerare la rete di possibilità e di condivisione che ci circonda: non si tratta di ignorare o condannare uno sviluppo tecnologico, ma di rilevarne i benefici anche etici mediante le dinamiche sempre vive – e sempre più intelligenti – della materia e degli affetti.
Multa da 20 milioni di euro per la biglietteria del Colosseo
LIVIA MONTAGNOLI L L’epopea che negli ultimi anni ha messo in discussione il servizio di biglietteria del Parco Archeologico del Colosseo si è conclusa di recente nel più rumoroso dei modi, con la multa da quasi 20 milioni di euro comminata dall’Antitrust alla Società Cooperativa Culture (CoopCulture) e agli operatori turistici Tiqets International BV, GetYourGuide Deutschland GmbH, Walks LLC, Italy With Family S.r.l., City Wonders Limited e Musement S.p.A. È questo l’esito di un’istruttoria avviata nel luglio 2023 per indagare sull’impossibilità di acquistare online i biglietti per l’ingresso a uno dei siti archeologici più visitati del mondo. CoopCulture il servizio l’ha gestito dal 1997 al 2024 e ora dovrà versare 7 milioni di euro per aver contribuito “in piena consapevolezza”, ad alimentare la grave e prolungata indisponibilità dei biglietti al prezzo base. La piaga del bagarinaggio ha infatti tenuto a lungo sotto scacco il Parco, a fronte della perenne impossibilità di procurarsi per vie lecite – e al giusto prezzo – un biglietto online. Per contrastare il fenomeno, nell’autunno del 2023 il Ministero della Cultura ha introdotto un biglietto d’ingresso nominale, ma la salata sanzione pecuniaria imposta a CoopCulture, cui si contesta di non aver adottato iniziative adeguate per far fronte all’accaparramento dei titoli di accesso con metodi automatizzati, fa riferimento ad anni di malagestione.
DIRETTORE
Massimiliano Tonelli
DIREZIONE
Santa Nastro [vicedirettrice]
Giulia Giaume [caporedattrice]
COORDINAMENTO MAGAZINE
Alberto Villa
Valentina Muzi [Grandi Mostre]
REDAZIONE
Caterina Angelucci | Irene Fanizza
Claudia Giraud | Livia Montagnoli
Ludovica Palmieri | Roberta Pisa
Emma Sedini | Valentina Silvestrini Alex Urso
PROGETTI SPECIALI
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COPERTINA ARTRIBUNE
Arcangelo Sassolino, No memory without loss (particolare), 2025. Courtesy the artist and Galleria Continua. Photo Arcangelo Sassolino Studio
COPERTINA GRANDI MOSTRE
Domenico Tintoretto, Maria Maddalena penitente, ante 1602, olio su tela, Roma, Musei Capitolini – Pinacoteca Capitolina
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DIRETTORE RESPONSABILE Paolo Cuccia
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Chiuso in redazione il 24 aprile 2025
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ITINERARIO NELLA NAPOLI DI PARCHI E GIARDINI STORICI
Museo e Real Bosco di Capodimonte
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Parco di Villa Floridiana
Piazza Vanvitelli, 33
Parco Virgiliano
Viale Virgilio
Villa Rosebery
Via Ferdinando Russo, 26
Orto Botanico Via Foria, 223
Il Giardino di Babuk
Via Giuseppe Piazzi, 55
Palazzo Venezia
Via Benedetto Croce, 19
Giardini di Palazzo Reale
Via San Carlo, 13
Villa Comunale di Napoli
Viale Anton Dohrn
Parco Vergiliano a Piedigrotta
Salita della Grotta, 20
Grandi riaperture di primavera. Questi musei e gallerie dall’Italia e dal mondo sono stati restituiti al pubblico dopo restauri, riallestimenti e ripensamenti
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LA FRICK COLLECTION DI NEW YORK
La storica residenza del magnate Henry Clay Frick, musealizzata negli Anni Trenta, è stata chiusa al pubblico negli ultimi cinque anni, per il restyling affidato ad Annabelle Selldorf. Il 17 aprile scorso ha riaperto con nuovi spazi, tra cui un auditorium e una caffetteria, e un allestimento inedito: era una delle riaperture più attese nel contesto culturale newyorkese (insieme all’ampliamento del New Museum, che sarà inaugurato in autunno).
IL MUSEO TONINO GUERRA DI SANTARCANGELO DI ROMAGNA
Chiuso dal 2020 per problemi strutturali e difficoltà burocratiche, il museo che espone sculture, dipinti e scritti del poeta e umanista romagnolo ha inaugurato con un nuovo allestimento nell’anniversario della sua scomparsa. Il primo passo per tornare a valorizzare i luoghi di uno tra i più prolifici e felici poeti, scrittori e sceneggiatori del Novecento (sono 120 i film da lui sceneggiati, da L’Avventura di Antonioni ad Amarcord di Fellini).
IL MUSEO CORREALE DI SORRENTO
Dopo aver festeggiato nel 2024 ha il suo centenario, il polo d’arte di Sorrento riapre le porte al pubblico dopo la pausa invernale annunciando le novità della stagione primaverile ed estiva. Articolato su cinque piani, il Museo vanta una sezione archeologica, una biblioteca, la Sala Fondatori, il piano nobiliare, la Sala degli Specchi, la Stanza delle Meraviglie, un secondo piano conosciuto come Piano Blu (ora riallestito), e un terzo dove è ospitata un’ampia collezione di porcellane europee e maioliche.
IL MUSEO NAVALE DI VENEZIA
Inclusivo, rinnovato e con un’offerta culturale variegata: così si presenta il nuovo MUNAV – Museo Storico Navale di Venezia, nato nel 1923 per custodire e divulgare la storia della Repubblica Serenissima. Di proprietà del Ministero della Difesa, il polo vanta 6mila mq, suddivisi in 42 sale su 5 piani, comprendendo anche il Padiglione delle Navi e il Sommergibile Enrico Dandolo all’Arsenale.
Sulla copertina di questo Artribune Magazine c’è una delle ultimissime opere di un maestro dell’arte contemporanea italiana. Arcangelo Sassolino ha aperto per noi le porte del suo studio-fabbrica, che presto diventerà anche un centro di ricerca e di residenze
Chiunque abbia mai visto un’opera di Arcangelo Sassolino (Vicenza, 1967) sa quanto siano importanti per lui i concetti di tensione, forza, limite. E può solo immaginare invece il ruolo primario dell’errore nel processo che porta, poi, a un’opera finita. Un processo che è fatto solo apparentemente di distruzione, ma che si rivela poi continua metamorfosi. Certo, le bottiglie di vetro verde sparate contro un muro da un apposito fucile a nitrogeno compresso (Afasia, 2008) esplodono in mille frammenti, ma si trasformano in colore puro e brillante, che si accumula sul pavimento. E si trasformano in tensione, quella di un colpo di fucile che non sai quando sparerà di nuovo.
Quello di Arcangelo Sassolino è un approccio alchemico ma anche industriale: la scienza dei materiali è presa in considerazione come strumento poetico e tecnologico insieme, che fa proprie le istanze poveriste e le innova, attraverso una ricerca mai finita. Siamo stati nel suo grande studio a Trissino, in provincia di Vicenza, all’interno di un’ex filanda. Un luogo che Sassolino sta trasformando non solo nel suo ambiente di lavoro, ma anche in un centro di ricerca, con l’aiuto dei suoi collaboratori: RARE – Research Art Regeneration and Ecology (sviluppato da Jacopo Ferma, Cristiano Focacci Menchini e David Melis) si configura come un progetto di residenze d’artista e di ricerca dedicato all’ecologia e alla sostenibilità, e aprirà le sue porte il 16 maggio con la prima mostra, Seta. Nel frattempo, la Filanda è il luogo in cui presse idrauliche schiacciano tronchi monumentali, morse strettissime comprimono pneumatici e lastre di vetro, bottiglie e vasi sorreggono massi di granito. A volte anche rompendosi.
Dopo un tour dei suoi lavori storici difficile da dimenticare, ci sediamo attorno a un tavolo. Al centro c’è un catalogo ragionato di Rothko. E qui iniziamo a parlare delle sue opere più recenti (gli oli), dei suoi prossimi appuntamenti espositivi (una mostra personale da Galleria Continua a San Gimignano, una in Tasmania, la partecipazione ad Unlimited di Art Basel) e di come tra “creazione” e “collaborazione” ci sia ben più di una semplice rima.
Partiamo proprio dalla copertina: il lavoro sugli oli che stai portando avanti recentemente è decisamente peculiare e originale all’interno del tuo corpus, a partire dalla predominanza di un colore estremamente materico.
Nella mia testa c’era la questione dei colori. Quando entri nel mondo dei colori le possibilità sono infinite, e il nostro amico Rothko qui ne sa qualcosa. Questa serie di lavori è iniziata due anni fa: avevo fatto una mostra qui a Vicenza, dove avevo esposto un disco con olio rosso e ha portato fortuna. Inizialmente ero un po’ scettico nell’esporre nella mia città, ma è andato molto bene.
Alla Biennale d’Arti Islamiche di Gedda in Arabia Saudita hai esposto un disco monumentale (8 metri di diametro), con un olio nero che – dato il contesto – ricorda molto il petrolio. Ci racconti di più?
Ho sempre bisogno di portare al limite le cose, senza mai risolverle. La risoluzione è la chiusura ad un futuro di altre possibilità
Esatto, dopo la mostra a Vicenza è arrivata la delegazione di curatori da Gedda, hanno visto queste sperimentazioni e abbiamo capito che era la strada giusta. Ovviamente c’è il discorso del petrolio – con tutte le sue contraddizioni –, ma anche del rapporto tra bianco e nero nella cultura saudita.
Come è nata l’idea di lavorare sugli oli?
Questa, come tutte le idee, è nata da un bocciolo. A volte si richiudono, a volte fioriscono. E quando fioriscono è straordinario vedere come una cosa diventi altro, e poi altro ancora, e ti apra possibilità che all’inizio erano oscure e nascoste in chissà quali meandri dell’inconscio.
a sinistra: Arcangelo Sassolino. Photo Ginevra Formentini in alto: Arcangelo Sassolino, Marcus , 2018, Arcangelo Sassolino. Photo Pamela Randon
Una cosa che mi affascina degli oli è proprio questo movimento, il modo in cui la materia continua a compenetrarsi e a modificarsi. Per questo motivo sento che è il momento per me di lavorare sui dischi: permettono una grande immaginazione nella sperimentazione sui colori, sulla materia. Ma poi bisogna sempre venire a patti con un principio di realtà.
Quali difficoltà riscontri?
Quando inizi ad addentrarti in una selva di materiali nuovi, o di nuovi approcci alla scultura, il processo è fatto di errori e tentativi falliti. Ho sempre bisogno di portare al limite le cose, senza mai risolverle. La risoluzione è la chiusura ad un futuro di altre possibilità. Una difficoltà è proprio quella di porre un freno – anche momentaneo – alla ricerca, per rispettare le scadenze e le esigenze di esposizione.
C’è una soluzione?
Non lo so, ma ho notato che è importante per me, e prima in un certo senso era anche un freno mentale, diventare il più scientifici possibili, e quindi collaborare, avvalersi di capacità esterne. Da soli non si fa niente.
Ad esempio?
Per il progetto dei dischi sto lavorando con tre ingegneri chimici, con cui abbiamo realizzato oli ad hoc, che hanno il giusto grado di viscosità per rispondere in un determinato modo all’equilibrio di forze (centrifuga e gravitazionale) che la rotazione e la posizione verticale del disco comportano. E poi tante questioni di fisica dei fluidi con cui non voglio tediarti.
Il tuo approccio collaborativo alla tua pratica artistica è molto in linea con questo numero di Artribune, dedicato alle “Intelligenze Altre”. Raccontaci di più.
Una cosa molto importante per me è riuscire a circondarmi di intelligenze e competenze diverse, di persone che anche di fronte all’impossibile non si fermano. Senza il lavoro di ingegneri, tecnici e aziende non sarei mai riuscito a fare quello che sto facendo. Ci sono delle tecniche che appaiono nella storia dell’arte e che per uno, due o tre secoli sono il non plus ultra. Cose che splendono e poi affondano nella storia, e diventano eterne. La tecnologia, l’arte, la scienza, vanno sempre di pari passo, e la migliore tecnologia in questo momento storico sono le aziende. Perché hanno un know-how specializzatissimo che prosegue da decenni. Ignorare questo tipo di conoscenza significa essere ciechi, almeno per chi fa un lavoro come il mio.
E quello tra azienda e artista è un rapporto proficuo da entrambi i lati.
A Vicenza c’è un grande imprenditore – Lino Dainese – che porta avanti una ricerca straordinaria su tanti settori della tecnologia, e insiste nel portare l’arte dentro l’azienda e viceversa. Dice sempre che tanto l’arte quanto l’azienda si basano sulla ricerca, e una contaminazione non può che essere valorizzante per entrambe. RARE, il centro di ricerca che stiamo costruendo qui, vive della collaborazione con le imprese.
Hai in cantiere una mostra personale in Tasmania e so che porterai la grande installazione che avevi presentato al Padiglione Malta della Biennale di Venezia del 2022, dove gocce di acciaio fuso cadevano dal soffitto in vasche d’acqua poste sul pavimento.
Ti racconto un aneddoto in proposito: con l’ingegnere e lo staff tecnico della Biennale di Venezia, una volta che aveva capito che eravamo seri, siamo diventati anche amici. Al che dissi loro: “Sentite ragazzi, a fine Biennale dovete lasciarmi provare il lavoro nella versione che avevo immaginato inizialmente”. Quindi abbiamo tolto le vasche dell’acqua e per mezz’ora abbiamo fatto colare le gocce di acciaio fuso direttamente sul pavimento. Immagina una pioggia di metallo incandescente che ogni volta che tocca terra esplode fragorosamente in uno spettacolo di scintille…
Senza
il lavoro di ingegneri, tecnici e aziende non sarei
mai riuscito a fare quello che sto facendo
E non te l’hanno fatto fare perché sarebbe stato un tentato omicidio al pubblico o…?
Forse, ma anche perché il progetto era partito in un altro modo e poi sarebbe stato necessario uno spazio molto più grande rispetto a quello che il padiglione poteva offrire. Per la versione che porteremo in Australia probabilmente riusciremo a realizzare una installazione più vicina a quello che ti dicevo.
Puoi dirci di più sulla tua prossima mostra australiana?
Oltre a questa nuova versione del lavoro che abbiamo portato in Biennale, ci saranno gli oli, e poi alcuni “classiconi” del mio lavoro, legni australiani che vengono divelti, eccetera. La mostra sarà inaugurata il 6
in alto: Arcangelo Sassolino, No memory without loss , 2025. Courtesy the artist and Galleria Continua. Photo Arcangelo Sassolino Studio a destra: Arcangelo Sassolino, Violenza casuale , 2008–2025, Photo Pamela Randon
giugno al MONA – Museum of Old and New Art di Berriedale, in Tasmania. Verrai?
Magari… Insomma, una mostra personale a San Gimignano attualmente in corso, una in Tasmania di prossima apertura, la partecipazione ad Art Unlimited e altri progetti che ancora non si possono dire. Mi pare di capire che sia un anno piuttosto impegnato.
Sì è una di quelle fasi in cui si raccoglie molto di quanto seminato in lunghi periodi di studio, di ricerca, di lavoro. Per quanto emozionante però, ogni tanto mi piace anche avere momenti più rilassati, che poi sono quelli in cui la creatività esplode…
Una voce dietro di noi ci interrompe: “Arcangelo… posso disturbarti un secondo?”.
Ci giriamo, è uno dei collaboratori di Sassolino: “Dimmi pure Marco”, risponde lui.
“Senti, siccome sto facendo delle prove con il sasso e la bottiglia, ma abbiamo avuto dei ‘cadaveri’, volevo chiederti se procedere ancora”.
“Mettiamo un’altra bottiglia!”
…la bottiglia ha ceduto.
I nuovi spazi aperti in Italia in questi mesi
THEIA Gallery - Ancona
I tagli del Governo alla cultura penalizzano anche Biennale, Triennale di Milano e Quadriennale di Roma
La nuova “home gallery” di Massimo Baldini inaugura con una collezione di scatti sul tema dell’abitare nel nostro Paese.
SMAC San Marco Art Center
Venezia
Procuratie Vecchie apre il nuovo centro d’arti visive contemporanee, diretto da Anna Bursaux, David Gramazio e David Hrakovic.
Galleria Nazionale
della Liguria - Genova
Ospitata finora a Palazzo Spinola di Pellicceria, la collezione sarà trasferita nel cinquecentesco Palazzo Raggio.
MUDY - Fornaci di Barga
Il nuovo museo di Dynamo Camp apre negli spazi di un edificio razionalista in Garfagnana, dove è ospitata parte della ricca collezione prodotta dalla Dynamo Art Factory.
Fondazione LAM per le Arti
Contemporanee - Cesena
La non profit voluta da Loretta Amadori punta a promuovere i linguaggi contemporanei con un programma interdisciplinare.
Centro delle Arti di Lucca
Con la nascita della Fondazione
Centro delle Arti Lucca sarà riqualificato lo stabile già sede del Cinema Nazionale e del dopolavoro a firma di Too Studio.
Spazio Opis – Galleria d’Arte A Palazzo Frankestein – Soderini, nel cuore della Capitale, l’antico incontra e si confronta con le arti contemporanee.
Mario Nanni Scholé - Bologna Un luogo di formazione e di scambio, ideata e diretta dallo scrittore della luce Mario Nanni.
SARP Sicily Artist in Residence Program - Linguaglossa SARP è la residenza d’artista all’interno del Parco dell’Etna che, dal 4 aprile 2025, è anche una galleria.
Nicoletta Fiorucci Foundation Venezia
Nell’edificio che fu del pittore Ettore Tito a Dorsoduro si valorizzano artisti contemporanei attraverso residenze e laboratori. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
LIVIA MONTAGNOLI L Nel 2025, a seguito dei cospicui tagli approvati con l’ultima Legge di Bilancio, il Ministero della Cultura potrà amministrare meno risorse economiche in favore di enti, fondazioni e associazioni culturali che normalmente finanzia. A farne le spese sono, tra gli altri, la Biennale di Venezia, la Triennale di Milano, la Quadriennale di Roma. A fronte di una diminuzione lampante delle risorse, si è infatti deciso di ripartire il decremento, pari a quasi 1 milione e 800 mila euro, distribuendolo “nella stessa misura percentuale su ogni singolo intervento previsto nella ripartizione”. Con la Triennale decurtata di quasi 150mila euro, la Quadriennale di circa 50mila euro; mentre la Fondazione Biennale di Venezia, che nel 2024 aveva ricevuto dal Ministero quasi 16 milioni di euro – l’importo nettamente più alto tra i quelli corrisposti ai soggetti beneficiari – dovrà fare i conti, quest’anno, con un ammanco di circa 800mila euro. E la polemica divampa per la scelta di favorire, contestualmente, il Festival delle Città Identitarie – che per statuto si propone di promuovere “tutto ciò che concerne l’italianità e il Made in Italy”, in linea con le politiche culturali del governo Meloni – stanziando per la sua organizzazione mezzo milione di euro.
dello Scalo San Lorenzo
Rendering del Social Hub allo Scalo San Lorenzo
LIVIA MONTAGNOLI L Fondata sul modello dell’ospitalità ibrida, la filosofia del gruppo olandese The Social Hub prevede anche di avere un impatto positivo sullo spazio urbano, a vantaggio della comunità. E l’ex Dogana di San Lorenzo, a Roma, si trasforma in un parco aperto al pubblico, con bar, ristoranti, eventi, servizi e spazi da condividere. Il debutto nella Capitale del gruppo con la sua prima struttura alberghiera è frutto, infatti, di un’operazione di più ampia rigenerazione che si prefigge di sottrarre all’abbandono lo scalo merci ferroviario in disuso sorto alle spalle di Porta Maggiore. Alla base c’è un investimento da 114 milioni di euro, e un progetto firmato da Matteo Fantoni Architetti che si articola in due edifici collegati da un parco concepito dal paesaggista Antonio Perazzi per connettere il patrimonio architettonico industriale con le nuove strutture. Il parco, sviluppato su due ettari e mezzo di terreno, ospita oltre 300 piante e una tettoia che si trasformerà in piazza coperta.
Allo stadio della Juve di Torino arriva il monumento per i 40 anni della strage dell’Heysel
GIULIA GIAUME L È la sera del 29 maggio 1985 quando, per la finale della Coppa Campioni 1985 Juventus-Liverpool, migliaia di tifosi da tutta Europa si riversano nello stadio Heysel di Bruxelles. Uno stadio troppo pieno, un muro instabile e la carica incontenibile dei tifosi inglesi portano alla tragedia: muoiono 39 tifosi, di cui 32 italiani, e si riportano 600 feriti. Quest’anno, 40 anni dopo, la Juventus ha deciso di far realizzare a poca distanza dal suo stadio torinese un’opera commemorativa e simbolica, chiamata Verso Altrove. Il progetto, affidato da Juventus a Luca Beatrice, sarà realizzato dall’artista Luca Vitone: l’opera consisterà in una pedana di 65 metri a forma di spirale centrifuga, alta circa tre metri da terra: la rampa, percorribile a piedi e accessibile a persone con disabilità, conduce a un cannocchiale con le lenti montate al contrario, che allontana il fuoco sull’orizzonte.
LIVIA MONTAGNOLI L Progettato dall’architetto Mario Cucinella prendendo ispirazione dalla Città Ideale del Rinascimento, il padiglione italiano a Expo Osaka 2025, inaugurato lo scorso 13 aprile, prevede un percorso tra arte, design e tecnologia. L’esposizione universale ospitata in Giappone resterà aperta fino al 13 ottobre, e chi visiterà il padiglione Italia, modulato per rappresentare il motto “L’Arte Rigenera la Vita”, potrà scoprire anche opere d’arte classiche e contemporanee, oltre a fruire di musica e performance quotidiane dal vivo. All’ingresso, il porticato che rivela un teatro in legno, immersivo e multisensoriale, si apre sulla piazza che ospita la statua dell’Atlante Farnese, mentre lo spazio espositivo centrale ha accolto l’Apparato circolatorio di Jago, quattro disegni del Codice Atlantico di Leonardo da Vinci e la Deposizione di Cristo di Caravaggio. Sul tetto, un Giardino all’italiana rielabora il labirinto di antica memoria.
POSTART: IL PROGETTO CULTURALE DI THE WOW SIDE CHE
EMMA SEDINI L PostArt è un invito a riflettere sul fabbisogno quotidiano non come un atto fine a sé stesso, ma come una forma critica di consumo. È un progetto che trasforma il centro commerciale – tradizionalmente visto come un luogo del consumo – in uno spazio di arte e cultura, dove il consumatore può essere anche pubblico, fruitore e co-creatore di esperienze culturali. L’iniziativa, prima in Italia, è promossa da The Wow Side shopping centre di Fiumicino, gestito da Generali Real Estate, che riqualifica la concezione e l’utilizzo degli spazi collettivi cittadini, conferendo loro una nuova vita e un nuovo significato. L’obiettivo è aggiungere una componente culturale alle ormai quasi automatiche esperienze di acquisto, creando un contesto che vada oltre il consumo e si apra a un confronto profondo con la cultura contemporanea. Laddove i centri commerciali sono stati per anni semplici contenitori funzionali, The Wow Side dà voce agli artisti emergenti, diventando una fucina di idee in cui i giovani creativi, con le loro riflessioni, contribuiscono alla riqualificazione urbana e sociale del territorio.
L’ARTE ENTRA NEL
CENTRO COMMERCIALE
Con PostArt, The Wow Side di Fiumicino si apre all’arte contemporanea, proponendo una doppia iniziativa che vedrà presto la luce nei prossimi mesi. L’evento si rivolge prima di tutto a tutti gli artisti – singolarmente o in gruppo – studenti delle accademie di belle arti, invitati a partecipare a una residenza artistica di tre giorni che si svolgerà proprio all’interno del grande magazzino. I selezionati avranno così la possibilità di realizzare il proprio progetto candidato, che rimarrà poi in esposi-
zione. Accanto a questo, un’altra sezione dell’iniziativa è dedicata ai giovani creativi, invitati a presentare lavori che saranno esposti in una mostra collettiva. Il tema della call? Approcciare il consumo come una forma critica e consapevole del nostro fabbisogno, proponendo espressioni artistiche visive e sonore che esplorano il rapporto tra arte e consumismo.
CON L’ARTE E I SUONI
Al cuore del progetto c’è la volontà di interrogarsi sul concetto di consumo, inteso non solo come un atto pratico ma come un valore, un comportamento da analizzare e reinterpretare. In questo, PostArt si ispira a movimenti artistici come la Pop Art, che ha trasformato oggetti di consumo come simboli di critica sociale. Come Andy Warhol ha reso iconici i barattoli di zuppa Campbell e le scatole di detersivo Brillo, PostArt invita gli artisti a riflettere sul consumo come fenomeno della contemporaneità, esplorando il suo lato critico e consapevole. Il consumo, infatti, si è evoluto in una forma ossessiva, spesso intersecandosi con il lusso, il fast fashion e l’accumulo materiale. Ma qui, l’invito è a creare opere che non siano feticizzate, ma libere di trasformarsi, evolversi e persino essere vandalizzate. Questo spirito di libertà si estende anche al di fuori delle mura del centro commerciale, dove l’arte diventa simbolo di riqualificazione sociale e culturale, ispirando la crescita dinamica delle città attraverso la visione dei giovani artisti e il loro confronto con i temi sociali di oggi. Per quanto riguarda i media artistici, non si parla solo di pittura. La call è rivolta anche a studenti dei Conservatori, sound artist e musicisti elettronici, chiamati a riflettere sul ruolo del suono nel paesaggio urbano. L’idea è arricchire il centro commerciale di nuovi significati, utilizzando il suono come strumento per esplorare la relazione tra arte, consumo e società, mettendo in discussione le convenzioni e promuovendo una riflessione più consapevole sul nostro ruolo nel consumismo contemporaneo.
La residenza artistica è prevista per i giorni dal 6 all’8 giugno e il vernissage si terrà il 7 giugno. Tutti coloro che sono interessati a presentare i propri lavori possono inviare i progetti entro l’11 Maggio alle ore 12 a: direzione@post-art.eu”.
Transizione digitale per la Collezione Farnesina del Ministero degli Esteri: online centinaia di opere
LIVIA MONTAGNOLI L Nata come espressione di soft power per favorire la politica culturale nazionale nel 1999, la Collezione Farnesina del Ministero degli Esteri si deve all’intuizione dell’allora Segretario Generale del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, l’Ambasciatore Umberto Vattani, e al contributo del critico d’arte Maurizio Calvesi. La scommessa fu quella di puntare sull’arte contemporanea per presentare il bello e il buono dell’Italia al mondo, affidandole il ruolo di testimonianza attiva e dinamica della produzione creativa del Paese. Negli ultimi 25 anni, la Collezione è cresciuta e si è aggiornata costantemente (con la formula del comodato d’uso gratuito), contemplando diversi mezzi espressivi – comprese fotografia e grafica – fino a contare oltre 700 opere, spesso oggetto di prestiti in favore di importanti istituzioni internazionali e al centro di iniziative itineranti, che permettono di scoprirla presso gli Istituti Italiani di Cultura del mondo. Ora la Collezione Farnesina si mostra al mondo in chiave sempre più accessibile grazie all’alleanza con Google Arts & Culture (progetto di divulgazione artistica dell’azienda statunitense) attraverso la digitalizzazione di 400 opere, fruibili da tutti, gratuitamente, online, o sull’app Google Arts & Culture, disponibile per Android e iOS.
LIVIA MONTAGNOLI L Quando a Venezia si parla di dipinti murali sopravvissuti a secoli di esposizione alla salsedine e ad agenti atmosferici non propriamente alleati della conservazione è sempre una buona notizia. Tanto più che la qualità della porzione dipinta “a secco” sulla facciata di un palazzo in Riva del Ferro, dirimpetto al ponte di Rialto, con buona probabilità riconducibile alla grande stagione decorativa del Cinquecento, si annuncia di indubbia caratura. L’opera è venuta alla luce sotto diversi strati di intonaco durante le operazioni di descialbo della facciata di quello che oggi è l’Hotel Rialto, a cura della restauratrice Martina Serafin, e subito segnalato ai funzionari della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Venezia.
in alto: Palazzo della Farnesina, Roma. Photo Giorgio Benni in basso: Dipinto murale, Venezia. Courtesy Soprintendenza ABAP per il Comune di Venezia e Laguna
Il Museo di Palazzo Maffei a Verona celebra cinque anni di vita. Anni in cui il progetto di museo voluto dall’imprenditore Luigi Carlon per la sua città, Verona, si è sviluppato in maniera sempre più strutturata. Con nuove acquisizioni, che hanno arricchito il corpus già molto ampio di opere in dotazione (oltre 650 ormai) spaziando su 4mila anni di storia antica e contemporanea. Ma le magnifiche ossessioni della famiglia Carlon non si fermano all’esposizione della collezione, offerta al pubblico grazie al progetto di allestimento museografico realizzato da Gabriella Belli e resa accessibile grazie a un ricco programma di incontri, didattica, progetti, e addirittura audioguide pensate sia per adulti che per bambini. Ne abbiamo parlato con Vanessa Carlon, direttrice e Vicepresidente di Palazzo Maffei in questa intervista.
Cinque anni fa nasceva Palazzo Maffei. Quali sono i presupposti e gli obiettivi con i quali avete cominciato questa avventura?
L’idea è nata in realtà 25 anni fa. Mio padre iniziava a pensare al futuro della collezione e il suo desiderio era quello di mantenerla unita, condividendo con mia madre e noi due sorelle il progetto di renderla accessibile al pubblico. Abbiamo quindi cominciato a cercare un luogo che diventasse la casa della collezione e dopo aver valutato diverse possibilità abbiamo acquisito Palazzo Maffei, luogo centrale, denso di storia e simbolo della città, che è risultato essere la casa ideale per il progetto che avevamo in mente. Abbiamo quindi spostato in tre mattine di novembre del 2019, all’alba, la collezione da casa dei miei genitori a qui.
Come è il pubblico di Palazzo Maffei? Verona è una città turistica, anche grazie alla vicinanza del Lago di Garda. Riceviamo quindi molti turisti, soprattutto italiani, anche se negli ultimi anni abbiamo acquisito una significativa percentuale di persone provenienti dall’estero. Poi, grazie alla programmazione, alla didattica, ai molti progetti che facciamo, lavoriamo per offrire alla comunità, alla città di Verona, un luogo che sia la loro casa e dove tornare.
Con i giovani lavorate moltissimo. Sì, è il nostro fiore all’occhiello. Anche grazie al sostegno di Gianluca Rana del Pastificio Rana sono oltre 20mila (in tre anni) i bambini e i ragazzi provenienti da scuole di ogni ordine e grado che visitano il museo, usufruendo anche di visite guidate e laboratori, gratuitamente. Lavorare su nuovi pubblici e accendere in loro una miccia di passione è la mission del museo.
Se dovessi definire in poche parole la collezione che cosa diresti? È una collezione che riflette la personalità del collezionista, che è una persona curiosa, molto legata all’innovazione, che è stata anche la sua fortuna imprenditoriale. Nella collezione ha voluto approfondire determinati nuclei, come la pittura antica veronese o legati ai maestri che nel loro Grand Tour hanno voluto visitare Verona: Vero-
nese, Giolfino, il Maestro di Sant’Anastasia, ma anche Van Wittel e Boldini che ci hanno lasciato delle vedute bellissime della città.
E guardando a tempi più recenti?
C’è un nucleo importante sul Novecento, che è la grande passione di mio padre, con un amore forte per il Futurismo proprio per la carica innovativa che portava con sé, ma anche per la Metafisica e il Surrealismo o l’Arte Concettuale. Qui gli artisti sono davvero tanti: Balla, Boccioni, Severini e poi Picasso, Kandinsky, Wharol, Magritte, de Chirico, Duchamp; uno spaccato importante delle avanguardie anche italiane con Manzoni, Burri, Fontana fino a De Dominicis, Pistoletto o Cattelan. Gli piace molto lavorare con gli artisti contemporanei – Nannucci e Sassolino – e soprattutto con i giovani artisti.
Come avvengono le nuove acquisizioni?
Per volontà del collezionista che approfondisce e sa già in che direzione andrà la collezione. Poi ci sono anche sollecitazioni esterne che naturalmente vengono valutate. Ma tendenzialmente la linea è chiara e viene condivisa e discussa con la famiglia e con il Comitato Scientifico. Ecco le ceramiche di Picasso accanto alle ceramiche rinascimentali o Monsieur Chéron di Modigliani inserito in quella che abbiamo chiamato “Sala dei traghettatori” che ci prepara al Novecento; oppure il grande tondo di Vedova nell’ambito dell’astrazione italiana o l’installazione site specific realizzata da Claire Fontaine per dialogare sul concetto di bellezza con la scultura ottocentesca della Bagnante di Puttinati posta nell’atrio del Museo.
Cinque anni sono trascorsi. Come vedi il futuro di Palazzo Maffei?
Nel potenziare sempre più la collaborazione con i giovani artisti. Credo che il nostro futuro vada necessariamente in questa direzione.
Per scoprire Palazzo Maffei scansiona il QR code qui a fianco
Tra filosofia del linguaggio e attualità digitale, semiotica e cultura popolare, Guido Vetere ci offre uno strumento critico per convivere con intelligenze aliene come quelle artificiali, senza prendere scorciatoie transumane o apocalittiche
di DARIO MOALLI
Se le macchine ci parlano con parole nostre ma logiche loro, allora chi stiamo davvero ascoltando? È da questa domanda – solo in apparenza semplice – che prende le mosse Intelligenze aliene, il saggio che Guido Vetere dedica al fenomeno più stupefacente (e più frainteso) della nostra contemporaneità: l’irruzione nel discorso umano di soggetti artificiali che parlano, argomentano, rispondono, imitano, inventano. Con un titolo che echeggia la migliore fantascienza –e richiama esplicitamente L’invasione degli ultracorpi – Vetere ci invita a osservare le IA generative non come “strumenti intelligenti” ma come nuove forme di vita linguistica. Lontane dall’antropomorfismo rassicurante, queste “intelligenze aliene” non sono né amiche né nemiche: sono altro. E per imparare a conviverci, sostiene l’autore, serve più filosofia, più storia del pensiero, più consapevolezza dei limiti della nostra stessa razionalità. Il cuore del libro è proprio qui: nel linguaggio. Non tanto come tecnica da automatizzare, ma come enigma da interrogare. Dopo aver ripercorso un secolo di filosofia linguistica – da Wittgenstein a Saussure, dal formalismo al generativismo di Chomsky – Vetere mette a fuoco il punto cieco dell’intelligenza artificiale contemporanea: il significato. Le macchine parlano, sì. Ma che cosa intendono, se intendono qualcosa? E noi, che ci relazioniamo sempre più spesso a questi agenti virtuali, che cosa stiamo davvero ascoltando? Intelligenze aliene rifiuta le scorciatoie dell’entusiasmo cieco e dell’apocalisse annunciata. Il libro, anzi, prende le distanze sia dall’utopia transumanista (quella che promette una superintelligenza capace di risolvere tutto) sia dal catastrofismo digitale che evoca scenari da sci-fi distopica. Per Vetere, l’intelligenza artificiale è soprattutto una proiezione dei nostri desideri: desiderio di controllo, di conoscenza assoluta, di trascendenza razionale. E come ogni desiderio, porta con sé ombre e abbagli. Un altro grande merito del saggio è la sua capacità di mettere in dia-
logo saperi diversi. Filosofia del linguaggio, semiotica, logica, informatica, ma anche cinema, letteratura e cultura pop: l’autore passa da Wittgenstein a Star Wars, da Peirce a Her, senza mai perdere il filo. Ne esce un affresco lucido e appassionato, capace di raccontare non solo che cosa sono oggi le IA, ma soprattutto che cosa dicono di noi Infine, il messaggio politico, che attraversa il testo in filigrana ma diventa esplicito nella parte finale: non basta comprendere le tecnologie, bisogna anche decidere come convivere con esse. E in un mondo in cui le IA entrano nelle scuole, negli ospedali, nei tribunali, nei processi creativi, la posta in gioco non è solo tecnica: è culturale, sociale, etica. Con Intelligenze aliene, Guido Vetere ci offre uno strumento per pensare criticamente la nostra epoca. Non per cercare risposte facili, ma per formulare domande migliori. Perché se il linguaggio è ciò che ci rende umani, allora non possiamo permetterci di ignorare chi – o che cosa – lo parla insieme a noi.
Guido Vetere, Intelligenze aliene. Linguaggio e vita degli automi Luca Sossella editore, 2025 pag 192, euro 15,00 ISBN 9791259980878
Per acquistare il libro Intelligenze aliene di Guido Vetere, scansiona il QR code qui in alto
Guido Vetere ha studiato filosofia del linguaggio alla Sapienza sotto la guida di Tullio De Mauro, approfondendo logica e informatica con Corrado Böhm. Dopo una carriera in IBM, dove ha diretto il Centro Studi Avanzati lavorando a progetti di rappresentazione della conoscenza e trattamento del linguaggio, oggi si dedica alla ricerca e alla docenza universitaria, con attenzione ai nuovi sviluppi dell’intelligenza artificiale. Lo abbiamo intervistato per approfondire il suo libro “Intelligenze aliene”.
Nel libro descrivi le intelligenze artificiali come “intelligenze aliene” che ci parlano con parole nostre ma seguono logiche altre. In che modo questa alterità linguistica può aiutare – o al contrario ostacolare – la nostra comprensione del reale?
Le “intelligenze aliene” producono, col linguaggio e con le immagini, parti sempre più rilevanti della nostra realtà personale e sociale. Con Hegel, si può dire che questa realtà è già razionale, nel senso che viene continuamente integrata nella nostra visione delle cose, cioè nella coscienza intersoggettiva. La cultura è sempre ibridazione, è sempre accogliere l’altro e farne parte di sé. Ma allora il tema dei “rischi e opportunità” dovuti a queste presenze diviene quello di indirizzare la coesistenza verso il progresso e non verso il puro profitto e le conseguenti catastrofi. Per questo ci vogliono consapevolezza e politica, meglio se attiva e concreta.
Il libro intreccia storia della filosofia del linguaggio, linguistica, cibernetica e attualità tecnologica. Quali autori o concetti le sono stati fondamentali per elaborare questa prospettiva “integrata” sull’IA generativa? Uno dei concetti-chiave della filosofia novecentesca è quello dell’interpretazione. Questo ruota attorno alla nozione di segno come elemento identificabile (dunque parlabile) di mediazione cognitiva e sociale. Il problema delle intelligenze aliene sta proprio nell’offuscamento del segno, sepolto nell’oscurità numerica dei language model. Ma la natura del segno, anche per noi umani, è un tema molto aperto. Il percorso del libro tocca le sponde della semiotica, dello strutturalismo, delle forme di vita linguistica wittgensteiniana, della teoria dell’informazione e della grammatica generativa. La ricerca tecnologica inizia a muoversi nella direzione di un recupero del segno: si parla infatti di sistemi neurosimbolici. Forse la produttività dei nuovi automi potrà dire ai filosofi qualcosa di interessante, ma oggi c’è un clima di sospetto in cui la domanda hegeliana diventa: questa razionalità è ancora reale? O ciò che sembra divenire misteriosamente calcolabile è una nuova ideologia utile ai soliti noti?
Le macchine parlanti ci costringono a ridefinire il nostro rapporto con la scrittura e con la conoscenza. Quali sono, a suo avviso, le implicazioni culturali e cognitive più profonde di questa trasformazione?
Mentre Bill Gates dice che i prossimi docenti saranno automi, alcuni, come Gerd Leonard, lanciano l’allarme sulla possibile de-umanizzazione derivante dall’impoverimento delle capacità critiche del soggetto vivente. Federico Fubini parla, dati alla mano, di recessione cognitiva, e punta il dito contro l’IA. A me sembra una riedizione del Fedro platonico: sembra di sentir dire che l’in-
venzione della scrittura produrrà “dimenticanza nelle anime”. Sappiamo che non è andata così, che l’esercizio umano del logos si è co-evoluto con le tecnologie della scrittura producendo nuove e ricche forme. Ma questa produttività non avviene per incanto: è piena di lavoro e di scelte. Quindi invece di stracciarsi le vesti bisogna rimboccarsi le maniche, per usare metafore sartoriali. Gli alieni intelligenti possono aiutarci a curare l’analfabetismo funzionale di cui già parlava De Mauro più di trenta anni fa, ma bisogna volerlo fare.
In che senso l’intelligenza artificiale è una “proiezione del nostro desiderio”? E cosa ci dice questo sul nostro tempo e sulla nostra idea di razionalità?
Fummo cacciati dall’Eden per aver dato un morso alla mela della conoscenza, ma niente affatto scoraggiati abbiamo continuato a scrutare la mente di Dio con arti varie, fino ad arrivare alla scienza moderna. Il Virgilio dantesco invitava le umane genti a star contente al quia, perché la ragione non avrebbe mai potuto “veder tutto”, ma proprio quell’invito rivelava il desiderio del suo opposto. Oggi viviamo con grande ecci-
tazione l’idea di trovarci a un passo dall’Intelligenza artificiale generale (AGI) che potrà dare risposte alle “domande fondamentali sulla vita, l’universo e tutto quanto”. Sembrerebbe allora che la nostra idea di razionalità sia ancora quella del calculemus! leibniziano, come se da allora non avessimo avuto prove sufficienti del suo carattere a dir poco problematico. L’ingegneristica ingenuità è votata al fallimento, ma prima di franare la sua ideologia può fare danni, ad esempio dare a un automa il potere di decidere, in guerra, chi vive e chi muore. Condivido con Luca De Biase l’idea che le sfide dell’IA siano più epistemiche e che etiche. La “ragione della macchina” ha una dialettica tutta sua che abbiamo il dovere di conoscere prima di usarla. Il problema etico è tutto nel nostro campo.
Nel libro sembra suggerire che un dialogo con le “intelligenze aliene” sia possibile solo se accettiamo la loro radicale differenza. Quale tipo di atteggiamento culturale o politico servirebbe oggi per gestire questa coesistenza senza cadere né nell’entusiasmo cieco né nel rifiuto apocalittico?
Per avere un rapporto positivo e fecondo con le intelligenze aliene bisogna imparare a conoscerle, non solo sotto il profilo informatico, ma anche e soprattutto sotto quello delle assunzioni che le tecnologie adottano, spesso tacite o addirittura inconsapevoli, come ad esempio quella del distribuzionalismo, cioè l’idea che il modo in cui si collocano le parole nei testi ne restituisca il significato. L’atteggiamento che suggerisco nel mio libro è quello di una consapevole e vigile accoglienza, perché una cosa è certa: le intelligenze aliene possono essere utilissime e comunque sono qui per restare.
Nasce nel novembre del 2023 lo spazio non profit a vocazione multidisciplinare Settantaventidue, il cui nome viene dal colore RAL 7022 imposto per la facciata dell’edificio di Via Ludovico il Moro 1, sui Navigli a Milano, che ne ospita l’attività. Il progetto, fondato da Alessandro Scotti e Daniel Marzona, insieme a Luca Pitoni, Giuseppe Ielasi, Nicola Mafessoni e l’editore bresciano Bruno Tonini, ha ricevuto fin dall’inizio grande riconoscimento e attenzione dal pubblico, complice una programmazione che va dall’arte contemporanea all’architettura e dalla sound art al design, passando per la musica contemporanea e l’editoria. Tra le mostre e gli eventi più recenti si trovano protagonisti come Cesare Leonardi, Michele Guido, LUCE, Lori Goldston, Giusto Pio, Lionel Marchetti, Gabriele Basilico, Valerio
Tutto lo spazio e il lavoro curatoriale sono pensati per offrire un’esperienza il più possibile simile a quella di chi possiede un’opera, che la vive in casa, da vicino, in modo personale
Tricoli, Øystein Aasan, Terry Fox, Sol Le Witt e Alessandra Spranzi, solo per citarne alcuni. Settantaventidue è pensato come luogo di prossimità e sperimentazione, qui il vero lusso sono il tempo e le relazioni. Il progetto, infatti, mantiene negli anni la radicalità di spazio indipendente che si autofinanzia e si sviluppa grazie a donazioni e collaborazioni solidali. L’obiettivo è eliminare le barriere economiche e simboliche nell’accesso all’arte, proponendo performance dal vivo o dando la possibilità di consultare liberamente preziosi materiali d’archivio. Abbiamo chiesto ad Alessandro Scotti di raccontarci il progetto.
#47 Almanac Torino
#51 Sonnestube Lugano
#53 Numero Cromatico Roma
#57 Metodo Milano
#59 Spazio in Situ Roma
#62 Spazio Bidet Milano
#64 Mucho Mas Torino
#67 La portineria Firenze
#69 Spazio Y Roma
#71 spazioSERRA Milano
#73 Spaziomensa Roma
#78 Viaraffineria
Roma/Catania
#81 Panorama Venezia
IL PROGRAMMA DI SETTANTAVENTIDUE “Ho strutturato l’attività in quattro programmi principali, ognuno con un proprio focus. Il primo riguarda le arti visive contemporanee, il secondo è dedicato alla sound art, che si manifesta soprattutto in una dimensione performativa, il terzo è incentrato su design e architettura e l’ultimo, il quarto, si chiama House of Estates e contempla l’introduzione permanente di archivi di grandi artisti del Novecento, non più in vita, e provenienti da ambiti diversi. Questo, per esempio, è stato inaugurato con l’archivio di Rolf Julius, poi ha seguito la Fondazione Archivio Cesare Leonardi e ora quello di Gabriele Basilico: volevamo offrire una piccola finestra pubblica, sempre aperta, per archivi spesso custoditi da eredi o familiari, difficilmente accessibili. Selezioniamo una porzione minima dell’archivio, curata con chi lo gestisce, e la rendiamo accessibile al pubblico in modo non musealizzato, ma diretto e intimo. In un certo senso gli archivi diventano così come artisti residenti”.
“Il principio che guida tutta la programmazione di Settantaventidue è quello di offrire un’esperienza di prossimità con il lavoro artistico. Non ci interessa scoprire nuovi talenti, ma piuttosto dare spazio ad artisti e figure dal percorso chiaro, coerente, radicale. Crediamo che ci sia un cambiamento in atto nell’esperienza dell’arte: una parte sempre più ristretta della popolazione ha un rapporto quotidiano con le arti, mentre la maggioranza ne è completamente distante, ha accesso solo a prodotti legati all’entertainment. Per questo abbiamo scelto di entrare attraverso qualcosa di semplice e familiare: un piccolo negozio di dischi e libri selezionatissimi. Nessuna barriera, nessun equivoco. Vogliamo contrastare l’idea che l’esperienza dell’arte sia riservata a due sole categorie: chi la osserva da lontano, nei musei, e chi può
permettersela economicamente. Tutto lo spazio e il lavoro curatoriale sono pensati per offrire un’esperienza il più possibile simile a quella di chi possiede un’opera, che la vive in casa, da vicino, in modo personale. Questo si applica potentemente anche al programma di sound art: artisti che di solito performano su palchi, per grandi platee, qui vengono invitati a esibirsi per poche persone, in uno spazio raccolto. È un ritorno alle origini, quasi un lusso, come la musica da camera: un’esperienza ravvicinata, intima. Anche in questo caso, l’accesso è gratuito o a donazione, e l’intero ricavato va all’artista. Alcuni scelgono di non chiedere nulla, altri ritengono giusto essere pagati per il proprio lavoro. È una scelta politica e personale, che rispettiamo in pieno. Nessuno è mai stato escluso per motivi economici. E tutto ciò che accade qui è a titolo gratuito, anche per noi: non guadagniamo nulla. Lo facciamo per la gioia di condividere. Le opere, in molti casi, ci vengono prestate da istituzioni o collezionisti mossi dallo stesso spirito. Ed è questo che ci permette di tenere in piedi il progetto, finché riuscirà a rimanere fedele alla sua radicalità”.
“Ogni evento è accompagnato da una pubblicazione, un foglio di sala, ma pensato con grande cura. È una delle regole che ci siamo dati sin dall’inizio: per ogni progetto, che sia una mostra o una performance, produciamo un oggetto editoriale. Il tutto è disegnato dallo studio Tomo Tomo, con la carta fornita da Paper & People e la stampa curata da Presspoint, che ci sostengono da tempo. A volte si tratta di cartoline, altre volte di cataloghi più strutturati, comunque sempre qualcosa di fisico, che costruisce nel tempo un archivio. Per esempio, abbiamo fatto una mostra dedicata agli auguri di Natale dei designer italiani dagli Anni Quaranta ai primi Settanta, scoprendo una collezione straordinaria di piccoli cartoncini, veri e propri esercizi di stile e creatività. In un’epoca predigitale, era l’occasione per i designer di mostrare il proprio talento senza vincoli, senza un cliente da soddisfare. Alcuni erano fatti a mano, altri stampati, ma tutti erano riflessioni sincere, personali. C’erano nomi come Munari, Sottsass, Mari… La mostra è stata accompagnata da una conferenza di Mario Piazza sulla storia della grafica italiana. In un altro caso, quando abbiamo ospitato la violoncellista dei Nirvana, abbiamo scelto come pubblicazione una maglietta: il testo era stampato sull’etichetta interna, impaginato come se fosse un catalogo. Oppure, per la mostra sull’architettura radicale, dove Gabriele Basilico aveva ritratto Branzi ad occhi chiusi e poi li aveva coperti con dei puntini neri, abbiamo prodotto una pubblicazione forata a mano negli stessi punti, rendendo ogni copia unica. Questo spirito ci accompagna sempre: è un esercizio di libertà creativa. Luca Pitoni, che è uno dei soci dello spazio, lo dice spesso, è come per i biglietti di auguri dei grafici di un tempo, un’occasione per sperimentare e riflettere”.
IL LUSSO DEL TEMPO CONDIVISO E DELLO SCAMBIO
“La programmazione è intensa: in condizioni normali, ogni mese o mese e mezzo inaugurano due mostre. E poi ci sono gli eventi di sound art, circa uno a settimana. Questa intensità è anche, in parte, una reazione alla perdita improvvisa di Daniel Marzona, con cui tutto questo era stato immaginato. La sua scomparsa ci ha lasciati sgomenti e ci siamo detti: o ci blocchiamo o reagiamo. Abbiamo reagito. Anche la composizione del gruppo è cambiata nel tempo, io e Luca Pitoni ci siamo fin dall’inizio, Nicola Mafessoni è passato alla curatela esterna della sezione arte contemporanea. Poi sono entrati Fabio Servafiorita, Andrea Cernotto, Andrea Gessner e Paolo Ferraguti. È stato un processo fluido, ma ricco. Dopo appena un anno e mezzo abbiamo già realizzato oltre cinquanta progetti. La risposta degli artisti è stata incredibile e molti di loro arrivano da percorsi solidi, non alla ricerca spasmodica di uno spazio espositivo. Ora ci arrivano proposte persino dalla Cina o dagli Stati Uniti. Credo che ciò che li attrae sia anche l’atmosfera: autentica, conviviale, senza gerarchie. Quando un artista viene, lo ospitiamo, si sta insieme. È un’esperienza condivisa. Non c’è nessuno che guarda da lontano: si è dentro. E forse è proprio questo che rende il nostro spazio unico, almeno qui a Milano. Per me è anche una riflessione sul concetto di lusso: un lusso assoluto, ma di idee. Non nei materiali, qui non c’è nulla di
Settantaventidue è un luogo accessibile, in cui il lusso sta nel tempo condiviso, nello scambio
prezioso, costoso, esclusivo, ma c’è tantissimo pensiero. È un luogo accessibile, in cui il lusso sta nel tempo condiviso, nello scambio. Credo che questa piccola scala sia una forza. In un tempo in cui tutto tende a diventare gigantesco, spettacolare, fuori scala, noi abbiamo scelto la misura umana. E questo crea relazioni, dialogo, esperienze. Questa è la nostra dimensione naturale. Ed è da lì che vogliamo partire. Tutto questo ha anche un grande valore politico, nel senso più profondo del termine, che riguarda la vita della comunità. Il nostro sostentamento arriva solo da donazioni, e questo implica una logica diversa: non quella dell’investimento in senso finanziario, ma di un ritorno che è un’altra cosa. È una forma di scambio, certo, ma fatta di immaginazione, fiducia, responsabilità condivisa”.
FERRUCCIO GIROMINI
Quando diciamo erotismo oggi tendiamo a esagerare. Sì, perché ormai – deviati dal mercato (e dal mercimonio) contemporaneo del pensiero e dell’immagine – ci immaginiamo subito bollenti peccati della carne, sabba scatenati del sesso, perversioni acrobatiche di tutti i generi. Ma dimentichiamo – volentieri o nolentieri – il vero punto di partenza dell’amore: il bacio. C’è quello casto, che si dà ai bambini, che si stampa tenero sulla fronte, che ci si scambia velocemente sulle guance, che si spedisce lontano con le dita nell’aria, che si poggia leggero sulle mani. E questo, se sperabilmente non è quello di Giuda, è puro affetto. E poi c’è quello profondo, che una volta si chiamava “alla francese”, in omaggio alle virtù (o ai vizi?) che si attribuivano leggendariamente ai cugini transalpini, considerati a torto o a ragione più maliziosi di noi cisalpini. Lo diciamo profondo, perché vuole che vicendevolmente ci si addentri nella bocca del partner. Se ci pensiamo, in effetti, l’assaggio della lingua altrui è una sorta di anticipazione in piccolo di quell’altro contatto ancora più profondo che continuiamo a considerare comunemente più erotico. Eppure, quei primi momenti in cui le lingue cominciano a sfiorarsi, a conoscersi o riconoscersi, a gustarsi, sono specialmente inebrianti, dolcemente eccitanti, intimamente travolgenti. Il permettere a un’altra persona di introdursi nel nostro corpo è davvero un atto di abbandono, di fiducia, già d’amore oltre l’affetto.
Fa molto piacere dunque incontrare le immagini che Sara Stefanini, apprezzata illustratrice svizzera multitasking ora di stanza a Milano, ha voluto e saputo dedicare a quei momenti che fanno girare la testa. Una sua tenera e appassionata serie di immagini, dal bel titolo esortativo Baciami forte, si concentra sul motivo immortale dell’abbraccio dei corpi e delle anime, che si fa a occhi chiusi per non distrarsi da quella magica vertigine. Da brava figurinaia, lo fa con carezzevole misura, e buon gusto, e pure lieve ironia, e con quel senso dell’armonia compositiva e cromatica che spesso è più abituale nell’arte degli illustratori che in quella di altri più aristocratici “artisti”. Chissà chi bacia meglio…?
Si chiama Baccano l’etichetta discografica universitaria che fa avanguardia con la musica popolare italiana
CLAUDIA GIRAUD L Rileggere con nuove note e nuovi suoni la tradizione musicale italiana. È l’obiettivo di Baccano, l’etichetta discografica concepita all’interno della Luiss - Libera Università Internazionale degli Studi Sociali Guido Carli di Roma. I primi 3 dischi ne sono un manifesto perché, tutti dedicati alla Sicilia, ne portano alla luce la grande ricchezza sonora, senza limitarsi a un semplice recupero nostalgico: i musicisti coinvolti ne reinterpretano le radici musicali con un linguaggio inedito e personale. Nata da un’idea di Daniele Rosa (direttore editoriale di Luiss University Press) e con la curatela di Toni Cutrone (aka Mai Mai Mai), figura di riferimento della scena avant-garde/drone, più che una semplice etichetta, Baccano si propone come un progetto curatoriale, un luogo di sperimentazione sonora e culturale che ogni anno mette in relazione artisti di generazioni e percorsi diversi, per dare forma a nuove geografie del suono italiano. Il progetto guarda all’intersezione tra avanguardia, memoria popolare, ricerca rituale e paesaggio sonoro.
Nasce la Fondazione Luigi Ghirri per promuovere l’eredità artistica del grande fotografo
CATERINA ANGELUCCI L Con un post Instagram – la pagina Luigi Ghirri ora ha cambiato nome in Fondazione Luigi Ghirri – Adele e Ilaria, le figlie ed eredi del celebre fotografo emiliano conosciuto a livello internazionale, annunciano la nascita della nuova istituzione. “La Fondazione nasce per volontà delle Eredi Ghirri, con l’intento di continuare il lavoro di divulgazione dell’opera e del pensiero dell’autore, e di promuovere la cultura fotografica in Italia e nel mondo, favorendo il dialogo con altre discipline, linguaggi artistici e nuove generazioni”, si legge nel testo dove viene anche anticipata l’uscita di un nuovo sito web realizzato ad hoc. l logo, invece, disegnato dal londinese System Studio ha qualcosa di familiare: ritratta è la casa di Roncoscesi, nella campagna di Reggio Emilia, in cui il fotografo e la moglie Paola si trasferirono nel 1990 per vivere e lavorare al di fuori dei grandi centri urbani.
A Ercolano si lancia un’app.
5 percorsi nel Parco archeologico più digitale d’Italia
GIULIA GIAUME L Vivere in prima persona gli straordinari luoghi del passato grazie a percorsi su app adatti a tutti: così il Ministero della Cultura lancia per il Parco Archeologico di Ercolano una nuova applicazione per smartphone (disponibile in nove lingue e scaricabile gratuitamente dagli store su mobile) con cinque percorsi divisi per contenuti tematici, età e tempi di percorrenza. Una celebrazione del sito archeologico, che dopo oltre 25 anni di chiusura ha visto la riapertura di due grandi Domus, la Casa del Colonnato Tuscanico e la Casa del Sacello di legno. Sviluppata per sistemi Android e IOs, l’App Ercolano sfrutta in tempo reale la doppia connessione del Parco, WIFI e LiFi (cioè che usa la luce per comunicare le informazioni): visitatrici e visitatori potranno ricevere sui dispositivi dei contenuti contestuali rispetto alla propria posizione tramite la capillare rete di beacon bluetooth, unica nel suo genere nei siti archeologici italiani.
Nuove nomine alla guida di importanti istituzioni culturali:
→ Cristiana Perrella al Macro di Roma
Dopo tre mesi di attesa, la giuria approntata dall’Azienda Speciale Palaexpo ha deciso di nominare Cristiana Perrella come nuova direttrice del polo museale di Via Nizza.
→ Marco Corsini al Museo Ginori di Sesto Fiorentino La nomina del nuovo presidente è contenuta in una lettera inviata dalla capo gabinetto del Ministero alla Regione e al Comune: a Tomaso Montanari sarebbe stato preferito l’avvocato Marco Corsini.
→ Umberto Croppi
all’Accademia di Belle Arti di Roma Figura di spicco nel panorama culturale italiano, Umberto Croppi è stato nominato presidente dell’Accademia di Belle Arti di Roma per i prossimi tre anni.
→ Christophe Cherix al MoMA di New York L’illustre istituzione ha salutato Glenn Lowry, in carica dal 1995, e accolto un nome tutt’altro che nuovo: Christophe Cherix. Il curatore svizzero classe 1969, infatti, dal 2013 è a capo del dipartimento di stampe e disegni dello stesso museo.
→ Alessandro Rubini al Polo del ‘900 di Torino
Alla direzione dell’istituzione torinese è stato designato Alessandro Rubini, scelto all’unanimità dal Consiglio di Amministrazione nella rosa dei 41 candidati che hanno risposto all’avviso pubblico di selezione per l’incarico.
PAPA FRANCESCO I (17 DICEMBRE 936 - 21 APRILE 2025)
L GUY ULLENS (31 GENNAIO 1935 – 19 APRILE 2025)
L MARIO VARGAS LLOSA (28 MARZO 1936 - 13 APRILE 2025)
L ROBERTO DE SIMONE (25 AGOSTO 1933 - 6 APRILE 2025)
L PIERLUIGI NICOLIN (26 AGOSTO 1941 – 26 MARZO 2025)
L FIORELLA MINERVINO (1943 - 25 MARZO 2025)
L MASSIMO CARPI ( 1946 - 22 MARZO 2025)
L SERGIO RICCIARDONE (30 AGOSTO 1971 – 11 MARZO 2025)
Fondazione Tufano
Via Privata Marcello Moretti, 6/a
Camera Settantasette
Galleria Fratelli Rizzo
Viale Stelvio, 66
Via Padova, 77
Ego Projects Via Zebedia, 7
Palestra Visconti
Via Giovanni Bellezza, 16
T.Nua
Ten Thousand Feet
Via Filippino Lippi, 10
Galleria Lombardi Viale Monte Nero, 38
Via Boncompagni, 44 Museo Broggi Melegnano (MI)
Art Explora inaugura un nuovo spazio a Tirana
Interni di Villa 31, © Philipp Funke
CATERINA ANGELUCCI L Hanno a disposizione alloggio, laboratori dove poter lavorare e una borsa di studio per sviluppare la propria ricerca gli artisti di Vila 31, la nuova residenza d’artista inaugurata a Tirana dal programma internazionale Art Explora. Ospitata nell’ex abitazione privata del dittatore Enver Hoxha, la realtà di ricerca e sperimentazione rafforza così la rete dell’organizzazione parigina nata a Montmartre nel 2021. Sono Amie Barouh, Armando Duccellari, Arnilda Kycyku, Marianne Maric, Genny Petrotta, Stanislava Pinchuk e Gerta Xhaferaj gli artisti internazionali che hanno preso parte al primo ciclo di residenze, accompagnati da ricercatori e curatori invitati a vivere e lavorare al loro fianco. Inotre, Art Explora ha anche pensato a un programma di residenze che si divide tra Parigi e Tirana nell’ambito della collaborazione con la Cité Internationale des Arts, al fine di rafforzare i legami tra la scena artistica francese e quella albanese.
Al via il restauro del Cenacolo di Rubens alla Pinacoteca di Brera a Milano
VALENTINA MUZI L Dopo il successo dell’iniziativa Sguardi dalla Torre – Picasso, che ha permesso di visitare gratuitamente all’ultimo piano della Torre PwC a Milano l’opera La loge (Le balcon) di Pablo Picasso (proveniente dalla collezione della Pinacoteca di Brera), la realtà attiva nei servizi di revisione e consulenza strategica e fiscale alle imprese guidata da Giovanni Andrea Toselli torna a collaborare con l’istituzione milanese, restituendo al pubblico un grande capolavoro della collezione permanente. Si tratta del Cenacolo di Pieter Paul Rubens che è oggetto di un importante restauro condotto a vista targato PwC per la cultura (il progetto attraverso il quale il gruppo di specialisti contribuisce alla crescita socio – culturale del Paese organizzando iniziative volte alla promozione del patrimonio artistico italiano), dando l’opportunità ai visitatori di seguire dal vivo tutte le fasi del ripristino dell’opera.
cura di ELISABETTA RONCATI
Nel complesso scenario odierno in cui le forme di intelligenza tradizionali vengono messe in discussione aprendo la strada a nuove modalità di interpretare il mondo, l’artista Alireza Shojaian si presenta come un esempio lampante di chi ha saputo elaborare una poetica personale che sfida i limiti imposti da sistemi culturali repressivi. Il creativo iraniano ha infatti elaborato una visione che si può concettualmente collegare al tema delle “intelligenze altre”, ovvero quella capacità di leggere e reinterpretare il proprio vissuto e eredità culturale attraverso linguaggi e narrazioni che trascendono le convenzioni.
Nato a Teheran nel 1988, la passione per l’arte contraddistingue il percorso di Alireza Shojaian fin da giovanissimo. A sedici anni trova una delle poche riviste non censurate dal regime con l’immagine della Venere Rokeby (o Venere allo specchio) di Diego Velázquez: inizia così a realizzare il primo dipinto su tela. Frequenta poi l’Azad University of Art and Architecture della città, ma la circolazione dei suoi primi disegni realistici di soggetti maschili è limitata: dimostrare una sensibilità non eteronormativa in Iran è illegale. Nonostante tutto Alireza tenta di sviluppare un progetto di tesi sull’arte queer che viene però rifiutato non permettendogli di conseguire la laurea. Inoltre, opere come Middlesex e Season Salad 2, in cui due corpi nudi mostrano mutilazioni genitali come forma di protesta contro l’oppressione, non sono pubblicamente esposte per via della tematica scottante. L’artista si rifugia così a Beirut e, grazie al supporto della Artlab Gallery, organizza le prime mostre personali orientando definitivamente il focus della sua ricerca sull’indagine dell’identità sessuale e della rappresentazione del corpo. Nel 2019, con il sostegno dell’ambasciata francese, ottiene una residenza artistica presso l’Académie des Beaux-Arts di Parigi, dove tuttora risiede. Alireza Shojaian crede fermamente che la libertà identitaria e sessuale, non essendo un dato uniforme a livello globale, venga strumentalizzata come mezzo di controllo politico. Per questo motivo nelle opere, spesso autobiografiche, propone soggetti nudi in contesti intimi e vulnerabili, utilizzando una
Alireza Shojaian, Le démon blanc et l’arbre en feu (Arthur) , 2024. Courtesy of the artist
tecnica mista che combina pittura acrilica e matite colorate su legno in modo da catturare anche i minimi dettagli, rendendo in maniera precisa le sfumature delle emozioni trasmesse. La sua incessante ricerca della dimensione culturale, artistica e storica dell’identità queer in Asia e Medio Oriente lo porta a rielaborare le antiche tradizioni e a reinterpretare in chiave moderna gli archetipi storici: il soggetto maschile viene ridefinito andando oltre la mera rappresentazione fisica per instaurare un discorso critico sulla mascolinità
A questo proposito, sull’ultima serie prodotta, Shojaian afferma: “Le démon blanc et l’arbre en feu reinterpreta l’estetica antica attraverso una narrativa contemporanea. Il ciclo è ispirato alla ricca tradizione della miniatura, in particolare alle scene del Shahnameh, un testo fondamentale della cultura persiana. Invece di conformarmi agli archetipi storici e alle opposizioni binarie presenti nella narrazione, inserisco i personaggi all’interno di un quadro che sfida le norme convenzionali e ridefinisce i ruoli. Reinterpreto criticamente la mascolinità. In questa pratica il colore diventa un dispositivo narra-
tivo essenziale, avvolgendo i “ricordi oscuri” del trauma sociale in una tavolozza vivida che parla tanto di bellezza quanto di dolore”. Di recente, il ciclo è stato esposto presso la galleria parigina Bendana | Pinel Art Contemporain, mostrando al pubblico come il vocabolario tecnico di Shojaian, integrando l’utilizzo di matite colorate e airbrush, abbia davvero trasformato il colore nell’elemento capace di rendere quasi palpabile la tensione emotiva. Attraverso le opere l’artista non si limita a rappresentare il corpo nudo o a denunciare la censura, ma propone una riflessione profonda sul significato dell’esistenza e sul diritto di vivere la propria identità in tutte le sue sfaccettature, offrendo spunti che possono essere interpretati come manifestazioni di intelligenze alternative, ovvero quelle capacità di leggere e rielaborare il mondo in maniera originale e provocatoria. In questo senso il lavoro di Shojaian si configura non solo come un atto di espressione estetica, ma anche come un documento storico e politico capace di intercettare le tensioni tra tradizione e modernità, di aprire nuovi spazi di dialogo in cui il corpo possa finalmente esprimersi liberamente e nella sua interezza.
L’artista italiano Andrea Mastrovito vince il concorso per realizzare l’Agnus Dei alla Sagrada Familia di Barcellona
CATERINA ANGELUCCI L Iniziarono nel 1882 i lavori di costruzione del Tempio Espiatorio della Sacra Famiglia a Barcellona, universalmente conosciuto come Sagrada Familia. L’anno dopo, nel 1883, subentrò al progetto Antoni Gaudí (Reus, 1852 – Barcellona, 1926) cambiando lo stile dell’opera architettonica da neogotico a liberty. Simbolo identitario della città, la Sagrada Familia è anche un famoso incompiuto. Infatti, la data ufficiale della fine dei lavori è fissata per il 2026, più precisamente a 144 anni dalla posa della prima pietra e a 100 dalla morte del suo più celebre progettista avvenuta accidentalmente. E nell’ambito delle iniziative riguardanti il completamento della chiesa è anche stato indetto un concorso internazionale per la realizzazione dell’Agnus Dei, che entrerà nella croce della torre di Gesù Cristo: il vincitore è l’artista italiano Andrea Mastrovito (Bergamo, 1978). La sua proposta è stata scelta per “l’eleganza della luce dorata e la trasparenza luminosa dell’Agnello” tra quelle di altri artisti di fama internazionale, tra cui Edoardo Tresoldi, David Oliveira, Gonzalo Borondo e Jordi Alcaraz. Per l’occasione il Museu Diocesà de Barcelona, conosciuto anche come Casa de la Almoina, ospita fino al 9 giugno 2025 Concurs Agnus Dei, un’esposizione che presenta i modelli di ciascuna ricerca insieme a pannelli di approfondimento con disegni e dettagli aggiuntivi.
A Roma un’opera dell’artista
Eugenio Tibaldi al carcere di Rebibbia per il Giubileo dei detenuti
VALENTINA MUZI L Era il 2022 quando la Fondazione Pastificio Cerere e la Fondazione Severino di Roma iniziarono a portare progetti d’arte contemporanea all’interno del carcere di Rebibbia con l’obiettivo di coinvolgere i detenuti e offrire loro un riscatto sociale attraverso la creatività. Dopo Kleksografie e disegni ambigui di Fabrizio Sartori (Roma, 1980), realizzato tra febbraio e marzo 2024 e curato da Giuliana Benassi, in occasione del Giubileo dei Detenuti le fondazioni romane hanno presentato il progetto site specific e permanente dell’artista Eugenio Tibaldi (Alba, 1977), che animerà la Casa Circondariale Femminile di Rebibbia, a cura di Marcello Smarrelli. L’inaugurazione dell’opera è prevista per dicembre 2025, e il processo di realizzazione comprenderà dei laboratori dedicati alle detenute, finalizzati alla condivisione di esperienze ed emozioni che prenderanno forma attraverso il disegno. “Attratto dalle dinamiche e dalle esteticheche germogliano nelle aree di confine, come testimoniano i tanti progetti realizzati in diverse parti del mondo, Eugenio Tibaldi si cala con impegno e sensibilità nei contesti a lui affidati, progettando opere capaci di interpretare profondamente la realtà, immaginando alternative future partendo da ciò che la società considera come difetti o anomalie”, spiega Marcello Smarrelli, curatore del progetto. “Una ricerca capace di cambiare, fosse anche per un solo istante, la prospettiva e lo sguardo delle detenute di Rebibbia”.
AL VIA ART MONTE-CARLO 2025. TUTTE LE NOVITÀ DELLA PROSSIMA
VALENTINA MUZI L Giunta alla sua IX edizione, la fiera d’arte moderna e contemporanea Art Monte–Carlo torna ad animare il Principato di Monaco con un ricco programma di eventi e mostre, dal 7 al 9 luglio 2025. Volevamo saperne di più e abbiamo fatto qualche do manda alla direttrice della rassegna Charlotte Diwan.
Art Monte-Carlo si è affermata grazie alla qualità delle gallerie selezionate, alla forza delle sue mostre e, soprattutto, alle significative collaborazioni con le istituzioni. Quali sono i punti salienti che pos siamo aspettarci da questa nona edizione della fiera?
Per la prima volta, la fiera si terrà nei giorni fe riali, consentendo una maggiore sinergia con i principali eventi culturali che si svolgeranno nel Principato di Monaco.
Siamo inoltre entusiasti di inaugurare l’ala re centemente rinnovata del Grimaldi Forum come nuova sede della fiera. Questo nuovo spa zio offrirà una disposizione più ampia, soffitti altissimi, un’area conferenze dedicata e una gene rosa terrazza all’aperto, fornendo un ambiente ide ale per ospitare ambiziosi progetti speciali.
Tra grandi ritorni e new entry: quali saranno le gallerie partecipanti?
La fiera accoglierà circa 25 espositori, offrendo una selezione ricca e diversificata che spazia dall’arte antica e dai maestri moderni alle galle rie contemporanee ed emergenti. Quest’anno
siamo inoltre lieti di inaugurare un progetto di design in collaborazione con lo studio di Pierre Yovanovitch.
Può anticipare ulteriori dettagli sui progetti speciali di quest’anno?
Per quanto riguarda i progetti istituzionali presentati all’interno della fiera, stiamo lavorando in collaborazione con il Centre Pompidou, il quale presenterà una selezione di materiali d’archivio relativi al progetto di trasformazione del polo museale, oltre ad una mostra ospitata al Grimaldi Forum, a cura di Didier , che coinvolgerà le gallerie presenti in fiera invitandole a esporre una selezione di opere per questo progetto speciale.
A questo si aggiunge un programma di eventi e conferenze che vedrà protagonista anche la collezionista Tiqui Atencio Demirdjian, in dialogo con Simon de Pury, dedicata alla sua ultima pubblicazione For Art’s Sake: Inside the Homes of Artists.
Oltre alla collaborazione con Khao Yai Art Forest, quali animeranno questa edizione della rassegna?
Oltre ad aver organizzato un talk coinvolgendo la fondatrice di Khao Yai Art Forest: la collezionista e imprenditrice Marisa Chearavanont, abbiamo pianificato diverse collaborazioni con le istituzioni locali, rafforzando il ruolo di Art Monte-Carlo come catalizzatore culturale per l’intera regione mediterranea.
Orari di apertura
Martedì – sabato 10-12 | 14-17
Domenica e festivi 10.30-12.30
Lunedì chiuso
Museo Comunale d’Arte Moderna
Via Borgo 34 | CH-6612 Ascona
+41 (0)91 759 81 40 | museo@ascona.ch www.museoascona.ch @museoascona @museocomunaleascona
Con la mostra Lo spazio armonico e la fontana di Camerlata, incentrata sul progetto sviluppato dall’architetto Cesare Cattaneo e dal pittore Mario Radice per la VI Triennale di Milano, dal 17 maggio prosegue il ciclo espositivo promosso per il 2025 dall’Archivio Cattaneo di Cernobbio (CO) all’interno di un luogo meritevole di essere conosciuto, recuperato e riattivato: l’ex Asilo infantile Giuseppe Garbagnati di Cermenate (CO). Disegnato dell’architetto razionalista Cesare Cattaneo (1912-1943) subito dopo la laurea, il dismesso edificio scolastico racchiude “tutto quello che caratterizzava gli Anni Trenta in architettura, a livello di forma e funzione. Dal notevole peso assunto dalla funzione, con tre blocchi che equivalgono ad altrettanti momento e compiti, al rigore classico, accompagnato dalla pulizia perfetta dei volumi” spiega ad Artribune l’ingegnere Damiano Cattaneo. Figlio del progettista dell’asilo, prematuramente scomparso, presiede l’Associazione Cesare Cattaneo ONLUS; sorta nel 2012, è nel tempo divenuta proprietaria del sito costruito tra il 1935 e il 1937 e oggi ambisce a concretizzare il suo rilancio. Apprezzato dalla critica e dalla stampa di settore dell’epoca, a tal punto che Casabella gli riservò un primo articolo nel 1935, quando il cantiere era in corso, l’edificio scolastico è stato riconosciuto di interesse culturale nel 2008 dalla Direzione Regionale Beni Culturali e Paesaggistici della Lombardia. Una forma di tutela che lo ha sottratto dal rischio di manomissioni, dopo quelle seguite alla prima fase di inutilizzo risalente al dopoguerra. Al 1986 risale il cambio di destinazione d’uso, che per alcuni anni lo ha reso farmacia comunale e sede della Croce Rossa. “Ho più di 80 anni, non godo di buona salute; francamente il mio sogno è vederlo recuperato” precisa l’ingegner Cattaneo, che resta in attesa dei nullaosta necessari per l’avvio degli agognati lavori di ristrutturazione. Interventi per i quali non mancano neppure le risorse, anche grazie al supporto ottenuto con un bando di Fondazione Cariplo. Il programma espositivo, che andrà avanti con ulteriori due appuntamenti nella seconda metà dell’anno agisce, intanto, da “attivatore culturale”: vuole infatti dimostrare che “la struttura non è morta e anzi si presta a una ripresa dell’attività culturale nel paese di Cermenate” precisa Cattaneo. Quello avviato con una prima mostra dedicata alla vicenda architettonica dell’asilo stesso è un processo culturale concepito per ripristinare la connessione tra l’edificio e la comunità, affinché torni a essere un punto di riferimento locale. Una volta ripristinati, i suoi spazi potranno infatti accogliere in maniera continuativa attività espositive e formative relative all’architettura, al design e alle arti visive o altre iniziative di interesse pubblico. In vista di tale traguardo futuro, soggetti pubblici, fondazioni, istituti di credito, aziende e associazioni sono fin da ora invitati a contribuire alla rinascita di questo rilevante esempio di architettura razionalista italiana.
dall'alto: Bologna, ex chiesa San Barbaziano, Finestre via Barberia interno. Ph. Alessandro Saletta-DSL studio Spazi in attesa / mostra e dialoghi, 2025. Installation view, XNL Piacenza, Ph. Daniele Signaroldi
NEL CENTRO STORICO DI BOLOGNA RINASCE UN’ANTICA CHIESA
Progettata dall’architetto Pietro Fiorini nel 1608, in stile tardo-manierista a navata unica, quella che oggi è conosciuta come l’ex chiesa di San Barbaziano è stata per Bologna non solo un luogo di culto. Usata nell’Ottocento come fienile e poi come magazzino militare, compromessa da un incendio nel 1922, nel secondo dopoguerra è (incredibilmente) divenuta sede di un’officina meccanica e, fino al 1994, di un’autorimessa. In seguito ai danni causati dal terremoto del 2012, ha inizio la svolta: ai primi interventi di consolidamento e miglioramento sismico, segue infatti il restauro conservativo affidato tramite concorso, nel 2019, dalla Direzione Regionale Musei Emilia-Romagna allo Studio Poggioli. Con la richiesta di preservarne la facies di rovina urbana, i lavori seguiti dagli architetti Caterina e Federico Poggioli hanno restituito alla comunità un bene in cui sono leggibili e non camuffate le stratificazioni temporali di una lunga storia. Destinata a proseguire: nel prossimo futuro nell’edificio si insedierà una scuola di circo. (VS)
ANCONA: UNDICI IMMOBILI PUBBLICI SARANNO RIQUALIFICATI
Ex Caserma Stamura, Ex Faro Cappuccini, Ex Monastero Santa Palazia, Sede DR Marche, Parco “La Cittadella”, Ex Forte Garibaldi, Ex edificio Capitaneria di Porto, Ex Sede INPS, Ex Centrale del Latte, Ex Mattatoio e Casermaggio Parco del Cardeto: sono gli undici edifici individuati dall’accordo tra Agenzia del Demanio, Comune di Ancona, Regione Marche, Autorità Portuale e Università Politecnica delle Marche, che verranno rigenerati e valorizzati tramite partenariati pubblico-privati. L’iniziativa punta a rafforzare il turismo, la ricerca e la sostenibilità. (Carolina Chiatto)
PIACENZA SI INTERROGA SUL SUO PATRIMONIO EDILIZIO “IN ATTESA” "'Scoprire gli spazi abbandonati significa provare ad assegnare loro un senso. Vedere è un atto della volontà. Vedere la presenza dell’abbandono è scoprire le potenzialità". Sono parole di Loredana Mazzocchi, presidente dell’Ordine degli Architetti PPC di Piacenza cui si deve il recente progetto Spazi in attesa. Curata da Filippo Albonetti, Maria Teresa Bricchi e Martina Sogni, l’iniziativa ha incoraggiato la comunità locale e professionisti di vari settori a prendere parte a un iter di costruzione della consapevolezza intorno alle potenzialità degli spazi dismessi, incompiuti o residuali presenti nel contesto cittadino, incluse le numerose caserme militari di Piacenza. Una mostra, allestita negli spazi di XNL Piacenza, ha riunito i risultati di un percorso che nell’arco di sette mesi ha coinvolto 150 partecipanti in varie attività, tra cui un contest fotografico finalizzato a riconoscere e osservare gli edifici in attesa di nuove funzioni e identità. (VS)
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Dopo la conclusione della sessione di aste di arte moderna e contemporanea di Christie’s e Sotheby’s a Parigi, i risultati solidi, per quanto non stellari di una settimana da circa 90 milioni di euro fanno ben sperare, in un momento ancora interlocutorio per gli andamenti del mercato, per le vendite che si terranno a maggio a New York. E sono, infatti, di peso i cataloghi degli incanti riservati per la Grande Mela, il centro da sempre più influente in quanto a potere di spesa per il mercato dell’arte. Da una sedia elettrica gigante di Andy Warhol alla collezione di Daniella Luxembourg, che celebra, anche, l’arte italiana post-war.
Arriva per la prima volta sul mercato, il 12 maggio 2025, alla 20th Century Evening Sale di Christie’s a New York Big Electric Chair (1967–68) di Andy Warhol, una tela monumentale, dalla celeberrima serie Death and Disaster, custodita finora dai collezionisti belgi Roger Matthys e Hilda Colle, che l’acquisirono l’anno dopo la prima retrospettiva di Warhol al Moderna Museet di Stoccolma del 1968. La stima non è pubblica, ma dovrebbe partire da $30 milioni. Opere comparabili hanno raggiunto a New York quota $20,4 milioni da Sotheby’s a maggio 2014 e $19 milioni da Christie’s nel 2019. Nella stessa sessione di vendita sarà poi “sorvegliato speciale” anche Claude Monet, con il dipinto Peupliers au bord de l’Epte, che fu del leggendario mercante Paul Durand-Ruel e arriva in asta con stime da $30-50 milioni, insieme a una nuova selezione di capolavori dalla collezione Sid e Anne Bass, con Frank Stella, Ellsworth Kelly, Alexander Calder e, di Mark Rothko, No. 4 (Two Dominants) [Orange Plum Black] del 1950-51. Mentre, nello stesso giorno, si esita anche il catalogo Leonard & Louise Riggio: Collected Works, dedicato a una grande collezione che contiene, tra gli altri, Mondrian e Magritte, passando per Picasso e Giacometti. Il giorno dopo, per la 21st Century Evening Sale, la palla passerà a un Jean-Michel Basquiat da $20-30 milioni, Baby Boom del 1982.
La collezione di Daniella Luxembourg in asta da Sotheby’s
A rispondere, lotto su lotto, ci sarà naturalmente Sotheby’s, con le due sessioni Modern Art e The Now and Contemporary Evening Auction del 13 e 15 maggio 2025. Pronta a salire sul rostro c’è di certo la collezione di arte italiana e americana della gallerista Daniella Luxembourg, con una selezione di 15 lotti per un valore di oltre 30 milioni di dollari, che spazia da una eccezionale Fine di Dio in rosa e glitter di Lucio Fontana del 1963 (stima di $12-18 milioni) a un Cretto di Burri nerissimo del 1976 (stime di $2,5-3,5 milioni) – esposti in anteprima da Sotheby’s a Milano ad aprile, prima di approdare a New York –, insieme alle sculture di Alexander Calder (Armada, 1945, stime $5-7 milioni) e Claes Oldenburg (Soft Light Switches, 1963-69, stime $1-1,5 milioni), tra gli altri.
È però Grande tête mince (Grande tête de Diego) di Alberto Giacometti del 1955, dalla collezione del tycoon del real estate Sheldon Solow, scomparso nel 2020, e in consignment dalla Soloviev Foundation, il lotto più costoso per questa sessione di New York, con stime da $70 milioni, sempre in casa Sotheby’s, che si è aggiudicata anche una selezione di 40 lotti dalla collezione della famiglia di Roy Lichtenstein, per un valore complessivo intorno ai $35 milioni. Il busto in bronzo di Giacometti appartiene a un’edizione di sei esemplari, di cui una versione è stata venduta per $53 milioni nel 2010 da Christie’s (ben oltre le stime di $25-35 milioni) e un’altra, nel 2013 da Sotheby’s, per $50 milioni (da stime di $35-50 milioni). A giustificare i valori di partenza ben più alti fissati ora da Sotheby’s è non solo la qualità intrinseca dell’opera, ma anche l’incremento dei prezzi per Alberto Giacometti negli anni più recenti, a cominciare dal record d’asta del 2015 per Pointing Man, sempre dalla collezione Solow, a quota $141,3 milioni e continuando con l’aggiudicazione di Le Nez dalla Macklowe Collection per $78,4 milioni. Non resta che vedere quali risultati, per Giacometti e per il mercato dell’arte tutto, porterà la settimana delle aste di New York.
a sinistra in alto: Andy Warhol, Big Electric Chair , 1967–68. Courtesy Christie’s Images Ltd. in basso: La collezione di Daniella Luxembourg nella casa di New York. Courtesy Sotheby’s sopra: Alberto Giacometti, Grande tête mince (Grande tête de Diego) , 1955. Courtesy Sotheby’s
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Si intitola “Intelligens. Natural. Artificial. Collective” la 19. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, aperta dal 10 maggio al 23 novembre 2025. Una Biennale a tratti atipica, a partire dalla chiusura del Padiglione Centrale dei Giardini, in fase di restauro. Nelle pagine che seguono, un affondo sulla kermesse, con interviste, approfondimenti sui padiglioni internazionali e gli eventi da non perdere
DI VALENTINA SILVESTRINI
Sul finire del 2023, quando la notizia della curatela della 19. Mostra Internazionale di Architettura all’architetto e ingegnere Carlo Ratti ha raggiunto le redazioni di mezzo mondo, l’immagine del “mondo in fiamme” da lui evocata nel breve commento di accettazione dell’incarico suonava già tragicamente sinistra. Nei mesi a seguire, il disastroso scenario dal quale l’architettura (l’umanità) sembrano non riuscire più sottrarsi, ha assunto contorni più nitidi. E allarmanti. Rimanda alla realtà straziante dei conflitti che sterminano ovunque comunità e territori, ma soprattutto alle recenti catastrofi ambientali che hanno stravolto l’assetto di intere aree urbane. “Con gli incendi di Los Angeles, le alluvioni di Valencia e Sherpur, la siccità in Sicilia, abbiamo assistito in prima persona a come acqua e fuoco ci stiano attaccando con una ferocia senza precedenti” ha spiegato Ratti alla presentazione della Biennale veneziana, al via il 10 maggio prossimo. “Il 2024 ha segnato un momento critico: la Terra ha registrato le temperature più calde di sempre, spingendo le medie globali ben oltre il limite di +1,5°C fissato dagli Accordi di Parigi del 2016. In soli due anni, il cambiamento climatico ha impresso un’accelerazione che sfida anche i modelli scientifici più validi”. Il tempo della mitigazione, intesa come modalità progettuale per ridurre l’impatto umano sul clima, è finito. Siamo entrati nell’età dell’adattamento. E la Biennale Architettura 2025, associando voci e forme di intelligenza diverse, proverà a fare la sua parte per metterci – letteralmente – al sicuro.
LA BIENNALE ARCHITETTURA 2025 NON SARÀ ESCAPISTA.
INTERVISTA A CARLO RATTI
“Entusiasmante e sconfortante”. Così ha definito l’esito dello “space for ideas” con cui, per la prima nella storia di questa kermesse, sono stati selezionati i partecipanti alla mostra principale. Perché? Per l’alto numero di candidature. Più che sconfortante, si potrebbe forse dire che la grande quantità di risposte ci ha messo timore.
LA BIENNALE ARCHITETTURA 2025 IN NUMERI
“La sua speciale visione travalica la contemporaneità – che è il tempo della dismissione – per fare dell’architettura, riparo dell’uomo dalla notte dei tempi, capacità di abitare il mondo. Nell’agone dialettico delle varie discipline, costellato da algoritmi che interpella al modo di oracoli, Ratti decifra ciò che siamo e che saremo – come individui e società – nel flusso digitale che ci destina nel domani, il tempo di tutti noi Gens dotati di Intelligenza”: con questa dichiarazione Pietrangelo Buttafuoco, Presidente della Biennale di Venezia per il quadriennio marzo 2024 – 2027, ha introdotto nel febbraio 2025 Carlo Ratti, scelto come curatore della 19. Mostra Internazionale di Architettura su proposta del precedente Presidente Roberto Cicutto (in accordo con lo stesso Buttafuoco). Formatosi in architettura e ingegneria al Politecnico di Torino e all’École Nationale des Ponts et Chaussées a Parigi, ha conseguito un Master of Philosophy e un PhD in Architettura all’Università di Cambridge in Inghilterra, completando la sua tesi di dottorato come Fullbright Scholar presso il Massachusetts Institute of Technology (MIT). Proprio al MIT e al Politecnico di Milano oggi insegna; dirige il Senseable City Lab ed è socio fondatore dello studio di architettura e innovazione CRA-Carlo Ratti Associati, con sedi a Torino, New York City e Londra. Tra i dieci studiosi più citati a livello internazionale nel campo della pianificazione urbana, è co-autore di oltre 750 pubblicazioni scientifiche ed è regolarmente presente con articoli di opinione sui maggiori media internazionali. Prima di Venezia, ha maturato esperienze curatoriali in tutto il mondo: tra gli incarichi ricoperti si ricordano quello di curatore del padiglione Future Food District per Expo 2015 Milano, di capo curatore dell’ottava Biennale di Urbanistica/Architettura di Shenzhen (UABB) nel 2019, co-curatore della seconda Biennale di Design di Porto nel 2021 e Mediatore Creativo responsabile della pluripremiata Visione Urbana della Biennale Nomade Europea Manifesta 14 a Pristina nel 2022.
Quale istantanea delle intelligenze in circolazione nel mondo restituisce?
Tantissima innovazione proviene dai margini. Attraverso lo “space for ideas” sono arrivate voci inedite, che non avremmo mai scoperto. Non saremmo stati in grado di restituirle partendo soltanto da un osservatorio top-down.
Più partecipanti di sempre, ma meno spazi espositivi canonici delle precedenti edizioni (data la ristrutturazione del Padiglione centrale). Sulla carta la sua Intelligens. Natural. Artificial. Collective sarebbe potuta essere una mostra “più umana” del solito, perché circoscritta in un’unica sede. Ci attende invece un allestimento sterminato e molto denso?
Nelle Corderie forse ci sarà un po’ di densità. Ma non estrema e, in ogni caso, interessante. Dobbiamo immaginare che avremo più di 750 partecipanti “catapultati a Venezia” (tra l’altro alcuni stanno ancora aggiungendo collaboratori, quindi vedremo alla fine quanti saremo). Varie discipline, più generazioni che lavorano insieme, un laboratorio. Sarà una densità utile, perché capace di creare connessioni insospettabili. Spostando poi il Padiglione centrale all’esterno, in giro per la città, riusciamo a recuperare molto spazio. E così ci sarà una parte di mostra in Piazza San Marco, un’altra all’Università IUAV e in altri luoghi ancora.
OLTRE
INTELLIGENS. NATURALE. ARTIFICIALE. COLLETTIVA di apertura al pubblico (10 maggio – 23 novembre 2025)
attraversati dai visitatori (Natural Intelligence, Artificial Intelligence, Collective Intelligence)
1
sezione conclusiva ( Out) partecipanti
OLTRE
750 66
partecipazioni nazionali organizzano le proprie mostre (erano 63 nel 2023)
26 le presenze nazionali nei Padiglioni ai Giardini
25 le presenze nazionali all’Arsenale
15 le presenze nazionali nel centro storico di Venezia
4 le nuove partecipazioni: Repubblica dell’Azerbaijan, Sultanato dell’Oman, Qatar, Togo
Tante intelligenze in campo, incluse quelle di artisti, stilisti, cuochi, scrittori, intagliatori, agricoltori. La criticheranno a partire dalla domanda: “Ma l’architettura vera c’è alla Biennale di Ratti?”. Cosa si sente di rispondere?
Ho sentito questa critica più volte. Ma in Intelligens l’architettura è proprio il fulcro e chiama a raccolta le altre discipline. Per la prima volta avremo diversi premi Nobel, scienziati, professori, scrittori, i principali filosofi viventi, tutti coinvolti nel medesimo progetto. Quello che proponiamo non è un approccio escapista dell’architettura, che abdica alle proprie responsabilità e si insinua in altri saperi. Al contrario: rivendichiamo la sua centralità – e quindi quest’anno sì, si parlerà di ambiente costruito –, e la necessità di coinvolgere le altre intelligenze affinché l’aiutino nella crisi odierna.
Il primo “space for ideas”; la prima volta (almeno negli ultimi anni) in cui la mostra raggiunge lo spazio pubblico di Venezia: se dovesse indicare un aspetto per il quale vorrebbe che questa Biennale restasse in mente, cosa sceglierebbe?
In una riga: la Biennale che fa vedere che l’architettura deve passare da mitigation ad adaptation. Ovvero far capire che l’architettura ha un ruolo centrale di fronte alla sfida più grande sul pianeta: adattarsi a un contesto climatico che cambia.
i progetti selezionati per la II edizione di Biennale College Architettura 2024-2025
studenti/studentesse, laureati/e e professionisti/e emergenti under 30, provenienti da 49 paesi in tutto il mondo si sono candidati al bando Biennale College Architettura
il contributo per la realizzazione dei progetti scelti
partecipazione consecutiva per il Padiglione delle Arti Applicate, presentato alla Biennale di Venezia e il Victoria and Albert Museum di Londra. Il progetto On Storage, a cura di Brendan Cormier con lo studio Diller Scofidio + Renfro (DS+R), esplora l’architettura globale degli spazi di deposito al servizio della circolazione degli oggetti; include un nuovo film a sei canali, diretto da DS+R
gli eventi collaterali ammessi dal curatore e promossi da enti e istituzioni nazionali e internazionali senza fini di lucro
1
Leone d’Oro alla Carriera: a Donna Haraway
Leone d’Oro Speciale alla Memoria: a Italo Rota
Altro?
Aggiungerei l’open call, i tanti partecipanti, l’aver inteso come un’opportunità anziché come un problema la chiusura del Padiglione centrale: abbiamo permesso alla Biennale di “andare a spasso” per la città. E infine, l’idea di utilizzare la Biennale come piattaforma discussione, grazie alla collaborazione con tante istituzioni: COP30, C40, la Baukultur Alliance, il Soft Power Club.
Non da ultima, ancora una novità: il Manifesto di Economia Circolare, redatto con Arup ed Ellen MacArthur Foundation, per promuovere un modello di gestione più sostenibile in questa gamma di eventi. Alla fine del semestre di apertura, con il report sulle presenze, ci attende un feedback sulla sua applicazione?
Rispetto a questo tema abbiamo riscontrato una comunanza di visioni in tante partecipazioni. È un campo in cui il curatore non ha un controllo rigido e ufficiale, ma credo che vedremo proposte interessanti. Dal canto nostro, abbiamo favorito il dialogo tra tutti i curatori di padiglioni nazionali.
La prima opera permanente dell’architetta Lina Ghotmeh in Italia sarà il Padiglione del Qatar ai Giardini della Biennale di Venezia. La progettista di origini libanesi, fondatrice e direttrice dello studio di base a Parigi Lina Ghotmeh — Architecture, ha infatti vinto il concorso internazionale – organizzato da Malcolm Reading Consultants, per conto del colosso Qatar Museums –, per la progettazione di una
nuova struttura destinata ad accrescere il circuito espositivo della città lagunare. Una notizia che alimenta almeno due, immediate, considerazioni. Da una parte quella relativa all’ulteriore consolidamento del Qatar nello scacchiere culturale (e geopolitico) globale, valutazione già suscitata dall’annuncio, arrivato nei mesi scorsi, di voler investire nel contesto veneziano, sostenendo la costruzione di un padiglione permanente in un’area tanto prestigiosa quanto complessa (e discussa). Dall’altra, il 2025 potrebbe essere ricordato per la definitiva ascesa di Ghotmeh, che con il suo studio nel primo trimestre dell’anno ha ottenuto due commesse di rilievo, entrambe in Europa: dopo il successo, lo scorso febbraio, al concorso per il rinnovamento delle gallerie del Western Range del British Museum, ad aprile è infatti arrivato l’incarico del Qatar in Italia. Il Padiglione del Qatar occuperà un’area adiacente il Padiglione Stirling, a sua volta inaugurato nel 1991, su progetto dell’architetto a cui deve la denominazione. Commissionato da Sua Eccellenza S.E. Shaikha Al Mayassa, per conto dello Stato del Qatar, sarà il terzo padiglione eretto ex novo, nell’arco di oltre cinquant’anni, nel circuito dei Giardini. “Lina possiede una visione del mondo e una sensibilità nate nella sua terra d’origine, il Libano, che si sono estese ben oltre i confini culturali. Ha abbracciato con entusiasmo la nostra visione del Padiglione del Qatar come piattaforma per la creatività artistica, architettonica e culturale della nostra nazione e della regione che comprende Medio Oriente, Nord Africa e Asia meridionale” ha commentato Sua Eccellenza Sheikha Al Mayassa, in una dichiarazione in cui non mancano i ringraziamenti a “la Repubblica Italiana per la visione volta ad avvicinare le nostre due nazioni attraverso l’arte e la cultura”. Dal canto suo, Lina Ghotmeh ha paragonato il Qatar a “un faro culturale per l’intera regione MENASA. È emozionante avere l’opportunità di progettare il Padiglione del Qatar negli storici Giardini de La Biennale di Venezia”.
Per il concorso è stata adottata la forma della selezione su invito: nove i finalisti, ai quali è stato quindi chiesto di sviluppare una proposta progettuale nell’arco di venti settimane. Big internazionali hanno composto il comitato di advisory, presieduto dall’architetto Rem Koolhaas.
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Fondatrice di Tstudio, con sede a Roma, nell’ottobre 2024 Guendalina Salimei si è aggiudicata l’avviso pubblico a due fasi promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del MiC per la curatela del Padiglione Italia alla 19. Mostra Internazionale di Architettura. Quello che l’ha condotta al successo è stato un iter selettivo con modalità fin qui senza precedenti, almeno per il settore architettura: il progetto TERRÆ AQUÆ. L’Italia e l’intelligenza del mare ha avuto prima accesso alla terna finalista (dieci i dossier complessivamente selezionati), per poi essere scelto dal Ministro Alessandro Giuli. Quest’ultimo, nella sua dichiarazione ha voluto sottolineare come la proposta collochi al centro “l’urgenza del mare come humus originario e destino comune, come occasione nomadica, frontiera mobile, paesaggio interiore dell’uomo che ridisegna architetture liquide e città sommerse. L’anima di Venezia che ne contiene il corpo sempre vivo”. Attualmente impegnata, proprio con Tstudio, su scala nazionale e internazionale in diversi interventi relativi a waterfront – a tal proposito si ricorda la riqualificazione urbana del waterfront in corso a Messina, incarico anche questo esito di un concorso –, Salimei fin dall’avvio del processo ha incoraggiato a guardare all’Italia dal mare, adottando “un cambiamento di prospettiva” per porre al centro dell’analisi la peculiare dimensione del confine tra terra e acqua.
GUENDALINA SALIMEI
E IL PADIGLIONE ITALIA
ALLA BIENNALE ARCHITETTURA 2025
Ipotizziamo sia il 24 novembre 2025. La Biennale si è chiusa. I dati sugli accessi sono stati diffusi; il Padiglione Italia sta per essere disallestito. Per quale concetto, intuizione, visione le piacerebbe venisse ricordato TERRÆ AQUÆ. L’Italia e l’intelligenza del mare?
Per l’aver portato all’attenzione globale un tema molto caro al nostro Paese, ma anche complesso, in cui si inseriscono architettura, paesaggio, infrastrutture. Un tema dalla forte interdisciplinarità. Dopo aver affrontato l’abitare, le aree interne, le fabbriche, la sostenibilità, tra le altre questioni, ora il Padiglione Italia si concentra su uno spazio paradigmatico: quel limite tra la terra e l’acqua, che circonda tutta la Penisola. È anche un modo per cercare di vedere oltre il nostro mestiere come viene normalmente inteso, così da ribadire la capacità dell’architettura di coordinare tutta una serie di saperi, discipline e punti di vista. Penso infatti che uno dei ruoli futuri degli architetti sarà proprio in quello di organizzare più tipi di conoscenze. Come fa un direttore d’orchestra.
E in relazione al processo curatoriale?
Mi piacerebbe si ricordasse la volontà di coinvolgere più persone. Oggi, più che mai, serve uno sforzo collettivo: da soli non si possono risolvere tutte le problematiche in essere. Sì, mi sarei potuta fermata alle mie
conoscenze, ma ho scelto di andare a chiedere, tramite la call, per realizzare un intervento più ampio e favorire un’intelligenza più estesa. Un processo che era stato già fatto da Aldo Rossi, in veste di “curatore totale”, nel 1985, quando ancora non esisteva il Padiglione Italia. All’epoca ero una studentessa: mi ricordo di aver mandato una mia piccola proposta. Ieri come oggi mi sembra un modo molto interessante di lavorare; sono convinta di aver fatto la cosa giusta.
Ratti, proprio commentando la sua open call, l’ha definita “entusiasmante e sconfortante” per l’alto numero di proposte e per l’impegno in termini di valutazione che ha comportato. Quale tipo di consapevolezza emerge dal “ribaltamento di prospettiva” che lei ha voluto favorire?
È stata un’esperienza difficilissima: mi sono trovata a gestire quasi 600 proposte. Un risultato pazzesco, ma anche una fatica immensa. La risposta è stata eterogenea, con progetti più estemporanei, altri frutto di lavori oppure di ricerche in corso da tempo; altri ancora sono più visionari. È emerso che il tema è sentito e cruciale; le risposte sono arrivate un po’ da tutta
Architetta, PhD in Architettura. Teoria e Progetto, Professore in Progettazione Architettonica alla Sapienza Università di Roma, ha fondato e dirige il Tstudio, di base a Roma. Nel suo lavoro affianca la pratica del progetto etico alla ricerca sperimentale per migliorare la qualità e le condizioni di vita negli ecosistemi naturali e antropici complessi. Dirige il Master in Progettazione degli Edifici per il Culto alla Sapienza Università di Roma. A partire dal triplice principio di sostenibilità ambientale, economica ed etica, dal punto di vista progettuale opera spesso in condizioni di degrado urbano e disagio sociale. Tra le sue opere si ricordano: le riqualificazioni della Crypta Balbi e di altre aree archeologiche a Roma; del Museo Egizio e del Concentrico di Stupinigi a Torino; di via Sparano e dell’ex Caserma Rossani a Bari; del Convento San Benedetto e del Mercato di Michelucci a Ferrara; le riqualificazioni dei waterfront a Mola di Bari, Bari, Napoli, Taranto, Cagliari; i social housing di Ceccano (FR) e del quartiere Primavalle di Roma, il Km Verde di Corviale a Roma e l’intervento nell’Isola Madre di Taranto; il Museo di Arte Contemporanea di Foligno (PG) e il Mercato di Cagliari. Con all’attivo importanti riconoscimenti, è autrice di numerose pubblicazioni di carattere scientifico, accademico e divulgativo tra cui monografie, saggi, articoli e interviste.
Italia. Segnalo, in particolare, quelle dal bacino di Venezia, che forse numericamente sono le più consistenti. Ma non sono mancati gruppi di ricerca da Sicilia e Sardegna, tra gli altri, le scuole.
Focalizziamoci sui contenuti. Tra le dimensioni da lei citate in conferenza stampa rientra quella infrastrutturale. Ovvero?
Parlando di infrastrutture, penso soprattutto al patrimonio esistente (spesso controverso): i porti, tutti i sistemi e le dotazioni legati all’organizzazione portuale, che talvolta hanno eroso brani di città o sono andati a interferire con zone strategiche, i sistemi di difesa costiera. E penso anche alle linee ferroviarie: una quota rilevante della costa italiana è tagliata dalla ferrovia, in tanti casi realizzata proprio sul mare. Alcune andrebbero rimosse, altre ripensate, altre ancora organizzate. Tutto questo sarà oggetto di analisi e reinterpretazione.
Cosa dobbiamo aspettarci a livello di allestimento?
Un padiglione-wunderkammer. Sarà un affresco che, in qualche modo, racconta come ogni processo in corso nel Paese sia fondamentale per sensibilizzare, in primis, le amministrazioni e gli Enti pubblici (tra cui le autorità portuali) su tante aree (anche demaniali e pubbliche) che potrebbero essere recuperate e riattivate. L’idea è contribuire a responsabilizzare chi gestisce la cosa pubblica e le comunità.
Troppo densi, troppo rarefatti, troppo concettuali: gli spazi del Padiglione Italia ai Giardini delle Tese vengono considerati non semplici da allestire e, negli anni, sono state mosse critiche di varia natura. Lei come ha inteso la struttura e il senso stesso della mostra?
L’allestimento è stato progettato da TStudio e dallo studio Giammetta, lo abbiamo fatto insieme. Personalmente credo nella forza della Biennale come grande laboratorio di innovazione in grado di raggiungere tante persone; di conseguenza considero il progetto del padiglione come imprescindibile, è il cuore di tutta l’operazione. Deve essere un attivatore di processi, pensieri, possibilità. Tra i progetti esposti una sezione sarà dedicata a quelli in via di realizzazione, non solo a quelli realizzati; andremo anche alla scoperta di tantissime aree archeologiche e di “territori nascosti”. Alcuni contributi saranno restituiti tramite video e supporti multimediali.
Ratti ha redatto e diffuso il Manifesto di economia circolare, invitando anche i padiglioni nazionali a ridurre gli sprechi e a riutilizzare materiali dell’allestimento. Queste linee guida sono state recepite dal suo progetto?
Sì, assolutamente. Quanto utilizzato potrà essere impiegato in un momento successivo. Ormai questo deve essere il principio operativo per tutti, altrimenti quanto facciamo perde di senso e credibilità.
TERRÆ AQUÆ. L’Italia e l’intelligenza del mare, titolo del progetto per il Padiglione Italia alla Biennale Architettura 2025, è promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Il Commissario del Padiglione Italia è Angelo Piero Cappello, Direttore Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura.
IL CALENDARIO DEGLI EVENTI DEL PUBLIC PROGRAMME “GENS”
Collective Baukultur
Teatro Piccolo Arsenale (Campo de la Tana, 2161, Venezia) sabato 10 maggio, ore 17:00 - 19:00
Via col vento (caldo)?
Città e patrimonio artistico di fronte alla crisi climatica
Ca’ Giustinian, Sala delle Colonne (San Marco 1364/A – 30124, Venezia) martedì 13 maggio, ore 10:00 - 13:30
The Intelligence of Cities
Ca’ Giustinian, Sala delle Colonne (San Marco 1364/A – 30124, Venezia) sabato 24 maggio, ore 10:00 - 19:00
European Cities Conversation on Climate-Responsive Urbanism and Architecture
Ca’ Giustinian, Sala delle Colonne (San Marco 1364/A – 30124, Venezia) mercoledì 28 maggio, ore 10:00 - 14:00
Le Startup Climate Tech
Corderie dell’Arsenale, Speakers’ Corner sabato 7 giugno, ore 15:00 - 19:00
GRAN BRETAGNA
GBR: GEOLOGY OF BRITANNIC REPAIR
Esito del lavoro corale di un team multidisciplinare che ha unito Regno Unito e Kenya, il progetto espositivo esamina la connessione tra architettura e colonizzazione e prova a smantellare la visione estrattiva della pratica.
Owen Hopkins, Kathryn Yusoff, Kabage Karanja, Stella Mutegi Giardini
IRLANDA ASSEMBLY
Il canto degli uccelli, lo scorrere di un fiume, la folla a un festival all’aperto: sono tra gli stimoli che compongono il “paesaggio sonoro da abitare e da ascoltare” del padiglione irlandese 2025.
Cotter & Naessens Architects Arsenale
PORTOGALLO PARAÍSO, HOJE (PARADISO, OGGI)
Un’installazione interattiva e un atlante di immagini scandiscono il percorso del progetto portoghese, che prova a introdurre un punto di vista ottimista nel convulso presente.
Paula Melâneo, Pedro Bandeira e Luca Martinucci Fondaco Marcello
SPAGNA INTERNALITIES ARCHITECTURES FOR TERRITORIAL EQUILIBRIUM
Il progetto curatoriale esplora come l’architettura possa contribuire alla decarbonizzazione della Spagna, tra materiali locali e rigenerativi e la loro riconnessione con i luoghi d’origine.
Roi Salgueiro Barrio,Manuel Bouzas Barcala Giardini
FRANCIA LIVING WITH / VIVRE AVEC
Chiuso per ristrutturazione, il padiglione francese si “irradia” nelle sue immediate vicinanze: il cantiere, il giardino e il canale diventano così parte di un’esperienza architettonica e sensoriale.
Dominique Jakob e Brendan MacFarlane, Éric Daniel-Lacombe, Martin Duplantier Giardini
SANTA SEDE OPERA APERTA
SVIZZERA ‘ENDGÜLTIGE FORM WIRD VON DER ARCHITEKTIN AM BAU BESTIMMT’ (LA FORMA FINALE È DETERMINATA DALL’ARCHITETTA SUL CANTIERE)
Fulcro della partecipazione sono le tematiche di genere e l’inclusione nella professione architettonica, a partire da una ricognizione su Lisbeth Sachs, tra le prime architette registrate in Svizzera.
Elena Chiavi, Kathrin Füglister, Amy Perkins, Axelle Stiefel e Myriam Uzor Giardini
GRANDUCATO DI LUSSEMBURGO SONIC INVESTIGATIONS
Cosa accade quando un padiglione sposta l’attenzione della dimensione visiva a quella uditiva? È l’invito lanciato dal Lussemburgo, con un progetto dichiaratamente ispirato dalla silent song 4’33’’ di John Cage.
Valentin Bansac, Mike Fritsch, Alice Loumeau Arsenale
Realizzato da Tatiana Bilbao ESTUDIO e MAIO Architects, il padiglione agisce “come un cantiere, come un processo in corso a cui tutti sono invitati a collaborare” secondo SE Cardinal José Tolentino de Mendonça.
Marina Otero Verzier, Giovanna Zabotti
Complesso di Santa Maria
Ausiliatrice, Fondamenta S. Gioacchin, Castello 450
GERMANIA STRESSTEST
Persone, animali, piante, infrastrutture: tutti, in modi diversi, saremo a malapena in grado di tollerare i livelli che le temperature raggiungeranno nel prossimo futuro. Il grido d’allarme del padiglione tedesco è un invito all’azione immediata.
Nicola Borgmann, Elisabeth Endres, Gabriele G. Kiefer, Daniele Santucci Giardini
LETTONIA PAESAGGIO DI DIFESA
Qual è il rapporto tra difesa militare e contesto lettone? La prossimità geografica con le aree di conflitto ispira una riflessione di respiro geopolitico sull’inevitabilità di provvedere alla difesa nazionale.
Liene Jākobsone & Ilka Ruby Arsenale
CANADA PICOPLANKTONICS
Anziché sfruttare il pianeta, possiamo iniziare a ripararlo per garantire la sopravvivenza della specie umana? Il padiglione canadese rivaluta una particolare specie di cianobatteri marini (picoplancton), in grado di ridurre l’anidride carbonica atmosferica.
Living Room Collective (Andrea Shin Ling, Nicholas Hoban, Vincent Hui and Clayton Lee) Giardini
USA
PORCH: AN ARCHITECTURE OF GENEROSITY
Riunendo i contributi di un’open call nazionale, il progetto raccoglie installazioni sull’archetipo del portico, sottolineandone le valenze a livello sociale e climatico e il ruolo intermedio tra natura e architettura.
Peter MacKeith, Fay Jones School of Architecture and Design, University of Arkansas Giardini
ARGENTINA SIESTARIO
Il silobag, ampiamente impiegato nelle campagne argentine come copertura temporanea, nelle piscine e come riparo agli animali, a Venezia sovverte le sue origini: diventa spazio di relax e contemplazione collettiva.
Juan Manuel Pachué, Marco Zampieron Arsenale
ARABIA SAUDITA
THE UM SLAIM SCHOOL: AN ARCHITECTURE OF CONNECTION
Nel duplice ruolo di archivio vivente e spazio interattivo, il padiglione si concentra sulla ricerca di Syn Architects, studio di architettura di Riyadh fondato dalle architette Sara Alissa e Nojoud Alsudair, e tratteggia un nuovo orizzonte per la formazione architettonica locale.
Beatrice Leanza Arsenale
In che modo l’architettura può mobilitarsi per una maggiore sicurezza alimentare? Soluzioni appositamente sviluppate per gli ambienti aridi sono il fulcro del padiglione, che riunisce anche modelli di serra disegnati per integrarsi negli ambienti urbani.
Azza Aboualam Arsenale
QATAR BEYTI BETAK. MY HOME IS YOUR HOME LA MIA CASA È LA TUA CASA
Due sedi per l’esordio del Qatar, che esamina la dimensione architettonica e urbana dell’ospitalità nell’area MENASA. Beyti Beytak include l’installazione in bambù Community Centre, opera del 2024 dell’architetta pakistana Yasmeen Lari, e una mostra ad ACP-Palazzo Franchetti.
Aurélien Lemonier, Sean Anderson Giardini e ACP-Palazzo Franchetti
SULTANATO DELL’OMAN TRACES
Riflettori puntati sul Sablah, spazio architettonico tradizionale omanita che incarna l’identità locale. Luogo per eccellenza dell’ospitalità, del dialogo intergenerazionale e dello scambio, viene considerato un modello per la progettazione di ambienti riadattabili, in cui interagire.
Majeda Alhina Arsenale
REPUBBLICA DELL’UZBEKISTAN A MATTER OF RADIANCE
Il Sun Institute of Material Science, costruito nel 1987 vicino a Tashkent e tra gli ultimi grandi progetti scientifici promossi dall’ex URSS, fornisce l’occasione per riflettere sull’eredità modernista dell’Uzbekistan.
REPUBBLICA DI COREA
LITTLE TOAD, LITTLE TOAD: UNBUILDING PAVILION
Prendendo in prestito una canzone popolare coreana per bambini, il padiglione celebra il proprio trentennale con un’indagine introspettiva e una narrazione affidata a un rospo, simbolo di trasformazione e rigenerazione per molte culture.
GRACE (Ekaterina Golovatyuk, Giacomo Cantoni) Arsenale GIAPPONE IN-BETWEEN
CAC (Dahyoung Chung, Heejung Kim, Sungkyu Jung) Giardini
Pareti, percorsi, terrazza, pensilina, persino l’albero interno: l’intero padiglione giapponese è oggetto di un esperimento tra reale e immaginario legato al concetto nipponico di “ma”, ovvero lo “spazio-tempo intermedio”.
Jun Aoki Giardini
GLI 11 EVENTI COLLATERALI
DELLA BIENNALE ARCHITETTURA 2025
1 Catalonia in Venice_Water Parliaments: Projective Ecosocial Architectures
Sede: Docks Cantieri Cucchini, Castello 40/A www.waterparliaments.llull.cat
2 Deep Surfaces. Architecture to enhance the visitor experience of UNESCO sites
Sede: Palazzo Zorzi, UNESCO Regional Bureau for Science and Culture in Europe, Castello 4930 https://www.unesco.org/en
3 Intelligens. Talent EUmies Awards. Young Talent 2025
Sede: Palazzo Mora, Cannaregio 3659 https://eumiesawards.com/young_talent/about-the-awards/
4 NON-Belief: Taiwan Intelligens of Precarity
Sede: Palazzo delle Prigioni, Castello 4209 https://www.ntmofa.gov.tw/
5 Parallel Worlds, Exhibition from Macao, China
Sede: Arsenale, Campo della Tana, Castello 2126/A www.mam.gov.mo
5 Projecting Future Heritage: A Hong Kong Archive Arsenale, Campo della Tana, Castello 2126 www.hkia.net
6 Rooted Transience: AlMusalla Prize 2025
Sede: Abbazia di San Gregorio, Dorsoduro 172 https://biennale.org.sa/en
7 The Fondation Cartier pour l’art contemporain by Jean Nouvel
Sede: Fondazione Giorgio Cini, Isola di San Giorgio Maggiore https://www.fondationcartier.com/en/
8 The Next Earth. Computation, Crisis, Cosmology
Sede: Palazzo Diedo - Berggruen Arts & Culture, Cannaregio 2386 https://berggruenarts.org/it/
9 The SKYWALK by Platform Earth
Sede: Ocean Space, Campo San Lorenzo, Castello 5069 www.platformearth.org
10 unEarthed / Second Nature / PolliNATION
Sede: Giardini della Marinaressa, Riva dei Sette Martiri https://honorscollege.vt.edu/
↖ Mestre e Porto Marghera
La chiusura per ristrutturazione del Padiglione Centrale, estesa a tutto il 2025, rende eccezionalmente Venezia il “laboratorio vivente” di una Mostra internazionale senza precedenti, diffusa oltre i consueti luoghi. Installazioni, prototipi ed esperimenti inclusi nel progetto curatoriale di Carlo Ratti sono così sparsi tra i Giardini, l’Arsenale e in altri quartieri della città. Ecco dove:
In giro per Venezia:
1 Gran Caffè Quadri (al Quadri, piazza San Marco)
2 Roma è una Cometa (Ca’ Tron Venezia)
3 Archive and the City (Ca’ Giustinian)
↖ Margherissima (Forte Marghera)
4 Ai Giardini:
Voice of Commons (biglietteria Scarpa)
Constructing la Biennale (facciata del Padiglione Centrale) Manameh Pavilion
The Transspecies Kitchen
Post Office Pod: Working from Everywhere Production Potential: The Future of Vacant Buildings
Map of Glass
Bursting Bubbles
The Tide (presenza anche in Arsenale)
5 In Arsenale esterno: Gateway to Venice’s Waterways
Canal Café
Song of the Cricket Deserta Ecofolie: A prototype for minimum dwelling in the Atacama Desert and beyond Fratelli tutti
Urban Heat Chronicles Wireframe of life
Lithic Chords - Corda Litica
A house for the price of a car
Solar Cooker
The Tide (presenza anche ai Giardini) Microforesta in Movimento
CANNAREGIO
LE GRANDI MOSTRE DEL 2025
↖ Arte Salvata. Capolavori oltre la guerra dal MuMa di Le Havre Museo M9 - Mestre, fino al 31 agosto
1 Maria Helena Vieira da Silva. Anatomia di uno spazio Collezione Peggy Guggenheim, fino al 15 settembre
2 Thomas Schütte. Geneaologies Punta della Dogana, fino al 23 novembre
3 Tatiana Trouvé. La strana vita delle cose Palazzo Grassi, fino al 4 gennaio
4 Corpi Modern Gallerie dell’Accademia, fino al 27 luglio
5 Robert Mapplethorpe / Maurizio Galimberti
Le Stanze della Fotografia, fino al 6 gennaio
6 A Cabinet of Wonders. Una celebrazione di arte e natura Palazzo Grimani, fino all’11 maggio
7 AMA Collection
AMA Venezia, fino al 29 giugno
8 Di storie e di arte
Palazzo Vendramin Grimani, fino al 23 novembre
9 Matthias Schaller. Controfacciata
Casa dei Tre Oci, fino al 23 novembre
10 1932-1942. Il vetro di Murano e la Biennale di Venezia
Le Stanze del Vetro, fino al 23 novembre
11 otras montañas, las que andan sueltas bajo el agua
Ocean Space, fino al 2 novembre
12 L’oro dipinto. El Greco e la pittura tra Creta e Venezia Palazzo Ducale, fino al 29 settembre
13 Il Correr di Carlo Scarpa 1953-60
Museo Correr, fino al 19 ottobre
14 Raoul Schultz. Opere 1953-1970 Ca’ Pesaro, fino all’8 giugno
15 AMO/OMA. Diagrams Fondazione Prada, dal 10 maggio al 24 novembre
K-Pop, K-Beauty e, soprattutto, K-Art; la Corea del Sud si configura come un serbatoio di innovazioni culturali lasciate a macerare per decenni. Nonostante una storia sanguinosa, i suoi artisti non si sono mai arresi. Ora è tempo per il Paese di raccogliere i frutti della propria testardaggine e godere, finalmente, del tanto atteso prestigio internazionale
“
Tremano, le montagne e le acque, mentre con questa spada porgo ai cieli il mio giuramento; e, con un solo colpo di spada, il sangue tinge i fiumi e le montagne”. Si viene accolti così nel distretto di Jongno, Seoul, definito il volto e il cuore della Corea del Sud
A fare gli onori di casa è la statua dell’ammiraglio Yi Sun-sin, strenuo difensore della patria durante il periodo delle invasioni giapponesi (1592-1598), nonché simbolo nazionale (ufficialmente consacrato nel bronzo nell’aprile 1968). La statua precede l’entrata del palazzo reale della dinastia Joseon, Gyeongbokgung, considerato il centro nevralgico del distretto. Quest’ultimo, eretto nel 1394 e attualmente impiegato come sede del National Palace Museum of Korea, è a sua volta circondato da una moltitudine di gallerie d’arte moderna e contemporanea, quasi a sottolineare il legame indissolubile che per decenni ha caratterizzato il rapporto tra arte e potere nel Paese.
La popolarità dell’arte coreana nel mondo è emersa con prepotenza a partire dal 2013, in seguito alla seconda edizione di Frieze Masters. La fiera londinese, concepita come costola storico-artistica della già conclamata Frieze, ospitò in quell’occasione la galleria Kukje di Seoul, celebre per aver saputo identificare, promuovere e piazzare sul mercato quello che si era già dimostrato essere un movimento nazionale di grande valore. L’origine di questo movimento, ribattezzato successivamente Dansaekhwa (pittura monocromatica), si può intercettare in una generazione di artisti abbastanza sfortunati: nati all’ombra di una Corea occupata dal Giappone, hanno avuto modo di formarsi in concomitanza agli albori della divisione e conseguente guerra di Corea, e operare in seguito nel pieno del primo regime pseudo-dittatoriale del Paese. Il gruppo, formalizzatosi a partire dalla mostra Ecole de Séoul, organizzata presso il Museo Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea della capitale nel 1975, non si è mai identificato come una vera e propria
corrente artistica. I suoi componenti avevano scelto di usare lo stesso linguaggio spontaneamente: una tipologia di astrazione che, pur risultando molto simile all’estetica proposta dal Minimalismo occidentale, celava in sé delle componenti di ricerca originali. Secondo Charlotte Horlyck, autrice del libro Korean Art from the 19th Century to the Present, le metodologie pittoriche utilizzate dagli artisti Dansaekhwa non solo erano atte a spingere al limite i confini di ciò che era tradizionalmente considerato “un quadro”, ma lo facevano connotando la pratica con una certa dose di spiritualità. Quest’ultima, ben lungi dal direzionare la consuetudine artistica verso italici trionfi di barbe divine e combustioni plastiche, si manifestava come un’analisi dell’assenza, del vuoto, dei risultati dell’azione tramite la non azione. Non sorprende che i dipinti del movimento siano stati così apprezzati all’estero. Le loro forme, colori e messaggi hanno sfondato una porta aperta, ricalcando un gusto che gli occidentali avevano già da tempo radiografato e compreso. È importante, tuttavia, non separare questa tendenza dal suo contesto storico, caratterizzato da forti turbolenze politiche, battaglie sanguinose e tentativi di subordinazione dell’arte a molteplici interventi propagandistici. Il paradosso della Dansaekhwa sta proprio in questo: la disillusione degli artisti nei confronti dell’arte come mezzo di autoaffermazione politica li ha portati, per la prima volta rispetto alla storia dell’arte coreana moderna, a ripiegarsi in loro stessi, a cercare di dare voce unicamente alla propria temperatura emotiva. E, incredibilmente, proprio a partire da questa libertà sono comparse le risposte che il governo, la critica, e gli artisti stessi avevano cercato di individuare per decenni, spesso forzatamente.
Come è possibile quindi che, in cento anni di sviluppo pittorico (dalla fine dell’Ottocento agli Anni Ottanta del Novecento), la Dansaekhwa possa essere considerata la prima e unica tendenza artistica naturale? Ebbene, in questo caso separare la storia artistica del Paese dalla sua storiografia è impossibile: l’arte contemporanea sudcoreana nasce, infatti, dalle ceneri
del saldo legame che ha caratterizzato il rapporto tra arte e politica coreane in epoca moderna. Il primo tentativo di strumentalizzazione dell’arte coreana si ebbe a partire dalla colonizzazione della penisola da parte dell’Impero Giapponese, nel 1910. Se gli ultimi anni del secolare Impero Joseon erano stati caratterizzati da una spinta verso la sperimentazione artistica (resa possibile grazie alla decisione del governo di favorire eventuali scambi internazionali), il repentino cambio di potere aveva stravolto le carte in tavola. In primo luogo, ai cittadini coreani venne interdetta la possibilità di viaggiare all’estero; questo fece sì che molti artisti abbandonassero ogni ambizione di studiare in Europa, sotto la guida dei maestri occidentali, e si traferissero invece a Tokyo, dove molti pittori giapponesi avevano già fatto propri i metodi pittorici internazionali. In questo modo le sperimentazioni artistiche continuarono, mediate però dal filtro e i dettami dell’arte giapponese. In secondo luogo, il governo giapponese costrinse gli artisti coreani ad assecondare l’immaginario proposto dalla propaganda colonialista. Ne risultò una limitazione dell’immaginario pittorico, unita tuttavia a un forte entusiasmo dal punto di vista della sperimentazione tecnica. Una volta liberi dalla dominazione, i coreani ebbero modo di riflettere su quale fosse l’impronta migliore da dare al Paese. A partire dal 1945 fiorirono i circoli di intellettuali e artisti, ovvero le uniche persone rimaste a farsi carico del destino culturale e identitario della patria. Le ingerenze russe e americane non vennero inizialmente percepite come un pericolo; anzi. E mentre le due potenze agivano, l’una in reazione all’altra, le associazioni culturali si rendevano conto di quanto fosse impossibile, per loro, non essere connotate politicamente. I circoli artistici dichiararono rapidamente le loro preferenze, entusiasti di poter partecipare attivamente alla ricostruzione di una Corea libera; e se gli artisti di sinistra sostenevano che l’arte dovesse avere una funzione sociale e, quindi, essere attivamente benefica e funzionale allo stato, gli artisti di destra si battevano invece per un’arte libera, per il ritorno di un’estetica che riflettesse il motto “l’arte per l’arte”. Oggi conosciamo il destino di queste considerazioni. Molti pittori di sinistra trovarono il punto di arrivo delle loro aspirazioni nel realismo socialista e si trasferirono al Nord. Con l’arrivo della guerra civile, Seoul non era più una città sicura; la popolazione cercò rifugio nelle campagne. I pittori di destra, concentrati al Sud, si riunirono sommariamente nella città di Busan, che diventò il nuovo polo artistico e culturale sudcoreano. Qui gli artisti poterono usufruire dell’American Cultural Center, istituito dagli Stati Uniti sulla scia delle politiche riguardanti Guerra Fredda, e assistere a diverse presentazioni e convegni incentrati sulle tendenze artistiche internazionali del momento. Fu così che i pittori sudcoreani vennero a contatto con l’arte astratta: un sodalizio che finì per modificare radicalmente la storia dell’arte del Paese.
MASSACRI E MURALES: L’IMPORTANZA
DEL CONSENSO POPOLARE
Ad oggi la Corea sembra aver raggiunto il proprio equilibrio. Visitando Seoul si ha l’impressione di vivere a cavallo tra i bei tempi andati e l’iperspazio. Questo progresso socioculturale, tuttavia, ha avuto un costo: ci si riferisce di nuovo, purtroppo, a sacrifici e
Il lessico coreano utilizza, in relazione al colore bianco, un termine in più: baik. Il suo significato mescola percezioni fisiche e allusioni ultraterrene: se da un lato evoca la luminosità dei raggi del sole, dall’altro indica anche la pacifica brillantezza del Paradiso. A questa doppia natura della parola si interseca una terza etimologia, derivata dal carattere cinese so Quest’ultimo, lungi da essere considerato come un termine ombrello, riunisce in sé una pluralità di significati che tuttavia devono essere intuiti come uno solo: bianchezza, naturalezza, disposizione naturale, semplicità, sincerità, originalità, vuoto, nulla, assenza di colore. Nel saggio On the Debate about the Colour White, contenuto nell’antologia Asian Aesthetics a cura di Ken-ichi Sasaki, Ihn-Bum Lee risale ai principali motivi che hanno condotto la Corea a identificarsi non soltanto con il colore bianco ma con il concetto stesso di baik. Di questa spontanea propensione esistono numerose testimonianze, alcune molto antiche; basti pensare che, nei primissimi libri asiatici, i coreani venivano chiamati “baik-ui-min-jok”, ovvero “le persone pie vestite di bianco”. Il discorso critico vero e proprio intorno al bianco si consolidò in seguito ai primi scambi culturali con l’Occidente, parallelamente alla necessità di plasmare un’identità culturale precisa, e venne consacrato dalle sperimentazioni artistiche effettuate dal movimento Dansaekhwa. Fu in quell’occasione che i significati propri del termine si allargarono fino a comprendere l’idea di arte coreana nella sua totalità. Secondo il critico Kim Won-Ryong, la predilezione per il bianco “non era un’ammirazione per il bianco in sé, ma piuttosto un amore per la non-decorazione. I coreani semplicemente prediligevano il colore originale della materia prima e preferivano un’atmosfera tranquilla, serena e naturale, priva di decorazioni artificiali”. A seguito di questo passaggio, IhnBum Lee aggiunge che “i coreani non hanno mai né sognato né creato un altro mondo all’infuori del qui ed ora; per questo motivo hanno riprodotto una visione neutrale e strutturale del mondo, senza umanesimi, idoli o la fantasia propria della civiltà moderna. In altre parole, la nozione di bianco rispetto all’arte coreana riguarda la sua naturalezza e il suo essere informe: il bianco è accettato come il colore definitivo, cioè il colore naturalistico, non come una sorta di significante. In questo senso, il bianco rivela alcuni presupposti metafisici: il non-dualismo, il nulla e il vuoto dell’arte coreana, in contrasto con l’arte dell’Europa moderna”.
L’ARTE CONTEMPORANEA
SUDCOREANA NASCE DALLE
CENERI DEL SALDO LEGAME CHE HA CARATTERIZZATO IL RAPPORTO TRA ARTE E POLITICA
COREANE IN EPOCA MODERNA
vite umane. In seguito all’uccisione del presidente Park, avvenuta per mano del suo braccio destro, Kim Jae-gyu, l’anno 1979 venne scosso da un secondo colpo di stato. Il colonnello Chun Doo-hwan, già collaboratore di Park, si impose con la forza come nuovo presidente scatenando un’ondata di protesta nel Paese. Il 18 maggio 1980, a seguito dell’estensione della legge marziale su scala nazionale, la popolazione decise di riunirsi davanti alla Chonnam National University di Gwangju; dopo tre giorni di animate proteste, le forze dell’ordine aprirono il fuoco sulla folla. Seguì una vera e propria rivolta popolare, conosciuta attualmente come il “Massacro di Gwangju”. Per comprendere l’impatto che questo massacro ebbe sulla popolazione, è doveroso evidenziare la disparità numerica emersa tra la conta ufficiale e quello ufficiosa di caduti: 200 vs 2000, molti dei quali studenti. Ad ogni azione corrisponde una reazione: fu così che, dalle rovine dei prezzi pagati, emerse l’arte Minjung. Sulla scia delle atrocità commesse dal governo, gli artisti si impegnarono a promuovere la democrazia ad ogni costo, soprattutto at-
Chuncheon
SEOUL
Incheong
Cheonan
Suwon Cheongju
Eumseong
Cheongju
Daejeon
Jeonju
Gwangju
Daegu
Sokcho
Gangneung
traverso l’azione collettiva. Con la loro lotta, portata avanti a colpi di pamphlets, striscioni e murales, nacque il desiderio di creare una forma d’arte moderna veramente coreana, che rifiutasse le influenze dell’Occidente e si ispirasse invece alla cultura tradizionale. La maggior pare dei critici fa coincidere l’avvento del movimento Minjung, nel 1980, con la nascita effettiva dell’arte contemporanea coreana.
IL MONDO NUOVO
Si può pensare che ogni uomo abbia a disposizione un tot di cose da poter fare nella vita. Non è il caso di Achille Bonito Oliva che, tra la fondazione di un movimento artistico e l’altro, riuscì anche a trovare il tempo di stabilire un solido rapporto socioculturale tra l’Italia e la Corea del Sud. È il 1995: contemporane-
Pohang Andong
Ulsan
La 15a edizione della Biennale di Gwangju, intitolata PANSORI: A Soundscape of the 21st Century, si è tenuta l’autunno scorso, precisamente dal 7 settembre al 1° dicembre 2024. Il Padiglione Italia, alla sua seconda partecipazione, è stato rappresentato dall’artista Rebecca Moccia, che ha portato nel sud della Corea del Sud l’opera Ministries of Loneliness. Il progetto, iniziato nel 2021, indaga il rapporto tra solitudine, vulnerabilità e istituzioni, presentandosi come un’installazione immersiva. Nonostante la ricerca dell’artista fosse inizialmente riferita alla creazione, nel 2018, di un vero e proprio Ministero della Solitudine Britannico, negli anni è giunta a espandersi fino a comprendere le diverse sfumature sul tema presenti in altri quattro paesi: Italia, Stati Uniti, Giappone e Corea. Sorprendentemente risale all’ottobre 2024 la decisione, parallela all’esposizione di Moccia a Gwangju, del governo sudcoreano di stanziare 327 milioni di euro (451.3 miliardi di won) per l’istituzione del piano quinquennale Seoul without loneliness, finalizzato a combattere la più grave piaga sociale del XXI secolo.
COMMESSE DAL GOVERNO,
GLI ARTISTI SI IMPEGNARONO A PROMUOVERE LA DEMOCRAZIA
AD OGNI COSTO
amente inaugurano il Padiglione nazionale della Repubblica di Corea, a Venezia, e la prima Biennale d’Asia, a Gwangju. La questione veneziana è affascinante: nonostante esistesse una lista d’attesa per l’edificazione del padiglione (l’ultimo per questioni di spazio), la Corea del Sud riuscì a bypassare serenamente paesi come la Cina, il Portogallo e l’Argentina, con la quale le trattative erano quasi compiute. Questo perché Achille Bonito Oliva, direttore artistico della Biennale del ‘93, in occasione del Dejeon Expo conobbe l’artista Nam June Paik e si fece sedurre da un’idea innovativa: costruire un padiglione unico per entrambe le Coree. Lo slogan usato da Paik per la presentazione e l’eventuale sostegno del progetto riassume alla perfezione il sentimento descritto in queste pagine, ovvero “political healing through art”, l’auspicio di una guarigione politica attraverso l’arte. Fortunatamente, questo tentativo di connotare politicamente l’arte può essere considerato l’ultimo. Se, infatti, con l’avvento della Minjung art gli artisti coreani avevano spezzato definitivamente le catene culturali che li legavano a un passato torbido, la costruzione di proficue relazioni internazionali stava rendendo la Corea un Paese ricco (e, di conseguenza, libero). La crisi finanziaria che colpì la nazione nel ’97 non fu che un inciampo; i motori erano già caldi, la macchina pronta a scattare. Niente poteva fermare la proliferazione di un’arte finalmente indipendente e individuale, di centinaia di spazi alternativi, di grandi gallerie e istituzioni pronte a diffondere un sapere allo stesso tempo nuovo e antico.
Valentina Buzzi (1995) è una curatrice indipendente, accademica e advisor italiana con sede a Seoul e Parigi, specializzata nella curatela internazionale e cross culturale. Nel 2023 ha curato la prima partecipazione italiana alla Biennale di Gwangju, e da anni è un punto di riferimento per gli intrecci artistici tra Italia e Corea. In questa intervista ci racconta la sua prospettiva sul sistema dell’arte contemporanea in Corea del Sud.
In qualità sia di ricercatrice che di appassionata d’arte, qual è la cosa che, ad oggi, ti affascina e sorprende di più rispetto all’arte coreana?
Dopo più di cinque anni in Corea, ancora oggi rimango profondamente affascinata dalla scena contemporanea. Non solo il livello degli/delle artisti/e, da established a emergenti, è molto alto, ma l’ecosistema stesso cresce e si sviluppa in una maniera molto interessante. Uno dei motivi per i quali mi sono trasferita in Corea era studiarne il “sistema arte” da un punto di vista di politiche culturali, per imparare modi diversi di promuovere e supportare arte e cultura e assorbire buone pratiche di altri Paesi. La Corea, ad oggi, ha un sistema sia di supporto dell’ecosistema nazionale, che di promozione internazionale, che fa invidia a tutto il mondo.
In qualità di art advisor, invece, dove indirizzeresti lo sguardo di un collezionista europeo un po’ scettico?
Parto premettendo che il mio lavoro si sviluppa principalmente in ambito curatoriale, e normalmente quando lavoro in qualità di advisor è più nel merito di creare sinergie e connessioni tra Corea ed Europa a livello istituzionale o privato per nutrire lo scambio culturale ed artistico. Per i collezionisti alle prime armi, consiglio di studiare alcuni artisti e movimenti chiave, a partire dalle sperimentazioni degli anni Sessanta, dal movimento Dansaekwha, AG Group, fino ad arrivare a nomi chiave del panorama odierno come Lee Bae, Suh Doh Oh, Lee Bul, Kimsooja, Yang Haegue, e Yeesookyung (per nominarne solo alcuni). Per quanto riguarda gli emergenti, alcuni nomi chiave che mi sento di menzionare sono Jeon Hyunsun, Woo Hannah, Yunchul Kim, Hejum Ba, Jesse Chung, Mire Lee, e Lee Keunmin. Osservando i loro lavori, si può vedere la varietà e la complessità a livello di temi esplorati e medium adottati.
Negli ultimi anni molte gallerie internazionali hanno aperto una sede a Seoul. Come vedi questo fenomeno? Si avvicina più ad essere un ostacolo o un buon segno?
Sebbene negli ultimi cinque anni, la scena artistica coreana si sta espandendo molto, la Corea è un mercato che rimane piccolo ed emergente. L’arrivo di gallerie internazionali è importante sia per diversificare l’offerta e sviluppare maggiormente l’ecosistema nel suo complesso, sia per aiutare la rappresentazione di artisti coreani all’estero. Alcune gallerie, come Perro-
tin, Lehmann Maupin, o Pace, sono arrivate in Corea da più tempo, altre sono arrivate in questi ultimi anni, come White Cube o Thaddaeus Ropac, ed alcune stanno testando le acque con pop-up shows o piccoli spazi, come Gagosian e Massimo De Carlo. La verità è che in questo momento solo i grandi nomi, come quelli sopracitati, possono avere una possibilità di approcciare il mercato coreano in maniera sostenibile, mentre le gallerie di livello medio o emergente ad oggi fanno più fatica, siccome il mercato è piccolo.
Considerando la gestione e il supporto delle pratiche artistiche, trovi che il sistema italiano e coreano si equivalgano o pensi esistano degli atteggiamenti (o modus operandi) che faremmo bene a importare?
I due sistemi sono totalmente diversi, e penso che l’I-
talia possa imparare molto dalla Corea e da come il Paese sia riuscito negli ultimi 40 anni a creare un “sistema arte” che funziona e si sostiene tramite delle grandi sinergie tra fondi pubblici e mecenatismo privato. Sicuramente le premesse sono molto diverse: l’Italia ha un patrimonio culturale immenso e molto viene investito nella conservazione, mentre l’arte contemporanea non riesce a ottenere ciò che avrebbe bisogno per svilupparsi ulteriormente; la Corea, dall’altra parte, sebbene sia un Paese dalla cultura profonda e molto antica, esce dal secolo scorso completamente distrutta. Ha quindi investito su arte e cultura per necessità, con l’obiettivo di diventare rilevante nel panorama internazionale come manovra diplomatica, mentre l’Italia “siede sugli allori” perché viene già riconosciuta a livello internazionale, da secoli, come luogo ricco di cultura e di storia.
Un argomento molto sentito riguarda la centralizzazione di Seoul. Come spiegheresti la situazione ad un italiano? Ritieni che le principali istituzioni artistiche si stiano muovendo in questo senso? La maggior parte dei musei, delle fondazioni private, delle fiere, e delle gallerie, ad oggi è concentrata a Seoul. Ma esistono grandi eccellenze anche in altre città e regioni, come la Biennale di Gwangju, una delle più importanti biennali nel panorama contemporaneo.
Per di più, la città di Busan si sta sviluppando sempre di più in ambito culturale, ed è sicuramente una meta da tenere in mente, grazie alla presenza di importanti istituzioni come il Busan Museum of Art, che ospita il rinomato spazio permanente dell’artista Lee Ufan; la Biennale di Busan, che sta sempre di più conquistando la critica; e gli investimenti che la città stessa di Busan sta facendo nell’arte contemporanea, come ad esempio l’investimento nel portare il rinomato “Loop Film Festival” Europeo a Busan, un progetto in cui tra l’altro sono coinvolta, e in cui portiamo una fantastica retrospettiva dell’artista italo-americano Aldo Tambellini, con il supporto dell’Istituto Italiano di Cultura di Seoul.
Nel 2024 hai avuto modo di partecipare alla progettazione e realizzazione del Padiglione Italiano alla Biennale di Gwangju. Quali sono state le principali sfide e soddisfazioni relative a quest’esperienza?
Direi che questa seconda edizione è sicuramente stata spianata dalla prima edizione, quella del 2023, che ha visto la prima produzione di un padiglione italiano da parte di un istituto di cultura con la mia direzione artistica. E penso che abbiamo davvero realizzato una “mission impossible”, da quando ho iniziato a lavorare insieme alla Direttrice dell’IIC di Seoul, Michela Linda Magrì, nel 2022 alla progettazione del padiglione: quella di portare le eccellenze emergenti dell’arte contemporanea italiana sul territorio coreano con l’idea di favorirne lo scambio di pensiero, di idee, e di creazione. Sono davvero contenta di poter dire che queste due edizioni sono state un successo, in cui non solo abbiamo creato un’opportunità per artisti giovani ed emergenti di avere occasione di rappresentare l’Italia in una biennale, ma anche perché abbiamo creato un framework per un vero e proprio scambio culturale profondo, che potesse per di più celebrare l’indagine di temi contemporanei e necessari.
1905
La Corea diventa un prote orato giapponese
1945
La Corea, in seguito alla resa incondizionata del Giappone post Seconda guerra mondiale e al fallimento di un’ipotetica amministrazione fiduciaria (che avrebbe coinvolto gli Stati Uniti, il Regno Unito, l’Unione Sovietica e la Repubblica di Cina), viene divisa in due zone di occupazione
1910
Viene firmato il tra ato di annessione della Corea al Giappone. L’Impero della dinastia Joseon viene definitivamente sciolto
1950
Scoppia la guerra di Corea a seguito di un tentativo di invasione da parte della Corea del Nord ai danni alla Corea del Sud. Entrambi gli stati avevano, come priorità, il disegno della riunificazione nazionale
1948
A seguito degli interventi sovietici e americani sulla penisola le speranze per una Corea unificata crollano definitivamente. A distanza di un mese una dall’altra le due Coree si proclamano nazioni autonome separate 1953
1960
La Rivoluzione d’aprile sudcoreana pone fine al governo di Rhee. Il Partito Democratico, che era stato all’opposizione durante la prima repubblica, vince le elezioni
1979
Kim Jae-gyu, grande amico del presidente Park nonché capo del suo servizio di sicurezza, gli spara al pe o. Affermerà in seguito di aver compiuto un a o di patrio ismo: Park, sempre più assetato di potere, era diventato un pericolo per la democrazia
Segue la proclamazione della legge marziale
1987
Roh Tae-woo viene ele o alla presidenza dal voto popolare
1997
Una grave crisi finanziaria colpisce il Paese
L’armistizio di Panmunjeom pone fine alla guerra. I primi negoziati per la stipula di un vero e proprio tra ato di pace inizieranno nel 2018, in occasione delle olimpiadi invernali di Pyeongchang. La prima repubblica sudcoreana procede con la presidenza di Syngman Rhee. Non si può dire che il suo governo autoritario sia stato né apprezzato, né lodato
1961
Il colpo di Stato militare guidato dal maggiore generale Park Chung-hee me e fine alla seconda, breve, repubblica. Seguono due suoi mandati presidenziali
1980
La società civile coreana insorge. Le proteste sfociano nel massacro di Gwangju
1992
Kim Young-sam viene ele o presidente. È il primo presidente civile dopo trent’anni
Heeyoung Noh (1995) è una pittrice figurativa che esplora i temi del trauma coloniale e della diaspora riproducendo immagini corporee della Corea del Sud. Ci racconta il suo lavoro in questa intervista.
Per decenni la Corea moderna ha ragionato sulla propria identità; l’ha scoperta e modellata, infine, sulla base degli elementi identitari che nessuna influenza esterna è riuscita a stravolgere. La tua ricerca sembra fare il contrario, analizzando ciò che, a seguito di tutti i dolorosi avvenimenti, si è in qualche modo spezzato. Possiamo forse affermare che per iniziare guarire sia necessario accettare e comprendere la malattia?
Mi piace pensare al trauma storico, o al trauma transgenerazionale, di cui parlo costantemente nel mio lavoro, non come a una malattia, ma come a un seme che è arrivato dall’esterno, accidentalmente e improvvisamente. Ho trovato questo seme esplorando la mia identità, senza avvertire la necessità a priori di dover guarire qualcosa. Credo, tuttavia, che questo processo di esplorazione mi abbia donato una grande pace e, in questo senso, potrebbe essere visto come una sorta di guarigione?
La tua pittura si fa carico di una storia che è al contempo intima e collettiva. Qual è stato il processo che ti ha portato a individuare come nucleo del trauma transgenerazionale il rapporto tra madre e figlia?
La Corea è un Paese che è cambiato drasticamente dal punto di vista culturale, sociale ed economico: non sorprende che ci sia un divario così grande tra le generazioni. La madre di mia madre, mia nonna, è sopravvissuta come donna in una società profondamente patriarcale. Mia madre mi diceva: “Tua nonna ha avuto una vita difficile come donna e non so perché voglia trasmetterla a me”, ma poi aggiungeva che non era colpa sua. Questa società patriarcale e antifemminista ha piantato un seme traumatico nel cuore di mia nonna, che è germogliato e cresciuto fino a diventare mia madre.
In Italia, purtroppo, non esiste più un rapporto culturale con le terme e i bagni pubblici dalla caduta dell’Impero Romano. È sorprendente scoprire quanto siano importanti tuttora i Jjimjilbang (bagni pubblici) in Corea. Potresti raccontarci come vengono vissuti e come si legano alla storia del Paese?
La storia dei bagni pubblici in Corea non è molto lunga. Certo, i coreani hanno sempre fatto il bagno, ma si trattava più che altro di occasioni speciali, come il Dan-o o le festività, o per scopi terapeutici.
Tuttavia, il motivo per cui i bagni pubblici si sono diffusi culturalmente è un po’ diverso. Tra la fine del 1890 e l’inizio del 1900, durante l’apertura della Corea, figure di spicco del movimento illuminista proposero l’istituzione di bagni pubblici, sostenendo che l’igiene e la pulizia urbana erano necessarie per diventare un Paese civilizzato, e la cultura del lavaggio delle cellule morte della pelle nei bagni si diffuse
con l’ingresso nell’era moderna. È interessante notare che durante la colonizzazione giapponese della Corea, la cultura dello scrub iniziò ad assumere un complesso di inferiorità che andava oltre il concetto di pulizia e igiene. I giapponesi definirono i coreani come impuri e quindi arretrati in termini di progresso, un discorso dominante che continuò a essere replicato in altre culture. Questa percezione di essere colonizzati dai giapponesi perché più sporchi ha portato allo sviluppo di una cultura dello sfregamento compulsivo (chiamato “ttaemiri” dai coreani). Ho lavorato sul tema dello sfregamento perché trovo interessante che il ttaemiri sia legato a un trauma storico di tale portata.
Il tuo percorso di studi ti ha portata da Seoul a Glasgow. In che modo pensi abbia influito questa esperienza sulla tua ricerca artistica?
La mia esperienza alla Glasgow School of Art è stata davvero piacevole e fruttuosa, ma non è solo perché ho frequentato il corso MFA alla Glasgow School of Art che ho fatto questi sviluppi artistici. Trasferirmi dalla Corea e vivere in un altro Paese è stato come rompere un uovo, come nella storia di Demian: è stato un grande shock, ma allo stesso tempo mi ha dato l’opportunità di esplorare me stessa con continui stimoli esterni. In Corea, in particolare, c’è un’atmosfera che ti fa sentire come se stessi per finire in grossi guai se non segui il percorso di vita socialmente prescritto, ed è per questo che ho vissuto come una coreana normale per così tanti anni. Nel mio Paese era difficile trovare persone diverse da me. Tutti erano asiatici con i capelli scuri, tutti avevano sogni simili e tutti sembravano camminare nella stessa direzione. Solo quando ho lasciato la Corea e mi sono stabilita in Scozia ho capito la mia identità di donna asiatica. Dal colore dei capelli alla religione, nulla era uguale e credo che sia così che ho iniziato a esplorare l’identità di “Heeyoung Noh”. Naturalmente l’identità è fluida come l’acqua, quindi non esiste un’identità rigidamente fissata, ma credo di essere stata in grado di trovare un mondo di me diverso da quello degli altri.
Ogni formazione dipende da moltissimi fattori, in primis il modo in cui l’Accademia o l’Università che si frequenta sceglie di trattare la materia insegnata. Avendo studiato sia in Corea che in Scozia, credi che rispetto al modo in cui la pittura viene insegnata esistano degli aspetti che vengono più o meno approfonditi a seconda del contesto storico-artistico?
Ho studiato Pittura Occidentale alla Sungshin Women’s University in Corea del Sud. Come suggerisce il nome del corso, il programma di studi della mia università in Corea era organizzato intorno all’esplorazione approfondita delle tecniche della pittura occidentale, in particolare olio e acrilico. Ho studiato le tecniche e le teorie della pittura, ad esempio come riprodurre la luce di Rembrandt nei dipinti, o la propulsione nei quadri di Caravaggio, che hanno avuto una grande influenza sul mio modo di lavorare con l’arte visiva 2D come metodo. Mentre in Corea ho imparato a usare la pittura come metodo più liberamente, Glasgow è stato un momento per esplorare ciò che volevo dire con il mio linguaggio formativo. Sento che la combinazione tra la formazione orientata alla tecnica che ho ricevuto in Corea e quella orientata alla ricerca che ho ricevuto nel Regno Unito abbia reso il mio lavoro qualitativamente più forte.
Il rapporto con la nudità, nelle tue opere, va al di là del contesto della rappresentazione. Come è nata questa riflessione sul corpo? Come si è evoluta? Una persona nuda non ha etichette; in un dipinto di nudo non ci sono vestiti per descrivere il ruolo sociale o la personalità del personaggio, che viene semplicemente mostrato com’era all’inizio. Ho pensato che questa caratteristica della pittura di nudo sia in linea con il mio tema (il trauma transgenerazionale), che è intimo e privato, ma allo stesso tempo ha caratteristiche universali. Credo che attraverso l’immagine del corpo nudo si possa trovare un sé più autentico.
Cosa sarebbe successo se, nel 1910, l’Impero Giapponese non avesse fatto della Corea una sua colonia? Forse l’ultimo Imperatore coreano, Sunjong, non si sarebbe mai dedicato al biliardo. Al contrario, invece, molte altre persone avrebbero continuato a coltivare liberamente le proprie passioni, una fra tutte la pittura. Probabilmente il Paese non avrebbe mai avuto bisogno di un governo provvisorio – costituito, ovviamente, da altre potenze internazionali – a seguito del vuoto di potere generato dalla Seconda Guerra Mondiale. Di conseguenza, magari, i dibattiti identitari riguardo l’arte coreana non avrebbero contribuito a spaccare il Paese a metà. La metà cattiva non avrebbe mai, a quel punto, ingannato e isolato alcuni tra i migliori pittori del Paese, promettendo loro cariche universitarie offerte in base a un’eventuale adesione al realismo socialista. Al sud gli artisti non avrebbero mai fatto dell’astrattismo la loro arma, e men che meno un simbolo, successivamente, del loro menefreghismo. L’arte Minjung non sarebbe mai nata; i suoi antenati non sarebbero mai stati accusati di aver perso tempo a coltivare un’arte apolitica e, di conseguenza, inutile. Le sue evoluzioni non avrebbero probabilmente dato origine alla libertà artistica che ha contraddistinto l’ultima fase dell’arte coreana, quella che conosciamo oggi.
Invece Sunjong, privato del potere esecutivo, passò la vita a fare la spola tra i due tavoli da biliardo del palazzo Changdeok, diventando il miglior giocatore del piccolo club da lui istituito. Molti pittori furono forzati a seguire le direttive artistiche imposte dall’Impero Giapponese, che scelse di utilizzare l’arte coreana come strumento di propaganda per mostrare al mondo gli effetti benefici del proprio dominio progressista. Il vuoto di potere causato dalla Seconda Guerra Mondiale regalò agli artisti un po’ di speranza: fiorirono i dibattiti su quale tipo di arte avrebbe potuto interpretare meglio gli ideali del Paese. La visione di una Corea libera e unita sfumò rapidamente; molti dei grandi maestri supportarono il Nord e l’Unione Sovietica, affascinati dalle potenzialità del realismo socialista, per poi finire intrappolati al di là del confine. Gli astrattisti, al Sud, continuarono a sperimentare come potevano. In seguito alla formazione delle due Coree, la Corea del Sud fu funestata dal susseguirsi di molteplici governi fortemente autocratici; all’alba della prima presidenza la Dansaekhwa venne elevata a simbolo dell’identità nazionale, nonostante i suoi artefici fossero completamente disinteressati ad un uso politico o ideologico della propria arte. Negli anni Ottanta, con la formazione della corrente artistica Minjung, l’arte tornò ad incarnare valori sociopolitici ma al contrario: pennello, scalpello e performance si riunirono, per la prima volta, sotto il segno della ribellione.
Moon Hyun Jeoung è una curatrice e ricercatrice indipendente con sede a Seoul, Corea del Sud. La sua ricerca, focalizzata principalmente sui nuovi media e lo sviluppo di tecnologie d’avanguardia, si interroga su come l’arte possa mediare il divario crescente tra umanità e tecnologia. Le abbiamo chiesto di raccontarci il panorama emergente e indipendente sudcoreano.
Essere un curatore indipendente, nel 2025, offre sicuramente molti vantaggi. Oltre agli stimoli che derivano dal lavorare a contatto con realtà molto diverse fra loro e la possibilità di sperimentare ampiamente con la propria ricerca, credo sia anche necessario essere ben radicati nel presente in cui si vive. Rispetto a quest’attenzione ai flussi sia artistici che sociali, come vedi Seoul oggi?
Il numero di curatori indipendenti che lavorano a Seoul è certamente aumentato rispetto ad anni fa, ma non si può ancora dire che siano molti. La scena artistica coreana è piuttosto compatta e tende a formare reti fortemente incentrate sulle relazioni personali e sulle comunità. In particolare, Seoul è da tempo il centro in cui si concentrano tutte le infrastrutture, non solo nel campo dell’arte, ma in tutto il più ampio spettro della cultura, dell’industria e dell’economia. Di conseguenza, Seoul è una città ad alta entropia, dove si intrecciano molti discorsi ideologici e filosofici. È anche un luogo in cui convivono persone appartenenti a diverse generazioni e diversi orientamenti politici. In questo senso, Seoul offre molti vantaggi per lavorare come curatore indipendente e credo che stia diventando sempre più un luogo in cui si incontrano non solo persone provenienti da tutta la Corea ma anche da diversi contesti culturali di tutto il mondo, il che favorisce una ricca esperienza di diversità culturale.
Alcuni galleristi e curatori sostengono che l’arte coreana stia vivendo il suo apogeo, soprattutto rispetto a un determinato riconoscimento internazionale. Pensi che quest’ultimo si riferisca soltanto un certo tipo di mercato o credi che questa influenza si estenda anche ai lavori degli artisti più giovani?
Credo che uno dei motivi principali per cui l’arte contemporanea coreana stia attirando l’attenzione del mondo sia l’impatto di Frieze Seoul, che ha avuto inizio nel 2023. Man mano che il mercato internazionale dell’arte è diventato più attivo, un’ampia gamma di artisti coreani - dai talenti affermati a quelli emergenti - sta ottenendo riconoscimenti sia a livello nazionale che internazionale. Questa crescente attenzione per la Corea del Sud può essere dovuta alla percezione che, tra i Paesi dell’Asia orientale, la Corea del Sud sia quello in cui è più probabile che l’arte contemporanea resti vivace in futuro. Sebbene Hong Kong sia stata a lungo considerata il principale polo artistico dell’Asia, credo che la Corea del Sud stia dimostrando di avere il potenziale per essere riconosciuta come un importante polo artistico alternativo
in Asia orientale. Di conseguenza, anche gli artisti emergenti sono influenzati da questa ondata di attenzione internazionale. Questi ultimi, in particolare, nella loro produzione incorporano sempre più rapidamente stili e forme globali.
Nonostante l’arte contemporanea venga vissuta ovunque in modo molto individuale, esistono a tuo parere delle tendenze particolari che gli artisti coreani emergenti stanno approfondendo? Direi che ci sono alcune tendenze comuni evidenti tra gli artisti sudcoreani, soprattutto quelli emergenti. In termini di temi, si nota spesso una forte attenzione per argomenti quali la tecnologia e i media digitali, il flusso
di immagini e il capitalismo, l’ecologia e la natura, il corpo, gli oggetti, nonché le nozioni di virtualità e finzione. In termini di forma, la pittura figurativa sta guadagnando più attenzione dell’astrazione, sia nel mercato dell’arte che tra i ricercatori. Molti artisti stanno sperimentando gli aspetti formali della pittura a modo loro, riflettendo chiaramente le narrazioni personali, spesso costruendo un mondo unico attraverso le loro opere. La scultura, invece, tende a confrontarsi più profondamente con il mezzo stesso. Pur ereditando le forme scultoree classiche, molti artisti si spingono oltre i confini esplorando la materialità e sperimentando con le forme e le sostanze della scultura.
In Italia il rapporto tra gallerie e spazi indipendenti è spesso instabile: dove le une prosperano gli altri faticano a trovare respiro e viceversa. Come definiresti questo equilibrio in relazione a Seoul? La Corea del Sud mostra uno schema simile. Esiste un netto contrasto tra gallerie orientate al commercio e spazi gestiti in modo indipendente, nonché tra musei pubblici e istituzioni private. Questa divisione fa parte da tempo della struttura di fondo della scena artistica. Tuttavia, la prospettiva di coloro che gestiscono nuove sedi indipendenti sembra essere diversa rispetto al passato. Personalmente ritengo che questa opposizione di lunga data abbia funzionato in modo dialettico e che ora siamo a un punto in cui tali opposizioni cominciano a dissolversi, dando origine a modelli ibridi o intermedi. Alcuni nuovi spazi operano come luoghi indipendenti, pur assumendo una funzione simile a quella di una galleria, bilanciando gli aspetti commerciali della vendita di opere d’arte con pratiche curatoriali basate sulla ricerca e sulla sperimentazione. Sebbene la loro scala fisica possa essere limitata, la portata della loro pratica spesso si espande al di là dello spazio stesso, raggiungendo alla fine un pubblico più vasto o creando un impatto più ampio. Esempi di queste sedi sono la N/A Gallery, CYLINDER, WWNN, WHITE NOISE SEOUL e OF. Nonostante queste sedi siano radicate nel centro di Seoul, molte di esse si posizionano leggermente in periferia, occupando posizioni piccole ma strategiche; questo permette loro di ritagliarsi un determinato spazio ed espandere i propri territori.
Esiste una concezione, più o meno stereotipata, che vede la Corea del Sud come un Paese molto competitivo. Come sappiamo, anche il settore artistico a volte può essere capriccioso. Trovi che questo mix possa essere sostenibile, in particolare per un aspirante artista/curatore?
Forse è solo un’opinione personale, ma credo che la Corea sia una società altamente competitiva. Come Paese che ha raggiunto una rapida crescita economica, le risorse umane sono diventate una risorsa fondamentale e, di conseguenza, le persone tendono a vivere con l’obiettivo primario di eccellere nella loro istruzione o carriera attraverso la competizione. A sua volta, questo ha favorito una profonda fiducia nella “velocità”, non solo in termini di movimento, ma come mentalità modellata dal senso di urgenza. Proprio come l’economia coreana si è sviluppata a un ritmo rapido, anche la scena artistica si è evoluta assorbendo e adattandosi rapidamente a nuove influenze. Alcuni ricercatori hanno addirittura affrontato l’arte contemporanea sudcoreana at-
La prima apparizione pubblica del Regno Eremita, così soprannominato a partire da un articolo del The Independent (New York, 1878), fu nel 1893 presso la World’s Columbian Exposition di Chicago. Dopo cinque secoli di politica isolazionista, la dinastia Joseon aveva deciso di svelare i suoi misteri all’Occidente; i risultati, contrariamente alle aspettative, furono più o meno disastrosi. Nonostante l’altissima affluenza di visitatori, infatti, le critiche al padiglione furono aspre. “Una collezione di ciarpame coreano a buon mercato”, scrisse John Cockerill sul New York Herald, incalzato da Yun Ch’iho, ex ufficiale del governo Joseon, che definì l’esibizione “misera”. La seconda apparizione pubblica del Paese, presso l’EXPO di Parigi del 1900, fu un successo. Tuttavia, questa rivincita, paradossalmente, contribuì alla successiva disfatta del Paese, accrescendo le brame di conquista manifestate principalmente da due antagonisti, l’uno storico e l’altro più recente: l’Impero Giapponese e l’Impero Russo. Nel 1910 il Regno coreano completò la sua trasformazione da preda a vittima. Nonostante l’annessione all’Impero Giapponese sia avvenuta ufficialmente nel mese di agosto, già nel maggio dello stesso anno, presso il distretto White City di Londra, il padiglione coreano presentato presso la Japan-British Exhibition avrebbe dovuto mostrare gli effetti positivi della dominazione giapponese sulla penisola. Oggi, circa cento anni dopo, la situazione si è completamente ribaltata. Che si tratti infatti del settore beauty, musicale o cinematografico, l’hallyu (lett. “onda coreana”), procede inesorabile a scavare il proprio golfo in seno all’Occidente, con tanta efficacia da essere stata riconosciuta e sfruttata da parte del governo stesso come forma di soft power. L’origine di questa evoluzione si deve in parte, non ironicamente, agli straordinari risultati ottenuti al botteghino dall’adattamento cinematografico di Jurassic Park. Secondo le testate sudcoreane, venne fatto notare all’allora presidente Kim Young-sam che il gettito totale generato dal film nella sola Corea del Sud avesse superato, nel 1994, quello della vendita di un milione e mezzo di automobili Hyundai (una produzione autoctona considerata fonte di orgoglio nazionale). In risposta venne istituita, all’interno del Ministero della Cultura, una divisione atta a sviluppare e sostenere il settore dei media. L’anno 1999 rappresenta in questo senso un punto di svolta: a seguito di numerosi investimenti, il primo film coreano ad alto budget, Swiri, fu un successo commerciale. La trasformazione più radicale avvenne però in ambito musicale: a partire dal 2000 infatti, anno in cui la boyband coreana H.O.T. registrò il tutto esaurito al primo concerto internazionale di un artista coreano, l’hallyu cominciò ad espandersi nel mondo come un vero e proprio tsunami, finendo per consacrare il K-Pop come un fenomeno di culto internazionale.
traverso un quadro generazionale, analizzando tendenze e temi in intervalli di circa dieci anni. Seguendo i noti movimenti dell’arte Dansaekhwa e Minjung, il periodo che va dagli anni Ottanta al 2010 ha mostrato chiare tendenze in questo senso. Dal 2020, tuttavia, si ha l’impressione che tutto stia diventando sempre più eterogeneo e meno facilmente definibile. Inoltre, con l’istituzionalizzazione delle fondazioni culturali finanziate dal governo, la competizione per ricevere le sovvenzioni si è intensificata. Dinamiche simili si osservano nei programmi di sostegno e nei concorsi a premi offerti dai musei d’arte. In risposta, gli artisti sono diventati più proattivi nel promuovere il loro lavoro, nell’organizzare i loro portfolio in formati adatti alle sovvenzioni e persino nell’allineare i loro stili artistici ai quadri istituzionali. Insieme al senso generale di urgenza e velocità, tutti questi fattori influenzano inevitabilmente gli aspiranti artisti e curatori. Tuttavia, credo che dovremo osservare il prossimo decennio per capire veramente che tipo di impatto avrà sul panorama dell’arte contemporanea sudcoreana.
di LIVIA MONTAGNOLI
Con il 1925 si fa coincidere, per convenzione, l’avvento dell’Art Déco, intesa come insieme di segni capace di orientare il gusto di una società in cerca di evasione, dopo la tragedia della Prima guerra mondiale. Un fenomeno tanto dirompente, che ben rappresenta l’immaginario dei ruggenti Anni Venti, quanto effimero. E per questo destinato a esaurirsi – almeno nella sua forma originale – nell’arco di una manciata d’anni, come quelle mode cavalcate dal mercato che d’un tratto vengono a noia. Ma la nascita e il declino dell’Art Déco, persino la natura stessa di un movimento creativo e produttivo che accenderà gli entusiasmi d’Europa prima di migrare alla conquista del mondo, non sono semplici da inquadrare. Perché l’Art Déco, di cui nel 2025 cade il centenario in riferimento all’Exposition des Arts Décoratifs et Industriels Modernes di Parigi, che nel 1925 si proponeva di codificare lo stile contemporaneo in risposta al desiderio di modernità di un mondo in rapido cambiamento, è figlia, per l’appunto, di un periodo storico e politico di grande instabilità. Di una società – quella alto-borghese, principalmente – che maschera l’incertezza per il futuro che verrà con la pretesa di un ottimismo da mostrare a tutti i costi, per affrancarsi dalla banalità del quotidiano, dimenticare la guerra, ricercare strenuamente il piacere di vivere. Quel che sarà negli Anni Trenta, con le derive autoritarie e ideologiche che riporteranno il mondo nel baratro, è storia nota. Ma negli Anni Venti il glamour incarnato dal gusto déco ha piena cittadinanza in Europa e trova l’habitat ideale per proliferare nella vita delle grandi città, tra salotti borghesi, cinema, sale da ballo, alberghi di lusso. Conquistando al contempo anche il pubblico piccolo-borghese, desideroso di sperimentare ciò che vede su riviste e pubblicità.
E dunque, cos’è l’Art Déco? “Ne farei innanzitutto una questione di linguaggio” sottolinea Valerio Terraroli, che all’Università di Verona è docente di Storia della critica d’arte e Storia delle arti decorative e curatore della mostra Art Déco. Il trionfo della modernità che a Palazzo Reale di Milano rende omaggio al centenario del movimento “Tendiamo a usare i termini ‘stile’ e ‘gusto’ in modo intercambiabile. Lo stile, però, viene teorizzato nel momento in cui si configura: pensiamo al Modernismo o all’Art Nouveau. Nel caso dell’Art Déco non esiste una teorizzazione, né manifesti come avviene per le Avanguardie. Si tratta piuttosto di un gusto, determinato dalla necessità di cambiare. Da un desiderio, un’aspettativa, una sensibilità che viene affascinata da un sistema di segni schema-
Fragilità e contraddizioni alimentano dall’interno il fuoco dell’Art Déco, scintillante manifestazione estetica e culturale di un’epoca breve ma intensa, che insegue il piacere di vivere e la modernità per nascondere sotto il tappeto una crisi imminente. Sono i ruggenti Anni Venti, e l’Esposizione Universale di Parigi del 1925 consacra una moda che anima creativi e manifatture di tutta Europa. Prima di emigrare nel mondo
tici, preziosi, goduriosi perché incarnano la gioia di vivere come se non ci fosse un domani: oltre alla guerra, anche la Spagnola, la prima epidemia che travolge l’Europa in età moderna, ha causato milioni di morti”. C’è, insomma, voglia di disimpegno: “La grande borghesia europea non vuole prendere posizione. Il bolscevismo seguito alla rivoluzione del 1917 fa paura al capitalismo occidentale: ci si guarda bene dall’abbracciare fenomeni che inneggiano all’avanguardia. Ma questo modello di vita non può durare a lungo, come dimostra l’avvento delle dittature che riporteranno l’ordine. E quindi anche la parabola dell’Art Déco è breve: nel 1929 l’impeto è già finito. Questa è anche la forza di un fenomeno che fa tendenza. È esplosivo, travolgente come uno spettacolo di fuochi d’artificio: meraviglioso finché dura, dopo dieci minuti è tutto finito”.
Il mondo produttivo e quello creativo recepiscono questo impulso, e sul piano formale l’Art Déco poggia su alcune costanti: l’identificazione della bellezza con la decorazione – però superando certi stilemi leziosi dell’Art Nouveau, che rappresenta un passato da dimenticare – il valore della sapienza esecutiva (che si tratti di esaltare l’artigianalità o la serialità industriale), la preziosità dei materiali. “Invochiamo il dono di un po’ di bellezza per addolcire, per arricchire, per nobilitare l’aspra vita quotidiana con il sorriso del divino, del solo indispensabile superfluo”, scriverà Margherita Sarfatti nel testo che introduce la partecipazione italiana all’Expo di Parigi. Ma l’Art Déco è soprattutto la sintesi di diverse suggestioni, che riescono a convivere perché adattate a un codice (implicito) comune, seppur tra mille contraddizioni interne, come sarebbe stato chiaro a chiunque tra gli oltre 15 milioni di visitatori che decretarono il successo dell’Esposizione Universale del 1925.
a sinistra: L'Esposizione Universale di Arti Decorative a Parigi, 1925. Courtesy MAD Paris
in alto: Gio Ponti e Tomaso Buzzi, Italo Griselli (modellatore), Elena Diana (dorature), Centrotavola delle Ambasciate (particolare), 1927, porcellana e oro a punta d’agata, Museo Ginori, Sesto Fiorentino.
Dopo l’Expo dedicata alle arti decorative di Torino 1902, già nel 1911 la Société des Artistes Décorateurs aveva proposto di organizzare una nuova esposizione per sostenere il mercato francese con oggetti più adeguati a rappresentare un cambiamento di gusto diffuso. Arrivati alla vigilia del 1915, prima la guerra e poi una serie di rinvii portarono all’effettiva inaugurazione solo nell’aprile 1925. A Parigi confluirono così una serie di istanze ed esigenze decantate nel decennio precedente, “una sorta di antologia shakerata di una serie di memorie”, per dirla con le parole del professor Terraroli: “Troviamo da un lato l’evoluzione delle formule dell’Art Nouveau però schematizzate, quindi le linee geometriche rispetto all’asimmetria naturalistica, e una appropriazione ironica del classico e degli stili del passato (come il Manierismo) anziché una ripresa nostalgica di quegli elementi. L’altra influenza che viene recepita è la contaminazione di civiltà altre, quindi l’Oriente – Cina, ma soprattutto Giappone per l’idea del vuoto, dello schema, l’uso dell’oro e della lacca nera – l’Africa in senso lato. E anche la scoperta della tomba di Tutankhamon nel 1922 solletica l’immaginario collettivo, tra preziosità, mistero, morte abbinata a passione. Non ultimo, la trasformazione della società dopo la guerra vede anche un cambiamento del mondo femminile: le donne degli Anni Venti non hanno più niente a che fare con le svenevoli fanciulle degli
1903 Viene fondata in Austria la Wiener Werkstä e
1907 Lo stilista Paul Poiret disegna l’abito Josephine
1909 Al Théâtre du Châtelet di Parigi debu ano i Ballets Russes di Djagilev
1920
Victor Horta proge a il Palazzo delle Arti di Bruxelles ado ando stilemi Art Déco. Sarà inaugurato solo nel 1929
1921 Nascono gli atelier d’arte delle Galeries Lafaye e di Parigi (La Maitrise)
1922
1923
Nasce a Monza l’Università delle Arti Decorative promossa da Guido Marangoni
Gio Ponti diventa dire ore creativo della Manifa ura di Doccia Richard-Ginori
Scoperta della tomba di Tutankhamon in Egi o
Prima edizione della Biennale delle Arti Decorative alla Villa Reale di Monza
1925 A Parigi inaugura l’Esposizione Universale di Arti Decorative e Industriali Moderne
II Biennale delle Arti Decorative alla Villa Reale di Monza
1927
III Biennale delle Arti Decorative alla Villa Reale di Monza
Gio Ponti e Tomaso Buzzi realizzano il Centrotavola delle Ambasciate
Esce al cinema il film Metropolis
1930 Inaugura a New York il Chrysler Builiding
1931 A Shangai si inizia a ripensare l’urbanistica della ci à secondo il Greater Shangai Plan
Si svela il Cristo Redentore di Rio de Janeiro
Esce al cinema il film Mata Hari
1933 Chicago ospita la fiera globale A Century of Progress
1934
Il Rockefeller Center di New York ospita la mostra The Industrial Arts Exhibition
UN FENOMENO TANTO DIROMPENTE QUANTO EFFIMERO, CHE BEN RAPPRESENTA L’IMMAGINARIO DEI RUGGENTI ANNI VENTI
Anni Dieci”. In questo contesto già molto variegato entrano i linguaggi delle Avanguardie, che avevano insegnato al pubblico e ai collezionisti a guardare le cose in modo diverso: “Non si scelgono i linguaggi più radicali come il dadaismo, ma l’impostazione cubista sì: figure con tagli netti, volumi quadrati, cilindri, modalità di rappresentazione bidimensionale. E pure il Futurismo, per il suo trattamento dello spazio. Non a caso i futuristi parteciparono a Parigi, come pure i costruttivisti russi: l’Unione Sovietica si presenta all’Expo per farsi accettare dall’Europa, proprio come l’Italia mussoliniana che per l’occasione fa realizzare un padiglione neorinascimentale, in linea con il gusto di regime, ad Armando Brasini. Ennesima conferma di come a Parigi 1925 fosse confluito proprio di tutto”.
L’ESPOSIZIONE DELLE ARTI DECORATIVE E INDUSTRIALI MODERNE A PARIGI 1925
L’Esposizione si svolse dal 28 aprile al 30 novembre tra l’Esplanade des Invalides e Place de la Concorde, coinvolgendo anche il Grand Palais e il Pont Alexandre III. Vi parteciparono 21 Paesi – non la Germania,
Ruhlmann, Decorator Musée des Arts Décoratifs, Parigi Fino al 1° giugno 2025
Paul Poiret: Fashion is a Feast, Musée des Arts Décoratifs, Parigi Dal 25 giugno 2025 a gennaio 2026 1925-2025. One Hundred Years of Art Deco Musée des Arts Décoratifs, Parigi Dal 21 o obre 2025 al 22 febbraio 2026
Rose Iron Works and Art Deco The Cleveland Museum of Art, Cleveland Dal 6 luglio al 19 o obre 2025
LE MOSTRE SULL’ART DÉCO NEL 2025
a destra: Alberto Martini, Wally Toscanini , 1925, Pastello su carta, 131 x 204 cm., Collezione privata.
Echi dell’Art Déco
Boghossian Foundation (Villa Empain), Bruxelles Fino al 25 maggio 2025
A orno all’Art Déco. Sculture del periodo tra le due guerre, Giardini della Casa Museo Van Buuren, Bruxelles Fino al 28 se embre 2025
Art Déco and Fashion
Mitsubishi Ichigokan Museum, Tokyo
Dall’11 o obre 2025 al 25 gennaio 2026
UN PREZIOSO STRUMENTO DI STUDIO: L’ARCHIVIO SULLE ARTI DECORATIVE MODERNE DI ROSSANA BOSSAGLIA
Art Déco. Il trionfo della modernità
Palazzo Reale, Milano Fino al 29 giugno 2025
Rossana Bossaglia moriva nel 2013, dopo una lunga carriera nella storia dell’arte, impegnata ad approfondire in particolar modo l’evoluzione delle arti decorative nel corso del Novecento. Classe 1925 – una data, un destino! – la professoressa e curatrice bellunese, che è stata anche collaboratrice del Corriere della Sera dal 1974, si è a lungo occupata del Liberty, prima di condurre indagini innovative e approfondite sul Déco italiano e internazionale, scrivendo testi fondamentali sulla materia, come il Déco italiano. Fisionomia dello stile 1925 in Italia (1975), L’Art Déco (1984), Dalla donna fatale alla donna emancipata. Iconografia femminile nell’età del déco (1998), Milano déco (1998). Non stupisce, quindi, che a Verona la sua eredità accademica sia stata raccolta da un centro di ricerca che porta il suo nome, finalizzato all’indagine sulla storia del gusto, delle arti decorative, delle arti e dell’architettura in età moderna e contemporanea. Oltre a custodire il fondo librario della studiosa, il Centro organizza convegni, giornate di studio e segue la consulenza scientifica di mostre, rendendo fruibile anche un ricco archivio dedicato alle arti decorative moderne che non ha eguali in Italia per profondità del fondo. Digitalizzato e consultabile liberamente online, l’archivio è frutto della catalogazione scientifica e dello studio di interi nuclei collezionistici di ceramiche, vetri, arredi, oreficerie, ideate e realizzate da artisti e manifatture del Novecento, tra i quali compaiono Melotti, Ponti, Melandri, Campi, Biagini, Andloviz, Cagli, Gariboldi, De Poli, Martini. In continua implementazione, il catalogo digitale si compone di schede contenenti informazioni tecniche, storico-artistiche e bibliografiche, arricchite da fotografie delle opere e dei marchi, e offre la possibilità di condurre ricerche avanzate per autori o manifatture, stili, date, tecniche e materiali. Per maggiori informazioni, scansiona il QR code in alto
Nella Bruxelles che abbracciò l’Art Déco con entusiasmo dopo una stagione Art Nouveau particolarmente fertile, l’architettura fu il principale traino per l’affermarsi del nuovo gusto (già nel 1911, l’austriaco Joseph Hoffmann anticipava alcuni temi del Déco con Palazzo Stoclet, costruito in territorio belga, a Woluwe Saint-Pierre). E fu non a caso Victor Horta, già protagonista della temperie precedente, a sdoganare il movimento in città, con il Palazzo delle Belle Arti inaugurato nel 1929. A questa nuova fase corrisponde la progettazione di eleganti ville (come Villa Empain, oggi sede della Fondazione Boghossian) e palazzi, ma anche la costruzione del più grande edificio Art Déco del mondo: la Basilica di Koekelberg. Riconoscibile per la sua monumentale cupola in rame, la basilica fu costruita nell’arco di oltre cinquant’anni. Il progetto approvato all’inizio del Novecento su ispirazione del Sacro Cuore parigino fu ridimensionato dopo la Prima guerra mondiale, affidato all’architetto Albert Van Huffel, che utilizzò linee geometriche tipiche dell’Art Déco, vincendo con il suo modello un premio all’Expo di Parigi 1925. Ma Van Huffel non vide mai completata la sua opera, consacrata solo nel 1951, e terminata nel 1969, con l’aggiunta delle due torri che abbracciano la facciata.
Volando dall’altra parte del mondo, la più grande scultura Art Déco si erge sulla cima del monte Corcovado, che domina la città brasiliana di Rio de Janeiro. La celeberrima statua del Cristo Redentore, alta 38 metri e realizzata in calcestruzzo e pietra saponaria, fu infatti progettata a partire da un disegno dell’artista Carlos Oswald – che scelse di puntare sulla semplice iconografia del Cristo con le braccia aperte – integrando però gli aggiornamenti di gusto déco dello scultore francese di origini polacche Paul Landowski. La costruzione della statua, ricoperta da migliaia di piccole tessere a mosaico di forma triangolare tagliate a mano, fu finanziata dall’arcidiocesi di Rio de Janeiro, e supervisionata dall’ingegnere brasiliano Heitor da Silva Costa. Il cantiere, aperto nel 1922, fu chiuso solo nel 1931, quando la statua fu illuminata da Guglielmo Marconi per l’inaugurazione. Ma nel libro dei record dell’Art Déco si iscrive anche Miami, che rivendica la più alta concentrazione al mondo di architetture in Stile 1925, seppure nella peculiare variante cosiddetta Tropical Art Déco. Per apprezzarle si visita l’Art Déco Historic District a Miami Beach, tra la 5th e la 23th Street lungo Ocean Drive, Collins Avenue e Washington Avenue. Alberghi e palazzine residenziali costruiti tra il 1923 e il 1943 – per un totale di 800 edifici conservati – si caratterizzano per l’interpretazione locale del gusto arrivato dall’Europa, tra tonalità pastello ed elementi decorativi inediti, dai fenicotteri alle palme, ai motivi nautici.
La storia più curiosa è però quella di Napier , cittadina neozelandese affacciata sulla baia di Hawke (nell’isola del Nord), che vanta origini maori, ma inizia una nuova vita dopo il 1931. Il terremoto che la rase al suolo nel febbraio di quell’anno, infatti, portò a una rapida ricostruzione del centro cittadino, che secondo il gusto imperante all’epoca fu disegnato in stile Art Déco. Fatta eccezione per qualche “intrusione” architettonica del secondo dopoguerra, Napier è oggi un esempio organico e compatto di città Art Déco, tutelata per il suo valore storico e percorsa quotidianamente da visite guidate alla scoperta degli edifici più significativi. Ogni anno ospita anche un festival che evoca le atmosfere degli Anni Venti.
sconfitta in guerra, e neppure gli Stati Uniti – tra cui la Cina, il Giappone, la Turchia, e diverse industrie e aziende private francesi di rilievo, con i grandi magazzini in prima linea per presidiare il nuovo potenziale mercato. Proprio i grandi magazzini realizzarono padiglioni più aderenti all’estetica Art Déco (tra rigore geometrico e decorativismo), dal Padiglione Primavera di Printemps al Padiglione Pomone di Au Bon Marché. E interpretò perfettamente lo spirito della rassegna la cosiddetta Casa del Collezionista di Pierre Patout, decorata da uno dei più fieri esponenti del nuovo gusto in Francia, Jacques-Émile Ruhlmann: “Solo i ricchissimi possono permettersi ciò che è in alto: Basilica del Sacro Cuore, Bruxelles
Cristo Redentore, Rio de Janeiro
Napier, Nuova Zelanda
nuovo e solo loro possono renderlo di moda. Le mode non nascono tra la gente comune. Oltre a soddisfare il desiderio di cambiamento, il vero scopo della moda è ostentare la ricchezza. Che lo si voglia o no, uno stile è solo una mania. E la moda non nasce da umili origini”, ebbe a dire il designer francese a proposito dell’onda che si trovò a cavalcare. A prevalere, però, fu la varietà di stili, dall’architettura modernista (Le Corbusier presentò il suo Esprit Nouveau) al costruttivismo, alle declinazioni nostalgiche. Protagonisti della scena, nei diversi allestimenti proposti dai Paesi partecipanti, i nuovi oggetti della modernità: il mobilio di lusso della Francia – tra forme di recupero del Primo Impero, geometrie cubiste, motivi decorativi esotici, di suggestione asiatica o africana – le creazioni di grande sapienza tecnica, soprattutto per il trattamento dei materiali, dell’Austria, che nel 1903 aveva investito sulla fondazione della Wiener Werkstätte, le invenzioni di alto artigianato artistico dell’Italia, pur indebolita da un contesto economico e politico che non agevolava lo sviluppo e la valorizzazione delle arti decorative, sottolineò Ugo Ojetti nel commentare i limiti della partecipazione italiana a Parigi (l’Italia si presentò, per esempio, senza scuole d’arte industriale, a differenza degli altri Paesi).
PAUL POIRET (Parigi, 1879 - Provenza, 1944)
Antesignano dell’Haute couture parigina all’inizio del Novecento, Poiret fu il primo stilista moderno, proponendo un’immagine femminile nuova perché svincolata dalla costrizione dei corsetti e dei busti. I suoi abiti inneggiano alla libertà di movimento, con linee morbide e fluide; affascinato dall’orientalismo e dalle accensioni dei Balletti Russi di Sergeji Diaghilev, produrrà costumi per teatro e cinema, inventando un glamour che faceva sognare, in piena temperie Art Déco. Ma la sua creatività si espresse anche nella produzione di accessori e profumi e nella progettazione d’interni, in sintonia con la Wiener Werkstätte.
EDGAR BRANDT (Parigi, 1880 – Collonge-Bellerive, 1960)
Abile nel lavorare i metalli, Brandt apre il suo primo atelier nel 1901 e produce piccoli oggetti in argento. Durante la guerra, chiamato nell’esercito, saprà reinventarsi progettista di mortai e proiettili. Ma negli Anni Venti tornerà a essere protagonista del mercato delle arti decorative, producendo oggetti in ferro battuto che incarnano il gusto dell’Art Déco, come gli eleganti parascintille per camino o le lampade esposti all’Expo parigina.
RENÉ LALIQUE (Ay, 1860 – Parigi, 1945)
Designer francese celebre soprattutto per le sue creazioni di oreficeria e per la produzione di raffinati oggetti in vetro – bottiglie di profumo, vasi, lampadari – negli Anni Venti Lalique aderì pienamente al gusto Art Déco, dopo la lunga militanza nell’Art Nouveau. Tra le produzioni del suo atelier anche la celebre mascotte per auto Victoire (Lo Spirito del vento). Per l’Esposizione del 1925 realizzò la monumentale fontana Le sorgenti di Francia (alta 15 metri, sull’Esplanade des Invalides) e la Fontana dei profumi installata al Grand Palais.
JACQUES-EMILE RUHLMANN (Parigi, 1879 – 1933)
Designer campione dell’Art Déco francese, Ruhlmann ottiene la sua consacrazione proprio a Parigi 1925, progettando l’apparato decorativo della Casa del Collezionista, che interpretò come la dimora ideale intrisa della gioia di vivere, coinvolgendo quasi cinquanta artisti e artigiani. Nel 1919 aveva fondato la ditta Ruhlmann & Laurent per produrre mobili da lui disegnati, caratterizzati da materiali pregiati, eleganza e purezza di forme, spesso estratte da stili in voga nel Primo Impero. Si concentrò anche sull’invenzione di carte da parati, raccogliendo le sue idee in preziosi taccuini di schizzi oggi conservati al Musée des Arts Décoratifs di Parigi. Consapevole
ERTÈ (San Pietroburgo, 1892 – Parigi, 1990)
Nato in Russia, Romain De Tirtoff si trasferisce a Parigi all’inizio degli Anni Dieci, facendosi conoscere con la pseudonimo di Erté. Nel 1913 inizia a collaborare con lo stilista Paul Poiret; nel 1915 avvia il sodalizio con la rivista Harper’s Bazaar, per la quale realizzerà più di 200 copertine fra il 1915 e il 1938. Le sue figure sofisticate e sinuose colgono la sensibilità del tempo, alimentando l’immaginario Art Déco. Crea anche gioielli, arredamenti d’interni, scenografie e costumi teatrali e cinematografici.
1958)
Tra i maestri orafi che rinnovarono il catalogo dell’oreficeria milanese nei primi decenni del Novecento, Ravasco seppe ispirarsi alla raffinata gioielleria del Cinquecento manierista per realizzare creazioni inedite e moderne, preziose e sorprendenti per il cromatismo acceso e i materiali utilizzati. Si cimenta con successo anche con oggetti e complementi d’arredo. Dopo Parigi, esporrà alla Biennale di Venezia nel 1930 e 1936 e alla Triennale di Milano nel 1933.
Dopo la laurea in Architettura al Politecnico di Milano nel 1921, Ponti è subito nominato direttore artistico della manifattura ceramica di Doccia di Richard-Ginori, con l’impegno a modernizzarne la produzione. Dal 1923 Ponti inventa una collezione di vasi, piatti, stoviglie, oggetti permeati da una lettura ironica dell’antico, dall’eleganza di linee e forme, valorizzando la preziosità dei materiali. Una piena adesione alla sensibilità Art Déco, che esprime anche in architettura, nella Milano degli Anni Venti che lo vede progettista di edifici come la residenza di famiglia di Via Randaccio (negli Anni Trenta virerà verso il razionalismo). Fu anche fondatore della rivista Domus, nel 1928.
Tra Liberty e Art Déco, Chini fu tra le altre cose prolifico ceramista, lavorando per la Manifattura Fontebuoni e le Fornaci San Lorenzo. In cerca di un linguaggio che sintetizzasse gli spunti del passato per incarnare la modernità e a confronto con le istanze critiche e politiche che richiedono la creazione di una stile nazionale, l’artista abbraccia il lessico déco nei primi Anni Venti, come testimonia l’apparato decorativo (maioliche, vetrate, pitture murali, superfici musive, ferri battuti, arredi) ideato per lo Stabilimento Termale Lorenzo Berzieri a Salsomaggiore Terme (1923). Sarà tra i protagonisti del padiglione italiano a Parigi 1925. Nel 1926 realizza pannelli, pavimenti e vetrate per il transatlantico Augustus, affondato durante la Seconda guerra mondiale.
Con le sue architetture milanesi, Portaluppi seppe interpretare lo spirito della nascente borghesia industriale del Nord Italia nella prima metà del Novecento, dando forma ai cambiamenti del tempo. Nato a fine Ottocento vive il passaggio alla modernità e alle innovazioni tecnologiche, tra eclettismo e razionalismo. Attivo tra gli anni Venti e Sessanta del Novecento si confronta con il nuovo immaginario dei luoghi pubblici, lo spazio dell’abitare, l’estetica delle strutture industriali. Dopo la Prima guerra mondiale, vive un periodo di intensa attività progettuale, interpretando il gusto dell’Art Déco (che nel decennio successivo accantonerà per privilegiare un moderato modernismo). Sono gli anni di Casa Crespi in Corso Venezia, del Planetario Hoepli, degli stabilimenti per le Società Ceramiche Italiane di Laveno.
Undici film e quattro cortometraggi, a comporre una rassegna cinematografica che indaga tra le pieghe dell’Art Déco attraverso lo strumento che più contribuì a prolungarne e intensificarne l’immaginario estetico (ed estatico). Il progetto promosso dalla Cineteca Milano Arlecchino, a margine della mostra sull’Art Déco organizzata per il centenario del 2025 a Palazzo Reale, conferma quanto il cinema degli Anni Venti e Trenta abbia attinto a piene mani dalle proiezioni di quel mondo fantastico e scintillante che ammantava di sfarzo ed erotismo la realtà che l’Art Déco si premurò di abbellire e camuffare. Quando in Europa il sogno (che raggiunse l'apice con il film tedesco Metropolis di Fritz Lang, 1927) era già finito, è Hollywood a rilanciare il gioco, dalla Mata Hari di George Fitzmaurice (1931) con Greta Garbo, alla Cleopatra di Cecil B. DeMille (1934), a Pranzo alle otto di George Cukor (1933), a Shangai Express di Josef von Sternberg (1932), con Marlene Dietrich. In Italia, nel 1930, è Mario Camerini a inaugurare il cosiddetto “cinema Art Déco”, con il film Rotaie girato muto negli stabilimenti della Farnesina e poi sonorizzato.
Eppure, con i suoi artisti, l’Italia trionfa per la capacità di fornire un’interpretazione estremamente personale e raffinata del gusto Art Déco. Nel padiglione nazionale in Cours de la Reine – parallelepipedo in travertino e mattoni dorati firmato da Brasini – sono i vasi in vetro di Vittorio Zecchin per Cappellin Venini & C., gli argenti di Renato Brozzi, le sculture di Adolfo Wildt, i pannelli in ceramica di Galileo Chini e le maioliche di Gio Ponti a conquistare la scena, guadagnandosi tutti l’assegnazione del Grand Prix. La selezione condotta dai consiglieri tecnici Arduino Colasanti, Annibale Galateri e Ardengo Soffici aveva privilegiato chi ritenuto più adatto a rappresentare l’arte nazionale, con l’idea di ammettere solo il nuovo e le interpretazioni moderne (ci sono anche i tappeti di Herta Ottolenghi Wedekind, le sete di Guido Ravasi, i mobili per bambini di Lenci, la produzione orafa di Alfredo Ravasco). Emblema di questa spinta fu il giovanissimo Gio Ponti, che per la manifattura Richard Ginori aveva iniziato a progettare il rinnovo della produzione di maioliche, terraglie e porcellane a partire dal 1922, ispirandosi al Rinascimento come al Manierismo, al repertorio palladiano come al Cubismo e alla pittura contemporanea. Calando il tutto in un’atmosfera onirica, ai confini del metafisico e in anticipazione del Realismo magico, e ironica insieme, senza alcuna rivendicazione nostalgica. Prova ne sono i piatti della serie Le mie donne e il grande orcio intitolato La casa degli efebi.
IL RILANCIO DELL’INDUSTRIA MANIFATTURIERA: FRANCIA
E ITALIA A CONFRONTO
Quel che emerge chiaramente, per tutti i Paesi presenti all’Esposizione seppur in misura e modalità diverse, è la fiducia (o la speranza) riposta nel settore manifatturiero: “L’organizzazione stessa dell’Expo è una presa di posizione della Francia per affermare la propria supremazia sul mercato” spiega Terraroli “D’altro canto, dopo la guerra le manifatture industriali hanno bisogno di un rilancio ed è necessario creare po-
sti di lavoro per evitare rivoluzioni. Gli Stati europei profondono investimenti pubblici, anche in Italia ci si spende per teorizzare il sostegno all’artigianato e all’industria nazionale. Questo dà un’opportunità enorme ai creativi, ma c’è bisogno di un mercato largo, che infatti la Francia conquista rivolgendosi al pubblico americano”. Pur tra mille ostacoli – “perché all’epoca la nostra è un’economia debole, abbiamo manifatture straordinarie, ma non un’industria pesante che le sostenga” – però, è l’Italia a profilarsi sulla scena internazionale come modello capace di orientare il gusto più ricercato: “Sono gli albori del Made in Italy, la conquista di una credibilità nel mercato delle cose legata al modo italiano di immaginare il quotidiano, gli oggetti e le forme. Un tesoro che conserviamo ancora oggi”. Del resto, prima di Parigi, lo sforzo di catalizzare il mercato delle arti decorative e al contempo sostenere l’industria manifatturiera italiana si concretizza nell’istituzione della Biennale delle Arti Decorative a opera di Guido Marangoni, critico d’arte e giornalista che fu anche sovrintendente dei musei Civici di Milano e che nel 1928 fondò e diresse le riviste Pagine d’Arte e La Casa bella. Nel 1922, Marangoni (cui si deve anche l’Enciclopedia delle Moderne Arti Decorative italiane, redatta tra il 1925 e il ‘28 in otto volumi) aveva propiziato la nascita dell’Università delle Arti Decorative – inaugurata da Gabriele D’Annunzio, e poi divenuta Istituto Superiore per le Industrie Artistiche – presso la Villa Reale di Monza, “per scuotere l’apatia del Governo davanti a questi problemi fondamentali della cultura artistica, anzi della nostra civiltà nazionale”, scriveva Ojetti, come “centro propulsore di attività volte a dare segno di bellezza alle cose della vita, anche alle più umili”. E nel 1923, sempre alla Villa Reale, si tiene la prima edizione della Biennale, dove accanto a proposte di artigianato artistico regionale già emergono idee innovative improntate al déco, anche a firma di Ponti, fresco di nomina alla direzione artistica della Manifattura di Doccia Richard-Ginori. Nella seconda edizione del ’25, in concomitanza con l’Expo di Parigi, il linguaggio déco sarà dominante, come pure nel ’27, quando viene pre-
sentato anche il magnifico Centrotavola delle Ambasciate di Ponti e Tomaso Buzzi – serie voluttuosa di porcellane bianche rifinite in oro – per Richard-Ginori. Nel ’30, ultima edizione monzese prima del trasloco della rassegna in Triennale, l’Art Déco sopravvive a stento, in favore dello stile Novecento.
SINTESI DI DIVERSE SUGGESTIONI, CHE RIESCONO A CONVIVERE PERCHÉ
ADATTATE A UN CODICE (IMPLICITO) COMUNE, SEPPUR TRA MILLE CONTRADDIZIONI INTERNE
in alto: Pranzo alle otto di George Cukor, 1933
a sinistra: Galileo Chini, Allegoria della Primavera, 1914-1920, Piastrelle in maiolica a lustri, manifattura, Fornaci San Lorenzo Chini & C. (Borgo San Lorenzo – FI), Cm. 148 x 66, Collezione privata V.C.
È l’inizio della fine. In Italia il plasticismo e la monumentalità accompagnano una nuova narrazione che privilegia l’adesione all’ideologia fascista: “Il sistema di vita ideale legittimato fino ad allora non ha più modo di esistere, stanno cambiando la sensibilità e le premesse”. E in tutta Europa l’immaginario che aveva alimentato la produzione Art Déco inizia ad affievolirsi. Oltreoceano, intanto, il New Deal promosso da Roosevelt per superare la crisi finanziaria del 1929 produce l’effetto contrario. Nel 1930 viene inaugurato a New York il Chrysler Building e il linguaggio è indubbiamente quello di un Déco di importazione francese. Seguono l’Empire State Building e molti altri grattacieli, magazzini, cinema, teatri, ville e residenze, che trasformano il volto delle grandi città americane, da Miami a Chicago, anche grazie all’arrivo di maestranze francesi e italiane: “Gli Stati Uniti stabiliscono che una percentuale dell’investimento sulle nuove costruzioni, anche a opera dei privati, debba essere destinato all’abbellimento artistico: è una calamita per gli artigiani e gli artisti che in Europa non riuscivano più a lavorare. Ma il Déco americano è soprattutto un fenomeno di immagine, sebbene molto fascinoso perché nutrito da uno strumento straordinario come il cinema, che a Hollywood mette in scene quello che tutti, anche in Europa, vogliono rivivere con la fantasia mentre si scivola verso la crisi della guerra”. Anche nel resto del mondo questo immaginario si produrrà in progetti notevoli, soprattutto dal punto di vista urbanistico e architettonico. Basti pensare al nucleo di edifici Art Déco di Shangai, diventata una metropoli agli inizi del Novecento, dove il linguaggio decorativo degli Anni Venti viene riletto alla luce di motivi e tradizioni cinesi, pur nell’impianto del sistema codificato in Europa. In esecuzione del Greater Shanghai Plan, che puntava a proiettare Shanghai nel futuro, la città si affida a urbanisti e architetti americani, tedeschi e cinesi: avviato nel 1931, il piano per incarnare “lo spirito della nuova era” si interrompe per lo scoppio della guerra nel 1937. Ma la stessa sensibilità permea le nuove costruzioni di Hong Kong e Mumbai, dove sopravvive uno dei nuclei di edifici Art Déco più ricchi e meglio conservati al mondo, cresciuto tra gli Anni Trenta e Cinquanta lungo Marine Drive. A Manila, nelle Filippine, l’Art Déco arriva negli Anni Trenta sull’onda del colonialismo americano; e al colonialismo, ma italiano, si devono anche le architetture déco di Asmara, in Eritrea (ma l’esecuzione anticipa già le forme e i segni del razionalismo). In Sud America l’influenza si manifesta nei cinema e nei teatri di Buenos Aires, che accoglie anche il grattacielo Edificio Kavanagh, realizzato nel 1936 nello stesso stile.
Valentina Muzi
Patrona dei penitenti, Maria Maddalena
(chiamata anche Maria di Magdala in riferimento all’omonimo villaggio sulla riva occidentale del lago di Tiberiade a nord d’Israele) è una figura di grande rilievo del Nuovo Testamento della Bibbia e, nel tempo, è stata oggetto di una ricchissima narrazione letteraria, teologica e artistica. Ed è proprio su questo ultimo punto che pone l’attenzione La Maddalena e la Croce. Amore sublime, la mostra ospitata negli spazi del Museo Civico di Santa Caterina a Treviso
Curato dal direttore dei Musei Civici Fabrizio Malachin, il progetto espositivo affronta temi universali quali passione, sofferenza, devozione, redenzione e amore rivolto verso Cristo attraverso opere che spaziano dal Duecento al Novecento.
Più di ogni altro personaggio femminile evangelico, Maria Maddalena ha incarnato le contraddizioni, le tensioni e le speranze dell’essere umano, soprattutto nella cultura visiva occidentale. È stata peccatrice e santa, amante e apostola, corpo desiderato e spirito elevato.
Proprio per questo, continua a essere una figura attuale capace di educare l’uomo alle emozioni, “riconoscerle, gestirle, dominarle e comunicarle”, sottolinea il curatore Malachin.
Nelle dodici sale del Museo trevigiano sono riunite oltre cento opere tra miniature, dipinti, sculture, manufatti di oreficeria e tessile, provenienti da importanti istituzioni pubbliche e private, nazionali ed europee.
Tra i lavori in mostra spiccano le opere tedesche dal XIV al XVIII Secolo (per la prima volta esposte in Italia) provenienti dal Museo tedesco di
Fino al 13 luglio 2025 LA MADDALENA E LA CROCE AMORE SUBLIME
A cura di Fabrizio Malachin
Museo Civico di Santa Caterina Piazzetta Botter Mario 1, Treviso museicivicitreviso.it
a sinistra: Giuseppe di Guido (Maestro di Fontanarosa), Maddalena penitente, olio su tela, 1620-25 circa, Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte
a destra: Jan Polack, Maddalena orante (part.), 1505 ca., Freising, Diözesanmuseum Freising in basso: Matteo Loves, Cristo morto, olio su tela, 1640 ca., Cento, Pinacoteca Civica il Guercino
Freising, e altre provenienti dalla Gypsotheca di Possagno, dalla Pinacoteca Martini di Oderzo, dal Museo Diocesano di Treviso e dalle chiese della provincia. Un racconto fatto per immagini che inizia con il momento della Crocefissione dove, assieme alla Madonna e a Giovanni, Maddalena esprime una disperazione del tutto umana.
Nella trasposizione di grandi maestri, la croce è la naturale protagonista della successiva sezione, declinata nel suo valore simbolico e identitario. Altri capolavori si fanno portavoce del dolore “urlato” di Maddalena di fronte al Cristo deposto dalla Croce. Ne è un esempio la grande tavola bifacciale di Jan Polack raffigurante la Deposizione (sul fronte) e la Decapitazione di San Paolo (sul retro), posta al centro della sala espositiva dove le morbide luci accentuano il pathos della scena. In quest’opera Maddalena è raffigurata avvolta in un mantello verde e con una veste rossa foderata di pelliccia, con la parte superiore del petto scoperta, ricordando la sua precedente vita.
La Maddalena pentita è una iconografia che ha visto diverse interpretazioni dopo il Concilio di Trento, diventando un simbolo universale della redenzione.
Nell’Ottocento diventa archetipo di una spiritualità universale che supera il puro credo,
facendo anche sparire (a volte) i simboli religiosi che la contraddistinguono come il vaso di unguenti, il teschio, il libro, i capelli lunghi e sciolti, la croce e lo sguardo estatico (si veda la versione della Penitente di Canova), puntando l’attenzione verso la femminilità della Santa. Infatti, superata la caduta e compiuta la sua assoluzione, Maddalena viene ritratta anche senza veli e in momenti di abbandono, dove il pietismo religioso e la carnalità si uniscono dando vita a opere dalle sfumature romantiche.
TRA PASSATO E PRESENTE
Il rapporto che lega Maria Maddalena a Cristo è evidenziato anche durante la Via Crucis, tema che pone a confronto due artisti trevigiani, Alberto e Arturo Martini, il più importante pittore simbolista italiano e l’ultimo grande scultore, i quali aprono una delle sezioni della mostra. I loro lavori gettano un ponte tra l’Ottocento e il contemporaneo, fino alla prima opera realizzata con l’intelligenza artificiale presente in una mostra. Infine, in una sezione curata da Carlo Sala, sono proposte alcune originali interpretazioni di artisti contemporanei.
IL SACRO E PROFANO NELLA FIGURA DI MARIA MADDALENA
“Una mostra coinvolgente, emozionante, accattivante. Un percorso pensato per offrire novità e curiosità artistiche e scientifiche ma soprattutto per regalare suggestioni positive: quella della Maddalena è una vita ricca di emozioni forti, un atlante che diventa per noi una guida per l’educazione ai sentimenti. Gli ambienti sono poi allestiti per rendere coprotagonista il visitatore che, quasi in palcoscenici teatrali, si ritroverà catapultato nelle sale come fossero scene dedicate agli ultimi momenti della vita di Cristo”, spiega il curatore Fabrizio Malachin. “E poi la bellezza sensuale dei nudi di raffinata spiritualità, una vera e propria galleria di Maddalene che incanta. Un viaggio che stupisce perché condotto sulla linea sottile tra sacro e profano, perché investe i sensi (la vista, ma anche l’udito - diverse musiche accompagnano il visitatore nei tre piani di mostra), perché Maddalena peccatrice, caduta e con la forza di redimersi, è un po’ tutti noi bisognosi di esempi di speranza, perdono e amore”.
Fausto Politino
Il progetto espositivo ospitato al Museo Luigi Bailo racconta l’artista nipponico vissuto tra la fine del Settecento e gran parte dell’Ottocento, indagandone i rapporti non solo con la natura giapponese, ma anche con l’arte europea e rinascimentale. Obiettivo della mostra è quello di “immergere il visitatore nel metodo creativo dell’artista, nella sua personalità, nella sua ossessione per la perfezione artistica; specialmente nei confronti degli incisori quando cambiano la posizione dei minimi dettagli”, spiega il curatore Paolo Linetti, analizzandone “gli studi e le influenze che hanno determinato il suo stile e approfondire il suo legame con l’acqua, tema ricorrente nella sua produzione”.
Maestro indiscusso della corrente dell’Ukiyoe (letteralmente “immagini del mondo fluttuante” un genere di stampa artistica giapponese impressa su carta con matrici di legno, nata e sviluppatasi durante il periodo Edo tra il 1603 e il 1868), Katsushika Hokusai è il protagonista di HOKUSAI - L’acqua e il SEGRETO della grande onda.
Con oltre 150 opere, la mostra privilegia il metodo attraverso il quale l’artista ha realizzato i suoi lavori più celebri, dove in controluce si possono intravedere l’acqua che rimanda alla
nascita, il mare all’inconscio e le presenze subliminali che si rifanno ad alcuni maestri rinascimentali. Ed è per questo che il percorso espositivo, indaga sia la sua resa grafica confrontandola con opere di autori a lui contemporanei come Kunisada, Utamaro, Kuniyoshi, sia le fonti d’ispirazione europee che hanno influenzato Hokusai: dalle incisioni di Albrecht Dürer all’ arte fiamminga. Un altro aspetto da non trascurare è l’influenza, con la moda del Japonisme, che Hokusai ha esercitato su grandi artisti come Vincent Van Gogh, Claude Monet ed Henry Toulouse-Lautrec. “Quello che invidio ai giapponesi è l’estrema limpidezza che ogni elemento ha nelle loro opere […].”, così scriveva Van Gogh “Le loro opere sono semplici come un respiro e riescono a creare una figura con pochi, ma decisi tratti, con la stessa facilità con la quale ci abbottoniamo il gilet. Ah, devo riuscire anche io a creare delle figure con pochi tratti”.
Oltre a ripercorrere lo studio cronologico delle diverse prove che portarono all’onda perfetta, la mostra per la prima volta si sofferma sul segreto che si cela dietro la Grande onda, l’opera iconica di Hokusai, che appartiene alla serie di dipinti 36 vedute del Monte Fuji. L’immagine ha un andamento impressionante mentre fa emergere l’antitesi tra la caducità della vita e la grandiosità della natura.
Emblema di una produzione artistica in cui l’acqua ricopre un ruolo centrale. Fluida, dinamica, impetuosa, l’artista ne ha rappresentato ogni sfumatura, ogni movimento: dal boato frastagliato delle cascate alla caduta delle onde.
A partire dal 1814, Hokusai inizia la pubblicazione dei volumi degli album di disegni dal vero. Il secondo della serie contiene una xilografia a doppia pagina che descrive una spaventosa caccia a una balena vista dalla spiaggia. L’immagine è caratterizzata da una fune in tensione, come a rimarcare il contrasto tra la forza della balena e quella dei pescatori. Una sorta di duello fra due onde in contrasto. Sulla sinistra quella che rimanda a Il battello in mezzo alle onde (1805), l’altra per forma e spuma, anticipa quella che diverrà celebre come L’onda di Kanagawa
A tutt’altra visione rimanda la xilografia Il Fuji visto dal mare, dove la grande quantità d’acqua termina in una schiuma che si disintegra in particelle. L’acqua assume una dimensione monumentale, ma non violenta. L’onda, che avanza da sinistra verso destra, abbandona l’aggressività della sua celebre controparte di Kanagawa, scoraggiando in chi guarda ogni tensione emotiva. Se la Grande onda è il simbolo della potenza distruttiva, quella del Fuji visto dal mare si configura come un’energia costruttiva. Le due rappresentazioni sono le due facce di una stessa medaglia: la prima rimanda alla potenza spietata della natura. La seconda celebra la sua armoniosa bellezza.
Fino al 28 settembre 2025
HOKUSAI
A cura di Paolo Linetti, in collaborazione con Associazione Mnemosyne Museo Bailo
Borgo Cavour, 24 - Treviso museicivicitreviso.it
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VIEIRA DA SILVA/
Alberto Villa
Vieira, Multiple et Une”. Così il poeta René Char definisce la pittrice Maria Helena Vieira da Silva, sua cara amica. E la nuova mostra della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia non gli dà torto: nelle sale espositive di Palazzo Venier dei Leoni, Flavia Frigeri ha curato un prezioso affondo nell'opera di un’artista ancora troppo sottovalutata, ma capace di declinare una ricerca estetica e spaziale non del tutto incasellabile, mutevole eppure estremamente coerente. Cominciata a Lisbona nel 1908 e conclusasi a Parigi nel 1992, la vita di Vieira da Silva ha coperto tutto il Novecento, negli stravolgimenti e nelle tragedie che ne hanno caratterizzato la proverbiale “brevità”. Sempre muovendosi con libertà sulla soglia tra figuratività e astrazione, le opere di Vieira da Silva sono testimoni di un’importante sensibilità artistica, in grado di interpretare il Modernismo senza mai cristallizzarsi o ripetersi, a partire dai primi dipinti, fino a un utilizzo sempre più libero della griglia, che caratterizza gli ultimi decenni della sua pratica.
Già dalle prime sale, appare chiara la scelta di intitolare questa necessaria retrospettiva Anatomia di uno spazio: la modalità con cui Vieira da Silva decide di rappresentare il suo mondo, è quella della frammentazione in piani che si incastrano, come le tessere di un mosaico, senza gerarchie di sorta. Se infatti è lo spazio il protagonista evidente di questa dissezione, Vieira da Silva tratta nel medesimo modo tanto gli oggetti, quanto la figura umana.
Due attitudini, quella anatomica e quella spaziale, la cui origine è da ricercare anche nella formazione accademica di Vieira da Silva: più volte ricorderà quelle folgoranti lezioni di anatomia alla Escolas de Belas Artes, e le numerose ossa che si dilettava a disegnare; l’attenzione per lo spazio, invece, è riconducibile agli studi di scultura a Parigi, dove si trasferì nel 1928, prima di dedicarsi del tutto alla pittura, e trasformare il tridimensionale in bidimensionale. Così che tutto diventa spazio, e tutto appare e scompare costantemente all’interno di vortici caleidoscopici. È il caso del vivace dipinto Il gioco delle carte (1937) – mutuato dal celebre dipinto di Cézanne, che anticipava già una scomposizione cubista da cui Vieira da Silva attinge – o del più inquietante La Scala o Gli occhi (1937), che sembra prefigurare la celebre e occhiuta scenografia di Dalí per il film Io ti salverò di Hitchcock (1945).
Ma è durante la Seconda Guerra Mondiale che Maria Helena Vieira da Silva dipinge alcuni dei suoi quadri più belli e struggenti. Una guerra che, nelle sue opere, non appare mai nella sua contingenza, ma come tragedia universale, come dramma umano senza tempo. Già nel 1938, con il dipinto Gli annegati, Vieira da Silva consegna a ventri gonfi, corpi scheletrici e pennellate allungate il compito di raccontare un clima sempre più difficile nella città che da dieci anni l’aveva accolta. L’anno seguente, la minaccia tedesca la spinge quindi a lasciare Parigi insieme a suo marito Arpad Szenes, pittore ungherese di origini ebraiche, per fare ritorno nel natìo Portogallo. Una tappa intermedia, prima della destinazione finale: Rio de Janeiro. È da qui che Vieira da Silva seguirà lo svolgersi della guerra: al sicuro, certo, ma dolorosamente lontana dalla sua casa. La distanza,
Fino al 15 settembre
MARIA HELENA VIEIRA DA SILVA. ANATOMIA DI UNO SPAZIO
A cura di Flavia Frigerio
Collezione Peggy Guggenheim
Palazzo Venier dei Leoni
Dorsoduro 701, Venezia guggenheim-venice.it
in basso: Maria
©
a destra: Maria
(Autoportrait),
Comité
l’apprensione e un clima mal sopportato le rendono il Brasile estremamente grave, tanto da portarla a una profonda depressione e a un tentato suicidio. Ma, come spesso accade, non sono necessari i dettagli biografici per capire quanto questo periodo sia stato difficile per Vieira da Silva: i dipinti parlano più delle parole, con quelle figure filiformi che diventano tragicamente una cosa sola con le fiamme (L’incendio I e II, 1944) o con le lance (Il disastro, 1943), in una rilettura profondamente novecentesca di un già modernissimo Paolo Uccello, ammirato probabilmente durante il Grand Tour italiano che l’artista ha compiuto nel 1928. Nel confronto con le opere del passato, la rappresentazione che Vieira da Silva fa della guerra supera l’attualità e diventa astorica, esistenziale e drammaticamente eterna.
SILVA NEL SECONDO NOVECENTO
La fine del conflitto e il ritorno dei due coniugi in Europa segna l’inizio di un nuovo periodo per Vieira da Silva, a livello sia privato sia lavorativo. Arrivano le prime monografie, le sempre più numerose esposizioni e soprattutto le due partecipazioni alla Biennale di Venezia, nel 1950 all’interno del padiglione portoghese e nel 1954 in
quello francese. Nel 1959 espone alla seconda edizione di documenta a Kassel, dove tornerà per l’edizione successiva, nel 1964. Sono anni di grandi riconoscimenti internazionali per Vieira da Silva, che torna prepotentemente sulla frammentazione dello spazio, questa volta esplicitamente urbano. Le opere che realizza nel dopoguerra, infatti, si caratterizzano come vedute cittadine come sempre talmente esplose da essere appena riconoscibili. Vieira da Silva percorre così la strada di una personalissima astrazione, interpretando in mille modi quella griglia che nel 1979, sulle pagine di October, la critica d’arte Rosalind Krauss assurge a manifesto ultimo dell’arte moderna. Quella stessa griglia che trova le sue radici nell’archetipo della finestra, per poi rivelarsi in Mondrian e confluire in Agnes Martin, Vieira da Silva la fa sua, la stravolge, lo afferma e la nega, fino alla fine.
UNA RETROSPETTIVA NELLA
RETROSPETTIVA
Si chiude con una chicca questa mostra veneziana, che poi viaggerà a Bilbao per aprire
in autunno nella sede spagnola dell’impero Guggenheim: l’ultima sala, per citare la curatrice, è una “ retrospettiva nella retrospettiva ”. Riunite in un unico ambiente, opere di diversi periodi cronologici e stilistici dell’artista danno vita ad una soddisfacente antologia, ma con una peculiarità: tutte le opere sono modulate sulle variazioni del bianco, il colore preferito di Vieira da Silva. Una chiusura armonica e completa, capace di raccontare ed elevare tutte le multiple anime di una pittrice piacevolmente (ri)scoperta.
anni di opere di Tracey Emin (Croydon, 1963) sono in mostra a Palazzo Strozzi, per la prima volta in un’istituzione italiana. Sulla facciata esterna del museo campeggia al neon il titolo della mostra come uno statement, Sex and solitude (2025), andando ad aprire quella che non è una retrospettiva, ma un’esposizione affrontata in maniera non cronologica, bensì tematica. Nel cortile centrale un grande bronzo, I followed you to the end (2024), nelle sale opere nuove (due delle quali provenienti dalla personale presso la Galleria White Cube, realizzata nel 2024) e alcune storicizzate che non si vedevano da tempo, a ripercorrere la carriera dell’artista fin dagli Anni Novanta.
L’esposizione Sex and Solitude ha avuto una gestazione di quattro anni e una pianificazione mutata nel tempo, giungendo a un progetto che contempla passato, presente e futuro, con l’obiettivo di creare “per Firenze qualcosa di speciale”. Percorrendo le sale emerge tra le opere l’influenza, peraltro spesso dichiarata, di artisti come Egon Schiele ed Edvard Munch e naturalmente di Louise Bourgeois, con la quale negli anni ha anche collaborato. Il dato biografico emerge prepotente nella sua ricerca: le violenze subite a 13 anni, gli aborti
traumatici, l’amore e il sesso presente o negato (I wanted you to fuck me so much. I couldn’t paint anymore, 2020, oppure Not fuckable, 2024), il sacrificio (Those who suffer LOVE 2009), la passione, la solitudine, il recente cancro, la forza della vita e la bellezza di esserci, il senso di solitudine (Thriving on solitude, 2020) che tuttavia dà linfa al lavoro e che riecheggia nel titolo. Tra le opere più importanti in mostra c’è Exorcism of the last painting I ever made, che - documentando la ritrovata relazione con la pittura dell’artista, dopo una crisi di sei anni in seguito a un aborto nel 1990 - ricostruisce il display di una performance realizzata nel 1996, dipingendo e disegnando nuda per tre settimane e mezzo (la durata del periodo tra un ciclo mestruale e l’altro) sotto lo sguardo del pubblico. La tensione emotiva emerge, inoltre, con forza nelle opere pittoriche in mostra (The end of the day, Like the moon. You rolled across my back, I never felt like this, etc. tutte del 2022), in una sorta di autoconfessione. “Io sono me stessa e sono estremamente onesta”, racconta Emin, “e non è un gioco è quello che faccio, quello che creo. Le mie opere non vengono fuori come merda, vomito, sperma. È la mia arte, in questo è magica l’arte, è spirituale. Io ne sono canale, passa attraverso me e poi viene fuori. A volte ho un controllo, a volte no ma se non fossi sincera l’arte per me non avrebbe senso, mentre per me ha un valore massimo. È il mio lavoro, è la mia vocazione”.
FESTEGGIA 10 ANNI ALLA GUIDA DI PALAZZO STROZZI. INTERVISTA AL DIRETTORE
Palazzo Strozzi ha inaugurato a marzo la mostra dedicata a Tracey Emin. Come si inserisce nella linea seguita fino ad oggi dall’istituzione? Negli ultimi anni abbiamo sviluppato un programma espositivo di ampio respiro, in cui l’arte contemporanea ha rappresentato un asse fondamentale. Abbiamo accolto a Palazzo Strozzi alcune tra le figure più significative della scena artistica internazionale, e Tracey Emin si inserisce a pieno titolo in questo percorso. La mostra attualmente in corso è la più ampia mai dedicata all’artista in Italia e la prima in un contesto istituzionale nel nostro Paese. L’esposizione attraversa l’intera carriera di Emin e ne valorizza la molteplicità espressiva, costituendo un prologo ideale alla grande retrospettiva che sarà ospitata alla Tate Modern di Londra nel 2026. La stessa artista ha definito la mostra di Palazzo Strozzi come una delle più significative della sua carriera.
E la programmazione sull’antico?
Abbiamo portato avanti importanti progetti di ricerca sul Rinascimento, dando vita a mostre che oggi sono considerate punti di riferimento nel panorama internazionale, come le grandi
mostre dedicate a Verrocchio o a Donatello. Questi progetti si sono distinti per le prestigiose collaborazioni istituzionali e per la possibilità di mettere in dialogo opere mai confrontate prima. Abbiamo inoltre promosso rilevanti campagne di restauro, rese possibili dal prezioso sostegno di partner e mecenati privati, contribuendo in modo concreto e duraturo alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio. Questa linea prosegue con la mostra su Beato Angelico, in programma dal 26 settembre 2025.
Quest’anno festeggia 10 anni di direzione di Palazzo Strozzi. Se la sente di tirare un bilancio?
Dieci anni sono trascorsi rapidamente, anche grazie alla passione che ha contraddistinto il nostro lavoro. Abbiamo trasformato il ruolo di Palazzo Strozzi, contribuendo a ridefinire l’immagine di Firenze: da città legata esclusivamente alla memoria del passato a centro attivo nella produzione culturale contemporanea. È stato un cambiamento profondo, una sorta di rivoluzione copernicana che ha saputo valorizzare la tradizione come motore di nuove visioni e idee.
E a livello gestionale?
La Fondazione Palazzo Strozzi rappresenta oggi un modello di gestione riconosciuto a livello nazionale e internazionale. Il nostro
impatto sulla città è significativo sul piano culturale, sociale ed economico. Abbiamo costruito un bilancio sostenibile e sempre meno dipendente da risorse pubbliche. Il “caso Palazzo Strozzi” è ormai oggetto di studio in diverse università, come esempio virtuoso di gestione culturale.
Molto spesso lei viene definito manager, anche se la sua formazione è quella di storico dell’arte. La disturba questa definizione? No, al contrario. Ho avuto esperienze in istituzioni internazionali dove la figura del direttore unisce competenze scientifiche e capacità gestionali. Ritengo superata l’idea che questi due aspetti debbano essere separati: il contenuto culturale e la sua gestione sono strettamente interconnessi. Conoscere a fondo un progetto artistico consente di presentarlo efficacemente a partner e sponsor, rappresentarlo in prima persona con consapevolezza, rigore e visione. Ma tutto parte dalla qualità dei contenuti e dalla solidità della ricerca.
A partire da maggio Palazzo Strozzi inaugura un’area project…
Con questo nuovo spazio intendiamo instaurare un dialogo continuativo con le voci emergenti della scena contemporanea, attraverso una progettualità agile e sperimentale che possa creare dentro il palazzo un luogo di scoperta sui linguaggi e i temi più attuali.
Certo, la prima mostra non sarà proprio con una esordiente. Giulia Cenci è rappresentata da Massimo De Carlo e sta partecipando a molti progetti importanti…
Abbiamo scelto Giulia Cenci per inaugurare il nuovo progetto non solo per la sua riconosciuta rilevanza internazionale, ma anche per le sue radici toscane, in omaggio allo spirito del
genius loci. Anche gli artisti che seguiranno saranno figure già attive e riconosciute. Questo spazio è pensato per interventi site-specific, con l’obiettivo di continuare a portare a Firenze esperienze nuove e rilevanti.
Come saranno i prossimi dieci anni?
Si vede ancora a Palazzo Strozzi?
Sì, il programma ha dei punti fermi importanti, in particolare alcuni grandi progetti su cui stiamo già lavorando. Le sfide che ci attendono sono stimolanti. L’entusiasmo non è venuto meno, anzi, si rinnova ogni giorno con il lavoro del nostro team. L’obiettivo è proseguire nella direzione intrapresa, consolidando quanto costruito e aprendoci a nuove prospettive e progettualità.
Fino al 20 luglio 2025 TRACEY EMIN SEX AND SOLITUDE
A cura di Arturo Galansino
Palazzo Strozzi
Piazza degli Strozzi - Firenze palazzostrozzi.org
Nicola Davide Angerame
Nata a Roma, Francesca Cappelletti è una voce di riferimento nello studio del collezionismo e del Barocco italiano: dopo la laurea dedicata al tardo Quattrocento romano e le ricerche al Warburg Institute di Londra, ha ricostruito filologicamente capolavori come La cattura di Cristo di Caravaggio restituendo nuova luce alla sua produzione. Dal 2020 guida la Galleria Borghese a Roma e ora, in qualità di co-curatrice, insieme a Maria Cristina Terzaghi e Thomas Clement Salomon, firma Caravaggio 2025, una mostra “pura” fatta con 24 capolavori in prestito dai più prestigiosi musei nazionali e internazionali, in occasione del Giubileo. In quattro sezioni si concentrano i quindici anni di carriera del Merisi, dal suo arrivo a Roma intorno al 1595 fino alla morte a Porto Ercole nel 1610. La mostra include opere rare o mai viste in Italia – dal Ritratto di Maffeo Barberini, appena svelato al pubblico, all’Ecce Homo riscoperto a Madrid nel 2021, nonché gemme del collezionismo privato, come la primissima versione su tavola della Conversione di Saulo
Caravaggio è un pittore rivoluzionario, ma anche una personalità provocatoria, un James Dean barocco. È genio e sregolatezza o qualcos’altro?
Non so se riusciremo mai a capirlo fino in fondo nella sua dimensione umana. Abbiamo tante testimonianze anche contemporanee ma non del tutto obiettive. Anche le sue dichiarazioni sono rese in circostanze difficili, per esempio nel processo del 1603 quando fa un elenco dei “valentuomini” per dimostrare che alla fine apprezza quasi tutti i pittori di Roma. Non sappiamo se gli venisse dal cuore. Tra i biografi coevi c’è chi ne fa un eroe del naturalismo e chi un eroe negativo. Da storici, serve capire l’angolazione di chi parla. Ad esempio alcuni affermano che lui detestava copiare gli antichi maestri, poi però troviamo citazioni non soltanto da Michelangelo ma addirittura da Raffaello, il che prova quanto gli rimanesse impresso quel che guardava e che poi trasformava all’interno della sua concezione.
Ha un rapporto anche con la pittura di Annibale Carracci.
Certamente, come nel Mondafrutto, un giovane in camicia bianca che compie un gesto quotidiano. L’opera apre l’esposizione per mostrare gli esordi di Caravaggio che sono complessi. Questa invenzione ha avuto una fortuna inspiegabile, esistono versioni apprezzabili e molte copie dopo
Fino al 6 luglio 2025 CARAVAGGIO 2025
A cura di Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi e Thomas Clement Salomon Palazzo Barberini
Via delle Quattro Fontane, 13 - Roma barberinicorsini.org
in alto: Michelangelo Merisi detto Caravaggio, Giuditta e Oloferne, 1598-1602, olio su tela; 145x195 cm, Roma (IT), Gallerie Nazionali di Arte Antica –Palazzo Barberini, Crediti:Gallerie Nazionali di Arte Antica, Roma (MiC)-Bibliotheca Hertziana, Istituto Max Planck per la storia dell'arte/Enrico Fontolan in basso e a destra: installation view, photo Alberto Novelli & Alessio Panunzi
Beyond Caravaggio, a Londra nel 2017, le nuove analisi fanno convergere su questa versione il maggior numero di studiosi. Fa parte delle collezioni reali inglesi dalla seconda metà del Seicento.
Lo avete messo vicino al Bacchino malato, come lo battezza Roberto Longhi: un autoritratto dell’artista che si ammalò a Roma. Mostra la fiducia che riponeva in sé stesso, ritraendosi come Bacco, il dio dell’ispirazione poetica. Ma è la natura morta presente nei due quadri che li accomuna. Caravaggio arriva a Roma senza un committente né una commissione,
quindi lavora nelle botteghe, più o meno importanti, a volte anche a giornata, facendo la vita degli altri pittori. Eppure inventa la natura morta.
Ma perché Caravaggio, che è morto così giovane e ha lavorato così poco, è studiato così tanto?
La sua riscoperta è ancora molto recente. Nel catalogo di Longhi, che ha aperto gli studi su Caravaggio, e nella mostra del 1951 vediamo inclusi dei dipinti che oggi nessuno attribuisce più al Merisi. Comunque, già negli Anni Venti del XX
Secolo, c’è una nuova attenzione, quasi una sorpresa davanti ai suoi dipinti. Si comincia a notare una qualità che non era stata apprezzata prima. L’immobilità dei soggetti, che vengono inchiodati dalla luce ad un momento della loro vita e che sono come estratti dal fondo nero, che mette in pieno rilievo i corpi. Venne stigmatizzata come mancanza d’azione, ma proprio questa fissità te li fa ricordare per sempre. In questi, Caravaggio costruisce intellettualmente lo spazio e l’azione, da pittore colto.
Come nella celebre decapitazione di Oloferne presente in mostra.
Con il sangue in primo piano e con lo sguardo abbassato di Giuditta, la cui fronte è appena increspata, e con questa tenda rossa che ci sembra, con gli occhi di chi ha visto il Barocco, una tenda teatrale, anche se in realtà era probabilmente soltanto parte della tenda di Oloferne.
Proiettiamo su Caravaggio quello che abbiamo visto e che lui non sapeva?
Tendiamo a vedere solo quello che conosciamo e il Novecento, attraverso la fotografia ed il cinema, ci ha dato la capacità di vedere ed apprezzare in Caravaggio la forza delle sue “istantanee”.
Si può tornare indietro, eliminare tutti i sedimenti della storia e della critica e vedere Caravaggio come lui vedeva se stesso?
Caravaggio è il campione del naturalismo nel Seicento, ha però una luce che è completamente metafisica, che non viene mai da un punto individuabile del quadro. Lui decide di puntarla sui dettagli della scena e delle figure che considera importanti, e ci fa capire che la realtà del pittore possiede un che di soprannaturale.
Lei è una accreditata studiosa del Merisi, quali sono ad oggi gli elementi stilistici che permettono di riconoscere un suo quadro?
Non credo che ci sia una ricetta precisa, per me vale più la sintassi che la grammatica. È vero, lui
magari faceva le unghie sporche e sbagliava la posizione dell’orecchio. Usava preparazioni diverse quando faceva il cinquecentesco oppure quando, successivamente, “ingagliardisce gli scuri”. Bisogna conoscerlo a partire dai quadri certi, come quelli della “rivoluzione” della Cappella Contarelli nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, che la nostra mostra invita a visitare. Dopo il cromatismo ed il tonalismo veneziani, un principio essenziale è quello del rapporto fra la luce e l’ombra. Già i biografi dell’epoca dissero che fosse uno stile facilissimo da imitare.
Tra le opere in mostra spicca anche il Ritratto di Maffeo Barberini...
Quello che Longhi chiamava “il vero Maffeo”. È ritornato da poco a essere visto, e mostra l’immediatezza che Caravaggio ha nei confronti del ritrattato: è un dipinto molto importante per gli studiosi, un punto fermo. L’artista ha eseguito tantissimi ritratti di amici, di chi lo ospitava o lo aiutava. Non li abbiamo più o, forse, non li sappiamo riconoscere fra i ritratti esistenti.
Ma noi sappiamo quante opere del Caravaggio siano rimaste?
Molte attribuzioni non sono condivise. Nelle monografie si va da sessanta a ottantacinque opere; è difficile agganciare i documenti romani ai quadri esistenti, c’è sempre molto da studiare e da lavorare.
Qual era il suo rapporto col disegno? È una bella domanda, sicuramente aveva imparato a disegnare, perché da giovane la madre lo manda in bottega da Simone Peterzano a Milano, un pittore di cui c’è un fondo ricchissimo di disegni nella raccolta del Castello Sforzesco Di un suo disegno di sibilla, Caravaggio si ricorderà ancora per la posa del suo Bacchino malato, ma lui non pratica il disegno in senso tradizionale, non ci sono disegni attribuibili a lui. Probabilmente faceva un disegno colorato già direttamente sulla tela e poi eseguiva il dipinto, riaggiustando alcuni dettagli.
Lei ha scritto un saggio sui quadri perduti, cosa manca ancora?
Le fonti dicono che a Roma, nella collezione di Scipione Borghese c’erano molti quadri di Caravaggio. C’era questa famosa Trinità dipinta dal Merisi di cui abbiamo documenti, ma forse non consegnò il dipinto: è citata almeno fino al 1725. I due quadri del marchese Vincenzo Giustiniani si considerano perduti nell’incendio della Flakturm Friedrichshain di Berlino nel 1945, ma è una storia molto strana, perché comunque gli alleati erano già entrati a Berlino e uno dei Monuments men dice che prima dell’incendio, davanti alla torre c’era una folla di personaggi e di soldati. Quindi, chissà.
ROBERT MAPPLETHORPE / VENEZIA
Marta Santacatterina
Sull’isola di San Giorgio, nei locali delle Stanze della Fotografia, è in corso l’ampia retrospettiva Robert Mapplethorpe. Le forme del classico che celebra, grazie a circa 200 scatti, il noto fotografo statunitense. Perfezionista, provocatorio, talvolta addirittura pornografico, Mapplethorpe non è nuovo a Venezia: già nel 1983 infatti le sue foto furono esposte a Palazzo Fortuny, per tornare nella stessa sede nel 1992 con la curatela di Germano Celant. Ora va in scena la prima puntata – dedicata al rapporto del fotografo con la classicità – di una trilogia: seguiranno infatti, nel 2026, una tappa a Milano, con focus sulla rappresentazione del desiderio, e una a Roma che vedrà come protagonista l’ideale di bellezza.
UN PERCORSO EDULCORATO
Chi si aspetta le fotografie più “hard” di Mapplethorpe potrebbe rimanere deluso dalla selezione edulcorata operata dal curatore Denis
Fino al 6 gennaio 2026
ROBERT MAPPLETHORPE LE FORME DEL CLASSICO
A cura di Denis Curtis
Le Stanze della Fotografia
Isola di San Giorgio Maggiore - Venezia lestanzedellafotografia.it
in
, Orchid, 1989 © Robert Mapplethorpe Foundation. Used by permission.
Curti il quale pur scrive, in catalogo, “Il sesso è il motore che anima gli ingranaggi della sua produzione creativa”: una scelta motivata per tenere alta l’attenzione sul carattere classicheggiante della ricerca stilistica del fotografo (qualche immagine più esplicita sarà presente a Milano). Scelta assolutamente legittima e funzionale a proporre una nuova lettura del suo lavoro, e lo dimostra un percorso coerente, ricco
e assai piacevole anche grazie a un allestimento colorato, morbido e capace di accompagnare il visitatore scatto dopo scatto. Fa tuttavia un po’ sorridere incontrare una versione patinata di Mapplethorpe proprio nella città che in passato fu un rifugio sicuro per libertini, eretici & co. Apre la mostra un curioso nucleo di collage datati alla fine degli Anni Sessanta, periodo in cui
– spiega Curti – Mapplethorpe non aveva ancora deciso quale medium sarebbe stato perfetto per esprimere la sua creatività. Si tratta di objets trouvés, diorami delicati che sembrano altarini religiosi e solo a uno sguardo più approfondito svelano la provenienza dei ritagli da riviste omoerotiche. A seguire si ammirano tante stampe – tutte vintage – da cui emerge sguardo amorevole e complice rivolto all’amante, compagna e amica Patty Smith: una coppia formidabile, unita da un legame duraturo raccontato dalla poetessa in Just Kids
Ben diverso l’approccio di Mapplethorpe al fisico scolpito della body builder Lisa Lyon, atteggiato in pose che evidenziano la tonicità muscolare. Quasi un preludio alle serie sui nudi maschili, una selezione dei quali è affiancata da riprese di sculture da cui il fotografo ha tratto ispirazione, procedendo poi con un autentico casting per individuare il modello più adatto per reinterpretare a modo suo la classicità e la statuaria antica. Ampia e splendida la sezione sui ritratti e sugli autoritratti, mentre dal nucleo sui fiori spiccano alcune potenti stampe di grande formato. Una chicca: sbirciando in una cassettiera si osservano preziosi documenti, come due audiocassette originali di Patti Smith, riviste, lettere manoscritte di Mapplethorpe al suo mentore e amante, provini a contatto e altre “reliquie” originali.
Valentina Silvestrini
Nell’anno di Expo 2025 Osaka, il Teatro dell’architettura Mendrisio (TAM) dell’USI indaga l’architettura giapponese contemporanea con una mostra sulla generazione di architetti e urbanisti attiva da dopo il 2011. Progettisti nati tra la metà degli Anni Settanta e la metà degli Anni Novanta che si sono misurati con il terremoto del Tōhoku, il disastro di Fukushima e le loro conseguenze. Con un percorso espositivo scandito in due sezioni (e un ciclo di incontri sul canale Vimeo dell’Accademia di architettura), la mostra a cura di Yuma Shinohara evidenzia le traiettorie progettuali e concettuali che attraversano il Paese asiatico, solido protagonista dell’architettura globale anche grazie al rilevante numero di progettisti insigniti del Pritzker Prize
UNA CONTINUITÀ PROGETTUALE
“Tutti i giovani architetti con cui ho parlato esprimono profondo rispetto per i loro predecessori – molti dei quali sono stati anche loro maestri – e considerano il proprio lavoro come il frutto di una storia architettonica stratificata”, spiega Yuma Shinohara, che sulla relazione tra la generazione in mostra e quella precedente si esprime in termini di “notevole continuità”. Pur venendo meno il modello dell’architetto-autore, “molti architetti contemporanei stanno infatti rivisitando i metodi sviluppati dai giovani architetti degli Anni Novanta, un periodo in cui anche il Giappone stava attraversando una crisi economica. Inoltre, si potrebbe sostenere che gli emergenti di oggi stiano proseguendo lo spirito sperimentale nella progettazione spaziale che aveva caratterizzato la generazione precedente, seppur con nuovi strumenti e approcci”, prosegue.
CONTEMPLARE LA DIMENSIONE DELL’ADATTAMENTO
Lo scenario attuale e le prospettive future indirizzano i progettisti in mostra a contemplare la dimensione dell’adattamento: alle risorse limitate, ai materiali già disponibili, al patrimonio edilizio esistente. Un atteggiamento che lascia margini di espressione all’inedito concetto di “imperfezione”, concepito nell’immaginario collettivo come distante dal contesto giapponese. Tra le sfide imminenti rientra poi quella delle case sfitte: potrebbero essere il 30% del totale entro il 2038. Si tratta di “un problema
serio sia nelle aree urbane che in quelle rurali” indica il curatore, che ha le idee chiare su una potenziale collaborazione tra Italia e Giappone nell’affrontare le comuni criticità legate a denatalità, sismicità e alta aspettativa di vita. “Il primo passo è consentire un maggiore scambio di informazioni. A causa della persistente
barriera linguistica, molto di ciò che accade e di cui si discute in Giappone rimane in gran parte inaccessibile all’Europa, e viceversa. Credo che mostre come questa e istituzioni come musei e università abbiano ancora un ruolo importante – e di fatto una responsabilità – nel facilitare questo scambio, invitando gli architetti a presentare il loro lavoro in altri contesti e svolgendo l’attento lavoro di traduzione (sia in senso letterale che concettuale) in modo che ciò che hanno da dire emerga chiaramente”.
Fino al 5 ottobre 2025 MAKE DO WITH NOW NUOVI ORIENTAMENTI DELL’ARCHITETTURA GIAPPONESE
A cura di Yuma Shinohara Mostra promossa dall’Accademia di architettura dell’USI, prodotta da S AM Swiss Architecture Museum. Teatro dell’architettura Mendrisio (TAM) dell’Università della Svizzera italiana (USI) Via Turconi 25, Mendrisio tam.usi.ch
in alto: GROUP + Yui Kiyohara + Arata Mino, Study
Un percorso d’arte diffuso nel borgo di Malcesine (Lago di Garda), in occasione del rientro della scultura ‘Madonna con Bambino’ , attribuita alla scuola rinascimentale di Donatello.
A widespread art tour in the village of Malcesine on the occasion of the return of the sculpture ‘Madonna con Bambino’ attributed to the Renaissance school of Donatello.
Ideazione a cura di: Claudia Zanfi
OPENING:
Sabato 26 Aprile ore 16.30, Palazzo dei Capitani.
MOSTRA: dal 27 Aprile al 30 Ottobre 2025 Orari 9.30/18.30
Comune di Malcesine
Piazza Statuto, 1 - Malcesine VR Tel. 045 6589111 www.comunemalcesine.it
Opere di: Studio Azzurro
Testi a cura di: Matteo Chincarini
Fino al 21 settembre, il MAXXI espone il progetto curato dall’artista americano Oscar Tuazon, che esplorando il tema dell’acqua come elemento in grado di resistere a ogni tentativo di essere modellato si insinua nella riflessione sulle politiche ambientali. Rivendicando il ruolo militante dell’arte.
NIKAS SAFRONOV
Città del Vaticano
L’arte contemporanea come strumento per avvicinarsi alla fede. Le opere dell’artista russo appartenenti alla collezione privata di Papa Francesco – che da Safronov è stato anche ritratto – sono esposte durante l’estate presso l’Aula Paolo VI. Un’occasione per vedere da vicino il dipinto inviato nello spazio nel 2022, con la Basilica di San José de Flores di Buenos Aires, dove Jorge Mario Bergoglio iniziò il suo percorso spirituale.
FLOWERS. DAL RINASCIMENTO ALL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE
Chiostro del Bramante
Prosegue per tutta l’estate (fino al 14 settembre) la mostra che prende in esame la rappresentazione dei fiori nei secoli per costruire un percorso tra arte, scienza e tecnologia. Dalle nature morte di Jan Brueghel alle creazioni digitali contemporanee.
FRANCO FONTANA. RETROSPECTIVE
Museo dell’Ara Pacis
Franco Fontana, che nel 2023 ha raggiunto il traguardo dei 90 anni, è uno degli autori più amati e imitati della fotografia italiana soprattutto per la sua ricerca sul colore. L’Ara Pacis gli dedica un’ampia retrospettiva, curata da Jean-Luc Monterosso. Fino al 31 agosto.
FRIGIDAIRE STORIA E IMMAGINI
DELLA PIÙ RIVOLUZIONARIA
RIVISTA D’ARTE DEL MONDO
Museo di Roma in Trastevere
Fino al 29 giugno, la mostra omaggio alla rivista d’arte che ha segnato un’epoca, tra gli Anni Settanta e Novanta. Tra poster, fotografie e video.
PICASSO LO STRANIERO
Museo del Corso
Fino al 29 giugno, Palazzo Cipolla indaga nella produzione di Picasso da una prospettiva particolare, fotografando l’artista nella sua “identità” da immigrato in Francia. Con una sezione dedicata alla primavera romana del 1917, trascorsa da Picasso con Jean Cocteau, Erik Satie, Sergej Djaghilev e Leonid Massine.
TRA MITO E SACRO.
OPERE DALLE COLLEZIONI
CAPITOLINE DI ARTE
CONTEMPORANEA
Museo Carlo Bilotti
Una mostra collettiva dalle collezioni capitoline esplora il linguaggio del sacro nell’arte contemporanea, da Mario Ceroli a Sidival Fila. Fino al 14 settembre.
WANGECHI MUTU
POEMI DELLA TERRA NERA
Galleria Borghese
Dal 10 giugno al 14 settembre, la Galleria Borghese ospita, per la prima volta nella residenza del Cardinal Scipione, una mostra dell’artista keniota e americana Wangechi Mutu. Un intervento site-specific sul tema della poesia, sviluppato tra sospensioni, forme frammentate e nuove mitologie.
OMAGGIO A CARLO LEVI. L’AMICIZIA CON PIERO MARTINA
E I SENTIERI DEL
COLLEZIONISMO
Galleria Arte Moderna È la storia di una profonda amicizia e sintonia tra due artisti – Carlo Levi e Piero Martina – a orientare il percorso proposto alla GAM, che copre un arco temporale esteso dagli Anni Venti ai Sessanta mettendo a confronto i loro lavori. In mostra fino al 14 settembre.
MARIO GIACOMELLI. IL FOTOGRAFO E L’ARTISTA Palazzo delle Esposizioni
Dal 20 maggio al 3 agosto, l’Archivio Giacomelli coinvolge il Palazzo delle Esposizioni nel progetto diffuso che celebra il centenario della nascita del fotografo e pittore marchigiano. Qui con oltre 300 stampe originali di Giacomelli, molte inedite e mai esposte e un focus sulle sue relazioni con le arti visive contemporanee.
BAROCCO GLOBALE. IL MONDO
A ROMA NEL SECOLO DI BERNINI
Scuderie del Quirinale
Nel Seicento, Roma è centro catalizzatore di esperienze artistiche e culturali capaci di lasciare il segno nei secoli a venire. Cento opere dei più grandi artisti del Barocco restituiscono questa temperie, raccontando l’influenza della scena culturale cittadina sulle arti dell’epoca. Fino al 13 luglio.
CARAVAGGIO 2025
Gallerie Nazionali di Arte Antica di Palazzo Barberini
C’è tempo fino al 6 luglio per visitare la mostra più chiacchierata dell’Anno Giubilare. Una passeggiata tra capolavori e opere meno note di Michelangelo Merisi, con importanti prestiti internazionali, per comprendere la rivoluzione del linguaggio caravaggesco.
SALVADOR DALÌ.
TRA ARTE E MITO
Museo Storico della Fanteria
Disegni, sculture, ceramiche, boccette di profumo, incisioni, litografie, documenti, libri, fotografie. Tutto contribuisce a calarsi nel mondo surrealista di Salvador Dalì, di cui sono riunite a Roma circa 80 opere, provenienti da collezioni private di Belgio e Italia. Fino al 27 luglio.
MILANO
Fino al 18 maggio
GEORGE HOYNINGEN – HUENE
Glamour e Avanguardia
Palazzo Reale palazzorealemilano.it
fino all’8 giugno
SHIRIN NESHAT
Body of Evidence
PAC Padiglione d’Arte Contemporanea pacmilano.it
Fino al 22 giugno
LEONOR FINI
Palazzo Reale palazzorealemilano.it
Fino al 29 giugno
CASORATI
Palazzo Reale palazzorealemilano.it
TORINO
Fino al 2 giugno
HENRI CARTIER
Bresson e l’Italia
Camera Centro italiano per la Fotografia camera.to
fino al 25 agosto
VISITATE L'ITALIA!
Promozione e pubblicità turistica 1900-1950
Palazzo Madama - Museo Civico d'Arte Antica di Torino palazzomadamatorino.it
Fino al 7 settembre
CARRIE MAE WEEMS
The heart of the matter
Gallerie d'Italia gallerieditalia.com
PIACENZA
fino al 29 giugno
GIOVANNI FATTORI 1825 – 1908
Il ‘genio’ dei Macchiaioli XNL Piacenza xnlpiacenza.it
BRESCIA
Fino al 15 giugno
LA BELLE ÉPOQUE
L’arte nella Parigi di Boldini e De Nittis
Palazzo Martinengo mostrabelleepoque.it
fino al 24 agosto
JOEL MEYEROWITZ - A Sense of Wonder
Museo di Santa Giulia bresciamusei.com
GENOVA
fino al 13 luglio 2025
GIORGIO GRIFFA. DIPINGERE
L’INVISIBILE
Fino al 19 luglio 2025
VAN DYCK L'EUROPEO. Il viaggio di un genio da Anversa a Genova a Londra Palazzo Ducale palazzoducale.genova.it
FIRENZE
fino al 20 luglio
TRACEY EMIN
SEX AND SOLITUDE
Palazzo Strozzi palazzostrozzi.org
Fino al 14 settembre 2025
THOMAS J PRINCE MARION BARUCH
Museo Novecento museonovecento.it
NAPOLI
fino al 22 luglio
TOMASO BINGA. EUFORIA
Museo Madre madrenapoli.it
Fino al 30 settembre 2025
TESORI RITROVATI: storie di crimini e di reperti trafugati
MANN – Museo Archeologico Nazionale museoarcheologiconapoli.it
ROVIGO
Fino al 29 giugno
HAMMERSHØI E I PITTORI
DEL SILENZIO TRA IL NORD
EUROPA E L’ITALIA
Palazzo Roverella palazzoroverella.com
VENEZIA
fino al 31 agosto
ARTE SALVATA Capolavori oltre la guerra
dal MuMa di Le Havre
M9 – Museo del ‘900 (Mestre) m9museum.it
fino al 15 settembre
MARIA HELENA VIEIRA DA SILVA
Anatomia di uno spazio
Peggy Guggenheim guggenheim-venice.it
fino al 23 novembre
THOMAS SCHÜTTE Genealogies
Punta della Dogana pinaultcollection.com/palazzograssi
fino al 4 gennaio 2026
TATIANA TROUVÉ
La strana vita delle cose
Palazzo Grassi pinaultcollection.com/palazzograssi
Fino al 6 gennaio 2026
ROBERT MAPPLETHORPE
MAURIZIO GALIMBERTI
Le Stanze della Fotografia lestanzedellafotografia.it
FORLÌ
Fino al 29 giugno
IL RITRATTO DELL'ARTISTA
Museo Civico San Domenico mostremuseisandomenico.it
Fino al 4 maggio
CELEBRATING PICASSO
Palazzo Reale federicosecondo.org
BOLOGNA
Fino al 30 giugno 2025
CHE GUEVARA TÙ Y TODOS
Museo Civico Archeologico museibologna.it
Fino al 15 giugno 2025
ANTONIO LIGABUE La grande mostra Palazzo Albergati palazzoalbergati.com
Fino al 7 settembre
FACILE IRONIA. L'ironia nell'arte italiana tra XX e il XXI Secolo
MAMbo – Museo d'Arte Moderna di Bologna museibologna.it
Fino al 4 maggio
TONY CRAGG
Infinite forme e bellissime
Terme di Diocleziano museonazionaleromano.beniculturali.it
Fino all’11 maggio
BRANCUSI: SCOLPIRE IL VOLO
UCCELLIERE FARNESIANE
Parco Archeologico del Colosseo colosseo.it
Fino al 6 luglio
CARAVAGGIO 2025
Palazzo Barberini barberinicorsini.org
Fino al 31 agosto
L’ARTE DEI PAPI.
Da Perugino a Barocci
Castel Sant’Angelo direzionemuseiroma.cultura.gov.it
M E T A G A L L E R Y L’ARTE NELL’ERA D IGITAL E
A NCON A T EA TRO D E LL E MU S E
Come può l’Intelligenza Artificiale dialogare con la sfera culturale e la creatività artistica? Quali scenari futuri ci aspettano? Come possono artisti, scrittori, registi, confrontarsi con le possibilità che la tecnologia offre?
Ne abbiamo parlato con nove artisti, curatori, esperti e docenti
LUNA BIANCHI
CO-CEO & CO-FONDATRICE IMMANENCE
Come in altri momenti storici densi e incerti, credo che oggi l’arte abbia il compito di offrirci uno spazio per esplorare e prototipare il futuro. Il dialogo tra arte e IA rappresenta uno dei luoghi più fertili dove sperimentare nuove forme di relazione umano-macchina. L’IA —priva di esperienza del mondo — diventa strumento per ampliare la mappa mentale umana (“the map is not the territory”, Korzybsky) e ci costringe a ripensare i paradigmi stessi di creatività e autorialità. Riconoscere all’arte questa funzione di “traduttrice sociale” significa darle un ruolo strutturale nella negoziazione del nostro futuro, significa che anche le questioni più spinose – proprietà intellettuale, omologazione culturale, democratizzazione degli strumenti creativi –possono essere affrontate come parte di un ripensamento complessivo dei valori sociali. La vera sfida di oggi è orientare — in modo collettivo e consapevole — questa co-evoluzione: quali interessi, quali tecnologie, quali diritti e quali forme artistiche vogliamo che guidino la nostra società?
DEBORAH HIRSCH ARTISTA
All’interno di una pratica artistica, l’intelligenza artificiale acquista senso quando si integra con il percorso, la visione e la poetica dell’artista. Più che un semplice medium, l’IA rappresenta un’infrastruttura su cui innestare dinamiche critiche complesse. Quando l’artista lavora con modelli, dataset, e codice, esercita un controllo consapevole, condizionato dalla natura statistico-inferenziale dell’algoritmo. È proprio in questa frontiera della non-linearità che emergono esiti alle volte inaspettati e significativi. Quanto più l’artista sviluppa un’intimità con l’algoritmo di machine-learning, tanto più i suoi lavori risulteranno superiori per coerenza con il suo linguaggio. Affrontare l’IA con una poetica propria consente di non esserne plasmati, ma di generare esiti potenzialmente infiniti, che riflettono una molteplicità di riferimenti legati all’esperienza personale, alle influenze culturali, al proprio immaginario, archivio e lessico.
CHIARA CANALI
CURATRICE E CRITICA
D’ARTE
L’Intelligenza Artificiale sta rivoluzionando molti settori, compresi quello della cultura e dell’arte. La sua capacità di elaborare e analizzare grandi quantità di dati, riconoscere pattern e generare contenuti apre nuove possibilità di dialogo tra la macchina e la creatività. Tuttavia, l’artista non è solamente un raffinato scrittore di prompt o un abile esecutore di algoritmi, ma è un vero e proprio ricercatore che esplora e manipola la tecnologia in modo critico e personale, dando forma a visioni ed emozioni uniche. In questo senso è fondamentale il ruolo attivo dell’artista, che attraverso scelte intenzionali e consapevoli definisce la propria pratica e il rapporto con il pubblico. Le principali criticità che individuo non riguardano l’autorialità, sempre presente in un lavoro autentico, ma piuttosto le implicazioni etiche che emergono quando gli strumenti di IA vengono impiegati non per scopi artistici, letterari o teatrali, ma per fini documentativi o commerciali, rischiando di fuorviare e ingannare il fruitore.
La IA diviene indispensabilmente un ulteriore strumento e codice nella grande scatola dei giocattoli dell’artista. Nel campo delle arti contemporanee non vedo problemi o traumi: gli artisti sono sempre irragionevolmente consapevoli e in grado di piegare l’Intelligenza Artificiale secondo i propri capricci come fanno, ad esempio, con la pittura da circa 40mila anni. Per gli amanti degli eufemismi direi che ci attendono tempi interessanti. Ad esempio, sappiamo che l’esercito israeliano (Israel Defence Force, IDF) si è servito dell’intelligenza artificiale di Microsoft durante l’attuale guerra di Gaza. Lo rivelano documenti riservati del Ministero della Difesa di Tel Aviv e della filiale israeliana della multinazionale statunitense d’informatica fondata da Gates. Se qualcuno, come me, è perplesso sulla possibilità che nei nostri futuri la IA possa essere anche utilizzata per pratiche sconvenienti quali i genocidi, allora per sollievo parziale vi rammento dello splendido aforisma di Ennio Flaiaino: “coraggio, il meglio è passato!”.
FRANCESCO D’ISA
ARTISTA, FILOSOFO E DOCENTE
Le IA presentano diverse criticità, ma quelle legate alla creatività sono sovrastimate. Come stampa, fotografia, CGI e altre innovazioni tecniche forniscono nuovi strumenti ai creativi. L’idea che “facciano tutto da sole” è un luogo comune smentito dall’uso concreto: la storia ci insegna che ogni nuova tecnologia ha inizialmente generato timori identici, come in ogni media panic. I veri problemi sono altrove, ad esempio nella dipendenza da aziende che non rilasciano la tecnologia in modo trasparente: stabiliscono limiti e lasciano poco margine di modifica. Le soluzioni open source offrono maggiore flessibilità, ma sono ancora complesse da usare e creano un “gatekeeping” tecnico. In futuro, è prevedibile che vedremo numerosi esperimenti artistici molto interessanti. Il resto invece è più una speranza e un invito: uniamoci per pretendere IA libere e accessibili a tutti, perché se i dati sono di tutti, anche i risultati almeno in parte dovrebbero esserlo.
ANGELA MEMOLA
RESPONSABILE ARTE E PATRIMONIO ARTISTICOCUBO, MUSEO D’IMPRESA GRUPPO UNIPOL
Le tecnologie digitali permeano ogni aspetto della cultura che è connessa alla società. Le IA sono invenzioni umane e richiedono competenze specifiche. L’artista che le impiega deve possedere un solido bagaglio di culture visuali e di abilità tecnologiche.
Il contributo umano, talento e creatività sono essenziali, più di quanto una critica superficiale suggerisca sull’arte digitale. Tra le molteplici opportunità, un rischio per gli artisti è delegare eccessivamente alle IA, dimenticando il ruolo di co-creatori mentre un pericolo universale è l’uso manipolatorio delle tecnologie. Per questo è fondamentale l’educazione artistica, affinché gli artisti orientino la nostra percezione verso la comprensione dell’artificiale, esplorando la soglia tra reale e virtuale e avvicinandoci alle estetiche dell’IA. Come per ogni progresso, sono necessarie scuole dedicate, poiché competenze e conoscenze generano consapevolezza.
SERENA TABACCHI CURATRICE
Un tempo l’ispirazione si cercava tra libri e pagine web, inseguendo frammenti di senso dispersi nel tempo. Oggi, l’IA accelera ciò che era lento: ci accompagna nella ricerca, amplifica intuizioni, svela connessioni inattese. Ma non crea, non sogna. È uno specchio cieco, riflette ciò che riceve. Alcuni la trattano come un’artista, una coscienza curiosa che osserva il mondo con occhi nuovi. Forse è solo il nostro desiderio di meraviglia. Io credo nel potenziale delle tecnologie, ma anche nella responsabilità di ciò che alimenta i nostri strumenti. Se il dataset è distorto, la visione sarà fragile. La vera sfida? Un algoritmo libero, non più proprietario. Solo allora l’arte generativa potrà davvero sorprenderci.
SIMONE ARCAGNI
PROFESSORE DI MEDIA
E CULTURA DIGITALI, UNIVERSITÀ IULM
Inciderà soprattutto nella fase produttiva… dell’immagine, del video, della parola. Rivoluzionerà il sistema produttivo editoriale in tutte le sue sfaccettature. Si tratterà sempre di più di “infrastrutture” (la somma di “agenti” o di “multiagenti”) in grado di ottimizzare alcune fasi dei lavori creativi. Mentre dal punto di vista più creativo, non solo è in grado di offrire strumenti per alimentare nuovi mondi e immaginari, ma permetterà anche la costruzione di nuove metafore. Per gli scenari futuri, vedo molta omologazione e la creazione di standard medi che vengono processati e ottimizzati in serie. Da una parte. Dall’altra si affineranno canali, luoghi e piattaforme in grado di proporre ricerche originali, progetti nuovi. Per quanto riguarda i creativi, devono sapere che hanno a che fare con una sorta di infrastruttura complessa che richiede un dialogo serrato. Un vero e proprio organismo artificiale con cui entrare in “simbiosi”. Non c’è scampo! Bisogna intraprendere un corpo a corpo creativo, anche conflittuale, con i sistemi così da personalizzarli e orientarli. In secondo luogo, interrogarsi sulle funzioni delle tecnologie che si adoperano piuttosto che sulla loro “tecnicità”.
CLAUDIO MUSSO
CRITICO D’ARTE
E DOCENTE POLITECNICO
DELLE ARTI DI BERGAMO
Quante e quali forme di intelligenza artificiale conosciamo oggi? Per provare a rispondere a questa domanda apparentemente innocua si potrebbe partire da una considerazione linguistica, ovvero cercare di perimetrare l’area semantica del termine IA. Ecco che la questione diventa immediatamente complessa. Spesso, mi pare, si tenda a utilizzare questa definizione laddove si intravede una sorta di processo di apprendimento della “macchina” (del programma, del software, della app, dell’algoritmo). A proposito, trovo stimolanti le azioni artistiche che si interrogano sulle modalità e sui significati di questo apprendimento (o dovremmo chiamarlo apprendistato? Addestramento?) sottoponendo di conseguenza anche il proprio operare “umano” a una forma continua di riflessione basata sul dialogo, sullo scambio, sul confronto reciproco. La fantascienza ha prodotto e continua a generare un immenso caleidoscopio di scenari distopici in cui sostanzialmente abbiamo l’imbarazzo della scelta sul finale tragico: IA Vs Umanità. Il compito sempre più arduo è quello di influenzare la trama già scritta (da umani) per offrire ipotesi alternative (magari con l’ausilio di IA).
MASSIMILIANO TONELLI
Scrivo questo testo la domenica di Pasqua. È il 20 aprile e chiudiamo, qui a Milano, un intero mese di fiere e di eventi. Oltre alla settimana forsennata del Salone c’è stata anche l’Art Week con la fiera miart e ancor prima la fiera di fotografia MIA.
Tanti appuntamenti da seguire e una consapevolezza incrollabile: non c’è un mezzo più comodo ed efficace della bicicletta per fare tutto. E allora, sia per praticità sia per etica, ho cercato di fare tutto in bicicletta. Nel farlo mi sono posto spesso una domanda: le istituzioni e gli organizzatori responsabili di tutti questi importanti eventi mi hanno coadiuvato nella mia scelta oppure mi hanno ignorato o magari addirittura ostacolato?
L’arte non fa che parlare di sostenibilità ma poi per raggiungere i luoghi dove l’arte si espone si dà per scontato che la gente debba venire in automobile
Sono andato in bici fino alla non centralissima location della fiera MIA, in Via Tortona, una volta arrivato ho provato ad entrare nell’enorme cortile del Superstudio (la sede della rassegna, peraltro quest’anno molto bella) e il guardiano mi ha subito fermato. “Scusi ma lì ci sono dei posti per le bici” gli faccio, “Sì, ma sono solo per i dipendenti” mi risponde. Morale della favola: il Superstudio (il Superstudio!) non ha pensato a posti bici per chi viene pedalando ai tanti eventi che ospita. Non mi pare cosa in alcun modo giustificabile. Ho dovuto cercare un palo con parecchie difficoltà perché tantissima gente come me era venuta alla fiera MIA in bici e si è dovuta arrangiare attaccandosi a qualche elemento di arredo urbano in assenza di un parcheggio messo a disposizione dallo spazio espositivo: non tutta Via Tortona è così, di fronte c’è il museo MUDEC che ha predisposto all’interno del cortile – cosa che dà maggiore sicurezza a chi si muove in bici – uno spazio apposito.
Ma passiamo alla fiera miart iniziata nei giorni successivi. Sono arrivato boccheggiando al polo fieristico cittadino di Milano e anche lì mi sono
fre alcuna indicazione - e dunque alcun servizio - a chi viene in bici. E pensare che la fiera di Milano ha dei padiglioni comodamente fiancheggiati da una strada interna sul retro: basterebbe consentire alle bici di accedere e posteggiare lì. Sarebbe un bell’incentivo per chi viene in bici, non una punizione com’è oggi.
Media
dovuto scontrare con l’assenza di parcheggi predisposti. Tutta la strada è dedicata alle auto e alle moto, ma per chi si avventura in bici neppure qualche misero metro quadro per posteggiare. Come tanti altri (c’è da notare che sempre più visitatori di queste rassegne raggiungono in bici la destinazione) ho incatenato il mio mezzo ad un elemento dell’arredo urbano non senza farmi carico di un bisticcio col tassista che sosteneva che in quel punto non si poteva lasciare la bici perché avrebbe dato fastidio ai suoi passeggeri.
Per curiosità visitando la fiera ho dato una scorsa al sito ufficiale di FieraMilano nella classica sezione che tutti i siti hanno sul “come raggiungerci”. Le opzioni sono “in auto” o “con i mezzi pubblici”. Un importante quartiere fieristico collocato in centro città non of-
Non è una faccenda milanese, beninteso. Il discorso vale per tutte le altre città italiane. E ovviamente non vale solo per fiere d’arte ma per tutti gli attrattori culturali che siano festival, fondazioni, gallerie pubbliche e private e musei. E allora significa che manca proprio una sensibilità: l’arte non fa che parlare di sostenibilità ma poi per raggiungere i luoghi dove l’arte si espone si dà per scontato che la gente debba venire in automobile. Come si risolve? Nominando una figura, che esiste già in molte aziende e in molte istituzioni pubbliche che si chiama “mobility manager”. Non serve che sia una figura in più, è sufficiente che un componente dello staff venga incaricato di fare attenzione a determinati aspetti riguardanti l’accessibilità dei visitatori: come arrivano? I mezzi pubblici sono comodi o si può migliorare qualcosa? Il passaggio per i genitori con il passeggino è adeguato? E i percorsi per i diversamente abili sono ben fruibili non solo dentro al museo ma anche fuori? E chi arriva in bici è giustamente agevolato oppure finisce per essere paradossalmente disincentivato? Serve una persona preparata, formata e sensibile che si occupi di tutto questo. I musei più attenti e all’avanguardia la nominino prima ancora che qualcuno gli imponga di farlo. Un mobility manager contribuisce a diminuire il traffico e le emissioni, rende più facile l’accesso al museo e dunque in definitiva incoraggia l’aumento di visitatori. Oltre a connettere in maniera ancor più profonda il museo, il festival, l’evento d’arte con la città che lo ospita. E ad assolvere alla definizione stessa di museo, ovvero di attore “al servizio della società”.
ANGELA VETTESE
Forse non è soltanto per farsi fare compagnia che molte grandi personalità implicate con l’arte, da Peggy Guggenheim a Donna Haraway, hanno vissuto in simbiosi con i loro cani. Dagli animali pare arrivare un surplus di intelligenza, sotto forma di intuito, allargamento della sfera sensoriale e memoria a lungo termine, che serve a chi non si basi solamente su decisioni razionali. In realtà sono anni che il mondo scientifico cerca di indagare non solo l’intelligenza animale, ma anche quella vegetale. Diversa dalla nostra, ma simile per alcuni parametri. Così vale la pena di leggere Botanical Revolutions: How Plants Changed the Course of Art di Giovanni Aloi, uscito nel 2025 da Getty Publications, mentre aspettiamo il catalogo di mostre, lezioni e performance curato da Lucia Pietroiusti e Filipa Ramos e intitolato The Shape of a Circle in the Mind of a Fish, atteso per il prossimo settembre da Hatje Cantz. Nel frattempo, possiamo leggere i testi di Joan Jonas in Moving Off The Lands, dove l’artista americana racconta insieme a Ute Meta Bauer il suo rapporto con l’Oceano e le creature sorprendenti che lo popolano: pesci che salutano, forse sirene, forse mostri. Ma sempre entità capaci di comprendere e di reagire.
Hubert Duprat, Larva di tricottero con il suo astuccio (veduta della mostra), 1980-1994. Photo H. Del Olmo. © Hubert Duprat, ADAGP, 2024 Courtesy Hubert Duprat e Art: Concept, Parigi
La gerarchia aristotelica che umiliava vegetali e animali, negando loro un’anima razionale, potrebbe essere sovvertita
È il risultato della sua serie di performance create dopo immersioni nei mari orientali, che ha filmato e commenta con il suo corpo e con quello del suo barboncino, un coautore inseparabile nella vita e nell’arte. Quello che rende interessanti questi volumi non è il semplice rapporto natura/cultura e il riconoscimento della dignità dovuto a ogni essere vivente, ma proprio alcune prove di una capacità di intelligere che non avremmo sospettato e che le osservazioni in laboratorio stanno confermando. È noto, per esempio, che le piante mostrano comportamenti compatibili con la definizione di intelligenza quali l’adattabilità, l’apprendimento, la memoria, la capacità di rea-
gire a possibili traumi prevedendoli e cambiando le loro linee di crescita. È vero che non hanno un sistema nervoso, ma comunicano tra loro attraverso impulsi elettrici e sostanze chimiche soprattutto a livello delle radici. Percepiscono errori e si correggono, si adattano e dimostrano nei loro comportamenti uno scopo che perseguono in modo spesso sofisticato, soprattutto in ambienti complessi. Stupiscono anche i pesci, che hanno mostrato di sapere approfittare dell’esperienza e quindi di avere memoria; se lo studio avviene in acquari abbastanza grandi, dimostrano anche di sapere mettere in fila serie lunghe di atti concatenati e rivolti a un certo obiettivo. La capacità dei polpi di giocare, risolvere puzzles, rubare, uscire dall’acquario anche di fronte a serrature complicate, accorgersi se sono osservati e nascondersi modificando la propria forma, il proprio colore e anche la loro dimensione, è del tutto stupefacente: gli studiosi asseriscono che solo la brevità della loro vita impedisce loro di diventare dei veri sapienti, in quanto non hanno il tempo – ma ne avrebbero le capacità mnemoniche – per accumulare abbastanza conoscenze. Il loro cervello è del resto difficile da comparare al nostro, in quanto si dipana per tutto il corpo, tentacoli inclusi, con un modello decentrato che può agire senza un comando centrale. Non si sa se possiamo chiamare intelligenza la capacità di alcuni invertebrati di crearsi dei bozzoli usando perle, oro e pietre preziose come ha dimostrato nelle sue opere Hubert Duprat. Certamente, nella scala di una capacità di comprensione anche empatica le scimmie sono le più evolute, anche rispetto ai nostri amati cani e gatti. Ma il punto è che, dopo millenni di osservazione senza
mezzi, la scienza ci sta ora dimostrando che la gerarchia aristotelica che umiliava vegetali e animali, negando loro un’anima razionale, potrebbe essere sovvertita. Probabilmente dovremmo guardare con occhio diverso anche le molte opere create da artisti che vi hanno immesso entità viventi da Joseph Beuys con suo coyote americano a Pierre Huyghe, che ha accolto nel suo lavoro api, cani, pinguini, pesci e molte specie vegetali; da Giuseppe Penone, che da sempre sollecita le reazioni delle piante, quali cicatrici o cambi forzati della crescita. Da Nomeda e Gediminas Urbonas, che hanno impiegato per la loro Villa Lithuania dei piccioni viaggiatori, fino ai microorganismi usati da Philippe Parreno per guidare il movimento di grandi pannelli. Artisti come Pamela Rosenkranz, che ha attivato con feromoni vegetali mucchi di sabbia diventati capaci di sollecitare anche in noi reazioni di sottile agitazione, Alexandra Daisy Ginsberg, che ha creato ambienti in cui piante e insetti intensificano la loro dinamica, Michael Wang, che lavora sull’interazione di alghe, muffe, insetti e bambù nelle sue paludi create artificialmente, non stanno solamente giocando a salvare l’ecosistema con azioni prive di efficacia, ma stanno anche cercando di capire quanto capiamo noi dei viventi, e soprattutto quanto loro capiscano di noi. Molto, per chiunque abbia provato a convivere con la mente di una rosa o di un cavallo. Il prossimo capitolo sarà comprendere se la parola ‘mente’ è davvero quella adatta per i nostri compagni d’esistenza. Certo è che li anima qualcosa di simile e con cui – una nuova generazione di artisti lo sta dicendo a gran voce – dovremmo fare amicizia.
Ricordo che, quando vidi la Canestra di frutta di Caravaggio all’Ambrosiana, mi fece un’enorme impressione. Non solo perché è un capolavoro assoluto: anche per la disgraziata illuminazione che le era inflitta. In un museo che vanta opere illuminate decisamente meglio (a cominciare dal cartone raffaellesco della Scuola di Atene, presentato al pubblico in una sala apposita, meravigliosa), la Canestra era investita da una luce intensa, che illuminava esclusivamente il dipinto, facendo sprofondare nel buio tutto ciò che circondava il fulgido rettangolo. L’impressione era quella non di una tela, ma di una foto retroilluminata. Al punto che nei mesi a cavallo tra il 2023 e il 2024, quando il dipinto fu spedito in trasferta ad Asti e sostituito in pinacoteca da un’esattissima, strabiliante, mirabolante copia digitale (con decisione assurda: che le facciamo a fare, queste copie di ultima generazione, se non per evitare a originali fragili lo sbatti degli spostamenti?), mi dicevo: in effetti è impossibile che il pubblico se ne accorga, non solo per i meriti della copia, ma perché già così com’era illuminato l’originale aveva un che di falso, di ben poco seicentesco e di molto tecnologico.
Di allestimenti con le sale immerse nella penombra (prime vittime: le didascalie), da cui emergono, rischiarate dalla luce dei faretti, le opere, se ne fanno tanti, e da parecchi anni: l’effetto che si intende richiamare con questa soluzione è forse quello dell’apparizione del sacro o forse, più prosaicamente, quello di trovarsi a passeggio in una gioielleria d’alto bordo o nel caveau di una banca. Sempre più spesso, però, l’opposizione tra luce e tenebre si è andata precisando in una (tendenzialmente) perfetta coincidenza tra superficie del dipinto e superficie illuminata, del tipo di quella che bullizza la Canestra. Anche nella monografica che Palazzo Barberini dedica all’autore del dipinto ambrosiano ritroviamo questa soluzione: se con essa si vuole alludere ai drammatici contrasti tra luce e ombra della pittura caravaggesca, si sarebbe potuto ricorrere a una luce diffusa almeno nella prima sala, che accoglie le opere giovanili, dalle tinte assai meno contrastate. Niente affatto: l’implacabile faretto direzionato e riquadrato ricorre in tutte le sale e per
Courtesy Mo(n)stre
quasi tutti i dipinti, con conseguenze ancor più nefaste in una mostra iperaffollata come questa (è un attimo che ci si ritrovi ad ammirare una tela con l’ombra della testa propria o del vicino proiettata sulla raffigurazione). Il modello che riconobbi alla base di questo tipo di illuminazione, quando vidi la Canestra, era quello del televisore, ma in realtà occorre correggere il tiro: sempre di uno schermo si tratta, ma dello schermo del telefonino o, per dirla Anglice, smartphone. Siamo talmente abituati alle immagini che ci ammannisce, anzi sedotti da quei colori così intensi (nessuna spiaggia incontaminata, nessun mare cristallino potranno mai essere belli e perfetti come le foto digitali che li immortalano), che vogliamo che anche la realtà esterna al minuscolo schermo sia retroilluminata, o perlomeno illuminata in maniera tale da sembrarlo. Vogliamo che il dipinto diventi uno smartpainting. Non ci vuole un genio della museografia per capire che la condizione migliore per vedere le opere d’arte non di ultima generazione è la luce naturale. Magari non diretta (che i raggi solari non facciano benissimo a tavole e tele lo si sapeva bene un tempo, e infatti molti quadri erano provvisti di tendine da tirare all’occasione); magari rinforzata da qualche aiuto artificiale, se tutti quei nuvoloni non se ne vo-
gliono proprio andare; o sostituita da una luce artificiale morbida e diffusa, se il museo e la mostra restano aperti a lungo dopo il calar del sole. L’importanza di una “esecuzione filologica” delle opere d’arte non è avvertita quanto meriterebbe. Ossia di una fruizione che ricrei le condizioni per le quali le opere erano pensate e nelle quali erano fruite, ricreazione che passa innanzitutto attraverso il ricorso alla luce naturale, o a strumenti modernissimi che ci consentano di rivivere, in tutta sicurezza, quelle visite notturne a lume di torcia o di candela, che dovevano aggiungere una dimensione peculiare, vivificante alla vista delle opere (pensiamo soprattutto all’effetto della luce tremolante sulle sculture). Leggiamo fonti su fonti, ci sforziamo in ogni modo di entrare nella testa e negli occhi degli artisti di un tempo, dei loro committenti, del loro pubblico, e poi ce ne freghiamo del fatto che le condizioni in cui ammiriamo le opere, a cominciare dalla luce, siano lontanissime da quelle del passato. Eppure l’esempio di quanto è avvenuto nel campo della musica antica e barocca, con esecuzioni filologiche, ossia storicamente informate, che hanno riportato in vita un intero repertorio, dovrebbe renderci consci della necessità di una fruizione storicamente consapevole (parentesi: esecuzioni musicali che tra l’altro possono aiutarci a fruire in maniera più filologica e completa anche le altre arti, come quando musici e cantanti si disseminano in cantorie, coretti, tribune e ci fanno capire meglio forme e funzioni dell’architettura sacra). Passando dalla musica al cinema, sarebbe forse il caso di lanciare una sorta di Dogma delle mostre: un movimento che, ispirandosi al manifesto di Lars von Trier e Thomas Vinterberg, si proponga di allestire mostre senza effetti speciali, rifiutando, o almeno limitando, il ricorso all’illuminazione artificiale, e soprattutto ai rettangoli di luce.
VALENTINA TANNI
ow. Everything’s computer”, ha esclamato Donald Trump durante l’imbarazzante spot per la Tesla che è andato in scena a Washington lo scorso 11 marzo 2025. Entrando in una fiammante automobile rossa, parcheggiata proprio di fronte alla Casa Bianca, il presidente americano ha espresso il suo apprezzamento per le macchine di Elon Musk commentando l’avanzato livello di digitalizzazione dei sistemi di bordo. Comprensibilmente, per via della sua ingenuità e della sua traballante costruzione sintattica, la frase è diventata subito un meme, generando migliaia di commenti, parodie e reinterpretazioni. C’è chi ha sottolineato il boomerismo dell’espressione, paragonando il presidente ai propri nonni, e chi ha trasferito le parole sulle labbra di Neo in The Matrix, nel momento in cui si risveglia e capisce che il mondo è una simulazione. Altri, invece, hanno apprezzato l’efficacia e la capacità di sintesi: “è una delle cose più divertenti e vere che siano mai state dette, un sunto accurato del 21esimo secolo”, ha scritto l’utente Cosmic Slop su X in un post che ha accumulato oltre un milione di visualizzazioni e migliaia di condivisioni. Un altro utente, Aryan Singh, ironizza intelligentemente nei commenti: “è una riflessione su come il calcolo sia alla base di tutto, dalla biologia alla fisica. Le cellule elaborano informazioni, l’universo segue regole matematiche, e l’intelligenza artificiale è solo l’ultimo passo in questa grande equazione”.
Battute a parte, vale la pena di analizzare l’espressione per estrarne il vero cuore concettuale, la radice ideologica profonda. La frase, infatti, non va letta come una considerazione sulla pervasività della tecnologia, come alcuni hanno fatto, quanto piuttosto come il perfetto slogan tecno-ottimista. Wow, tutto è computer è la versione compressa e memabile del Techno-Optimist Manifesto, pubblicato online nel 2023 da Marc Andreessen, uno degli imprenditori più ricchi e influenti della Silicon Valley. Nel lungo e appassionato documento, Andreessen esprime una fede cieca e incrollabile nel progresso tecnico, da lui considerato l’unico mezzo per raggiungere il benessere e migliorare la società. In uno dei passaggi più significativi, si
Tutto è computer. Anche Trump (immagine generata con ChatGPT)
legge: “crediamo che non esista un problema materiale – sia esso creato dalla natura o dalla tecnologia – che non possa essere risolto creando ancora più tecnologia”. Seguendo questa logica – o meglio, questa religione – più cose diventano computer, meglio è. La sola presenza di un sistema digitale, possibilmente il più avanzato a disposizione, basta a certificare la qualità e l’importanza di un progetto, che si tratti di un’impresa, un’applicazione per smartphone, un prodotto da mettere sul mercato oppure un programma politico. La tecnologia crea problemi – lo stesso Andreesen lo ammette in più punti – ma non importa, perché basta guardare avanti e trovare un’altra tecnologia che sia in grado di risolverli. Il loop è progettato per andare avanti all’infinito: la macchina tecno-capitalista, secondo questa teoria, crea e risolve problemi a ciclo continuo, puntando verso “l’infinito e oltre”, per citare Buzz Lightyear. Il manifesto del tecno-ottimismo si chiude con una lunga lista di “santi protettori”, figure scelte arbitrariamente dall’autore tra i personaggi sto-
rici che, secondo lui, avrebbero ispirato la sua visione, oppure sostenuto simili ideologie. Tra loro, prevedibilmente, c’è anche Filippo Tommaso Marinetti, il maggiore produttore di manifesti pro-tecnica che la storia conosca, fermo sostenitore del nuovo a ogni costo. Se vogliamo combattere a suon di manifesti, possiamo contrapporre a questa visione, ingenua e pericolosa, quella espressa in un altro manifesto, quello del “Macchinismo”, scritto da Bruno Munari nel 1938. L’artista e designer milanese, che negli anni giovanili aveva brevemente aderito al movimento futurista, comprese ben presto le insidie connesse all’idolatria della tecnica. Non solo si mise a costruire una serie di “macchine inutili”, oggetti che “non fabbricano, non eliminano manodopera, non fanno economizzare tempo e denaro, non producono niente di commerciabile”, ma cercò di posizionare la figura dell’artista nel mondo tecnologizzato in modo radicalmente diverso. Rivendicando il diritto e la necessità di stare nel presente, e la libertà di usare la tecnologia, rifiutando però, al contempo, di diventarne schiavi. Mentre tutto “diventa computer”, e il tecno-ottimismo prolifera in ogni dove, vale la pena di rileggere le sue parole: “Le macchine si moltiplicano più rapidamente degli uomini, quasi come gli insetti più prolifici; già ci costringono ad occuparci di loro, a perdere molto tempo per le loro cure, ci hanno viziati, dobbiamo tenerle pulite, dar loro da mangiare e da riposare, visitarle continuamente, non far loro mai mancar nulla. Fra pochi anni saremo i loro piccoli schiavi. Gli artisti sono i soli che possono salvare l’umanità da questo pericolo. Gli artisti devono interessarsi delle macchine, abbandonare i romantici pennelli, la polverosa tavolozza, la tela e il telaio; devono cominciare a conoscere l’anatomia meccanica, il linguaggio meccanico, capire la natura delle macchine, distrarle facendole funzionare in modo irregolare, creare opere d’arte con le stesse macchine, con i loro stessi mezzi.”
Un linguaggio (ma anche una disciplina) vale soltanto quello che è in grado di rilevare e articolare in un tempo e un contesto dato. Tutto ciò che è al di fuori della sua portata rimane misterioso, nascosto, impossibile da cogliere. È per questo semplice motivo che in tempi di cambiamenti radicali è indispensabile saper trovare il linguaggio e gli strumenti giusti per interpretare il presente, per captare quegli elementi sui quali potremo edificare il futuro, senza necessariamente aggiungere alcunché di superfluo al mondo. Forse soltanto ora e in grande ritardo noi tutti ci stiamo rendendo conto del peso eccessivo di un bagaglio culturale (non si tratta di heritage, ma soltanto di idee invecchiate) che ci trasciniamo dietro, non più adeguate ad affrontare le sfide di oggi. Per esempio cosa sono e cosa dovranno essere in futuro le professioni, penso a quella dell’architetto, dell’ingegnere, dell’urbanista, del designer e quali saranno i suoi tools ossia strumenti (una volta si parlava soprattutto di ‘tecniche’)? Non solo, ma in futuro i Big Data, l’Intelligenza Artificiale e i modelli previsionali che incrociano dati e campi di ricerca, potranno fornire una base per la progettazione dello spazio pubblico, per la mobilità, per rilevare i percorsi cittadini e tanto altro, ma potranno determinare la qualità di quello spazio pubblico o di un’architettura, fare scelte controcorrente, inferenziali, essere, in sintesi, “creativi”? Per entrare nel concreto, sappiamo che secondo le Nazioni Unite, 1.1 miliardi di persone vivono in estrema povertà e quasi la metà di queste vivono in zone di conflitto. I profughi in fuga da persecuzioni, violenze, violazioni dei diritti umani sono circa 125 milioni. In un mondo in cui si incamerano dati di ogni tipo riguardo i cittadini in quanto consumatori attraverso i nostri smartphone, o i sistemi di videosorveglianza, forse sarebbe tempo di utilizzare gli stessi device non soltanto per farsi carpire dati personali, ma per avere una maggiore consapevolezza del mondo così com’è, come noi lo viviamo nei nostri movimenti e attività quotidiane con delle finalità che possano servire non soltanto per la sicurezza ma per mitigare gli impatti, riparare danni, anticipare svi-
sopra e a sinistra: Moduli 225, Christian Gullichsen & Juhani Pallasmaa
I tempi autoriferiti delle archistar sembrano davvero tramontati
luppi e prevenire le peggiori calamità del presente/futuro?
Si tratterebbe di un utilizzo innovativo per comprendere meglio – come disse una volta Okwui Enwezor, il compianto curatore nigeriano – “cosa significa sopravvivere a Kinshasa”; oppure sapere qualcosa di più su quel 20% della popolazione di Città del Messico (5 milioni di persone) che è fluttuante, senza fissa dimora; in breve capire che cosa sarà sostenibile in futuro secondo le proiezioni dell’OCSE e tanti altri think tank internazionali che l’attuale presidenza oscurantista degli Stati Uniti vorrebbe abolire come enti inutili.
I tempi autoriferiti delle archistar sembrano davvero tramontati, la loro architettura spettacolare, talvolta iconica appare oggi ininfluente e inutilmente costosa. È come se l’architettura oggi dovesse farsi perdonare il fatto di essere diventata marketing urbano, e
per rimanere in cattedra debba tornare a far ricerca in tante direzioni diverse. Le domande che riguardano l’architettura sono molte: come ridurre le emissioni nella progettazione delle comunità del futuro? Come salvaguardare territori a rischio, diventati fragili di fronte a fenomeni climatici violenti e imprevedibili? Come riuscire a progettare e pianificare per chi non ha il denaro per pagarti? Molte sono le esperienze interessanti soprattutto in America Latina, ma un po’ ovunque nel mondo. Sono domande che alcune avanguardie si stanno ponendo da tempo, ma non sono quasi mai diventate politiche attive dei governi locali né nazionali.
Di fronte a tali scenari occorre ripartire dai dati di fatto, da professionalità fondate sulla collaborazione interdisciplinare, volte alla mitigazione e al riparo. Sconosciuto ai più, Paolo Rinaldi, ingegnere, direttore del laboratorio eco idrologico del Politecnico di Losanna, “Nobel dell’acqua”, afferma che, “la proiezione più ragionevole sull’Adriatico del Nord indica che fra 60 anni avremo all’incirca 70-80 centimetri in più di li-
vello delle acque. […] Gli scenari tracciati dall’IPCC, prevedono con l’abbassamento del fondo marino che il medio mare si innalzerà di un metro entro la fine del secolo, decretando la morte dell’ecosistema lagunare veneziano”. A questa catastrofe naturale alle porte, le soluzioni potranno esserci se saremo capaci di abbandonare la visione miope attuale di chi ci governa. Occorre togliersi i paraocchi e capire che il mondo naturale con il cambiamento climatico si è messo in moto con sviluppi incontrollabili anche sul fronte biologico. Ma l’architettura è anche un’arte e se vogliamo comprendere la ‘buona’ architettura credo sia necessario ripartire dalla conoscenza di noi stessi, in quanto esseri incarnati (embodied beings) come corpi nello spazio, tornando a dare importanza agli ambienti che frequentiamo e che costruiamo. Le nuove frontiere delle neuroscienze, le scoperte della scuola di Parma sui neuroni specchio, il pensiero illuminato del medico e autore portoghese Antonio Damasio, il postdarwinismo della microbiologa Lynn Margulis e il pensiero di eco femministe quali Donna Haraway possono darci molti spunti per linguaggi innovativi che potranno aiutarci a declinare meglio il futuro.
Soprattutto sarà fondamentale comprendere l’empatia degli spazi, e che a ogni percezione del mondo corrisponde un’esperienza edonica/affettiva (Vittorio Gallese) che condiziona le nostre valutazioni, anche quelle apparentemente oggettive e razionali. Perché troviamo così appagante il mondo antico, o quello rinascimentale, con le
sue proporzioni, la sua sezione aurea, le sue dimensioni a misura d’uomo? Il Partenone non è soltanto un monumento antico ma è soprattutto il risultato di un pensiero raffinato, ossia di un inganno grazie alle conoscenze dei grandi artisti e architetti dell’antichità quali Fidia e Ictino, in grado di correggere gli effetti ottici falsando leggermente le proporzioni per renderlo perfetto all’occhio umano.
Come ci insegna l’architetto finlandese
L’architettura per non farsi strumento di un potere sempre più autocratico dovrà trovare un ruolo al tempo stesso vecchio e nuovo
Juhani Pallasmaa, gli aspetti sensoriali, la qualità della luce, il senso del colore, la sensualità del tatto contribuiscono insieme a farci star bene oppure vivere male un determinato ambiente. Perché le tonache dei monaci buddisti hanno quelle meravigliose tonalità che vanno dal giallo ocra al profondo rosso bordeaux se non perché secondo gli psicologi rappresentano il calore della relazione?
Viene in mente una mostra Architecture without Architects al MoMA del 1964 di Bernard Rudofsky che ha fatto storia per la bellezza delle soluzioni, frutto di saggezza, di conoscenza collettiva, di attenzione per la natura, come ci insegna la storia dei paesaggi d’Italia. Ogni regione ha la sua pietra, l’ardesia sui tetti e i pavimenti liguri, il grigio compatto della pietra serena in tutta la Toscana,
la pietra d’Istria che incornicia ogni finestra a Venezia, ecc. Elementi e piante che caratterizzano i diversi paesaggi. Perché invece di bandire gli alberi dai giardinetti pubblici a favore di mediocri architetture prive di sedute non si reinseriscono quelle piante meravigliose che con la loro chioma generosa accolgono tutti, mamme, bambini e anziani, proteggendoli dalla calura estiva? Piazze mediterranee rese indimenticabili come quella di Carloforte in Sardegna con il suo ficus gigante e sotto, tutto intorno, una seduta sempre affollata. Molti elementi riaffiorano dal nostro passato prossimo, colpevolmente rimossi soltanto perché non abbastanza “innovativi”. Penso ai portici di tante città mediterranee, forma di architettura altruistica in parte pubblica in parte privata, per un utilizzo comunitario.
In poche parole la scoperta della simulazione incarnata attribuisce minor importanza alla vista e più rilevanza all’esperienza sensoriale. Ed è sempre Pallasmaa che ci riporta al nostro bisogno di vivere nel mondo reale quali esseri in natura, che si rapportano con il mondo attraverso i sensi che sono molto più di cinque, esattamente come fanno i critters, gli animali, ogni essere vivente. Le comunità nel tempo hanno saputo organizzarsi e risolvere molti problemi con o senza architetti, ma nella società complessa di oggi, l’architettura per non farsi strumento di un potere sempre più autocratico dovrà trovare un ruolo al tempo stesso vecchio e nuovo, reinventando un repertorio più aderente ai reali bisogni delle persone e non soltanto di quel 2%.
MARCELLO FALETRA
Se la città fosse una specie, e la cultura fosse soggetta alle leggi della selezione naturale, probabilmente sarebbe già scomparsa. E si potrebbe vedere nella presenza onnivora del turismo una forma di terapia intensiva di ciò che resta di essa. La distinzione tra architetture commerciali e città si è assottigliata sempre più. La valanga inarrestabile della patrimonializzazione non è più scindibile dai processi di estetizzazione. Se è vero che il nostro bene culturale più consistente dipende dall’intreccio di memorie, relazioni, storie individuali e collettive, cioè a dire da un contesto, che significato assume la nozione di “patrimonio” se non quella di attribuire allo spazio della città un valore economico, che mette in primo piano non ciò che si è, ma ciò che si ha? L’identità, seppure dinamica di un contesto sociale, non può essere scomponibile in singole parti di cui se ne privilegiano solo quelle più redditizie. È qui che l’aspetto intimidatorio dell’economia prende il sopravvento sul resto. In questo scenario le città sono viste come capitale estetico, che le fa transitare dalla storia alla storialità. Trasformare la storia delle città in storialità (simulazioni della storia) è il modello nato con Las Vegas, che oggi è universale, nella misura in cui le città sono sottoposte alle formule comunicative sotto l’etichetta del brand. È il trionfo della città-spettacolo. “La metamorfosi di Milano”, osserva Salvatore Settis, “in una sorta di downtown all’americana, dove il centro urbano si segnala per l’affollarsi di un cluster di grattacieli, non è un tardivo trionfo della modernità, ma la sua finzione... Come il vestito della domenica del villano inurbato nella commedia di un tempo, cosi l’orpello di grattacieli [...] non mette in scena il successo ma traveste l’insicurezza, occulta la cattiva coscienza di chi si sente ‘arretrato’ e adotta frettolosamente, indossandoli come una maschera, modelli forestieri e posticci”. Se a ciò aggiungiamo i recenti scandali che hanno segnato questa città, come porto franco del cemento, il disastro è completo. L’ottuso culto del manhattismo (l’ossessione alla verticalizzazione), per usare il linguaggio di Koolhaas, la cementificazione di ogni area ancora libera, la cancellazione di parchi e giardini sem-
pre più diffusa, comprova con evidenza assoluta lo stato di sfacelo in cui versano le città. Sigfried Giedion nel suo Breviario di architettura osservava che “in Grecia la monumentalità serviva solo per gli dei”, oggi al posto degli dei abbiamo la speculazione finanziaria. Alla deregolamentazione economico-sociale, corrisponde una deregolamentazione urbanistica – la gentrification, ovvero l’espropriazione dei centri storici da parte di grossi gruppi finanziari –, che rende sempre più difficile la possibilità di successo delle proteste e delle rivolte. D’altra parte, come osservava Giancarlo De Carlo “l’architettura è per definizione un’attività che mette ordine”, non tollera i dialetti architettonici odiati da Le Corbusier. Il controllo dello spazio urbano, in questa prospettiva, è una delle preoccupazioni più significative del potere oggi. In questo scenario la “modernizzazione” delle città equivale al suo controllo totale, e i grattacieli, che svettano come attrazioni fantascientifiche, rovesciano l’assunto dei grandi padri dell’architettura, che auspicavano, come nel caso di Frank L. Wright, una “città vivente”, integrata nelle sue funzioni istituzionali e organiche nelle relazioni sociali. Le idee utopistiche di Wright oggi s’infrangono nella crescente disaggregazione sociale che le pianificazioni urbanistiche prospettano. La sua utopia di un capitalismo “organico”, capace di integrare classi sociali, bisogni e lavoro, si è realizzata, ma al contrario: disintegra le classi, schiavizza il lavoro, espropria gli spazi collettivi. Nel 1909 Marinetti, anticipando il progetto di Le Corbusier di radere al suolo Parigi, ambiva a distruggere Venezia in nome del
progresso. Oggi se Venezia muore è per overdose di turisti, come sta accadendo ad altre città. Per certi aspetti queste città-insegne affermano una concezione dello spazio urbano dove “l’abuso semiologico”, come osservava Maldonado, diventa un criterio di pianificazione urbana; è il trionfo del segno sulla città come stratificazione storica. Le insegne sfavillano come indizi di mercanzie, e diventano a loro volta architetture. Si potrebbe vedere nella città di Las Vegas la scena originaria delle metropoli d’oggi. Il modello che ha contaminato intere aree urbane del pianeta con la sua astrazione allucinatoria, che riduce la profondità della storia a mera superficie, simulacro di sé stessa. D’altra parte, Las Vegas è il prototipo di città basata sull’illimitatezza del consumo. Ad esempio, il consumo di acqua pro-capite è di 1400 litri al giorno; e non è da trascurare il fatto che è anche la città col più alto numero di suicidi al mondo. In un dialogo con Baudrillard, l’archistar Jean Nouvel si chiede “l’architettura è una cosa; la vita degli uomini un’altra. A che serve un’architettura che non è più̀ in sintonia con gli usi del proprio tempo?”. Infatti: a che serve? Se “gli usi del proprio tempo” sono stabiliti dalla trasformazione delle città in oggetto da consumo, allora per Nouvel il Beaubourg “funziona come una cattedrale, con i suoi archi aggettanti, una navata, una ‘piazza’. Esso è un appello al pubblico a salire, a consumare le vedute di Parigi e sull’arte. Un appello al consumo”. Ecco il punto nodale: il capitalismo si fa estetico, trasformando la cultura in merce, di cui le architetture-spettacolo, questi Walhalla d’oggi, sono il veicolo architettonico.
MARCO SENALDI
Un po’ in sordina, almeno da noi, quest’anno è ricorso il centenario dalla nascita e il trentennale dalla morte di Gilles Deleuze (Parigi, 1925 – 1995) e quasi in sincrono sono uscite, in francese prima (Minuit, 2023) e subito tradotte in italiano (Einaudi, 2024), le sue lezioni sul tema della “pittura” risalenti al 1981.
Dopo aver insegnato fin dal 1970 al leggendario Centro Universitario Sperimentale di Vincennes (Centre universitaire expérimental de Vincennes, CUEV), dal 1980 tutti gli insegnamenti furono trasferiti a Saint Denis, nella banlieu parigina in un modesto istituto tecnico. Sono lezioni il cui clima oggi si può solo immaginare, anche se possiamo farcene un’idea abbastanza precisa ascoltando e vedendo alcune videoregistrazioni ora disponibili su YouTube, come quelle degli ultimi anni Ottanta. Il filosofo parla, e si vede chiaramente che “pensa mentre parla”, proprio come si dice facesse Wittgenstein nelle sue memorabili “lezioni di logica”: con la sigaretta in mano, letteralmente attorniato da una platea la più variegata possibile, composta non solo da studenti, ma anche da lavoratori, curiosi, personaggi e creativi di ogni sorta, in un ambiente più simile a una casa occupata che a un’aula universitaria.
La tessitura che gli riesce non è banalmente un collegare filosofia e arte, ma un rimando incredibilmente rigoroso quanto imprevedibile fra concetti
La, diciamo così, “lettura” che Deleuze propone della pittura – o meglio di alcuni pittori, da Turner a Cézanne, da Klee a Bacon – risulta ancor oggi del tutto originale. La tessitura che gli riesce non è banalmente un collegare filosofia e arte, ma un rimando incredibilmente rigoroso quanto imprevedibile da concetti, come quello di noumeno, a evidenze, come il colore in Cézanne. In una dimensione, quella della lezione parlata, dove il discorso si svolge apparentemente a braccio, Deleuze sciorina una serie di riferimenti che svariano da Kant a Spinoza, dalla fotografia al diagramma, che lascia stupefatti. Pur in assenza completa, a quel che si capisce, di riferimenti visivi a questa o
quell’opera (in aula sembra proprio che non ci sia nemmeno un semplice proiettore a diapositive) Deleuze riesce a dipanare la sua analisi in modo funambolico, come quando connette Kupka e Bacon per descrivere il rapporto tra corpo e forze, dato che “il corpo è visibile, e subisce una deformazione creativa da parte della forza, che… permetterà di rendere visibile la forza invisibile”.
Deleuze riesce a far risuonare i concetti dentro forme espressive, e ci riesce perché non sovrappone il sapere filosofico alle opere d’arte
In altre parole, Deleuze riesce là dove molti filosofi che hanno provato a cimentarsi con l’arte hanno fallito, cioè trarre un concetto filosofico dall’arte, mostrando che hanno imposto griglie concettuali sopra le delicate forme espressive, come uno stampo da dolce sopra la morbida pasta di un budino. Deleuze invece riesce a far risuonare i concetti dentro forme espressive, e ci riesce perché non sovrappone il sapere filosofico alle opere d’arte, ma piuttosto “fa parlare” le opere e gli artisti, lasciando che i pittori facciano “filosofia” e mostrando insieme il carattere “pittorico” del pensiero filosofico. Ma la lezione autentica, per dirla tutta, non sta in questa abilità: la lezione da trarre da queste Lezioni è invece proprio quella relativa all’insegnamento, a “cosa significa insegnare” qualcosa a qualcuno. Significa “sperimentare”, significa che l’insegnamento deve diventare un atto creativo, che deve essere entusiasmante, a cominciare da chi lo fa. Perché “una lezione significa proprio avere dei momenti d’ispirazione”, dichiara Deleuze. “Altrimenti non significa niente”.
June 19 – 22, 2025