LUMSA
LIBERA UNIVERSITA’ MARIA SS. ASSUNTA
FACOLTA’ DI
SCIENZE DELLA FORMAZIONE
GIURISPRUDENZA
EQUITA’ E TERZO SETTORE
La risposta di oggi alla sfida di domani
Relatore Laureanda
Prof. Andrea De Dominicis Antonia Lolli
A.A. 2004/2005
I. INTRODUZIONE
Le organizzazioni di terzo settore sono venute ad assumere, in questi ultimi anni, un ruolo cardine nella società italiana. Questo cambiamento ha portato a dei profondi stravolgimentiall’internodelleorganizzazionistesse.
Con questo elaborato cercheremo di esaminare il fenomeno relativo all’aumento, necessario ma brusco, della professionalizzazione del personale impegnato nel mondo non profit, chesi èvenuto a verificare negli ultimi anni ele conseguenze che hadeterminatonelterzosettore.
Ci occuperemo dell’annoso problema che le organizzazioni di terzo settore, alla luce dell’aumentata professionalizzazione, sono chiamate ad affrontare: riuscire, tenuto conto dei cambiamenti, a creare le condizioni per cercare di rendere fedele il personalealleorganizzazioni.
Tratteremo della gestione di queste professionalità come possibile soluzione, perché daessapuòdipenderelasopravvivenzaelosviluppodelleorganizzazionistesse.
Diverse sono le strade percorribili per affrontarne il burn-out; a tal proposito, abbiamo scelto di incontrare i dirigenti di quattro fra le più rappresentative organizzazioni del privato sociale: ACLI, ARCI, CARITAS ITALIANA e LEGACOOPsettoresociale.
E’statointeressanteosservarecomeciascunadilorosistiaoccupandodelfenomeno, utilizzando strumenti diversi a seconda, ovviamente, delle caratteristiche proprie delleorganizzazioni: mission,strutturaorganizzativa,culturaorganizzativa.
Poiché sono le organizzazione che vengono percepite eque, quelle per le quali le persone sembrano essere meglio disposte a spendere il proprio tempo e la propria professionalità, abbiamo chiesto ai referenti incontrati, quali strumenti stanno
adottando per “convincere” le persone a continuare a dare il loro contributo alle organizzazioni. Questo anche alla luce dell’evoluzione che sta avendo il fenomeno della “responsabilità sociale d’impresa” nel settore profit, che nei prossimi anni potrebbe determinare un accentuato interessamento delle aziende per i professionisti del nonprofit
Ma cosa si intende per organizzazione equa? Quali caratteristiche deve avere un’organizzazione per essere considerata tale? Che garanzie deve dare al lavoratore affinchéeglisisentamotivatoarestarvidentro?
Procederemo ripercorrendo le trasformazioni sociali prima e legislative dopo, al fine di comprendere l’importanza del fenomeno terzo settore, come oggi ci appare, sia sottounpuntodivistaqualitativochequantitativo.
Evidenzieremo poi il perché, nel terzo ancora più che negli altri settori è prioritario averepersonalesoddisfattoequalicaratteristicheepeculiaritàilpersonaleimpegnato nel mondo non profit ha in sé e soprattutto, partendo da questo, quali aspettative ripone nell’organizzazione, tenuto conto della minor retribuzione rispetto agli altri settori(pubblicoeprofit).
I. LACRISIDEL WELFARE STATE
Lo stato sociale si afferma, nei paesi democratici ad economia capitalistica dell’occidente, a partire dal secondo dopo guerra ed è legato ai processi di modernizzazionesociale.
Il periodo che va dal 1950 al 1975 è stato denominato l’età d’oro dello sviluppo capitalistico; in questo periodo molti paesi avanzati, hanno sperimentato alti tassi di
crescita economica,inflazionebassaestabile,condizionediquasipienaoccupazione
dellaforzalavoro.Si trattadi unperiodonelqualesi afferma ilmodello Keynesianofordista. Questo è caratterizzato da un intervento significativo dello stato nell’economia,aggiuntivo enon sostitutivo dell’azionedei privati, e daproduzionee consumodimassastandardizzati.
Questa standardizzazione finisce con il plasmare le sovrastrutture culturali, i modelli di regolazione dei conflitti, così come anche le istituzioni pubbliche ed i sussidi da esseerogati.
Così, lo sviluppo demografico, quello economico, l’estensione dei diritti sociali ed un’organizzazione della vita centrata sulla famiglia, hanno determinato un aumento delladiffusionedelbenesserechefinoadalloraerastatoprivilegiodipochieristretti gruppi di persone ma, conseguentemente, un aumento, sconosciuto fino ad allora, dellaspesapubblica.
A queste condizioni lo Stato era l’unico garante del benessere e della protezione sociale e, in generale, del buon funzionamento del sistema sociale in termini di crescita e di stabilità economica, di democrazia politica, di ridistribuzione del benessereediintegrazionefralediversecomponentidellasocietà.
Unaseriedi trasformazionisocialiedeconomiche hannominatoallabaselacapacità di risposta del welfare state alle esigenze dei cittadini; la crisi del modello Keynesiano-fordista, l’invecchiamento demografico e la crisi dell’istituzione famiglia, hanno determinato la nascita e lo sviluppo indiscriminato di un numero enorme di nuove esigenze e problemi ai quali dare risposte: lo Stato non appare più in grado di far fronte ai numerosi nuovi bisogni dei cittadini contando solo sulle sue risorseorganizzativeedeconomiche.
E’proprioinquestocontestosocio/economicochesiècominciatiadassistereaduna
progressiva modificazione del ruolo sociale e politico delle diverse formazioni sociali,delleorganizzazionicollettivee dei corpi intermedi:il terzosettorehapotuto acquisireunruolodaco-protagonista.
II. LENOVITA’NORMATIVE
1. Dalla legge Crispi
Il fenomeno delle organizzazioni caratterizzate da interesse altruistico, orientate quindiallasoddisfazionedeibisognicollettivi,hain Italiaoriginiremote,anchesela prima legiferazione è quella della Legge n. 6972 del 1890, con la quale Crispi trasformò le Opere Pie, per definizione di carattere religioso e di ordinamento giuridico privatistico, in “Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza” le Ipab.
Successivamente bisogna aspettare il 1948, anno di emanazione della Costituzione italiana, per assistere al riconoscimento e quindi all’affidamento di numerose attività dapartedelloStatoalleorganizzazionidelprivatosociale.
Fino alla metà degli anni ottanta il settore delle organizzazioni senza scopo di lucro haricoperto,nelnostropaese,unruoloassolutamentemarginalenell’attuazionedelle politichediprotezionesociale.
La situazione di monopolio strategico-gestionale dei servizi sociali, da parte degli operatori pubblici, ha per decenni chiuso le porte a qualsiasi tipo di innovazione o suggerimento proveniente dalla società civile che non si attenesse rigidamente agli interessi delle formazioni politiche dominanti e, soprattutto, al modello burocratico digestionedellapoliticasociale.
Dagli inizi degli anni ottanta è iniziata una sperimentazione su vasta scala, di interventi misti di politica sociale, tra enti pubblici ed esperienze consolidate di solidarietà organizzata. Questo processo si è soprattutto esplicitato attraverso il mutamento della forma organizzativa dei servizi, che sono passati da una gestione esclusivamente diretta, alla delega di produzione ad agenti esterni all’amministrazione pubblica, secondo la formula del contracting-out che prevede il finanziamento dell’erogazione dei servizi con l’autorità locale che paga l’organizzazione privata per le prestazioni effettuate. La dinamica del settore si è innanzitutto contraddistinta per la nascita di organizzazioni di piccole dimensioni, molto più flessibili ed adatte ad interagire con una domanda complessa e segmentata come era venuta determinandosi. Sono cresciute poi, sia la specializzazione che le competenze professionali nelle organizzazioni non profit, elementi questi che hanno via via potenziato il ruolo produttivo e la funzione imprenditoriale delle esperienze solidaristiche.
E’propriodiquestiannil’espressione,finoadorasconosciutaaimolti,“sussidiarietà orizzontale”, dentro la quale, nel corso di pochi anni, è andata a convergere una esigenteedeterminataspintapartecipativa.“Cosìlasterilepartecipazioneal“dire”la politica (democrazia discutidora, sperimentata soprattutto negli anni settanta) s’è vista superare da un “fare le cose”, da parte di un gruppo organizzato di cittadini, i quali prima si limitavano a chiedere alla politica di fare essa, con i suoi apparati pubblici,edorascopronodipoterfardasètanto.Dinecessitàlacittadinanzahafatto virtù1”.
1 GiuseppeCotturri,Novitàeportataprogressivadellasussidiarietàorizzontalenellacostituzione italiana.
Negli anni novanta si sono avuti vari interventi legislativi che, istituzionalizzando e regolando fortemente la pratica del contracting-out di servizi pubblici alle agenzie solidaristiche, hanno riconosciuto alle organizzazioni non profit il ruolo di partner istituzionale del settore pubblico, nella realizzazione di politiche di sostegno sociale. Tralesuddettenormevannoricordatequelle che regolanola possibilitàdidelegarea soggetti di natura privata l’erogazione di servizi pubblici (L. 142/90), l’apertura del procedimento amministrativo alla partecipazione dei privati e dei soggetti ideatori di progetti articolati (L. 241/90), la legge sulle organizzazioni di volontariato (L. 266/91), che prevede esclusivamente i livelli regionale e provinciale, la legge sulle associazioni di promozionesociale (L.383/2000). Undiscorso a parte meritala legge 328/2000chedaràlebasinormativealconcettodisussidiarietàorizzontale. Il motivo portante di questi disegni normativi può essere riassunto nell’idea che le relazioni più continuative e strutturate tra pubblico e privato sociale vadano regolate permezzodelcontrattotipoo,permezzodellaconvenzionedinaturaassociativache viene redatta sulla base di una trattativa privata, allo scopo di coinvolgere direttamente i soggetti non profit nell’identificazionee nel sostegno deibisogni acui gli apparati intendono dare risposta. Grazie a questi sistemi strutturati, si ottengono principalmente due vantaggi: il primo è il fatto che le relazioni contrattuali su basi formali,conferiscono all’ente pubblicolapossibilità diprogrammare gliinterventi di partnership in modo più razionale di quanto non accadesse in passato e di sovrintendere alle linee guida dei progetti, lasciando al privato la responsabilità dell’azionediretta.
Il secondo vantaggio è che, grazie all’accesso stabile e strutturato ai finanziamenti pubblici,ilterzosettorehapotutousciredefinitivamentedallagabbiadellaprecarietà e, nel momento in cui queste organizzazioni sono riuscite a disporre di risorse
economiche assicurate per un determinato periodo di tempo, è stato possibile adempiereallenecessarieoperazionidiqualificazionedeisistemiorganizzativi.
Così, il pianificare gli interventi con sufficiente dimensione temporale, l’offrire ai proprio operatori l’opportunità di un lavoro meno precario, e quindi il disporre di forza lavoro stabilmente impegnata, ha consentito lo sviluppo di compiti operativi che presuppongono lo sviluppo di competenze qualificate e professionali. L’intero settore si struttura così per rispondere alla domanda continuativa ed esigente, riuscendo a passare da una posizione di marginalità ad una posizione nodale, connotata da competenze specialistiche ed abilità professionali che permettono alle organizzazionidelterzosettoredidialogareallapariconilsettorepubblico2
2. Alla modifica del Titolo V della parte seconda della Costituzione Italiana
Conlaleggecostituzionalen.3del2001,chehamodificatol’art.118u.c.dellaCarta
Costituzionale, lo Stato italiano sancisce che: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio disussidiarietà”.Questa leggeperfezionail percorsolegislativoiniziatoneldecennio precedente, dando definitivamente rilevo costituzionale ai rapporti fra pubblico e privatonellaerogazionedeiservizialcittadino.
2 BorzagaCarlo,terzosettoreeoccupazione,un’analisicriticadeldibattito.
III. LASUSSIDIARIETA’ORIZZONTALE
Una pietra miliare per l’attuazione della sussidiarietà orizzontale è stata l’introduzionedella legge328/2000che ha aperto tuttaunaseriedi opportunitàperil terzosettore.
Già prima dell’entrata in vigore della l. 328/2000 i Comuni e le Province, per la gestione dei servizi alle persone ed alla comunità di propria competenza potevano avvalersi delle prestazioni di strutture del terzo settore, ma la legge quadro ha definito che la gestione e l’offerta dei servizi appartiene in termini di competenza diretta ai soggetti pubblici, e che l’incontro tra soggetti pubblici e privati avviene nella progettazione dei servizi e nella realizzazione concertata degli interventi. Ai soggetti di terzo settore viene riconosciuto un ruolo fondamentale nella fase di definizione delle strategie di intervento e nella fase di progettazione dei servizi e delle attività a favore degli individui, delle famiglie e dei gruppi sociali, in forza
dellalegittimazioneloroconferita dallacapacitàdirappresentarele istanzesociali,di cogliere i bisogni emergenti, di costruire rapporti con i diversi soggetti della comunità locale, di garantire modalità organizzative delle prestazioni flessibili ed adeguate alle esigenze nella logica dell’approccio del “caso” piuttosto che del singolo bisogno. Un altro elemento di svolta previsto dalla legge quadro, è l’adozione di specifici indirizzi per regolamentare i rapporti tra Enti Locali e Terzo settore, con particolare riferimento ai sistemi di affidamento dei servizi alla persona.
La l. 328 ha posto i presupposti a che, Dirigenti e Funzionari degli Enti pubblici possano porre fine alla pratica delle gare al massimo ribasso utilizzate anche per affidareserviziallapersona,senzaalcunavalutazionedellaqualitàdelleprestazionie senza alcun segnale di attenzione all’utente. Infine, si punta non solo a regolare i
rapporti con i soggetti del terzo settore, ma anche a valorizzare il loro ruolo
nell’attività di programmazione e progettazione del sistema integrato di interventi e servizisociali. Aquestecondizioni,perpoteraccederealleazioni,ènecessarioavere
all’interno delle organizzazioni tutta una serie di figure professionali e di poterlo dimostrare.Aquestioperatorinonbastapiùaverel’esperienza,maèrichiestolorodi dimostrare la propria professionalità con certificazioni, diplomi: da qui nascono tutta unaseriedinuoveprofessionalità.
IV. ILTERZOSETTORE
1. DEFINIZIONI
Sempre più spesso viene affermato che il terzo settore risulta una risorsa essenziale per il futuro dell’intero Paese; Edoardo Patriarca, portavoce del Forum del terzo settore,harecentementeaffermatoinun’intervistache:“ilnonprofitnonvacoltivato solo perché possiede i valori o perché si tratta di “brava gente”, ma perché può
contribuireancheallosviluppoeconomicodell’Italia”3
Diventa allora essenziale andare a capire che cosa si intende per terzo settore, o per “non profit”, visto che le due espressioni vengono dai più considerate interscambiabili.
Nel definire il terzo settore non possiamo non tenere conto delle numerose definizioni che negli anni sono state date, seppure alcune di esse siano state poi messeindiscussione:
3 Vitanonprofitmagazinedel7febbraio2006.
Hansmann (1980) identifica come non profit tutte le imprese che non distribuiscono gli utili conseguiti a chi controlla le decisioni dell’organizzazione e tratta del concetto dell’asimmetria informativa; si ha asimmetria informativa quandounodeidueoperatoricoinvoltinellatransazione,quellochevendeocede la prestazione, dispone di un vantaggio informativo sull’acquirente, essendo a conoscenza di alcune caratteristiche qualitative del bene venduto o della prestazionedaeffettuarsichel’acquirentenonèingradodicontrollare.
Ben-Ner (1986) ripartendo dalla questione dell’asimmetria informativa osserva che, dove si verifica il problema della fornitura di un bene o di un servizio, i consumatori possono superare il loro deficit di informazioni in due modi: monitorando sistematicamente il servizio, possibilità che normalmente, secondo Ben-Ner, si verifica essere più costosa dell’assumersi essi stessi, seconda possibilità,ilcontrollodellaproduzione.
James (1987) identifica le organizzazioni non profit sulla base dell’attività prevalente che deve essere la fornitura di servizi piuttosto che la redistribuzione delreddito.
Per Weisbrod il terzo settore è un riflesso dell’eterogeneità delle domande che i cittadinirivolgonoaiproprigovernirelativamenteallafornituradibenicollettivi.
Young e Antony (1988) rilevano che l’assenza di reddito sia solo una caratteristica comune a tutte le organizzazioni non profit, a queste si devono aggiungere la mancanza di remunerazione sia del capitale investito sia dell’apporto imprenditoriale e la riduzione del valore informativo del reddito per ungiudiziosull’economicità,sull’efficienzaesull’efficaciadellagestione.
Per Salomon e Anheier (1992) si possono definire di terzo settore quelle organizzazioni che rispettano i seguenti requisiti: costituzione formale, natura giuridica privata, vincolo della non distribuzione degli utili, autogoverno ed infine rilevanza del lavoro volontario in rapporto alla manodopera complessivamenteimpiegatanell’attività.
Barbetta (1992) suggerisce di considerare come appartenenti al terzo settore quelle organizzazioni a carattere privatistico produttrici di beni pubblici o semi pubblici,destinatiaparticolaricategoriedipersone.
Il System of National Account (SNA), ovvero il Sistema dei conti economici nazionali in campo internazionale (oltre che la carta più rilevante degli statistici di tutto il mondo), definisce come organizzazioni non profit quella particolare tipologia di soggetti che svolgono un’attività economica produttiva in forma organizzata, ovvero “enti giuridici o sociali creati perlo scopo di produrre beni o servizi il cui status non permette loro di essere fonte di reddito, profitto o altro guadagno finanziario per le unità che lo costituiscono, controllano o finanziano”. (SNA19/1993,4.45-4.67).
Daultimo,interminiditempo,alfinedicomprenderemegliocosasiintendeper non profit, riteniamo interessante proporre alcune osservazioni che il prof. Stefano Zamagnifaapropositodelterzosettore.
Secondo Zamagni, due sono le concezioni di “terzo settore” che oggi si confrontano in Europa. Da un lato, quella di stampo neo funzionalista, privilegiata nell’ambiente anglosassone,chevedele“attivitàdelterzosettorecomecompensatricidellecarenze odellestorturedeglialtriduesettori,valeadiredelloStatoedelmercato”,cheabbia quindi il compito di assorbire le eccedenze occupazionali degli altri settori, ma
sottolinea che così il terzo settore sarebbe collocato in uno spazio non ben definibile e sicuramente riduttivo. L’altra concezione vede attribuire al terzo settore il compito primariodi generareretidisolidalereciprocitànellasocietàediveicolarequeivalori capaci di alzare il livello della qualità della vita: la concezione dell’economia civile, più di stampo francese. La prima espressione non profit non è adattabile all’esigenza italiana in quanto non è detto che un’organizzazione che non distribuisca utili perseguaancheunobiettivodiumanizzazionedell’economia eviceversaunachepur distribuendo gli utili non contribuisca a raggiungere una società più giusta. L’espressione terzo settore di derivazione francese, spiega Zamagni, è “fuorviante perché veicola l’idea di qualcosa di residuale, che viene dopo gli altri due, ma se si vuol parlare, come si deve, di sussidiarietà orizzontale, l’economia civile è prioritaria. I termini non profit e terzo settore sembrano “bastare per la sussidiarietà insensoverticale,cioèdelfederalismo”.
Allora secondo il prof. Zamagni bisogna concepire il terzo settore come economia civilechesignificapoi,attribuirgliduecompitifondamentaliedurgenti: il primo concorrere ad umanizzare l’economia, inteso nel senso di rendere democratica la società, cioè porre le condizioni a che la competizione non si limiti più solo ai prodotti finiti oppure ai risultati finali dei processi di impresa, ma deve estendersi anche ai modi in cui quei prodotti e quei risultati sono ottenuti. Perché sempre più i cittadini sono interessati, non solo alle caratteristiche oggettive dei beni e servizi, ma anche ai modi di produzione dei beni, alla qualità dei processi produttivi attraverso i quali quei prodotti/servizi sono ottenuti. Ma osserva ancora Zamagni, che fino a quando continuerà a restare in vigore l’art. 2247 del Codice Civile” promulgato nel 1942 quindi prima che la Costituzione riconoscesse il ruolo del privato sociale, che recita: “con il contratto di società due o più persone
conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili”, è evidente non potrà mai nascere un’economia civile. Per concludere egli osserva che le attività economiche, per essere tali, non devono avere necessariamente finalità lucrative, necessario è invece che generino valore aggiunto,chenonèdettodebbacoinciderecongliutili.
Ilsecondo compito cheil terzosettorecome economiacivileè chiamato a svolgereè quello di riuscire a rendere possibile l’attuazione del welfare mix. Ma perché ciò possa avvenire è necessario che si sviluppino i mercati di qualità sociali, nei quali lo Stato decide di destinare le risorse che vengono utilizzate per interventi di promozione e sostegno della domanda di servizi sociali, trasformando in effettiva una domanda che resterebbe solo virtuale, cioè non pagante. L’offerta dovrebbe essere assicuratadalla pluralitàdei soggetti. E’ in ciò l’idea di un welfare sussidiario che si serve dei meccanismi di mercato come strumento per rafforzare il vincolo sociale. In questo modo lo Stato diverrebbe promotore della società civile organizzata incentivando tutte le forme di azione collettiva che hanno effetti pubblici. E’ come dire che se riuscissimo a raggiungere l’obiettivo di una società sana, lì non ci sarebbe necessità di etichettare il terzo settore e che, vista la necessità di raggiungere il welfare mix, questo obiettivo potrebbe essere perseguito congiuntamente da tutti e che sarebbe questo stesso procedimento innovativo a produrreeconomiacivile.
Con il temine “terzo settore” viene comunemente identificato un insieme eterogeneo di organizzazioni caratterizzate da un intento altruistico che induce i soggetti che ne fanno parte ad individuare bisogni collettivi non adeguatamente soddisfatti dal mercato e dall’azione pubblica e a conferire volontariamente risorse produttive (lavoro,capitale,attivitàimprenditoriale)perdareunarispostaaquestibisogni.
Leorganizzazioniditerzosettore:
- sono istituzioni private, autonome sotto il profilo organizzativo e gestionale, è per questocheilterzosettoresidefinisceancheprivatosociale;
- devono ottemperare alla “non distribuzione degli utili”, per questo si dice anche settore“nonprofit”ebeneficiaredelvolontariatoedellafilantropia; -pongonoinessereattivitàdiproduzionedibenieservizi.
Fanno parte del terzo settore: associazioni non riconosciute, associazioni riconosciute, circoli ricreativi aziendali, comitati, organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale, ONG, ONLUS, società sportive dilettantistiche, cooperative,fondazioni.
2. I DATI NUMERICI
I dati rilevati con il censimento ISTAT delle imprese non profit italiane del 2001, mettono in luce che le istituzioni del terzo settore si configurano come un insieme molto diversificato. In gran parte parliamo di una realtà costituita da unità di dimensioni molto esigue, a volte domiciliate presso le famiglie, comuni, ospedali o altri enti ed istituzioni molto grandi, con un numero considerevole di addetti e con unaorganizzazionecomplessa.
In non profit in Italia, è costituto da non meno di 250.000 organizzazioni, dà impiego retribuito, al2005, a quasi un milionedi persone (contro le400.000 rilevate nel 1990): un’occupazione di forte valenza sociale4 in quanto prevalentemente femminile (60%) e giovanile (25% sotto i trenta anni, 55% tra i trenta ed i quaranta,
4 Censis2002sudatiFivoledIstat.
20% over quaranta) con 25.000 soggetti svantaggiati, configurandosi come uno dei settoricheinItalia,maancheinEuropa,stacreandopiùpostidilavoro.
In Italia,seppureultimainEuropa,ilredditoprodottodalsettoreèparial3%sulPIL (FonteEurispes).
Secondo il Rapporto biennale sul volontariato in Italia, anno 2000 - dati fonte Iref e Istat,ilnumerodelleorganizzazioni nonprofit eracosìcomposto.
TIPOLOGIA
Fondazionibancarie
IPABprivatizzate
IPABassoggettateadisciplinapubbl.
3. L’EVOLUZIONE
Le origini del terzo settore sono da ricercare nella Toscana del 1200 con le Confraternite di Misericordia, e proliferano nell’ottocento con le organizzazioni che esprimonoconcretamenteidettamidellaChiesaCattolica.
Queste organizzazioni, dette Opere Pie, monopolizzano l’attività di beneficenza fino agli ultimi anni del milleottocento, durante i quali è lo Stato a cominciare ad occuparsidiquestiedinuoviproblemiqualiadesempiol’immigrazione,l’istruzione professionale. E’ proprio di questi anni la legge Crispi, con la quale si costituisce il fondamentostatalistanelcampodell’assistenzaesiistituisconoleIPAB.
Nella seconda metà del XIX secolo, accanto ad esse sorgono anche forme di solidarietà di cittadini che fanno riferimento al valore del socialismo e che si concretizzano nelle pubbliche assistenze, nelle società di mutuo soccorso e nelle
Case del popolo. Tuttavia il fenomeno rimane residuale e fortemente connotato da una valenza assistenziale, compensativa o caritativa ed è separato dal sistema pubblico del welfare, quest’ultimo peraltro marginale nelle politiche degli enti pubblicifinoagliannisettantadelnovecento.
Nei primi anni del novecento la lenta evoluzione economica e sociale ha contribuito poco alle iniziative solidaristiche portato avanti da parte delle aggregazioni privatocollettive,anchesegiàqualchefermentocominciavaadesserepresente.
Ilperiodosuccessivo è caratterizzatodalmonopolio dello Stato;tutto,dallavoroalla scuola, dallo sport all’assistenza, era gestito dallo Stato: stiamo parlando del ventenniofascista.
Come abbiamo già visto, bisognaattendereil 1948 peril riconoscimento della “terza via”,ma èsoltantoconlasecondametàdelsecolochesiavvianoimportanti processi di valorizzazione ed isituzionalizzazione, che permettono al terzo settore di passare da un ruolo residuale, ciò che “non è né pubblico né privato” finalmente ad un importanteruoloproduttivo.
Naturalmente queste profonde modificazioni legate agli eventi storici hanno condizionato e determinato tutta una serie di cambiamenti molto profondi, sia in termininumerici,cheorganizzativi.
Successivamente il volontariato ha conosciuto una transizione dalla tradizionale funzione assistenziale al perseguimento di pratiche di prevenzione e di promozione socialenell’intentodicontribuirearimuoverele causecheproduconoemarginazione edisagiosociale,degradoambientale,bassaqualitàdellavita.
Gli anni settanta sono stati caratterizzati daun forte impegno sociale, sfociato spesso inantagonismiradicali,mentrenelsuccessivodecenniola tendenzaaconcentrarsi su variabili quali potere e denaro, sviluppata individualmente o tramite l’adesione a lobbies divariogenere,avevaportatoallamarginalizzazioneeisolamentoculturalee mediatico delle poche organizzazioni che continuavano a puntare sui valori della solidarietà e dell’impegno civile. Queste ultime erano nella quasi totalità, di appartenenza o di derivazione cristiana, con una ridottissima e discontinua presenza ambientalista e, in pochissimi casi di protezione civile – organizzazioni nate sulla scia del terremoto in Irpinia. Va detto che, nella maggior parte dei casi, l’azione del proselitismo, la formazione deiquadri e l’elaborazione di strategie edi analisi, erano incostantediscesa.
I primissimi anni novanta, caratterizzati dal crollo del vecchio sistema dei partiti, avevano creato in Italia, una diffusa sensazione di cambiamento accompagnato dall’idea che potessero risorgere valori quali l’onestà, l’altruismo, la solidarietà e l’impegnosociale.Edèallorachesiassisteallosviluppoimpetuosodelterzosettore, grazie alle novità legislative così come alle notevoli, rispetto al passato, risorse economiche destinate a queste organizzazioni che finiscono per far nascere anche organizzazioniconfinalitàmeno“nobili”.
1. La crescita in termini di presenza del settore
Si èpassati,dai400.000addetti del1990(il1.8% sugli occupaticomplessivi)aduna
rilevazione statistica che, a seconda degli istituti di ricerca, varia fra i 630.000 e gli oltre 753.000 del2000, con un aumento fino all’88.3% in 10 anni, fino ad arrivarea
toccareilmilionenel2005(ASVI–settoreR&S).
Alfinedicapirneladistribuzione,riteniamoutile,riportarelaseguentetabella.
Tabella Istat: occupazione nel settore non profit per tipologia di organizzazione –FonteIstatagosto2001. Forme
Ad oggi, risulta essere settore più in attivo per quanto riguarda l’occupabilità, anche serisultacomplicatoriporrenelsettorealtissimeaspettative.
E’ stataproprio la rilevanzaoccupazionale che il Terzo settore èvenuto ad assumere in questi ultimi dieci anni, ad averlo posto al centro dell’attenzione di studiosi ed economisti.
Nonostanteciòl’occupazionecontinuaacrescere(idipendenticontinuano acrescere del9%all’anno5),ancheseilfenomenodàiprimisegnidiattenuazione.
Diminuiscono sensibilmente le organizzazioni composte dai soli volontari, dal 34% del 1997 al 21% del 2001, essenzialmente per due ragioni: l’aumento in percentuale degli organismi di tipo mutualistico e la necessità di presenza professionale nel mondo organizzato, che finisce così in molti casi per non poter essere più solo volontario,leunitàdotatedipersonaleremuneratosonopassateinfattidal12,3% del 1997al21,2%del2001.
Rilevante è però andare ad osservare altri tipo di cambiamenti profondi che si sono venuti a verificare all’interno del settore; fenomeni riconducibili essenzialmente a duediversitipologie.
Il primo è quello del passaggio dal volontario, definito nell’ambiente “puro”, al volontario “interessato”; il secondo invece, quello dal volontario al dipendente cioè legatoall’organizzazionedauncontrattodilavoro.
Ilprimofenomeno,èstatoosservatoin“Makea differenceDay”della IcmResearch una ricerca condotta in Gran Bretagna. Seppur rivolta solo ai giovani volontari fra i 17edi24anni6,risultaessereunaricercadigrandeinteresse.
5 Vitanonprofitmagazinedel17giugno2005
6 Vitanonprofitmagazinedel6gennaio2006
Dallostudioemergechel’altruismochemuoveigiovaniafaredelvolontariatooggi, èprofondamentediversodalpassato,lodefinisce“interessato”.
I volontari, sottolinea la ricerca, cercano tre cose: sfide, esperienze utili per una futura carriera e la possibilità di fare la differenza. Essi, aggiunge, attribuiscono la stessa importanza a ciò che danno al volontariato e a ciò che da esso ottengono. Da queste osservazioni, concludono i ricercatori nell’intervista aVita, nascono domande molto interessanti: è una contraddizione in termini questo “volontario egoista”? E ancora: le charity (le organizzazioni che fanno beneficenza contando sull’impegno dei volontari) devono snobbare il volontario egoista o adattarsi alle sue esigenze? I referentidella ImcResearch,sirispondonocheilvolontariatoèunadellepochesfera della vita in cui i singoli possono davvero fare la differenza. Introducendo così, la giusta osservazione che ciò rende naturalmente i volontari sempre più esigenti e le organizzazioni sempre più a rischio se non disposte a scendere a patti con l’imperante “selfish altruism” l’altruismo interessato. Peter Hammond, di “The Samaritans”, sollecita le organizzazioni non profit ad imparare che vendono un prodotto, un’esperienza, e che, facendo i volontari shopping in giro, finché non trovano il prodotto che corrisponde alle proprie esigenze, il rischio numero uno è di perderevolontariafavoredellaconcorrenza,maancheafavorediorganizzazionidel profit,oltrecheovviamenteinfavoredelcinema,delgolf,dellevacanze7 .
La soluzione allora è quella di saper riconoscere che i volontari hanno necessità ed aspettativepropriocomeleorganizzazionicheliimpiegano.
In fondo il volontariato era e resta un regalo, ma a chi lo fa e a chi lo riceve bisogna “venderlo”comeprivilegio,comeopportunitàdifare,concretamente,ladifferenza.
7 Vitanonprofitmagazinedel6gennaio2006
Il secondo fenomeno, più pertinente al nostro elaborato, è quello che vede il diminuirelepercentualideivolontariinfavorediquelledeidipendenti.
Direcheleorganizzazioninonprofitsono“peopleintensive”,significaaffermareche il loro capitale da accrescere e sviluppare, non sono i capitali economici, ma le persone. Questo nuovo slogan riesce, con praticità, a giustificare il perché negli ultimi dieci anni, la figura del volontario, per quanto ritenuta caratterizzante e rappresentativadelterzosettore,abbialasciatospazioafigure,considerate finoaieri meno“nobili”,qualiisalariati.
Difatto,avendoilterzosettoreottenutounruolodiprimopianonellapoliticasociale italiana, dovendo necessariamente dare risposte ad esigenze concrete e dovendolo fare entro termini predeterminati e soprattutto rispettando certi standard di qualità, non ha più potuto contare solo sull’impegno dei volontari per loro stessa natura non sempre presenti, disponibili e quindi, inevitabilmente, meno professionalizzati e professionalizzabili.
Le organizzazioni di terzo settore infatti, proprio per la sfida a cui sono chiamati a rispondere, hanno bisogno di personale che abbia professionalità specifiche, tempo ed interesse a formarsi continuamente, non potendosi accontentare più solo dell’esperienzamaturabilesulcampo.
Naturalmente un impegno di questo tipo si può esigere solo da coloro i quali hanno uninteressenell’organizzazionechevadaancheoltrel’impegnovolontario.
IV. L’EQUITA’
Per spiegare in modo semplice che cosa si intende per equità all’interno di un’organizzazione, si può prendere a riferimento il principio di redistribuzione,
prendendolo in prestito dalle teorie economiche. Sostanzialmente, tale principio afferma che affinché un sistema o un’organizzazione possa durare nel corso del tempo, è necessario che la ricchezza non venga solo efficacemente prodotta, ma anche equamente ridistribuita. Se per qualche motivo la redistribuzione non potesse avereluogo,quelsistema,quellaorganizzazionesonodestinatiadeclinare.
La redistribuzione ha come suo fine specifico l’equità, che non significa eguaglianza.Piuttostoequitàsignificaconsentireatuttiisoggettidipoterpartecipare al gioco economico. La redistribuzione è quel principio regolativo di un ordine sociale, di un sistema o di un’organizzazione appunto, che consente di raggiungere risultatiequi;ilfinedellaredistribuzioneèquindil’equità.
Non basta quindi soltanto produrre ricchezza: occorre anche saperla ridistribuire equamente.
Trasponendo queste osservazioni dal campo economico, è possibile affermare che perché un’organizzazione funzioni, non è più sufficiente che sia solidale, intendendo per solidarietà il principio che tende a rendere uguali i diversi, ma è necessario fare un passo in più innescando quei meccanismi che mettono gli eguali in condizioni di essere diversi. Questo vuol dire consentire ai soggetti che sono sostanzialmente uguali quanto a possibilità e campi di scelta, di affermare la loro specifica individualità. E’ molto rischioso infatti l’atteggiamento di molte organizzazioni che non prestano la giusta attenzione alla dimensione identitaria, rischiando così di appiattireedomologareleidentitàearenderlepiùomenotutteuguali.
Il concetto di equità appare per la prima volta in alcuni studi di Homans ed Adams rispettivamentedel1961edel1963.
Gli Americani introducono il concetto di equitàdistributiva per analizzare la percezionedi giustizianeltrattamento economicoricevuto dailavoratori, mettendolo
però in relazione sia rispetto alle caratteristiche dell’organizzazione che a quelle professionaliepersonalideilavoratori.
Nel loro modello il soggetto appare inserito in una rete di relazioni di scambio sociale. Quando la rete è in equilibrio, quando cioè ai contributi che il soggetto dà all’organizzazione (input) corrispondono adeguati outcomes dall’organizzazione, questavienepercepitacomeequa.
Tabella1–Contributierisultati(trattodaNeri,1994)
Contributi
Tempo
Risultati
Retribuzione
Scolarizzazioneeformazione Fringebenefit
Esperienza
Sicurezzasullavoro
Abilità Promozioni
Creatività
Opportunitàdicrescitapersonale
Anzianità Riconoscimento
Fedeltàall’organizzazione
Impegnoprofuso
Partecipazionealledecisioni
Ambientedilavoropiacevole
Neri propone questa tabella sinottica, basata sul lavoro di Adams che riporta alcuni degli elementi chepossono esserericondotti a input ed outcome, riuscendo amettere in evidenza una relazione tra equità e processo di motivazione del lavoratore, proponendoun’analogiaconifattoremotivantiriconosciutidaHerberg(1966).
Ma Neri8 nel 1994, osservando che il confronto tra input ed outcome è dinamico, perché le condizioni dello scambio sociale possono mutare nel tempo, ed è relativo perché la valutazione avvienecomparando il rapporto (outcome/input) tra il soggetto ed un referente scelto utilizzando processi inevitabilmente non sempre razionali e consapevoli, dimostra che gli elementi presi in considerazione non sono sufficienti a formulareuna teoria perché, essendo appartenenti alla sfera soggettivadelle persone, risultanoesseredifficilmenteidentificabiliedosservabili.
Il contributo più rilevante che ha portato ad un allargamento della teoria dell’equità proviene da osservazioni che Thibaut e Walzer compiono nel 1975 analizzando il conflitto in ambito giudiziario. Rilevando come le percezioni di equità facciano riferimento non soltanto alla congruità della sentenza, ma anche al sistema di procedureutilizzato.
In questo modo gli studi di Adams ed Homans, vennero ripresi ed integrati dalle osservazionidiThibauteWalzer.
Non ritenendo completa la spiegazione di alcuni fenomeni che si verificano nel rapporto fra le organizzazioni ed i loro lavoratori, è stato introdotto il concetto di equitàprocedurale, la nozione secondo cui: se il lavoratore ha la sensazione della trasparenza nei processi di carriera e nella presa di decisioni, se ha una buona percezione della comunicazione interna e se trova che ci sia equilibrio fra ciò che il lavoratoreoffreall’organizzazioneeciòconcuiquesta remunera(nonsolo dalpunto divistaeconomico)illavoratore,alloral’organizzazionepuòesseredefinitaequa.
Equa sembra essere definita quella organizzazione che tiene conto di alcune esigenze,evidentementeprimarie,dellavoratore.
8 M.Neri,L’equitànelleorganizzazioni
La ricerca più recente si è concentrata in particolare sulle relazioni tra l’equità distributivadeisistemidellagestionedellerisorseumane,laperformanceindividuale e la soddisfazione. L’equità procedurale si è dimostrata una variabile rilevante e specifica dei contesti organizzativi differenziati, al punto che è stata spesso ricondottaalpiùampioconcettodiculturaorganizzativa.
Poiché la rilevanza dell’equità in generale in tutte le organizzazioni che producono servizi gioca un ruolo determinante nelle performance delle stesse; poiché le organizzazioni di terzo settore che producono servizi, sono venute ad assumere un ruolo fondamentale nello sviluppo economico ed occupazionale in Italia, abbiamo ritenuto prioritario andarci ad occupare dell’equità all’interno delle organizzazioni delterzosettore.
Da tutto ciò, così come anche dall’esperienza, è possibile affermare che le organizzazioni del terzo settore, per loro propria natura, abbiano un impatto sulle percezioni di equità che si traducono in modelli organizzativi e di ricompensa profondamentedifferentidaquellidituttiglialtrisettori.
Gli studi condotti sull’equità non sono riusciti a fornirne una definizione distintiva del terzo settore (Borzaga, 2000);pertanto abbiamo scelto di procedere intervistando i dirigenti, quali testimoni privilegiati, che direttamente e quotidianamente sono chiamatiadaffrontareerisolverequestaquestione.
Sappiamo che il personale impegnato all’interno di esse, ha delle caratteristiche, delle peculiarità e delle esigenze sue proprie; allora dobbiamo domandarci quali caratteristiche deve avere un’organizzazione di terzo settore, perché possa essere percepitaequadalpersonaleimpegnato?
Tra le numerose caratteristiche, a titolo esemplificato, ci sembra necessario ed utile riportarne alcune: l’organizzazione deve creare l’opportunità affinché il personale
abbia la possibilità di prendere parte alla presa di decisioni non solo sul piano operativo ma anche strategico; deve dimostrare di avere sempre ben chiari gli obiettivi che vuole raggiungere perché il personale possa, condividendoli, averli continuamente a riferimento per poter da essi trarre gli stimoli per andare avanti. In questi ultimi anni poi, un ruolo rilevante è venuto ad assumere anche la scelta del percorsochel’organizzazionesceglie perraggiungeregliobiettivieglistrumentiche utilizza. Ci riferiamo a tutti gli studi che sono stati condotti circa la responsabilità socialed’impresa, equindi non soloaciò che viene prodotto, in termini diprodotti e di servizi, ma anche ai processi. Un altro fattore fondamentale è la quantità di utilità socialecheilpersonalepercepiscediaverprodottoperlacomunità.
Al fianco però di queste esigenze proiettate sull’organizzazione e quindi al di fuori della sfera personale del lavoratore (fattori esogeni), possiamo elencarne altre di carattere endogeno,ugualmenteimportanti:l’opportunità,sensibilmentepiùmarcata, chenelterzosettorec’è,difareformazionecontinua.
La formazione continua è diventata una priorità per diverse ragioni: appare essere l’unico strumento utilizzabile al fine di poter evitare di restare travolti dalla società che “corre troppo veloce9”. Ci viene chiesto di adattarci continuamente ai cambiamenti, di stare sempre al passo con i tempi, di essere flessibili: la soluzione appareesserelaconoscenza.
Dall’altra, è proprio la formazione continua che ci può mettere nelle condizioni di avere strumenti idonei per dare risposte adeguate ai cittadini, quindi è anche lo strumento grazie al quale riusciamo a sentirci a nostro agio e quindi a vivere meglio lesfidequotidiane.
9 AntonyGiddens:Ilmondochecambia,comelaglobalizzazioneridisegnalanostravita
Infine il sapere, nelle organizzazioni di terzo settore più che in altri, è un bene che circola; così non restando di proprietà di un solo operatore diventa conoscenza “oggettivizzata” a livello organizzativo e quindi lo strumento attraverso il quale si riesceagarantirelacontinuitàall’organizzazione.
Ma, affinché si possa parlare realmente di organizzazione equa è necessario porre la giusta attenzione all’accompagnamento delle risorse umane nel settore non profit, visto che esse, ancora di più che in altre tipi di organizzazione, sono da considerarsi risorse fondamentali in un mondo nel quale l’impegno, la condivisione e la motivazione personale sono talvolta l’unica risorsa. Il “concetto di risorsa contiene ancheinséilconcettodiscarsità”10
Unagestioneattentaestrutturata,chetengasemprecontodellepeculiaritàdelsettore ma anche e soprattutto delle esigenze delle diverse e numerose “categorie” di persone che vi sono impegnate, non riducendosi quindi a prendere in prestito dal mondo profit, come per molto tempo si è cercato di fare, ma personalizzando strumenti e tecniche, declinando le metodologie secondo le specifiche esigenze e spingendosullegiustelevemotivazionali.
La gestione del personale, rimessa fino a qualche anno fa alla sola sensibilità di qualche leader illuminato (gestione paternalistica), essendosi venuta a determinare direttamentedall’internodelleorganizzazioni,èdivenutalapriorità.
Ilpersonaleinfatti ètroppoimpegnatonelle azioni quotidianeperriuscire afermarsi, alcuni non avendone neanche le capacità o più semplicemente gli strumenti, e sviluppare delle categorie di lettura che permettano, in un ambiente in continuo mutamento, di cogliere e tradurre in un linguaggio più familiare gli eventi più
10 Moro,1998
complessi ed estranei alla routine del sistema, pensiamo a titolo d’esempio alla gestionedeiconflitti.
V. ILPERSONALE
Le organizzazioni di terzo settore rivestono un ruolo fondamentale per la società civile, all’interno di queste organizzazioni un ruolo essenziale ricoprono le risorse umane.
L’esistenza ed il buon funzionamento delle organizzazione sono possibili grazie all’impegnoquotidianodellemigliaiadipersonechequotidianamenteciinvestonoin terminiditempo,impegnoedenaro.
Sonolepersoneilmotorepropulsivodelterzosettore.
Il non profit è definito anche il settore dei servizi alla persona11. Ma, proprio per la naturadeiservizierogati, èpossibileipotizzareunarelazionefortefracondizionedei lavoratori e qualità delle relazioni con i utenti. La maggior parte dei servizi alla persona infatti, si caratterizza per i limitati gradi di standardizzazione e per l’elevata intensitàdicontattodirettotrapersonaleeutenti.Sullabasedeirisultatidiprecedenti ricerche in ambito di impresedi servizi12, possiamo quindi ritenereche elevati livelli disoddisfazionedelpersonaledelleorganizzazioniditerzosettoresianocorrelaticon livellidiqualitàdelserviziocorrispondenti.
Se quindi, come è necessario, il servizio di buona qualità è l’obiettivo dell’organizzazione del terzo settore, partendo dal presupposto che personale
11 LucaSolari,Equitàesoddisfazione:unconfrontotraformaorganizzativenelterzosettore. 12 Schneider,Bowen1995.
soddisfatto produce servizi di buona qualità, possiamo affermare che le risorse umanerivestonoun ruolodiprimo pianonelleorganizzazioni stesse etenendoanche conto del fatto che sono una risorsa difficilmente imitabile e limitatamente sostituibile, devonoesserevalorizzateedebitamentemotivate.
1. Le diverse figure impegnate
Una caratteristica degli enti che appartengono al terzo settore è quella di avere molteplici categorie che fra loro interagiscono e ne costituiscono la ricchezza.
Naturalmente la compresenza di tante diverse figure impegnate all’interno di organizzazioniditerzosettore:dipendenti,personaleaprogetto,dirigenti,tirocinanti, utenti lavoratori, donatori, cittadini, stagers, volontari, soci, soci lavoratori, collaboratori, volontari del servizio civile nazionale, ognuno con responsabilità, conoscenze, competenze e motivazioni proprie, necessita di particolare attenzione nella gestione. Al fine di poter analizzare le differenze sostanziali esistenti fra le diverse categorie può essere utile individuare due macro aree che possano raggrupparle anche se, siamo consapevoli della marcata approssimazione di questa operazione:quelladeivolontariequelladeilavoratori.
La prima è costituita essenzialmente da volontari “puri”, tirocinanti, cittadini, soci e donatori. La caratteristica comune a queste persone è che, non percependo salario, hanno la possibilità di decidere come e quanto tempo dedicare all’organizzazione, hanno tendenzialmente a cuore più l’efficacia dell’organizzazione che non l’efficienzaedinfinesicaratterizzanoperlalorospiccataautonomiagestionale.
L’area dei lavoratori, come abbiamo visto sempre più corposa, è costituita dai dipendenti,icollaboratori,idirigenti,isocilavoratori.
Questi sono legati all’organizzazione anche da un contratto che è quello di lavoro, proprio per questo, devono: rendere conto delle loro azioni e decisioni, hanno degli orari (nel caso dei dipendenti) o comunque dei tempi (nel caso dei collaboratori) da rispettare, devono riuscire a tenere sotto controllo il processo del loro lavoro per essere quanto più efficienti possibile, pena la mancanza di salario a fine mese, sanno di dover comunque metterci del proprio nel loro lavoro, per essere a diretto contatto con l’utenza ma infine, sanno comunque di doversi, con l’impegno, la continuità lavorativa.
Da queste aree rimangono fuori i volontari del servizio civile nazionale, eredi della figura degli obiettori di coscienza.Questo fenomeno haassunto un ruolo rilevante in quantoècostituitodaoltre30.000unità13 .
Si tratta di una figura che non può essere ricondotta alsemplicevolontariato essendo prevista, seppur a titolo di rimborso, un’indennità mensile; né può, ovviamente, definirsi di dipendenza poiché non è questo il rapporto che la legge 64/2001 prevede chesistabiliscafrailvolontarioel’organizzazione.
Questa figura “ibrida”, esterna e all’una e all’altra area, essendo costituta da giovani nella maggior parte dei casi al primo contatto con organizzazioni complesse e con il mondodellavoro,èdifficiledagestire.Questadifficoltàèaccentuataanchedalfatto che,pur prevedendo alti costi di inserimento eformazione, hacomunque ladurata di dodici mesi, tenendo conto del fatto che per alcuni Enti i numeri si aggirano anche intorno alle mille unità. Portano nelle organizzazioni competenze e vitalità ma, nello stessotempo,tendonoancheacrearesquilibriorganizzativiemotivazionali.
13 DatiPresidenzadelConsigliodeiMinistri-Ufficionazionaleperilserviziocivile2005
Laloroprioritàcheè, giustamente,il seguirelefasidelprogettopercuihannoscelto di fare quell’esperienza, non sempre coincide con le priorità dell’organizzazione; diventanocosì,portatoridiulterioriesigenze.
La compresenza di tutte queste figure rende difficile la gestione. Ciascuno di loro deve essere gestito con la giusta cura e attenzione, visto, come abbiamo più volte ricordato, che il potere di queste organizzazioni sta nel valore delle persone che dentrovisonoimpegnate.
2. Com’è cambiato lo status del lavoratore?
In questi ultimi anni, all’interno del terzo settore, si sono venuti a determinare profondi cambiamenti in seno alla tipologia del personale impegnato. Si è passati dalla presenza massiccia di volontari puri alla presenza, sempre maggiore di lavoratoriremunerati.
Abbiamo precedentemente osservato il passaggio, inevitabile, che nelle organizzazionisièavutodalvolontarioaldipendente,sottolineandoquantociòabbia portatoleorganizzazioniacercarenuoviequilibri.
Adesso andiamo ad osservare il passaggio che si è avuto, ancora più recentemente dadipendentegenericoadipendenteprofessionalizzato.
Il non profit, è venuto si adoccupare spazi e “mercati” molto più vasti ma, hapotuto farlo, solo dimostrando di avere certe caratteristiche organizzative. E’ proprio in seguito a questa esigenza che sono nate tutta una serie di funzioni specifiche, fra le quali: la comunicazione, il controllo di gestione, il fund raising, la pianificazione, il marketing strategico ed operativo, l’europrogettazione, il coordinamento dei servizi,
le relazioni esterne, il web management, la progettazione formativa, la gestione del personale,
A conferma di tutto ciò basta osservare che questo fenomeno ha portato, nel giro di pochi anni, allo sviluppo di un numero enorme di corsi universitari, master e dottorati,specificiperilterzosettore.
Le 77 università italiane si sono attrezzate per dare risposte a questa moltitudine di cittadini, non solo giovani ma anche adulti, che ogni anno si rivolge loro per acquisirelegiustecompetenzeedessereun“professionistanelsociale”.
Sono oltre 250 i corsi di laurea fra cui scegliere nel campo dell’economia, della cooperazione internazionale, del peacekeeping e diritti umani, della mediazione culturale, della comunicazione sociale, del turismo, dell’agricoltura e dell’architettura sostenibile, ma anche un notevole numero di master, oltre 80, e numerosi dottorati di ricerca detti anche Phd (Philosophiae doctor, come vengono chiamatineipaesianglosassoni14).
VI. LAPROFESSIONALITA’:RISCHIOODOPPORTUNITA’?
Laprofessionalizzazione,venutasiadeterminareall’internodelterzosettoreinquesti ultimi anni, non può che essere considerata una grande opportunità per l’intera societàcivile,bastipensarealmiglioramentoqualitativodeiservizichenepotrebbee dovrebbeseguire.D’altraparteperòsenonbenpresidiataesenonconsideratasottoi diversiaspetti,puòrivelarsiessereun’armaadoppiotaglio.
14 Studium–universitàeformazione:insertodiVitanonprofitmagazinedelluglio2005.
Il lavoratore (collaboratore, dipendente, volontario, …) nel momento in cui acquisisce consapevolezza sulle proprie capacità e possibilità, inevitabilmente tende adavanzaremaggioririchiesteneiconfrontidell’organizzazione.
Secontinuaapercepire equal’organizzazionenonostantel’aumentataprofessionalità allora, continuando ad essere motivato, non può che portare valore aggiunto nell’organizzazione stessa; se, invece, l’organizzazione non risponde più, alla luce dei cambiamenti avvenuti in lui, alle suerichieste di equità,il lavoratoresarà portato a cercare soddisfazione in altri contesti ed ecco che l’opportunità che venutasi a creareperl’organizzazionedivieneilrischiodiperderel’operatore.
Nel mondo profit un ruolo fondamentale, in tal senso, ha giocato il fenomeno della sindacalizzazione.
Allora, ci domandiamo, è forse questa la via che anche le organizzazioni di terzo settorehannopercorso,ostannopercorrendo,perevitaredeipesati burn–out?
La sindacalizzazione può essere considerato un valido strumento per raggiungere
l’equitàall’internodel nonprofit?
Ilterzosettore,proprioperessere legato allavoro perprogetti,propriopernonavere grandi disponibilità economiche ma soprattutto per non potere contare sulla stabilità economica nel tempo, fa un utilizzo della legge 30/2003 di molto superiore rispetto aglialtrisettori.
Ciò determina che alte siano le percentuali di personale impegnate che non abbiano alcuntipoditutela.
Se concepiamo la sindacalizzazione come l’adesione del lavoratore ad un’organizzazione sindacale, partendo dal presupposto che la loro struttura organizzativaèormaitropporigida perrispondere allesempre piùdisparateesigenze dellenumeroseformecontrattuali,verrebbedarisponderenegativamente.
In tal senso abbiamo cercato di condurre una ricerca all’interno delle maggiori organizzazionisindacali,perconfermarequestaipotesi.
Di interessante valore risultano essere le organizzazioni nate a tutela dei nuovi lavoratori atipici ma, di fatto, l’Alai CISL, il CGIL Nidil e Cpo UIL, tenuto conto di alcuneimportanti azioni, adogginon rappresentanoche unapercentuale moltobassa dituttiilavoratoriatipici(oltre2.500.000)presentiinItalia.
Se però, per sindacalizzazione, andiamo ad intendere il fenomeno di rappresentanza interna, allora il peso può cambiare. I lavoratori organizzati in gruppo hanno un potere contrattuale nei confronti del datore di lavoro importante, che, se ben utilizzato,puòaiutareadottenereunaseriedigaranzieimportanti.
VII. LEESPERIENZE
Avere avuto l’opportunità di incontrare dirigenti all’interno delle organizzazioni, è statal’occasionepercapirequantocomplessosiaindividuaredelle categoriecomuni, ancheinquestoambito,dateleprofondedifferenzedicultureorganizzative.
Aitestimoniprivilegiatisonostaterivolteleseguentidomande:
1. Allalucedell’aumentodellaprofessionalizzazione,esisteall’internodellasua organizzazioneilproblemadiaccresciutaricercadiequità?
2. Avete utilizzato lo strumento della sindacalizzazione come strada per affrontarequestaesigenza?
3. Qualora non sia la sindacalizzazione la soluzione, come state presidiando nellavostraorganizzazione,ilproblema?
Riportiamo alcuni fra i concetti che i nostri interlocutori, con la cordialità che contraddistingue operatori e dirigenti del terzo settore, ci hanno esposto. Abbiamo sceltosoloquellichesembravanopiùpertinentialfinedelnostroelaborato.
1. ARCI
GiulianoRossi, membro di Presidenza nazionale e responsabile dell’ufficio studi e del settore legislativo dell’ARCI15, per spiegarci come la sua organizzazione, già da ormai circa quindici anni, stia dando risposte alle esigenze di equità del personale, introduce il ruolo chiave che i contratti collettivi hanno avuto e stanno giocando in questapartita.
Uno dei due contratti, quello applicato solo alle figure con ruoli operativi e di segreteria, è il CCNLdel commercio terziario e servizi, ma Rossi ci sottolinea che il contratto è stato integrato da un regolamento e prevede una serie di condizioni di migliorfavorecomeadesempiolaflessibilitàdegliorariinentrataedinuscita.
La vera novità sta però nell’“Accordo collettivo nazionale quadro per la regolamentazione dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa” del 1992 (aprogetto,dopolaleggeBiagi),riconosciutodaisindacatiCGIL,CISLeUIL.
Questoaccordorisultaessereparticolarmenteinteressanteperduediverseragioni:
- la prima è relativa alla scelta che si è voluta fare di garantire maggiori tutele ai collaboratori riconoscendo loro alcuni diritti normalmente non contemplati nelle
15 ArciNuovaAssociazioneèun’associazionenazionalechefondalesueradicinellastoriadel mutualismoitalianoerappresentalacontinuitàstoricaepoliticaconl’ArcifondataaFirenzeil26 maggio1957.E’un’associazionedipromozionesocialeaisensidellaL.383/2000autonoma, pluralista,soggettoattivoedintegrantedelterzosettoreitalianoedinternazionalechesiconfigura comereteintegratadipersone,valorieluoghidicittadinanzaattivachepromuovecultura,socialitàe solidarietà.Sonoiscrittiall’Arcicircaunmilionedisoci,suddivisiinoltre4.500circoli.
collaborazioni; a titolo d’esempio vengono definiti i livelli, tutelate maternità e congediparentaliallastreguadeisubordinati; - l’altro accorgimento sta nella scelta, sottolinea Rossi, che l’organizzazione ha voluto fare circa la decisione di attribuire anche ai dirigenti contratti di collaborazione a progetto, essendo legati all’organizzazione con i mandati associativi. In questa modo il contratto, da una parte tutela i dirigenti, perché garantisce loro comunque tutta una serie di diritti, essendo state previste, come abbiamo visto, condizioni di miglior favore rispetto alle semplici collaborazioni. Tutela, però, contemporaneamente anche l’organizzazione, perché appare essere lo strumento più adatto per i ruoli dirigenziali essendo adattabile alle scadenze dei mandatiequindialleesigenzedellademocrazia.
All’interno dell’ARCI, un altro strumento a tutela dei diritti dei lavoratori è la presenza di un rappresentante sindacale per i subordinati ed uno per i collaboratori; referenti che si fanno carico dei problemi dei lavoratori e li portano a livello di confrontoconiDirigenti.
Infine c’è anche in progetto, una “commissione paritetica” fra la dirigenza e la rappresentanzadiCGIL,CISLEUILcheavràilruolodiaffrontareitemipiùspinosi primachesipresentinoicontenziosi.
A nostro avviso, alla luce dell’incontro che abbiamo avuto con Rossi, ci sembra che la vera innovazione con la quale l’ARCI stia rispondendo alla richiesta di equità da parte dei lavoratori, sia la trasparenza. Infatti, essendo un’organizzazioneche opera su base progettuale (azioni sui territori e mandati associativi), l’ARCI, utilizzando la collaborazione a progetto, integrata con la tutela di alcuni diritti, per tutti i profili presenti nell’organizzazione, sembra faccia affidamento su di un patto non scritto –tutti coloro i quali hanno un rapporto di lavoro con ARCI hanno questo tipo di
contratto -, dato il quale i lavoratori non avanzano richieste ulteriori: l’equità sta
nellatrasparenzadell’uguaglianza.
2. LEGACOOP settore sociale
BrunoBusacca, responsabile dell’Area Legislazione delle politiche sociali per Legacoop16 ed ex presidente ANCST17 di Legacoop, ha introdotto le questioni relative al “pezzo” della sua organizzazione facente parte del terzo settore, quello dellecooperativesociali,conunnecessarioexcursusstorico.
Busacca ha sottolineato che le cooperative sociali sia di tipo A, servizi socio sanitari assistenziali ed educativi (il 60% circa del totale), che di tipo B di inserimento lavorativo di persone svantaggiate, sono venute ad assumere un ruolo rilevante nella seconda parte degli anni settanta, in seguito al secondo trasferimento di funzioni alle
Regioni da parte dello Stato avvenuto con Legge Delega 22 luglio 1975 n. 382.
Quando nel 1991 con la l. 381 ci fu il riconoscimento istituzionale, le cooperative erano già strutturate; lo dimostra il fatto che, già dopo pochi mesi, nel maggio 1992, viene sottoscritto il primo contratto collettivo nazionale delle cooperative, “l’organizzazioneeragiàstatasperimentatanonc’eranientedainventare”.
Molto interessante a tal proposito è risultata essere l’affermazione di Busacca, relativamente alla spinta che ha portato alla nascita del CCNLdelle cooperative che, ricorda, essere nata non per esigenza dei lavoratori ma su richiesta delle cooperative
16 Legacoopsocialinatanelsettembredel2005èl’associazionenazionalecheorganizzaerappresenta lecooperativesocialiaderentiaLegacoopenepromuovelosviluppoprogettuale,socialee imprenditoriale.Adessaaderiscono1.550cooperativesocialidicui:1.110nelsettoredeiservizi socio-sanitari-assistenzialiededucativi,400nelsettoredell’inserimentolavorativodipersone svantaggiatee60struttureconsortiliediservizio.
17 ANCST(associazionenazionaledellecooperativediservizieturismo).
stesse, che lo hanno utilizzato quale strumento per tutelare il valore del lavoro delle loro organizzazioni nei confronti degli enti pubblici, quasi come arma di difesa per tutelarsidallarichiestadiribassareiprezzipergliappaltipubblici.
Nelle cooperative - quelle che funzionano -, aggiunge, proprio per come sono strutturate, non sembra sia aumentata l’esigenzadi equità. Ilavoratori infatti essendo per il 90% soci, hanno già nel loro rapporto con l’organizzazione lo strumento per presidiarel’equità:scegliere,tramiteleelezioniiproprirappresentanti.
Un altro strumento utile appare essere il fatto di essere strutturati come un’impresa
quindi con gli obblighi di redigere il bilancio pubblico, con la tenuta dei libri contabili, ed il controllo annuale che già danno ai lavoratori, che ricordiamo per la maggiorpartesonosoci,concretistrumentidicontrollo.
Infine, sottolinea che, la struttura ad impresa, essendo rigida, da anche maggiori garanziedistabilitàallavoratore.
Quindi: il controllo, la partecipazione ma anche una rigida struttura organizzativa, proprie delle cooperative, sembrano essere strumenti concreti di equitàorganizzativa.
La vera strada che si sta percorrendo è quella di controllare che i soci siano davvero anchegliimprenditoriedilavoridellecooperative,alfinedievitarechequestesiano
o diventino solo imprese “camuffate”, con il rischio che, per la loro ragione sociale, sfruttinoesottopaghinoilpersonale.
3. ACLI
GiuseppeCurcio,direttoredelpersonale,introducel’esperienzaACLI18 partendoda unpresuppostomoltointeressante.
Prende spunto dalla nostra osservazione circa il forte aumento della professionalizzazione per affermare che, per troppo tempo, si è creduto che con l’espressione non profit noncisiriferissesoloalla destinazionedegliutilima,anche, alleretribuzioniche,perquesto,dovevanoesserepiùbassecheneglialtrisettori.Ciò determinava, in molti casi, che anche l’impegno delle persone fosse proporzionato allostipendio,nonostantecifosselacondivisionedelprogettoassociativo.
La professionalizzazione, che ora si è venuta a determinare, Curcio la definisce “più complessa di quella necessaria nel settore profit, non bastando le sole competenze tecniche, a queste vanno aggiunte tutta una serie di spinte motivazionali”. Questa consapevolezzaha portatoallanascitadelContratto dilavorodelSistemaACLIche, seppur fra tante difficoltà, sta dando le prime risposte alle esigenze di equità dei lavoratoriconquestecaratteristiche.
Le ACLI, essendo la somma di organizzazioni anche molto diverse tra lorol’associazione di promozione sociale, i servizi sociali, le imprese sociali, le associazioni specifiche, il consorzio di cooperative - , hanno avuto come prima necessità quella di creare un contratto collettivo che riuscisse a rappresentare le numerose figure e le professionalità eterogenee. Si è scelto di prendere come base il CCNL del commercio, ma ad esso sono state apportate interessanti modifiche per cercarediseguirelanaturadell’organizzazione.
18 Le Associazioni Cristiane Lavoratori Italiane fondano sul Messaggio Evangelico e sull’insegnamentodellaChiesalaloroazioneperlapromozionedeilavoratoriedoperanoperuna societàincuisiaassicurato,secondodemocraziaegiustizia,losviluppointegralediognipersona.Le Acli,coniloro900.000soci,sonopresentiinoltre30paesiintuttoilmondo.
In particolare è stata integrata la parte relativa agli istituti, rendendola molto più articolata, al fine di valorizzare non solo la qualità del lavoro svolto, ma anche la modalità. Lo scopo è quello di avere uno strumento che sia in grado di valorizzare anche gli altri aspetti importanti del lavorare nel mondo non profit: il senso di appartenenza, la condivisione della mission, l’attenzione al sociale, per poterli poi quantizzaregrazieadunaseriediincentiviprevisti,nonsoloeconomici.
Per poter osservare e studiare questi aspetti, è stata creata una scheda di valutazione che viene compilata dai diversi responsabili del lavoratore, ciascuno apporta un contributo e, prima di essere consegnata per la “valutazione”, viene discussa ed eventualmente integrata con il lavoratore stesso, al fine di rendere il processo più trasparentee,aggiungeremmonoi,piùformativopossibile.
In questo modo il contratto collettivo può essere utilizzato quale strumento che valorizza le persone, perché tiene conto non solo del “cosa fa” ma anche del “come” edel“perché”unapersonaimpegnatainunaorganizzazionediterzosettoresvolgeil propriolavoro.
Il contratto, che è stato voluto dai dirigenti nazionali al fine di dare una riorganizzazione al personale, ha trovato diverse difficoltà fra i lavoratori e nei territori; la causa di tutto ciò è da ricercare, dice Curcio, nella bassa sindacalizzazione e quindi coscienza sindacale dei lavoratori ma, nei livelli provinciali, anche del datore di lavoro nella persona del Presidente provinciale che, con grande difficoltà, si è trovato a dover interpretare il ruolo di “controparte”, non avendone, anche per cultura organizzativa, competenza ed esperienza (fatte salve alcunefelicieccezioni).
Ilavoratoridall’altrapartehannodovutofareunimportantepassaggiomentale.
Abbiamo commentato insieme che in molti casi, i rapporti di lavoro, soprattutto in organizzazionidiquestotipo,nasconosull’ondadell’amiciziaconqualcunocheègià nell’organizzazione oppure, più correttamente, perché ne abbraccia la causa. Da entrambe queste situazioni si sviluppano però rapporti organizzazione/lavoratore distorti e quindi difficili da gestire: il lavoratoreperde di vista il ruolo principale che èquellodidipendentedellastrutturaorganizzativa.
Il passaggio che il lavoratore nelle ACLI è stato invitato a fare, con l’attuazione del contratto di sistema, è proprio di prendere coscienza del suo ruolo e di appropriarsi deglistrumentiperfarevalereisuoidiritti:lasindacalizzazioneappunto.
Ai rappresentanti del personale, a livello nazionale, è stata data l’opportunità di partecipareapercorsiformativispecifici, ènato cosìun gruppodisindacalisti interni che rappresenta i lavoratori nei tavoli di contrattazione. Nella maggior parte dei territoriquestoprocessononhaancoraattecchito.
Curcio afferma che il contratto di sistema è stato lo strumento per riuscire ad innescare il processo di sindacalizzazione, processo necessario perché: “si riesce ad avere un contratto forte solo se forti sono le parti”. Ed è il contrattoforte lo strumento attraverso il quale il lavoratore, potendo far valere diritti e doveri, può riuscirea“trasformare”l’organizzazionerendendolaequa.
4. Caritas italiana
Francesco Marsico, vice direttore della Caritas Italiana19, presenta la sua organizzazione sottolineando quanto la particolare vicinanza alla chiesa Cattolica ne condizionisialastrutturachelagestionedelpersonale.
19 LaCaritasItalianavienecostituitail2luglio1971condecretodellaCEI,dopolacessazionenel 1968dellaPoa(Pontificiaoperadiassistenza).Perquestonuovoorganismopastoralel’alloraPapa PaoloVIindicavametenonassistenzialimapastoraliepedagogiche.
La Caritas Italiana è legata alle diverse Caritas Diocesane soltanto con un vincolo che Marsico definisce “pastoral canonico”: “le strutture territoriali non hanno alcun obbligo nel confronti della sede Italiana che avendo, verso di loro, solo un ruolo di coordinamento,silimitaadarealcuneindicazionirelativeall’animazione.
Essendo le Caritas Diocesane organizzazioni molto piccole, si sceglie di trattare del fenomeno dell’equità relativamente a Caritas Italiana, in cui si trova ad operare un numerodipersoneinteressante.
La Caritas Italiana conta sull’impegno lavorativo di molte persone provenienti dalle
Caritas Diocesane. Questo personale, scelto in base alle competenze, viene reclutato suiterritorie“tenuto in prestito”asecondadelle necessità,perperiodiche vannodai treaicinqueanni.
Quando gli chiediamo se ha percepito aumentare la richiesta di equità in seguito alla professionalizzazione, Marsico collega il fenomeno al problema che ciò ha determinato: la forte disomogeneità sul piano dei contratti e delle retribuzioni riconosciute anche fra pari grado. Non essendoci infatti, un contratto unico, ognuno nella propria Caritas si vede applicato un contratto diverso; naturalmente, quando queste persone arrivano in Caritas Italiana, si tende a mantenerlo per motivi di continuitàcontrattuale,generandoperòdisomogeneità.
E’ questa la priorità che in Caritas si sta cercando di affrontare, al fine di rendere l’organizzazionepiùequa.
Lo strumento sin ora utilizzato è stato quello dell’applicazione del “superminimo”, istituto che però, finendo con il blindare l’organizzazione ben oltre i periodi necessari,dovevaessereapplicatoconparsimonia.
In questi mesi, al fine di aggirare questo ostacolo, la dirigenza sta strutturando un processo, atto a creare gli strumenti grazie ai quali riuscire a mettere in luce alcune
caratteristichenecessarieadunoperatoreCaritas;alfinedivalorizzarleconl’utilizzo di indennità premiali (che al contrario del superminimo, possano essere fatte valere perperiodidefinibili).
Durante la prima fase, al finedi non creare malcontenti, si andràsolo adosservare le qualità tecniche: la prontezza, l’abilità, la competenza, ma, nella seconda fase, si cercherà di andare oltre: dimensione di ecclesialità, condivisione della mission, passionesultema.
La preoccupazione sta nel fatto che la scelta di procedere in questa direzione è stata determinata dalla sensibilità dei dirigenti e che, il personale, non riuscendo ancora a percepirla come opportunità, ma piuttosto come un controllo, un atto di sfiducia nei loroconfronti,nonsembraavernecapitoilvalore.
Se molto interessante, al fine dell’equità, è il dato che Marsico ci comunica circa le percentuali di lavoratori con contratti di collaborazione e contratti a tempo determinato utilizzati in Caritas (appena il 5% ciascuno, decisamente inferiori rispetto ai dati delle altre organizzazioni del settore non profit), dall’altra parte, essendo la Caritas un organismo “di tendenza”, non presenta quasi il fenomeno della sindacalizzazione,siainternacheesterna.
La condizione che sicuramente, ad oggi, sembra giocare ancora il ruolo da protagonista relativamente all’equità, sembra essere l’appartenenza all’organizzazione, che risulta essere ancora il collante che trattiene il lavoratore all’interno dell’organizzazione. La consapevolezza di trovarsi in un’organizzazione chehainséivaloricristiani,sembrafarlapercepirestabileequindiequa.
La preoccupazione della dirigenza infatti è rivolta al domani: “per quanto basterà ancora il senso di appartenenza? Le nuove generazioni, come si porranno, in futuro,
nei confronti di un’organizzazione come la nostra? Ipotizzando che l’appartenenza vengameno,suqualistrumentisaràgiustoenecessariopuntare?”
VIII. CONCLUSIONI
Abbiamo volutamente scelto di incontrare organizzazioni nazionali e fortemente radicate sul territorio, con l’intenzione di cercare di capire come il “grande” stesse gestendo la questione dell’equità, per poi ricavarne uno strumento utilizzabile in strutture più piccole e quindi più semplici. Ciascuna delle organizzazioni incontrate sta affrontando il tema in modo diverso, proprio per questo non è stato possibile arrivareadunostrumentoriproducibile.
Non è definibile un concetto di equità che sia valido per l’intero Terzo settore: ci sembraquestoilpuntodiarrivo.
In ogni singola organizzazione infatti, sono tanto profondamente diverse struttura organizzativa ma anche problemi, priorità ed aspettative del personale, che l’equità finisceconilprenderemilleformedistinte.
Resta però il fatto che l’equità, seppur diversamente declinata, risulta essere l’unico strumento comune attraverso il quale incidere sulla permanenza del personale all’internodell’organizzazione.
Alla luce delle interviste effettuate, è prioritario sottolineare quanto necessario sia chesigiungaallapresadicoscienzacheilprocessocheportaall’equità,debbaessere frutto della condivisione fra il contributo dei lavoratori e quello della classe dirigente;l’equitànonpuòessereimpostadall’alto.
Le aumentate percentuali dei lavoratori nei confronti dei volontari, se confermate nelle proiezioni future, ci portano a credere che un passaggio fondamentale verso l’equità potrà essere la presa di coscienza da parte dei lavoratori di essere, per prima cosa, legati alle organizzazioni con un contratto che è di tipo lavorativo. Ciò potrebbe, chiarificando il rapporto lavoratore/organizzazione, rendere la gestione del personale più semplice, abbassare le aspettative nei confronti delle organizzazioni, causaspessodirotturedefinitiveconilmondo nonprofit.
Entriamonelmeritodiquestequestioni:
- la gestione del personale. Ci sembra interessante sottolineare che il personale impegnato nel terzo settore ha, non solo esigenze ed aspettative particolari nei confrontidelleorganizzazioni,maancheatteggiamentiecaratteristichepeculiari.
Le persone impegnate nel mondo del sociale,non sono mossesolo damotivazioni (a confermadellateoriadei processi diMCClelland)di tipointerni/motivanti,anchese spesso fa comodo crederlo, ma anche esterni/legati all’ambiente. Spesso, quando nel terzo settore si ha la responsabilità del personale, si tende a dimenticare questo secondo aspetto, concentrando tutto l’impegno alla sola gestione del quotidiano, senzapreoccuparsiedoccuparsideiprocessichecisonodietro.
- La de-idealizzazione dell’organizzazione. Prendere un minimo le distanze diventa importante peril lavoratore,perchépermette di non perderne di vista l’obiettivo, che non sono i lavoratori che vi operano dentro, ma le persone che vi si rivolgono. Ciò potrebbe rivelarsi utile al fine di creare le condizioni per far apparire meno chiuse in séleorganizzazioniepotenzialmentepiùaccoglientidall’esterno.
Necessaria è allora una gestione del personale “matura” che tenga conto della compresenzadituttiquestifattori.
Abbiamopoiosservatoilfenomenodellasindacalizzazionesiaesternacheinterna.
La sindacalizzazione esterna, legata quindi all’appartenenza ad un’organizzazione sindacale, ci sembra uno strumento poco utile al fine dell’equità. Essendo cambiata tropporapidamentelasocietà,isindacatiappaionoesseretroppolentiequindinonin grado di rispondere alle nuove esigenze del mercato del lavoro in continua evoluzione:lostrumentoèinefficace.
Lasindacalizzazioneinterna,invece,sembraessereunottimostrumentodiequità, in quanto è il mezzo tramite il quale, concretamente, il lavoratore può incidere sull’organizzazione,rendendolaequasecondoleproprieesigenze.
Questi ragionamenti ci portano a creder che un altro ruolo fondamentale potrà giocare il metodo di selezione del personale, che dovrà necessariamente essere rivistoinquantoacanaliecriteri.
Se l’equità è lo strumento attraverso il quale le organizzazioni di terzo settore stabilizzeranno i propri organici, è credibile ritenere che professionalizzazione ed equità insieme, saranno elementi attrattivi per i professionisti del profit che troveranno nel mondo non profit regole condivise e valori sufficienti a sopperire al gapretributivo20 .
Alla luce di quanto sin qui argomentato risulta chiaro quanto nei prossimi anni le organizzazioni del Terzo settore dovranno interrogarsi sull’equità, rapportata alle propriecultureorganizzative.
La potenzialità di questo percorso organizzativo/culturale, qualora adeguatamente supportato da quello legislativo, potrà consentire al Terzo settore italiano di uscire definitivamente da un ruolo ancora troppo marginale, dando a tutti cittadini l’opportunità di vivere una vita qualitativamente migliore, grazie alla piena applicazionedella“sussidiarietàorizzontale”.
20 Vitanonprofitmagazinedel22aprile2005
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