Anteprima di Testa alta, due piedi

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FRANCO ESPOSITO

Testa alta, due piedi

Storie di calciomercato Quando non c’erano i procuratori e i cellulari non erano i telefonini

Absolutely Free Editore



A Federico, Marinella e Vittoria. Gli insostituibili.

“Molti fanno mercato delle illusioni e dei falsi miracoli ingannando le stupide moltitudini� (Leonardo da Vinci)



prefazione Romolo Acampora

La spiegazione di quello straordinario fenomeno – di costume innanzitutto – è nel primo sostantivo: mercato. Fu e non è; perché quel mercato era una realtà diversa da quella che tiene incollati ai canali televisivi tematici e alle pagine dei quotidiani (sportivi e non) milioni di calciofili. Quella era un caravanserraglio e odorava, anzi male odorava, di sudore, di lacrime, di sterco come il luogo da cui aveva mutuato la definizione: il mercato boario dove uomini e bestie convivevano senza imbarazzo; da parte degli uomini, naturalmente. Alla base del fenomeno c’erano dunque uomini e bestie. Le bestie erano ricoperte d’oro, idolatrate, coccolate. Erano i calciatori. Uomini, ma schiavi di una firma apposta ad un cartellino magari quando non avevano ancora raggiunto i pieni diritti civili. Quella firma li trasformava in oggetto nelle mani dei presidenti delle società calcistiche che potevano disporre a proprio piacimento del loro destino. Venderli o scambiarli. Tutto questo avveniva nel mese a cavallo tra metà giugno e metà luglio al Gallia. Quell’albergo ottocentesco tutto marmi, poltrone di velluto, portieri in frac e lenzuola di lino che in quei giorni cambiava pelle; al posto della raffinata clientela cosmopolita abituata a scivolare silenziosa sui tappeti ospitava una vociante varia umanità, capitani d’industria in giacca e cravatta e accaldati sensali di provincia con le 7


maniche della camicia rimboccate, la giacca ripiegata sulla spalla e l’eloquio scazonte. Nella frenesia di quelle ore consumate in discussioni, promesse, tradimenti, congiure, bestemmie, strette di mano, l’albergo si trasformava in un campo di battaglia dove censo, stato sociale, cultura e ruoli di annullavano. E un mediatore di provincia poteva trattare con disprezzo un capitano d’industria con quattro quarti di nobiltà. O magari un imprenditore avvezzo a onorare ogni giorno con puntualità impegni milionari nel proprio ambiente si rimangiava una stretta di mano con cui aveva suggellato un acquisto o una cessione. Spettatori, non disinteressati, i cronisti; arrivati da tutt’Italia a osservare, annotare, raccontare. Talvolta ignari complici – bastava una falsa “soffiata” ad innescare un vortice di trattative – talaltra testimoni privilegiati oppure attori di affari: l’arrivo Zoff al Napoli fu autorevolmente consigliato a Gioacchino Lauro da Alberto Giovannini direttore del “Roma” di cui era proprietario il “comandante” che al corpulento figliolo insediato alla guida del Napoli aveva ordinato di vendere, vendere, vendere. E toccò a un giornalista sciogliere uno dei nodi più intricati della storia del calciomercato: il trasferimento di Savoldi, acquistato dal Napoli, ceduto dal Bologna, inseguito dalla Juventus. Nel cuore della notte, dopo che il presidente bolognese Conti aveva mostrato invano a Ferlaino la pistola infilata sotto la cintura dei pantaloni per convincerlo a strappare il foglio sui cui l’accordo era stato sottoscritto, toccò a Gualtiero Zanetti, direttore della “rosea” mettere d’accordo i litiganti e trasformare il paventato sparo di pistola nel botto di un tappo della bottiglia di spumante con cui l’affare fu suggellato. Raccontare quei luoghi, quell’umanità è uno spaccato della nostra storia. Serve a ricordare a chi c’era e raccontare a chi sarebbe venuto come eravamo. 8


1 Alla fiera delle gaffe ≤

Gente di calcio. Intrattabile, suonata, nel pallone, in quei giorni di luglio sul luogo delle contrattazioni chiamato mercato del calcio. Mercato di uomini, i calciatori. Sito e residenza estiva dei sogni tifosi. Il Foro Boario di un’Italia esagerata, eccessiva, al di fuori della realtà. Un mondo a suo modo virtuale, leggendario. Popolato di personaggi mitici, improbabili, memorabili, e pure normali. Simpatici avventurieri, quasi mai bucanieri. Bugiardi, alcune volte imbroglioni, una galleria. Truccatori di cose, per necessità sopravvenute, dimenticanze, errori, ripensamenti fuori tempo massimo. Può capitare a tutti, nessuno è autorizzato a farsi professore. L’errore, il lapsus, rientra nell’ordine delle cose. Quando succede, bisogna riparare, inventarsi la pezza a colori. Magari andando contro regola. Uno strappo, una licenza. Tollerata, non legale. Che so, un timbro alterato. La Spal trasferisce all’Inter un promettente mediano, Fulvio Nesti. Trentacinque milioni, una cifra da manicomio per questi tempi, anni Cinquanta e dintorni. L’operazione si compie in fondo ad una lunga trattativa piena di schermaglie, piccoli passi in avanti, continue retromarce, brusche interruzioni che sembrano definitive, e sollecite riprese. Le tecniche tipiche del mercato del calcio. Una trattativa snervante, che fa perdere il senso del tempo 9


ai protagonisti. Il pasticcio è servito: bisogna porre riparo. Un timbro falsificato e s’aggiusta tutto. In Sardegna, nel Gennargentu, due piccoli club militanti nel campionato d’Eccellenza, concludono una originale operazione di calciomercato: un maiale di un centinaio di chili in cambio di un giovane calciatore. In Piemonte, il Parteolla acquista l’attaccante Rumbolon dal Settimo Torinese e lo paga con tre vasche di Dolcetto d’Alba. Vino, non soldi. Giuseppe Murgia, mediano, passa da una squadra all’altra per un prosciutto e una capra. Il massimo e il minimo della fantasia perversa: siamo già in piena mercatomania. Un male contagioso che nel tempo diventa necessario. Si vive di mercato, che è poi uno strambo modo di vivere. E di travestirsi. Una mania da nobili, nei giorni pioneristici del mercato dei calciatori. Momenti anche romantici, dove si vede di tutto e anche di più. Il conte Alberto Rognoni, un vero conte, è il capo dell’Ufficio Inchieste. Una bella figura e l’eloquio forbito. L’ironia e il piacere di vivere dei romagnoli autentici. Si è fatto costruire un capanno nella darsena di Cesenatico e, d’estate, quando può, ci vive anche di notte. Ma si tratta di pura utopia: il conte è troppo preso dal calciomercato. Arguto battutista, si prende di diritto l’appellativo di Maigret del pallone. Al mercato dei calciatori , quando fa notte, si traveste da frate. Il saio, il cordone, la barba finta. Un Fregoli, il conte Rognoni. - Solo così posso sperare di prenderli in fallo. Qui se ne vedono di tutti i colori. Si sentono delle robe che turbano le coscienze. Bisogna fare argine e spingere farisei e falsari fuori del tempio. Travestito da frate, il conte si mimetizza dietro le lucide colonne del Gallia. Spia, origlia, memorizza. Pare s’infili anche nelle stanze di dirigenti e abusivi. Fioriscono leggende: avrebbe trascorso intere notti 10


nascosto all’interno di un armadio. Forse interpreta una parte. O forse gli garba semplicemente che si parli di lui. Ma non è così, ogni suo movimento, ogni travestimento, ogni occhiata sono finalizzati a scoprire gli altarini del mercato dei calciatori. Un segugio con i controfiocchi. Capace anche di far finta di non vedere. Quando ascolta sono poi dolori per gli incauti chiacchieroni. Oppure per persone e club oggetti della chiacchiere. Cecco Lamberti ha allenato in tutta Italia. Il Sud l’ha girato per quanto è largo e lungo. Trapani è stata una delle sue stazioni. Il crocevia di un imbroglio che lui confida, forse su ordinazione, a chi ha interesse ad ascoltare. Il contenuto della passeggiata nelle stradine attorno al Gallia arriva all’orecchio ricettivo dell’implacabile conte. Una delazione. La rivelazione a distanza di mesi di un episodio che si è verificato davanti al bancone del bar di un cinema di Trapani. Testimone lui, Cecco Lamberti, un omone con le dita giallognole e nere: il segno della nicotina. Neppure lui sa quante sigarette fuma al giorno. E se per un solo minuto non lo vedi aspirare dalla bionda, vuol dire che sta male, che non è lui. Un fatto strano, insolito: i giocatori del Crotone e della Casertana, avversari all’indomani, hanno scelto lo stesso il cinema, per il film del sabato sera. Una scelta inusuale, questa, evidentemente voluta. L’incontro per aggiustare il risultato della partita. La Casertana è in corsa per la promozione in serie B, non deve perdere, le sta bene il pareggio. Il contatto al bar del cinema per parlarne, definire, e accordarsi. De Toni, calciatore veronese, difensore del Trapani, viene indicato come il regista della trama truffaldina. Pareggio finale, 1-1, come convenuto. La classica torta. Cecco Lamberti contrito, finto disperato, pentito. Ha visto e sentito e non ha denunciato. Lo fa ora, a 11


babbo morto. Il Taranto è beneficiario della delazione che vale milioni. Il concorrente tenuto in classifica a distanza dalla Casertana, promossa sul campo poi processata e castigata a tavolino. Pesanti squalifiche per due suoi calciatori. Selmo, corregionale di De Toni, se ne va a giocare in Canada. Sullo sfondo della vicenda che sconvolge la classifica del campionato di C. Il Gallia, il calciomercato, e personaggi che fanno delazioni. Comunque la giri, sempre mercato è, ma anche immagine di un calcio marcio, di tanto in tanto. Magari a dispetto di persone come il Conte Rognoni: con lui si ride e si scherza, ma alla fine chi sbaglia paga. Il magistrato De Biase è di tutt’altra pasta. Lo studio a Prato, il lavoro al tribunale, e la tendenza ad occultare alcuni fattacci del calcio. Autentici pasticci, che lui insabbia, quando può. Il soprannome come specchio dell’operato del magistrato che tende a non scontentare e ad assolvere. De Biase è De Sable. Chiaro, chiarissimo.

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2 Addio mia bella Italia ≤

Spaccati di storia d’Italia, dagli anni Cinquanta all’avvento dei procuratori di calciatori e dei telefonini. Facce da calcio. Di un mercato romantico, sparito, divorato dal progresso e dal regresso che avanzano alla velocità di Usain Bolt, quel lampo d’uomo, freccia e pallottola. Re dello sport regina, l’atletica leggera. Tipi da calcio in abito firmato, la camicia tessuto Oxford o Riva, e la scarpa non adeguata, facciamo nera sotto il vestito marrone. Il minimo. La cravatta, poi. Magari pure di marca, una Marinella, ma non in tinta, non in carattere con il resto. I pois sulla camicia a righe. Orribile. Quando è tempo di calciomercato, per i giornalisti è come vivere in una bolla. Fanno mattina e notte a caccia di notizie. Devono scarpinare, appostarsi, tenere le orecchie dritte e gli occhi puntati su tutto. Ognuno ha la propria tecnica. Il massimo del sostegno è il telefono dell’albergo, non ancora con la linea diretta e la teleselezione, al tempo in cui il mercato dei calciatori s’annuncia al mondo con i primi vagiti. Bisogna passare attraverso il centralino e armarsi di santa pazienza. Buonasera, amici. Mi aspetto da voi grandi cose, news, novità, robe clamorose. Datemi la dritta e io ci lavoro, la sparo in prima. David Messina, giornalista, è presente al mercato dagli albori. Un papà, se vogliamo. Fanno spettacolo le giacche che indossa e i foulard di pura seta. Lavora alla 13


Gazzetta dello sport. Durante il giorno, non si vede mai; appare dopo cena, sotto mezzanotte. L’articolo l’ha già scritto. La prima edizione del giornale sarà in piazza a momenti, in alcune edicole di Milano. Quelle non chiudono mai, neppure di notte. Datevi una mossa. News? Direttori sportivi e presidenti non di primo livello salutano Messina usando espressioni amichevoli e grandi sorrisi, malgrado l’ora tarda e le complicazioni incontrate durante la giornata. Ormai sanno tutto delle tecniche del giornalista, l’hanno sgamato. Hanno scoperto la sua strategia dalla lettura della rosea, confrontando titoli e contenuti degli articoli di David con i movimenti reali del mercato dei calciatori. Messina è unico e insuperabile nel costruire a tavolino clamorosi valzer di attaccanti, girandole di centrocampisti, caroselli di difensori. Li sposta con classe da una squadra all’altra, facendo ammattire dirigenti e direttori sportivi. Ma com’è, qui non si batte chiodo e il giornalista anticipa clamorosi giri? Diventano matti, i signori, ma ringraziano pure. Messina fornisce idee, proposte di affari sotto forma di scambi. Di giri: valzer come li chiama lui. E quando affiora la notizia, lui c’è, anche se non è materialmente presente sul posto e sul fatto. Un implacabile segugio è Franco Mentana, calabrese color caffellatte, scuro come un algerino: lui e la notizia fanno coppia fissa, non gliene sfugge una. Lavora in Gazzetta. Giornalista di lunga lena, inviato di punta del giornale, è il papà di un futuro grande del giornalismo: Enrico Mentana. Poi, Ginepro, Mombelli, Madella, Silvotti, e Lionello Bianchi, che tutti conosce e da tutti è conosciuto. Batte il calciomercato dalla A alla serie inferiori, i campionati cosiddetti minori, serie C e D, da Cortina d'Ampezzo a Capo Passero. Nulla gli 14


sfugge nulla e tutti lo cercano per affidargli notizie che senza di lui non vedrebbero mai la luce sui giornali. Il professore, un soprannome pienamente legittimo: sa di mercato e vanta un passato da insegnante di scuola media. Milanese, occhiali come fondi di bottiglia, la parlata accattivante e l'espressione di brava persona, ha la fiducia totale di questo piccolo mondo. Un camion di notizie a beneficio di tutti. I giornalisti sono testimoni e cronisti. Narratori pure, quando si presenta l’occasione per riferire ai lettori storie curiose, intriganti, particolari. Racconti che riguardano spesso i calciatori stranieri che sbarcano in massa in Italia. Un’autentica invasione, tout court. Calciatori stranieri perfino improbabili professionisti, oppure dall’età misteriosa, fate vobis. In alcune città del mondi, non sempre piccole, l’anagrafe è un’opinione, mai una certezza. Calciatori che magari sono stati grandi, ma ora hanno gli anni di Noè: difficile, talvolta impossibile, acquisire notizie sulla certezza della loro età. Devi fidarti e punto. Gli esempi? A decine, non uno. Pescando a caso, nessuno è mai riuscito a certificare la vera età di Candales. Un uruguagio professore di stile, classe, eleganza. Ma pieno di acciacchi, decisamente andato. Sarebbe bravissimo, ma si vede che non ha più l’età. Calciatori stranieri acquistati talvolta a blocchi. Classe 1893, il Genoa è il più antico club calcistico d’Italia. L’hanno fondato un gruppo d’inglesi viaggiatori. Nome d’origine Genoa Cricket and Athletic Club. Su proposta del medico James Richardson Spensley, che si batte per l’ammissione anche di soci italiani, nel 1899 diventa Genoa Cricket and Football . Bene, a Genova sbarcano tre calciatori sudamericani con la patente di stelle del calcio. Uno dei tre, Boyè, lo è davvero. Attaccante, tocchi di palla sublimi, fantasia, formi15


dabile tiratore. Una bellezza per gli occhi, uno straordinario cannoniere e il soprannome giusto a cantarne le virtù calcistiche: l’atomico. Ma la testa è un po’ così, matta. L’anno suo e del Genoa è il 1950. Mario Boyè, argentino, viene dal River Plate. Club leggendario, il massimo in Sudamerica, i Millionaros. Cinque gol nelle amichevoli estive, dodici in diciotto partite di campionato. Genoa lo adotta e fa di lui un idolo. Mario Boyè cancella il dolore che i tifosi hanno provato quando il club ha rinunciato alle raffinate prestazioni di Juan Carlos Verdeal, elegante e abbagliante, il virtuoso idolo della gradinata nord. Un fenomeno, Boyè. In Italia è arrivato con due connazionali, calciatori pure loro. Il classico pacchetto o stock, acquistato dal presidente Poggi. Il tipico trio. Aballay e Alarcon non lasciano tracce del loro passaggio sui campi da gioco italiani. Ventotto anni, Mario Boyè è nato alla Boca, il quartiere popolare sulla foce del fiume Riachuelo, fondato da navigatori genovesi. Biondiccio, baffetti, gran pezzo di ragazzo, sposato con Elsa, donna molto bella, devasta le difese italiane. Guadagna bene, garantito da un contratto che gli assicura tre milioni l’anno. Una cosa stupefacente in rapporto alla tirchieria genovese celebrata nel mondo. Quattro gol alla Triestina, poi l’instabile Boyè muove alla conquista di Roma, che non avviene, non si materializza: il Genoa ne prende quattro. E dove si verifica l’impensabile: la fuga di Mario Boyè. Il clamoroso ritorno in Argentina che lascia di stucco gli inconsolabili tifosi genoani. Boyè scappa di notte, dopo aver salutato i compagni di squadra. La stretta di mano, l’abbraccio, “suerte, chicos”, buona fortuna, ragazzi, e via in taxi all’aeroporto di Ciampino. Un’autentica fuga. Boyè ha con sé un bagaglio voluminoso. Un doganiere tifoso genoano lo riconosce e si premura d’infor16


mare il segretario del Genoa. Il dirigente Tosi si precipita a Ciampino e le tenta tutte per bloccare la fuga, ormai irreparabile: il fuggiasco ha già preso posto sull’aereo. “I documenti del signor Boyè non sono in regola, non può espatriare”. Invece può, è tutto a posto. Il fuggiasco è accompagnato dalla moglie Elsa e dalla suocera. La causa di puntuali e rumorosi litigi che si sono consumati nella bella villa sul mare di Nervi. La magione della famiglia Boyè. Il campione è in fuga, ma perché? Cosa l’ha spinto a voltare le spalle a Genova che l’ha adorato fino alla venerazione? Se ne dicono tante, fantasie e realtà. Pare non ne potesse più della presenza della suocera. Si racconta dell’insofferenza della bellissima moglie incapace di vivere lontano dal fascino di Buenos Aires. Nostalgia canaglia. I bene informati, un popolo onnipresente quando si tratta di pallone e di storie che profumano di calciomercato, riferiscono sullo stato d’animo di questo campione baciato dal talento e posseduto dall’inquietudine. Abituato ai palcoscenici internazionali, alle platee e agli applausi di piazze importanti, Boyè si sarebbe intristito a Genova. Tante voci e un’impenetrabile verità. Mario Boyè la porta con sé sull’aereo del suo clamoroso ritorno in Argentina. La fuga da Genova, inspiegabile, inattesa, improvvisa. Una voglia diventata insopprimibile e ingestibile con lo scorrere dei suoi giorni genovesi. Una necessità confidata a Vittorio Pozzo, l’ex colonnello degli alpini, giornalista sportivo e già commissario tecnico dell’Italia due volte campione del mondo, nel ’34 a Roma e nel ’38 a Parigi. Una leggenda, questo canuto uomo di calcio tutto d’un pezzo. “Maestro, Genoa mi rende triste, mi sta togliendo la gioia di giocare al calcio”. In Argentina, a fine carriera, Boyè aprirà una pizzeria nel quartiere Belgrano. Qualcosa dell’Italia gli è rimasta comunque addosso. 17


Emanuele Del Vecchio, brasiliano, gioca nel Santos. Sole, mare, spiagge di sabbia e seta, e pallone. Un campione affermato che cerca la consacrazione in Italia. Alle sue spalle smania un ragazzino dotato da madre natura di uno smisurato, sconfinato talento. Un fuoriclasse annunciato, destinato a scrivere la storia: Edson Arantes do Nascimento, il mitico Pelè. Il Napoli s’interessa a Del Vecchio. Il Napoli gode di buona reputazione in Brasile. Ha acquistato Luis Vinicio e le imprese del giovane di Belo Horizonte hanno avuto un’eco straordinaria anche a Santos. Napoli è il desiderio di molti calciatori già famosi in Brasile. Emanuele Del Vecchio è uno di questi. Un calciatore geniale, capace di grandi numeri e di abbaglianti prodezze. Un soggetto però posseduto e divorato dall’inquietudine. Facile alla depressione, come si vedrà. Il calciatore è meraviglioso; inastabile l’uomo. Del Vecchio ne combina una più di Carlo in Francia. Quando è assistito dalla luna giusta, incanta i napoletani e vince le partite praticamente da solo. Un colpo di genio, una prodezza, e la città del pallone è tutta dalla sua parte. Umorale nel rendimento e nella vita, di partite però ne gioca poche. Colpa degli infortuni, del suo essere lunatico e delle incomprensioni con l’allenatore Amadei. Proprio lui, soprannominato l’ottavo re di Roma all’epoca del primo scudetto della Roma, e il fornaretto di Frascati, perché i suoi sono titolari di un forno, fanno il pane, nella cittadina dei Castelli Romani. Instabilità e scatti d’ira del campione Emanuele Del Vecchio risultano inoltre ingigantiti dalla crescente gelosia nei confronti di Vinicio. Lui, sì, il vero re di Napoli. Un figlio acquisito della città: il matrimonio con Flora Piccaglia, testimone il comandante Achille Lauro, viene celebrato nella Chiesa San Francesco di Paola, in piazza del Plebiscito, di fronte a Palazzo Reale. Un privilegio 18


concesso ad un solo personaggio dello sport, prima di Vinicio: Attila Sallustro, il veltro, l’attaccante idolo di Napoli negli anni Quaranta, sposo con una stella dello spettacolo, la soubrette Lucy d’Albert. La gelosia divora Del Vecchio. Intanto perché non accetta che sia Vinicio ad indossare la maglia numero nove. Il suo numero storico. Gli danno l’undici, e lui non la manda giù. Carattere instabile, minaccia di tornarsene a Santos un giorno sì e l’altro pure. I dirigenti lo tengono d’occhio e tutto gli perdonano quando lui vince qualche partita da solo. Si nutrono di rimpianti i tifosi, di cosa non sarebbe capace e quali gioie ci regalerebbe Del Vecchio se avesse la testa a posto? Manè, i più intimi sono autorizzati a chiamarlo così, viene spesso intercettato all’aeroporto o alla stazione ferroviaria. Niente bagaglio, solo uno spazzolino da denti nel taschino della giacca. Il compagno inseparabile e silenzioso delle sue giornate napoletane. Il gesto di uno che si prepara a scappare, da un momento all’altro. Il progetto latente di un grande calciatore dall’umore mai in equilibrio, dall’inquietudine crescente e dalla gelosia galoppante per un collega più amato di lui a Napoli. Dentro di sé, lo ritiene un affronto alla sua persona, a lui che si ritiene il numero uno. Boyè è scappato di notte, Del Vecchio lascia Napoli e l’Italia di giorno. Qualcuno parla di gravi motivi familiari, della figlioletta con seri problemi di saluti. Altri di litigi con la moglie. Il motivo scatenante è calcistico. Un litigio in spogliatoio: Del Vecchio ha preso a schiaffi l'allenatore, Amadei ne ha chiesto l’allontanamento immediato. Sotto forma di una sospensione condita con una pesante sanzione pecuniaria. Una forte multa. Puntuale nei paraggi della porta avversaria quando c’è da fare gol, Del Vecchio non si lascia scappare l’occasione. Chiede, pretende di andarsene. E se ne va, portandosi 19


dietro inquietudine, depressione e l’acuto rimpianto per quello che poteva essere e non è stato. Addio mia bella Napoli, mai più ti rivedrò. Stranieri in Italia, delizie e croci. Il Milan acquista in Svezia, paga il giusto e spende bene. Green, Nordhal, Liedholm. Un trio, il Gre-No-Li. Il professore Green, tutto cervello, un formidabile organizzatore in campo. Il poderoso Nordhal, il pompiere, devastante attaccante taglia forte, uno strepitoso cannoniere. Nils Liedholm, straordinaria mezzala d’inimitabile efficienza, e il nomignolo a denunciarne la pazzesca eleganza: Barone. Il Milan conta gli scudetti. Quelli che deliziano non sono pochi. Istvan Nyers, il grande Etienne, ungherese giramondo inseguito pure lui dall’inquietudine. Formidabile cannoniere pure al servizio dell’Inter. Faas Wilkes, l’olandese volante, che una domenica fa gol in questa incredibile maniera: parte da metà campo palla al piede, semina come birilli metà squadra avversaria, portiere compreso, e alla fine del pazzesco slalom la deposita dolcemente in porta. E sono scudetti anche per l’Inter. Lo svedesino Lennart Skoglud detto Nacka, geniale e spettacolare, una vera stella. Formidabile con la palla tra i piedi, altrettanto però con la bottiglia: rovinato alla lunga dall’alcol. La Juventus le sue delizie va ad acquistarle in Danimarca. Gli Hansen, Karl e soprattutto John. Un lungagnone che alla prima visione sembra un tranquillo impiegato piuttosto che un fuoriclasse del calcio. Un inarrivabile specialista nel gioco acrobatico. Dal Nord Europa arrivano anche Helge Bronèe, proprietario di classe infinita, e Kalle Palmer, un artista, lui sì delizioso nel senso completo della parola, non un gran fisico però. Smesse le scarpette da calcio, diventa un famoso giornalista. Martegani accende Palermo, che accoglie pure il 20


turco Sukru. Forse il primo acquisto esotico nella storia del mercato dei calciatori. Possente, un gigante. Velocissimo, fatto strano per uno di quella cubatura. In Italia è di passaggio un calciatore di abbagliante talento. Un sensazionale attaccante, Ladislao Kubala, apolide: uno così nasce ogni vent’anni. Ha bisogno di giocare all’estero, che poi non si sa quale sia con precisione il suo estero, per acquisire il salvacondotto per altri Paesi in grado di dargli notorietà e soprattutto ricchezza. Il mercato dei calciatori è questo. I soldi sono il suo unico motore. Kubala viene tesserato da una società della provincia italiana: la Pro Patria di Busto Arsizio. Ma è solo un passaggio: il fuoriclasse apolide si è promesso al Barcellona. Poi, gli argentini Ernesto Grillo e Tito Cucchiaroni, il brasiliano Dino Sani. L’aspetto di un anziano professore, pochi capelli, attempato: un calciatore sublime. Non corre, fa correre la palla, pare che abbia la calamita, ce l’ha sempre lui. E sa dove metterlo e come metterlo, il pallone. Fa la fortuna del Milan. Tante le croci straniere, forse in numero superiore alle delizie. Spesso importati in Italia da personaggi senza scrupoli. Autentici traffichini, bugiardi, millantatori. In una parola, imbroglioni. Il mercato dei calciatori ne è pieno, guai fidarsi. Prendiamo un nome a caso: Felix Benegos, attaccante del Paraguay, accreditato di buone credenziali. Fanno testo i ritagli di giornali e ovviamente le parole di abili imbonitori. Felix Benegos sarebbe in possesso di qualità e virtù sufficienti per avere successo in Italia. La Triestina sceglie proprio lui. Ma sotto questo chapiteaux chiamato calciomercato c’è di tutto. E succede di tutto. Morale della favola: a Trieste arriva la controfigura di Felix Benegos. Pare sia addirittura il fratello. Un maledetto imbroglio, peraltro non un fatto isolato all’alba del calciomercato. 21


All’Inter l’incredibile Zapiran, capelli impomatati, carichi di brillantina, passa più tempo con il pettine che non il pallone. A Napoli ammarra l’albanese Lustha, accompagnato dalla fama di grande cannoniere, prontamente cancellata. Dieci partite di campionato, nessun gol. Montano ironia e sarcasmo, tutto qui il famoso Lustha? Napoli rimane in attesa dell’evento, di un gol dell’albanese. Il giornalista Carlo Di Nanni, penna delicatissima, raffinato critico teatrale, dedica al cannoniere non pervenuto siffatto titolo: “Quando Lustha segnerà, il Vomero crollerà”. Il Vomero è lo stadio del Napoli. Quella domenica vi gioca il Bari e Lustha timbra il risultato della partita con un gol. La conseguenza è immediata, pari pari la profezia di Carlo Di Nanni: crolla una balaustra della tribuna dello stadio. Il calciomercato dei silenti che vanno a formare e ingolfare “il club dei muti”: quelli che non danno una notizia neppure sotto tortura. I giornalisti anch’essi sulla giostra eleggono all’unanimità presidente della comunità silenziosa il toscano Claudio Nassi, ex giornalista del quotidiano sportivo di Torino. Un piombinese sempre elegante nei suoi abiti di lino irlandese blu o testa di moro, le scarpe appropriate, la camicia e la cravatta in tinta. Petronius non sgarra. Saprebbe pure parlare con proprietà di linguaggio avendo frequentato le scuole alte, e saprebbe cosa dire. Invece non lo schiodi: la faccia finta contrita, nessuna novità, niente da dirvi, e una frase di scuse come fissa replica alle domande dei giornalisti, suoi ex colleghi. Invidiosi e acidi, i colleghi manager, che non gli vogliono bene, fanno circolare una battuta cattiva. - Neppure sull’altare il giorno del matrimonio ha detto sì. 22


Cambiando parte, Nassi è cambiato, ora è alle dipendenze della Sampdoria, il club che rapidamente sta salendo i pioli della scala. A Paolo Mantovani i soldi non fanno difetto e neppure le idee e i colpi di genio. Nassi teme che una parola fuori posto, solo una, possa costargli il posto di direttore sportivo della Doria. Questi incorruttibili muti si scambiano morbidi sussurri, intraducibili monosillabi, trattano acquisti e cessioni, e mai si lasciano andare alla confidenza. Neppure per sbaglio: i muti del mercato non sgarrano mai. Silenti, per rendere l’idea della loro impenetrabilità, anche se ti passasse per la testa di minacciarli con la canna di una pistola piazzata alla gola. Biagio Govoni viene da Ferrara, direttore sportivo della Spal. Minuto, il naso generoso, aquilino, in spezzato blu e grigio. La borsa di pelle nera gonfia di carte e scartoffie, pesante e voluminosa, lo fa pendere sul lato destro, quando si muove nei corridoi di questo caotico e divertente caravanserraglio. Furbo più di tre faine, è soprannominato il sommergibile. Lavora sottacqua, è un’autentica tomba. Gentile con i giornalisti, un vero signore. Al bar paga lui, caffè per tutti, e muto com’è, avarissimo quando dovrebbe fornire notizie, diventa lui stesso giornalista. Raccontatemi qualcosa, avete notizie? E viene a chiederle proprio a noi. Ma ci faccia il piacere, signor Govoni. Di muto in muto, ecco Silvano Bini. Toscano di mezza età, veste serio e gode fama di scopritore infallibile di giovani talenti. Una tomba pure lui, ma un fenomeno. Nel senso che i giocatori li adocchia adolescenti, li alleva nel club in cui lavora, vendendoli poi a peso d’oro. Operazioni sensazionali, non una soltanto, ma una striscia. E il club che lo paga diventa ricco grazie alle sue intuizioni. Benito Lorenzi la prima. Un toscanaccio, 23


lingua lunga, soprannome Veleno. Un incorreggibile provocatore in campo: da Bagni di Lucca all’Inter, dove diventa una leggenda. Mario Bertini la seconda scoperta, dal Prato alla nazionale, via Fiorentina e Inter, finalista ai campionati del mondo di Messico 1970. Cresciuto anche lui all’università del marciapiede, campione di scaltrezza, Bini fa tranquillamente paio con il popolare Govoni. Sono omologhi, uguali e precisi: avviano una trattativa il primo giorno di mercato e la chiudono all’ultima ora dell’ultimo giorno. Sfiancano compratori e venditori, e vincono sempre loro: per sfinimento. Senza fornire informazioni, mai, mai. Altrimenti non sarebbero i vice presidenti del club dei muti. Lingue da calcio. Spesso menzognere, false per mestiere, è la regola di mercato, dove il gioco delle tre carte non va mai fuori moda. Bocche da calcio, come dire? Non sguaiate, questo no; sgrammaticate, di tanto in tanto. Definiamole proprietarie di un linguaggio originale, sorprendente gergale in grado di stupire. L’esperanto del pallone. Fiori, da quelle bocche escono fiori. Nel senso che, beh, dovremmo esserci capiti. Lingue non proprio ignoranti: capaci però di ogni stravaganza. Anche a pranzo, all’antipasto. Angelo Massimino, imprenditore siculo, capostipite di una schiatta di fratelli, è il proprietario e padrone del Catania. Persona simpatica, un naif. Un tipo diretto, anche ruvido, certo. E un cuore grande, generoso, debordante cieco affetto quando è chiamato a tirare fuori quattrini per la sua creatura, il Catania. Quello che si dice un mangia allenatori. Un giorno, al mercato del calcio, gli dicono che alla squadra manca l’amalgama. E lui: se serve compriamo questo giocatore. Presidente, bisogna acquistare i guanti per il portiere. Senza, non riesce a parare. 24


- Non cominciamo con le preferenze. Compriamo i guanti anche per gli altri, non solo al portiere. O per tutti o per nessuno. Massimino a tavola, diabetico da insulina. Commensali l’allenatore Gianni Di Marzio, il direttore sportivo non suo, Carletto Montanari, il suo segretario, Mineo, e tre giornalisti. Una tavolata nel ristorantino dei mercanti, quattro passi dall’hotel Hilton. - Questo prosciutto sa di pesce. Infatti è salmone, non è culatello e neanche un San Daniele. I Massimino sono una schiatta, sette fratelli e un cantiere a testa, lasciato in eredità dal genitore, il patriarca della famiglia. Don Angelo ha fatto fortuna in Argentina, dove è rimasto quattro anni con i germani Sabatino e Gaetano. La signora moglie, Concetta Codiglione, è azionista di maggioranza del Catania. Un’indagine del “Sole 24 ore” attribuisce a don Angelo la proprietà di tremila appartamenti. Il top in Italia. Usa modi ruvidi, Massimino. Maniere mai eleganti, lui non ha frequentato Oxford, tantomeno è un tipo british. Se una partita va male, smarrisce il senso del limite, se mai l’ha avuto nelle sue corde. Se la prende con tutti. Al conte d’Olivola, dirigente accompagnatore della Juventus, che si scusa con lui per una vittoria rubacchiata sul campo del Catania, presenta questo ringraziamento: “Non mi rompa i coglioni”. Ai portieri avversari che prendono gol dai suoi giocatori rivolge frasi tipo “ingoiati queste polpette”. All’arbitro Carminati mostra il gesto dell’ombrello. Al mercato del calcio gli dicono che certi giocatori non fanno al caso del Catania, lei non se li può permettere, il prezzo è alto, costano troppo. E lui, impagabile e indimenticabile, un mito di tutti noi: C’è chi può e non può, io può. 25


Presidente, non si dice così, non è grammaticalmente corretto. - Si, lo so, sono uno sgrammaticato. Strafalcioni. Perché è così: quando è l’ora del mercato, bocca e labbra se ne vanno per i fatti loro. Viaggiano incontrollabili sotto questa sorta di tendone. Amici vicini e lontani, ovunque voi siate, benvenuti al circo: parafrasando Nunzio Filogamo, sempiterno inimitabile presentatore del Festival di Sanremo, voce di un’Italia scomparsa, poco smaliziata, perfino credulona, ma bella. Piena di voglia di rimettersi in piedi, grande lavoratrice. Un immenso contenitore di fiducia e speranze, in questi anni. Sotto il tendone del mercato del calcio c’è di tutto un po’. Anche signori, ricchi signori, imprenditori di successo, capitani d’industria, persone abilissime che si sono fatte da sole, gente che ha saputo costruirsi autentiche fortune. Presidenti di società, che al mercato del calcio si divertono come matti. Proprietari di club che questa fiera dei sogni la vivono come un gioco. I milioni in ballo? Cartastraccia, per loro. Tanto ne guadagnano montagne, e sembra che li buttino via, per il calcio. Impressione non sempre esatta, corretta. Il mercato è un covo di affaristi. Piacere e goduria. Un divertissement estivo, per ricchi petrolieri come Paolo Mantovani. Personaggio e persona di enorme statura, trascorsi romani, la passione per il calcio esplosa bambina nella cabina radiofonica di Nicolò Carosio, mitico radiocronista, una leggenda della Rai. Il cospicuo patrimonio messo insieme grazie al petrolio. Inseguito da un mandato d’arresto, ha preferito espatriare in Svizzera. A Lugano, da dove ha continuato ad occuparsi della Sampdoria, il suo meraviglioso capriccio: Mancini, Vialli, Cerezo, Vierchowod, Lombar26


do, Mannini, eccetera eccetera. Una compagnia da scudetto. Rientrato in Italia, appare al mercato del calcio una volta soltanto. Sì, una e punto, per un annuncio, senza neppure mettere il piede nella hall dell’Hilton. “La Sampdoria Calcio ha trasferito il calciatore Pietro Vierchowod in prestito alla Roma”. Visto e sparito, buon lavoro a tutti. Mantovani segue e partecipa al mercato del calcio da San’Ilario, sopra Genova. Una splendida villa in cima alla collina che guarda la città, il porto governato dai camalli, il mare, tutto. Il paradiso è lì. Comanda il telefono, quello fisso targato Sip. Nessun problema di bolletta, lui può permettersi costi anche milionari: ne guadagna tanti ogni giorno. E a mezzo telefono contatta il giornalista Franco Rossi, uno dei califfi del calciomercato. Cronista sempre informato, curioso, ricco di fantasia, imprevedibile e infinito nelle intuizioni. Un tartufo da notizia, capace di botte di genio. Il professionista che al mercato del calcio fatica duro e si diverte sudando da mattino a notte. Rossi, mi ascolta? Ho ceduto un calciatore. Cognome di sei lettere, ruolo di sei lettere, ad una squadra di sei lettere. Saluti. Sei lettere. Avanti con rompicapo e indovinello, un rebus. Di tutto un po’, ma in questo strano mondo talvolta è così: si gioca pure, si scherza. Si scherzava. Almanacco Panini alla mano, giocatore della Samp cognome di sei lettere, vediamo un po’. Trovato: Renica. Facile l’abbinamento con il ruolo: libero. Avanti con la squadra che l’ha acquistato da Mantovani. Inter no, cinque lettere. Milan pure. Juventus nemmeno, sette lettere. Roma e Bologna niente. Eccola, trovata: è il Napoli. Sei lettere. Il giochino è risolto. La notizia esclusiva vale uno scoop.

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Il calciomercato com’era “Ho ceduto un calciatore cognome sei lettere, ruolo sei lettere, a un club di sei lettere”

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Paolo Mantovani presidente della Sampdoria

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(Genova, luglio 1985)

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