CulturArte #1 (2019) -gennaio-

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EDITORIALE Ma che li fate a fa? Si poi v’odiate

di Gabriele Russo

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ristiani, atei, agnostici, appartenenti ad una qualsiasi fede, nel mondo occidentale si sono appena concluse le festività natalizie, ormai per molti versi slegate dall’originaria matrice religiosa. L’arrivo di Babbo Natale ha rubato la scena alla nascita di Gesù, i Re Magi non fanno in tempo ad arrivare che già la Befana se li porta via, è cambiato il mondo, è cambiata la società, sono cambiate le nostre priorità. Il Natale è storicamente una festa ricca di simboli, tradizioni iconiche che segnano l’immaginario comune, l’albero addobbato, le decorazioni, i dolci tipici, i mercatini, le luci, il presepe. Già, Er presepio come lo chiama Trilussa nella sua nota poesia, la secolare usanza italiana che attribuiamo a San Francesco d’Assisi, il quale, secondo la tradizione, fu il primo a riprodurre la scena della natività nel lontano 1223 a Greccio. Da allora il presepe si è diffuso in tutto il mondo cattolico declinandosi in varie forme in ogni angolo del

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Globo. Ma rimanendo alla nostra piccola realtà, questa Italia culla di civiltà e di pensieri, cosa rimane oggi dei simboli davvero? Partiamo da un dato di fatto, in quanto a realizzazione ed esposizione di presepi siamo leader; nelle case, nelle scuole, nelle chiese, in sale museali, in Italia ogni anno nascono milioni di bambinelli! Ora, appurato il buono stato di salute della nostra tradizione e l’asserita cristianità della maggior parte della popolazione italiana, non riesco a non vedere una contraddizione tra il Paese che viviamo ed il grande messaggio di pace e amore che proclamiamo solennemente in questo periodo dell’anno. Il recente rapporto Censis 2018 espone numeri chiarissimi: il 63% della popolazione vede negativamente l’ingresso di persone da paesi extra-comunitari, il 45% si dichiara diffidente anche verso l’immigrazione Schengen. Il fenomeno di chiusura e paura verso l’altro va sotto il nome di “sovranismo

psicologico”, una realtà ormai conclamata nel nostro Paese, respirabile per strada, sui social, nel dibattito politico. Ora, a prescindere dalla fede, il Santo Natale dovrebbe essere la festa della gioia e dell’inclusione, dovremmo essere tutti più buoni, dovremmo amare i nostri fratelli, tutti i nostri fratelli. E torniamo al punto, il presepe è la raffigurazione di una storia di accoglienza, di ultimi della società rifiutati da tutti e costretti a dare alla luce il Figlio in una mangiatoia. Non è nato da re Gesù, al giorno d’oggi probabilmente nascerebbe su un barcone, ogni anno ripercorriamo con animo fedele le vicende di quella povera e sacra famiglia, perseguitata e costretta a vivere nascosta. Ci dichiariamo credenti in valori altissimi che poi disattendiamo quotidianamente. Certo, è facile parlare, forse sono buonista, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e di buone intenzioni non si vive; già, ma il messaggio che ci ha lasciato Lui non è semplice, tant’è che spesso preferiamo girare la testa e fare finta che vada tutto bene. Io scrivo queste parole

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non perché mi senta migliore, anzi, sono molti i dubbi che mi hanno assalito nel redigere questo editoriale, scrivo proprio per condividere le umane perplessità che avverto in queste giornate di festa, quella ricerca di essere davvero tutti più buoni che si scontra con una realtà che spesso incattivisce. “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede”, parole pesanti pronunciate da Cristo, riportate in questo passo della prima lettera di Giovanni, che fanno riflettere trasversalmente; non serve essere credenti per capire la potenza di queste parole, cosa è rimasto dei simboli, in cosa crediamo davvero? Questo è il mio auspicio, che il simbolo per eccellenza del Natale, il presepe, torni a far riflettere sul percorso che l’umanità sta intraprendendo, che non sia solo una decorazione, che unisca i fratelli, tutti i fratelli, di ogni colore, di ogni lingua, di ogni cultura, perché “senza l’amore è cianfrusaja che nun cià valore”.

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