Quaderni acp 2024_31(2)

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rivista bimestrale dell’associazione culturale pediatri

Editoriale

49 Il silenzio è calato Patrizia Elli, Mario Renato Rossi

Formazione a distanza

50 Antibioticoterapia per il pediatra: tra linee guida e nuove indicazioni aware Melodie O. Aricò, Anna Ragazzini, Emma Bonaguri, Desiree Caselli

Infogenitori

57 Infanzia che conta

Antonella Brunelli, Antonella Salvati, Stefania Manetti

Osservatorio internazionale

58 La chiarezza morale del direttore della WHO: coscienza morale della comunità sanitaria globale Stefania Manetti

Salute mentale

60 Disturbi del neurosviluppo e arricchimento ambientale: possiamo implementare il modello italiano?

Andrea Guzzetta, Massimo Soldateschi, Martina Orlando

62 Disturbi dello spettro autistico e accesso ai servizi sanitari per le famiglie immigrate Giovanni Giulio Valtolina, Maria Luisa Gennari, Giancarlo Tamanza

Saper fare

65 Conoscere il paziente: la cultura cinese Marina Buzzetti

Il punto su

67 Acqua da bere in pediatria. Ci sono acque migliori e peggiori?

Federica Meli

I primi mille

70 Raccontiamoci... L’importanza della lettura e del dialogo perinatali

Giuditta Bacchin

Focus

74 Focus sull’autonomia differenziata

Fine vita

76 Fine vita dopo l’inizio della vita

Giuseppe Pagano

Traiettorie e orizzonti familiari

80 Le tematiche salienti delle famiglie con madre nubile

Laura Fruggeri

Il bambino e la legge

83 Disposizioni per la prevenzione delle discriminazioni e la tutela dei diritti delle persone che sono state affette da malattie oncologiche. Legge 7/12/2023 n. 193 (nota come diritto all’oblio oncologico)

Augusta Tognoni

Ambiente e salute

85 Ecoansia: una nuova forma di ansia o un nuovo modo di stare al mondo?

Vincenza Briscioli, Sabrina Bulgarelli

Info

88 Rapporto sulla nascita in Italia

89 Menù scolastici

Film

90 La lezione dell’infanzia in The Quiet Girl

Libri

91 Andrea Principe, Massimo Sideri, Il visconte cibernetico

91 Antonella Ossorio, I bambini del maestrale

92 Valeria P. Babini, Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento

Lettere

93 Sì, no, dipende

Congressi in controluce

94 Piano operativo regionale autismo lombardo e sviluppo di progettualità dedicate Federica Zanetto

95 Errore, incertezza e dintorni. Dalla filosofia alla pratica clinica

Michele Gangemi

96 Programma 36° congresso nazionale ACP “Il viaggio: 50 anni insieme”

Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – 70% NE/VR – Aut. Tribunale di Oristano 308/89 VOL. 31 N. 2 MARZO-APRILE 2024
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indicizzata in Google Scholar e in SciVerse Scopus ISSN 2039-1374
Rivista

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Negli articoli di ricerca, testo e riassunto vanno strutturati in “Obiettivi”, “Metodi”, “Risultati”, “Conclusioni”.

I casi clinici per la rubrica Il caso che insegna vanno strutturati in: “La storia”, “Il percorso diagnostico”, “La diagnosi”, “Il decorso”, “Commento”, “Cosa abbiamo imparato”.

Tabelle e figure vanno poste in pagine separate, una per pagina. Ciascun elemento deve presentare una didascalia numerata progressivamente; i richiami nel testo vanno inseriti in parentesi quadre, secondo l’ordine di citazione.

Casi clinici ed esperienze non devono superare i 12.000 caratteri (spazi inclusi), riassunti compresi, tabelle e figure escluse. Gli altri contributi non devono superare i 18.000 caratteri (spazi inclusi), compresi abstract e bibliografia (casi particolari vanno discussi con la redazione). Le lettere non devono superare i 2500 caratteri (spazi inclusi); se di lunghezza superiore, possono essere ridotte d’ufficio dalla redazione.

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direttore

Michele Gangemi

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Stefania Manetti

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Melodie O. Aricò, Antonella Brunelli, Sergio Conti Nibali, Daniele De Brasi, Luciano de Seta, Martina Fornaro, Stefania Manetti, Laura Reali, Paolo Siani, Maria Francesca Siracusano, Maria Luisa Tortorella, Enrico Valletta, Federica Zanetto comitato editoriale pagine elettroniche

Giacomo Toffol (coordinatore), Laura Brusadin, Claudia Mandato, Maddalena Marchesi, Laura Reali, Patrizia Rogari collaboratori

Fabio Capello, Rosario Cavallo, Francesco Ciotti, Antonio Clavenna, Massimo Farneti, Claudio Mangialavori, Italo Spada, Angelo Spataro, Augusta Tognoni progetto grafico ed editing

Oltrepagina s.r.l., Verona programmazione web

Gianni Piras stampa

Cierre Grafica, Caselle di Sommacampagna (VR), www.cierrenet.it

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in copertina: Giovanna Benzi, Orizzonte (2015), olio su tela, 50x70 cm

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Il silenzio è calato

Patrizia Elli, Mario Renato Rossi

Gruppo di lavoro ACP Cure palliative pediatriche e terapia del dolore

Il silenzio è calato sulla vicenda dolorosa di Indi Gregory, così come era calato sui casi di Alfie Evans e Charlie Gard bambini inglesi a cui, nel 2017, sono stati sospesi i supporti vitali per le gravissime malattie degenerative e incurabili da cui erano affetti. Anche con Indi, finito il clamore, sembra che il problema non interessi più nessuno, almeno fino al prossimo caso utile a ipocrisia, propaganda e scandalo. Ma i problemi posti sono fondamentali ed è il momento di parlarne.

La prima cosa che colpisce sono la determinazione e la rabbia dei genitori di Indi di fronte alla decisione di medici e giudici inglesi di sospendere il supporto vitale alla loro figlia. Che la bambina dovesse morire era chiaro anche a loro; ciò che sembra non abbiano accettato è la decisione di lasciarla morire sospendendo il supporto vitale, quindi con un atto volontario. Il rispetto dovuto al loro dolore non può impedirci di pensare che il primo dovere etico è di agire “per il migliore interesse” del bambino. L’altro aspetto è che, se è vero che i genitori, quali tutori, hanno il diritto e il dovere di decidere e agire per lui, va considerato che il loro rapporto con il figlio non è una semplice presa in carico tutoriale, ma è un rapporto complesso in cui amore, trasporto, protezione, presenza hanno un peso enorme e il trovarsi di fronte alla necessità di scelte più che dolorose può mettere in crisi, sino ad annullare, la lucidità e la convinzione necessarie per giungere a una decisione che sia la migliore per il figlio anche se intimamente inaccettabile.

Chi ha lavorato dove la sofferenza del morire del bambino è dolorosamente percepita dal genitore e dal medico, sa che di frequente accade che sia il genitore stesso, quasi sempre la madre, a chiedere di porre fine a quelle sofferenze, anche con la morte del bambino se null’altro è possibile. Ma questa dolorosa lucidità non è di tutti e medici e giudici si possono trovare nella necessità di prendere una decisione che andrà a collidere con i sentimenti del genitore.

Ogni Paese ha promulgato leggi sul fine vita; anche in Italia abbiamo leggi che stabiliscono dei principi molto importanti. La legge 38/2012 che garantisce l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore.

La legge 219/2017 sulle disposizioni di fine vita.

Il Comitato Nazionale di Bioetica 2020 sull’accanimento clinico o ostinazione irragionevole dei trattamenti sui bambini piccoli con limitate aspettative di vita.

La legge 219/2017, pur rappresentando un importantissimo momento nell’affermazione del diritto a morire con dignità, trascura però il problema dei bambini, genericamente affidando (art. 3) a chi possiede la potestà genitoriale (genitori o tutore) ogni decisione senza ulteriori indicazioni, ignorando così la complessità del problema.

Il Comitato Nazionale di Bioetica definisce chiaramente cosa si intende per accanimento terapeutico: “inizio di trattamenti che si presumono inefficaci o la prosecuzione di trattamenti divenuti di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo di cura della persona malata o di miglioramento della sua qualità di vita (intesa come benessere) o tali da arrecare al paziente ulteriori sofferenze e un prolungamento precario e penoso della vita senza ulteriori benefici.” e afferma “convinzione che sia dovere prioritario del medico

l’astenersi dall’iniziare o dal prolungare trattamenti inutili e sproporzionati.”

Tutto chiaro? In teoria sì, ma, come sempre, le cose si complicano e la posizione dei genitori di Indi ne è un esempio. Nel caso di Indi non sappiamo come i rapporti, la comunicazione, la mediazione tra genitori e medici si sia svolta, se vi fossero altri interlocutori (psicologo? eticista?), quanto è durata e come si è arrivati al ricorso alla magistratura; di certo la mediazione non ha funzionato e questo fallimento ha permesso che si inserissero opportunismi politici, ipocrisie, scandalismo sadico sulla pelle di una bambina morente e sul dolore dei suoi genitori.

In un ambito così complesso forse il medico e il giudice, oltre i genitori, non sono sufficienti.

Ai medici si richiede di identificare ed evitare l’accanimento clinico pur garantendo il meglio in termini di controllo del dolore fisico e psichico del bambino. Gli si chiede di condividere con i genitori l’analisi realistica della situazione e un percorso nell’interesse superiore del bambino.

La condivisione, tuttavia, prevede la capacità di stabilire una relazione vera con i genitori che sia la base di una comunicazione efficace. Si tratta di comunicazioni difficili, complesse, ad alto tasso emotivo per le quali bisogna essere preparati e formati. I medici infatti possono trovarsi di fronte a situazioni molto differenti che vanno previste, comprese e per la gestione delle quali non esiste una regola o uno schema unico, ma sicuramente la formazione e l’esercizio all’uso dell’ascolto può facilitare un accompagnamento empatico. Nelle situazioni complesse o di difficile inquadramento i comitati etici (se presenti e adeguati) andrebbero coinvolti in un ruolo consultivo partecipando con i medici alla mediazione, garantendo il rispetto di opinioni, fede e condizioni emotive dei genitori.

Anche la richiesta dei genitori di un secondo parere va compresa e accompagnata per proteggerli da soggetti che speculano sul loro dolore (maghi, guaritori, sedicenti medici), aiutandoli a prendere decisioni ragionevoli su base scientifica. Per molte malattie croniche a prognosi infausta o tumori, esistono associazioni di genitori composte da chi ha vissuto la stessa perdita e che sono in grado di avere una comunicazione, uno scambio, una vicinanza emotiva che può aiutare l’opera di mediazione. Queste associazioni non andrebbero mai dimenticate e dovrebbero essere sempre coinvolte ove possibile.

Quando tutto fallisce, il ricorso alla magistratura rimane l’unica risorsa per poter garantire il migliore interesse del bambino; anche in questo caso ogni tentativo va fatto per dare sostegno ai genitori che vivono l’ulteriore “affronto” di vedersi togliere la potestà genitoriale anche se solo per le scelte sanitarie.

È chiara la necessità di un’équipe dedicata, composta dalle persone necessarie (medico, psicologo, infermiere, eticista ecc.) che può mutare a seconda della situazione; équipe che non può essere improvvisata, ma gestita e preparata per affrontare situazioni che possono coinvolgere con forza gli stessi operatori.

Dovremmo lavorare per creare un consenso su come gestire il fine vita di un bambino con conoscenza di aspetti medici, psicologici, etici e normativi per garantire una morte dignitosa al bambino quando questa diventa il suo superiore interesse.

Da questo numero inizia – in collaborazione con la rivista ilpunto.it – una serie di articoli dedicati al fine vita. Si parte con l’articolo di Giuseppe Pagano, Fine vita dopo l’inizio della vita (pp. 77-80).

QUADERNI ACP 2/2024 49 EDITORIALE
mariorenato.rossi@gmail.com

Antibioticoterapia per il pediatra: tra linee guida e nuove

indicazioni aware

Melodie O. Aricò1 , Anna Ragazzini2 , Emma Bonaguri2 , Desiree Caselli3

1 UO Pediatria, Ospedale G.B. Morgagni – L. Pierantoni, AUSL della Romagna, Forlì

2 Medico in formazione specialistica dell’Università di Bologna

3 UOC Malattie Infettive, Ospedale Pediatrico Giovanni XXIII, Azienda Ospedaliero-Universitaria Consorziale Policlinico di Bari

L’ottimizzazione delle terapie antibiotiche in ambito pediatrico è ormai un argomento di diffuso interesse. È recente la pubblicazione da parte del World Health Organization (WHO) di un manuale in cui sono riassunte le principali indicazioni pratiche per le sindromi infettive più frequenti. L’Italia ha recepito questo documento e prontamente lo ha reso disponibile in italiano: i contenuti non sempre sono concordi con i documenti italiani di riferimento preesistenti. Verranno quindi considerati i documenti fino a poco tempo fa di riferimento clinico in ambito sia territoriale che ospedaliero.

The optimization of pediatric antibiotic prescriptions is recently a topic of widespread interest. The recent publication by the World Health Organization (WHO) of a manual which summarizes the main practical indications for the most frequent infectious disease. Italian authorities has promptly made it available in Italian: the contents of this Manual do not always agree with pre-existing Italian reference documents. The documents to which until recently there were both territorial and hospital clinical references will therefore be considered.

Le malattie infettive, dalle forme più lievi a quelle più gravi, costituiscono una quota molto importante del lavoro del pediatra, in ambito sia territoriale che ospedaliero. Una percentuale relativamente piccola di questi quadri clinici, di origine batterica, richiede la prescrizione di una terapia antibiotica. Ovviamente la preoccupazione di sottovalutare una infezione può portare, in pediatria ancor più che nella medicina dell’adulto, alla prescrizione di terapie antibiotiche non necessarie, dato il maggior numero di infezioni delle prime vie aeree cui i bambini vanno incontro.

L’attenzione scientifica al corretto utilizzo degli antibiotici si è fatta sempre maggiore negli ultimi anni, dato il diffondersi del fenomeno e delle conseguenze dell’antibiotico resistenza. La stewardship antibiotica è l’insieme delle indicazioni utili a una corretta prescrizione antibiotica, dal momento in cui viene impostata fino alla sua sospensione: ha come scopo ottimizzare l’uso degli antibiotici, in termini di scelta della molecola e durata della terapia, per il miglior risultato clinico in termini di controllo dell’infezione, con il minor rischio di eventi avversi e di induzione di antimicrobico resistenza [1,2]. L’applicazione delle pratiche che rientrano nel concetto di stewardship antibiotica è relativamente più recente nell’ambito pediatrico rispetto all’adulto, anche se le prescrizioni antibiotiche sono molto più frequenti in età pediatrica.

Nel 2022 la World Health Organisation (WHO) ha prodotto un manuale [3] in cui tratta oltre 30 sindromi infettive tra le più comuni in età pediatrica e nell’adulto, descrivendone le principali caratteristiche cliniche ed epidemiologiche, i criteri diagnostici fondamentali e fornendo informazioni evidence-based sull’opportunità̀ del trattamento antibiotico. In particolare, fornisce le indicazioni circa la scelta dell’antibiotico, della dose, della via di somministrazione e della durata del trattamento, facendo riferimento sia alla realtà territoriale che alla realtà ospedaliera. Elemento fondamentale del documento è la definizione abbastanza chiara delle situazioni cliniche in cui l’uso degli antibiotici non è raccomandato. La versione italiana del manuale è stata tempestivamente diffusa dall’AIFA nel 2023 [4]. Per ogni malattia infettiva una scheda dedicata riporta la definizione, le più frequenti eziologie e i criteri diagnostici, siano essi clinici, microbiologici e radiologici. La scheda fornisce inoltre indicazioni circa il trattamento sintomatico ed eventualmente antibiotico, specificando quando questo è appropriato e quando invece no. Per ogni quadro clinico viene fornita una scheda riassuntiva per l’età adulta e una per l’età pediatrica.

Accanto alla indicazione del farmaco antimicrobico da utilizzare, troviamo indicata la sua categoria secondo la classificazione AWaRe [Tabella 1]. Questo sistema non implica una classificazione in termini di efficacia ma suddivide gli antibiotici di maggior uso (attualmente 258 molecole) in 3 gruppi, basandosi sul rispettivo potenziale di indurre AMR (antimicrobicoresistenza) e quindi sulla necessità di porre sotto sorveglianza il loro utilizzo [5].

La categoria Access include le molecole da prediligere per trattare le malattie più comuni: minor potenziale di resistenza a parità o superiorità di efficacia e prevalentemente somministrabili per via orale.

La categoria Watch comprende la maggior parte degli antibiotici più importanti, a elevata priorità e criticità, per l’impiego sia nell’uomo sia nella medicina veterinaria: come tali, devono quindi essere utilizzati solo per indicazioni specifiche e limitate, non come terapia di prima linea.

I farmaci in categoria Reserve dovrebbero essere usati come ultima risorsa, quando tutti gli altri antibiotici hanno fallito. Sono antimicrobici di uso ospedaliero, la cui prescrizione è spesso regolamentata: può avvenire su richiesta motivata per singolo paziente o dopo consulenza specialistica, proprio per evitarne un uso non corretto che induca possibili resistenze [6].

Tabella 1. Classificazione AWaRe [7]

Categoria Caratteristiche

Access – antibiotici di prima o seconda linea – offrono la migliore efficacia terapeutica, minimizzando il rischio di resistenza

Watch – antibiotici di prima o seconda linea

– indicati solo in caso di specifiche e limitate malattie infettive – più facilmente oggetto di antibiotico-resistenza e quindi identificati come target di programmi di stewardship e di sorveglianza

Reserve – ultima risorsa

– pazienti altamente selezionati (infezioni potenzialmente mortali da batteri multiresistenti)

– strettamente monitorati e target prioritari di programmi di stewardship per garantirne la persistenza di efficacia

In questo articolo verranno ripercorse le principali differenze, per alcune tra le più frequenti malattie, tra gli ultimi documenti italiani disponibili e il Manuale AWaRe [4].

QUADERNI ACP 2/2024 50 FORMAZIONE A DISTANZA

Otite media acuta

Si definisce otite media acuta (OMA) una infezione acuta dell’orecchio medio, con raccolta di muco o pus e presenza di segni e sintomi dell’infiammazione.

La diagnosi di OMA prevede:

1. sintomatologia insorta acutamente nelle 48 ore precedenti;

2. membrana timpanica con segni evidenti di flogosi;

3. presenza di essudato nella cassa timpanica. Anche la sola presenza di otorrea, non secondaria a otite esterna, con membrana timpanica perforata spontaneamente [8].

Sono stati prodotti vari documenti sulla gestione dell’OMA; in particolare quelli che verranno confrontati sono le Linee guida italiane 2019 per la Gestione dell’otite media acuta in età pediatrica [8], le Linee guida regionali Emilia-Romagna 2015 Otite media acuta in età pediatrica [9] e il Manuale AWaRe [4].

Nella Tabella 2 sono riassunti i principali punti con le differenze per i diversi documenti.

Vigile attesa

L’approccio iniziale proposto dai vari documenti è la vigile attesa. In tutti i documenti, questa strategia non è considerata applicabile in pazienti con:

• rischio di forme gravi: importante malessere generale, otalgia non responsiva ad antidolorifici e febbre persistente > 39 °C;

• malattia associata (broncopneumologica, immunodeficit ecc). Elemento discordante è l’età soglia da considerare: se AWaRe [4] e le linee guida italiane [8] concordano che sotto i due anni debba essere iniziata tempestivamente la terapia antibiotica, per le linee guida regionali Emilia-Romagna [9] la soglia considerata è l’anno di vita, valutabile fino ai 6 mesi se il paziente è clinicamente stabile, vi è compliance familiare ed è possibile rivalutare in tempi brevi il paziente.

Tabella 2. Confronto delle linee guida per otite media acuta (OMA)

SIP 2019

Vigile attesa > 2 anni:

– monolaterale lieve

– monolaterale grave

– bilaterale lieve

Iniziare subito

terapia antibiotica < 2 anni Bilaterale grave Otorrea

ER 2015

> 1 anno – senza sintomi gravi

– senza otorrea

– sintomi gravi

– otorrea

– età < 6 mesi

– concomitante malattia acuta grave (es. asma, broncopolmonite);

– malattia di base a rischio di immunodepressione (es. S. Down, fibrosi cistica, immunodeficienze, anomalie craniofacciali, diabete mellito non compensato);

– inaffidabilità della famiglia

AWaRe

> 2 anni

sintomi gravi immunodeficit

OMA bilaterale < 2 anni

Molecola I scelta amoxicillina amoxicillina amoxicillina

Dosaggio 80-90 mg/kg/die in 3 dosi

Durata – 5 giorni se > 2 anni, sintomi non gravi, non otorrea, monolaterale – 10 gg se presente uno dei precedenti

In caso di ricorrenza – amoxicillina se risposta negli episodi precedenti – amoxicillina–acido clavulanico se non risposta o se terapia antibiotica nei 30 gg precedenti

Quando amoxi-clav – sintomi gravi – congiuntivite purulenta – otorrea da perforazione spontanea

– elevato rischio di patogeni resistenti (frequenza di comunità infantile, mancata vaccinazione antipneumococcica, provenienza da aree geografiche con elevata prevalenza di isolamento di batteri resistenti)

– tp atb nei 30 gg precedenti

– storia di OMAR non responsiva ad amoxicillina

75 mg/kg/die in 3 dosi

se problemi di compliance dopo

48 ore di terapia con miglioramento clinico: 90 mg/kg in 2 dosi

– 5 gg se > 2 anni – 8-10 gg se < 2 anni

– amoxicillina se risposta negli episodi precedenti

– amoxi-clav se non risposta o se tp nei 30 gg precedenti

– se non risposta Ceftriaxone in 50 mg/kg x 1 per 3 giorni

– se non risposta clinica dopo 48-72 ore di tp

– se tp antibiotica nei 30 gg precedenti

– se precedenti episodi non responsivi ad amoxi

80-90 mg/kg/die in 2 somministrazioni

– 5 giorni

– resistenze locali

– fattori individuali (amoxi negli ultimi 3 mesi, > 4 episodi l’anno).

NB: alte dosi di amoxi funzionano anche contro ceppi di Pneumococco parzialmente R

QUADERNI ACP 2/2024 51 FORMAZIONE A DISTANZA
Quanto amoxi-clav – 80-90 mg/kg/die in 3 dosi – 75 mg/kg/die in 3 dosi – 80-90 mg/kg/die in 2 dosi

Quale antibiotico utilizzare

Tutti i documenti concordano che la molecola di prima scelta sia l’amoxicillina ad alte dosi.

Il dosaggio indicato non differisce in maniera sostanziale:

AWaRe e SIP indicano 80-90 mg/kg/die, mentre ER indica 75 mg/kg/die. Quello che cambia è lo schema di somministrazione: SIP e ER danno come indicazione il frazionamento in 3 dosi giornaliere, mentre AWaRe ne indica due o tre a seconda del peso. ER aggiunge inoltre la possibilità, in caso di compliance difficoltosa e miglioramento clinico a 48 ore, di passare alla somministrazione di 90 mg/kg/die in 2 somministrazioni, al fine di garantire una maggior efficacia del ciclo terapeutico.

Ci sono però alcune situazioni in cui la molecola di prima scelta dovrebbe essere amoxicillina-acido clavulanico, agli stessi dosaggi indicati per amoxicillina.

Comuni a tutti i documenti sono:

• terapia antibiotica nei 30 giorni precedenti;

• OMA ricorrente non responsiva ad amoxicillina.

Ognuno dei documenti aggiunge poi delle situazioni specifiche; le linee guida SIP aggiungono più eccezioni degli altri quali la sintomatologia grave all’esordio, la presenza di otorrea, congiuntivite purulenta ed elevato rischio di patogeni resistenti.

Vengono considerati ad alto rischio di infezioni resistenti pazienti che non hanno completato il ciclo vaccinale anti-pneumococco, che provengono da aree geografiche con elevata prevalenza di isolamento di batteri resistenti e frequenza di comunità̀ infantile.

Frequenza di comunità infantile

Dopo l’introduzione della vaccinazione anti-pneumococcica, si è considerata la possibilità che, raggiunti alti tassi di vaccinazione della popolazione infantile, l’eziologia dell’OMA potesse cambiare, a favore di patogeni meno o per niente sensibili all’amoxicillina come ceppi di S. pneumoniae resistenti, H. Influenzae (scarsamente sensibile) e M. Catarralis (resistente). In Italia nel 2022 la copertura per il ciclo vaccinale per pneumococco è stata del 92% [10] rientrando quindi nelle regioni ad alto tasso di vaccinazione; da qui l’indicazione del documento SIP di utilizzare l’amoxicillina-acido clavulanico nei bambini che frequentano la comunità. Studi successivi hanno però dimostrato che l’utilizzo dell’amoxicillina ad alte dosi (80-90 mg/kg/die) permette di superare la parziale resistenza dei ceppi di pneumococco a sensibilità intermedia. Inoltre, si è evidenziato che l’utilizzo dell’amoxicillina in prima linea anche in questo contesto si associa a un successo di trattamento e di non ricorrenza sovrapponibile [11].

In conclusione, l’amoxicillina può essere usata come terapia di prima linea in pazienti che frequentano una comunità infantile, senza altri elementi di rischio.

QUADERNI ACP 2/2024 52 FORMAZIONE A DISTANZA
Figura 1. Scheda riassuntiva OMA [4]. Figura 2. Prevalenza di S. Pneumoniae resistente a penicilline [12].

Quanto dura la terapia

I tre documenti sono concordi nell’indicare di base una durata di 5 giorni.

Il Manuale AWaRe non prevede situazioni in cui questa debba essere prolungata. I documenti SIP e ER invece prolungano (8-10 gg) in pazienti sotto i 2 anni. Il documento SIP specifica, inoltre, che per poter sospendere la terapia dopo 5 giorni i sintomi non devono essere gravi, non ci deve essere otorrea e il quadro deve essere monolaterale.

Faringotonsillite strepococcica

Si parla di faringite in caso di un’infiammazione della faringe caratterizzata da mal di gola e deglutizione dolorosa. L’eziologia è nell’80% dei casi virale (virus respiratori, EBV) [4]. Il 20-30% dei casi in età pediatrica è dato da infezioni da Streptococco beta emolitico di gruppo A (SBEGA).

L’utilizzo degli antibiotici in tutte le forme virali non è indicato, considerato che l’eziologia virale costituisce la maggior parte dei casi; la corretta valutazione dei pazienti è importante per evitare somministrazioni di antibiotico non indicate. Inoltre, anche le forme batteriche vanno incontro a risoluzione spontanea e la terapia antibiotica non è efficace nel ridurre gravità e durata dei sintomi del quadro acuto [13]. Il trattamento di base deve prevedere una terapia analgesica ed eventualmente antipiretica adeguata.

Il trattamento antibiotico nelle forme batteriche, in particolare da SBEGA, può aiutare a ridurre la diffusione dell’infezione [14]: la terapia riduce la trasmissibilità dello SBEGA a 24 ore e mira a limitare la sua diffusione nei pazienti ad alto rischio [Tabella 3] [15].

Tabella 3. Fattori di rischio per malattia reumatica in Paesi ad alta incidenza [16]

– Alta incidenza locale di malattia reumatica

– Recente storia familiare di malattia reumatica o cardite reumatica

– Pregresse infezioni da SBEGA (faringite o infezione cutanea)

– Viaggi frequenti in regioni ad alta incidenza per malattia reumatica

– Età a maggior rischio di malattia reumatica (5-20 anni)

– Condizioni di vita sfavorevoli: risorse domestiche limitate, sovraffollamento, ambienti freddi e umidi, accesso a servizi igienici

– Difficoltà di accesso a servizi sanitari

– Rifugiati o migranti da Paesi a limitate risorse economiche

La terapia antibiotica può avere un ruolo nella riduzione delle complicanze suppurative (ascessi peritonsillari e otite media acuta) e meno nell’insorgenza della glomerulonefrite poststreptococcica. Storicamente però il principale target del trattamento antibiotico è stato quello di ridurre il rischio di insorgenza di malattia reumatica. Gli studi di efficacia della terapia antibiotica nella prevenzione della malattia reumatica risalgono però agli anni ’50 [13,17]. Negli studi successivi al 1975, l’incidenza nei Paesi ad elevato reddito è calata così tanto da porre il dubbio sulla sua reale utilità: è infatti possibile che i rischi derivati dal così ampio utilizzo degli antibiotici, in termini di aumento delle resistenze microbiche e dei possibili effetti collaterali, siano oggi dello stesso ordine di quelli della febbre reumatica acuta [13].

L’importanza clinica della malattia reumatica lascia però ancora aperta la questione su chi, come e per quanto tempo trattare dei pazienti con faringotonsillite da SBEGA. La letteratura è abbastanza concorde nel dichiarare che le infezioni acute da SBEGA debbano essere trattate con antibiotico. I punti più critici sono la corretta identificazione del paziente con quadro acuto (quindi non il portatore cronico) e la durata della tera-

pia; quest’ultima varia in relazione all’incidenza della malattia reumatica nel territorio in cui si trova il paziente.

Definizione di rischio per malattia reumatica

L’ultima revisione delle linee guida dell’American Heart Association per la malattia reumatica [18] definisce i criteri per parlare di basso rischio per malattia reumatica: dove siano disponibili dati epidemiologici, si parla di basso rischio quando si ha una incidenza annuale di malattia reumatica < 2 su 100.000 bambini in età scolare (di solito tra 5 e 14 anni) o una prevalenza di cardite reumatica in tutte le età pari a ≤ 1 ogni 1000 abitanti.

Incidenza in Italia

L’incidenza della malattia reumatica si è complessivamente ridotta nei decenni nei Paesi ad alto reddito; è quindi difficile la raccolta di dati epidemiologici precisi. In Italia, che nel tempo ha presentato periodi con un apparente aumento dei casi, sono disponibili dati non esaustivi, ma più precisi che in altri Paesi. Il dossier Faringotonsillite in età pediatrica. Linea guida regionale, prodotto dalla regione Emilia-Romagna nel 2015, riporta che i casi con interessamento cardiaco variano da 5 a 16 l’anno (incidenza 0,8-2,4/100.000 bambini/anno), mentre i casi senza interessamento cardiaco variano fra 10 e 22 l’anno (incidenza 1,5-3,8/100.000 bambini/anno) [19]. Una casistica pubblicata nel 2021 [20] riporta, nella provincia Monza-Brianza, una incidenza media di malattia reumatica di 4/100.000, negli anni dal 2009 al 2018.

Un altro studio svolto sempre in Lombardia conferma una incidenza di malattia reumatica di 4,2/100.000 negli anni dal 2014 al 2016 [21].

Secondo il più recente documento SIP 2023 [22], che si basa anche su queste casistiche, l’Italia è da considerare un Paese a moderata incidenza per malattia e cardite reumatica. Alcuni studi sostengono però l’idea che più che un aumento stabile dell’incidenza di malattia reumatica, le oscillazioni annuali riscontrate in più sedi siano dovute alla presenza transitoria di ceppi più reumatogeni [19,23].

Considerate queste premesse, verranno confrontati alcuni documenti sulla gestione della faringotonsillite acuta: il documento SIP Uso dei test rapidi per la faringotonsillite e trattamento con amoxicillina [22], il dossier Faringotonsillite in età pediatrica. Linea guida regionale prodotto dalla Regione Emilia-Romagna e il Manuale AWaRe. Le principali differenze sono riassunte in Tabella 4.

Identificare il paziente con infezione acuta da SBEGA

La corretta selezione del paziente con infezione acuta dovuta a SBEGA, rispetto a un paziente con faringite acuta virale e portatore di SBEGA, costituisce il primo scoglio nella corretta gestione di questo quadro.

In base al quadro clinico acuto e alla storia di un paziente si definisce:

• Infezione attiva: paziente con sintomi riconducibili a SBEGA, in assenza di sintomi soggettivi di infezione virale (coriza, congiuntivite, raucedine, tosse, stomatite anteriore, lesioni orali ulcerative discrete o diarrea).

• Infezione persistente: infezione sintomatica da SBEGA che non si risolve dopo appropriato trattamento ( fallimento terapeutico).

• Infezione ricorrente: nuova infezione dopo adeguato trattamento (sierotipo uguale o diverso) spesso collegato a scuola o famiglia.

• Portatore cronico: colonizzazione asintomatica con presenza di SBEGA ma senza sintomi o movimento anticorpale. La frequenza attesa di questo fenomeno è: – 4-5% degli adulti sani; – 2-20% dei bambini.

QUADERNI ACP 2/2024 53 FORMAZIONE A DISTANZA

Tabella 4. Confronto documenti faringotonsillite

Score da usare

Indicazione RADT/ colturale Molecola

SIP 2023 Non specificato RADT o colturare a giudizio medico

I scelta amoxicillina (Access)

ER 2015 McIsaac RADT se

– McIsaac 3-4

NB: colturale non indicato

AWaRe Centor RADT o colturale se

– Centor 3-4

– Paese ad alta endemia di febbre o cardite reumatica

II scelta azitromicina (Watch)

I scelta

amoxicillina (Access)

– se allergia tipo I macrolide – se allergia non tipo I cefalosporina

I scelta

amoxicillina (Access) fenossibenzatilpenicillina (non disponibile in Italia)

II scelta cefalexina (Access)

II scelta claritromicina (Watch)

Lo stato di portatore cronico non si associa a sintomatologia specifica, è caratterizzato da una bassa carica batterica, ha un basso rischio di trasmissione e di evoluzione a malattia reumatica.

Un punto aperto è la gestione dei contatti: non è indicato testare i contatti asintomatici, per evitare l’utilizzo di terapie superflue; un contatto che però sviluppi sintomatologia suggestiva dovrebbe essere testato ed eventualmente trattato.

Score Parametri Gestione

Centor Segni e sintomi (1 punto ciascuno)

– febbre > 38,0 °C

– no tosse

– linfoadenite cervicale anteriore dolente

– essudati tonsillari

McIsaac Segni e sintomi (1 punto ciascuno)

– febbre > 38,0°C

– no tosse

– linfoadenite cervicale anteriore dolente

– essudato tonsillare

– età 3-12 anni

Durata Dosaggio Gestione recidive

Paese basso rischio: 5 giorni Paese alto rischio: 10 giorni Italia a MEDIO rischio amoxi

50 mg/kg/die in 2 dosi (> compliance) o 40 mg/kg/die in 3

3 giorni 20 mg/kg/die in 1 (dose > per vincere R)

non consensus (2012 tampone di controllo solo se alto R di GNPS o malattia reumatica)

6 giorni 50 mg/kg/die in 2 dosi non eseguire tampone di controllo a fine terapia

Paese basso rischio: 5 giorno Paese alto rischio: 10 giorni

amoxi: 80-90 mg/k/die nn

5 giorni 50 mg/kg/die in 2 somministrazioni se peso < 30 kg, in 3 se > 30 kg

5 giorni 15 mg/kg/dose in 2

1) Score clinici predittivi di infezione da GAS

In letteratura sono disponibili diversi score clinici per la valutazione della probabilità di infezione acuta da SBEGA [Tabella 5]: lo score di Centor, sviluppato su una popolazione adulta, lo score di McIsaac o Centor modificato, che considera anche l’età del paziente e il FeverPAIN, introdotto dalle linee guida NICE [24]. Numerosi studi hanno valutato l’efficacia dell’utilizzo di questi score ed è emerso che hanno più o meno una accuratezza

Punteggio 0-2

– improbabile faringite da SBEGA

– solo trattamento sintomatico

Punteggio 3-4

– in caso di basso rischio di RF (es. Paesi con bassa prevalenza di RF)

– il trattamento antibiotico può essere sospeso anche in casi di probabile faringite da GAS

Punteggio 3-4

– in caso di basso rischio di RF (es. Paesi con prevalenza medio/alta di RF)

– trattamento antibiotico raccomandato

Punteggio 0-2

– improbabile faringite da GAS

– solo trattamento sintomatico

Punteggio 3-4

– esecuzione test rapido

– se positivo iniziare trattamento antibiotico

– se negativo solo trattamento sintomatico

Punteggio 5

– iniziare trattamento antibiotico FeverPAIN * Segni e sintomi (1 punto ciascuno)

– febbre

– essudato tonsillare

– sintomi insorti al massimo da 3 giorni

– tonsillite acuta grave

– assenza di tosse e coriza

Punteggio 0-2

– trattamento sintomatico

Punteggio 2-3

– valutare trattamento sintomatico o prescrizione antibiotica ritardata

Punteggio 4-5

– valutare avvio antibiotico immediato o prescrizione ritardata

* https://www.nice.org.uk/guidance/ng84/resources/sore-throat-acute-in-adults-antimicrobial-prescribing-visual-summary-pdf-11315864557

QUADERNI ACP 2/2024 54 FORMAZIONE A DISTANZA
Tabella 5. Score clinici

sovrapponibile. La questione è che anche faringiti acute con score elevati possono, fin nel 50% dei casi, essere dovute a infezioni virali, così come score bassi possono comunque associarsi a infezioni da SBEGA [25-27].

In conclusione, l’utilizzo degli score clinici può aiutare nella stratificazione del rischio di infezione da SBEGA, ma è necessario ricordare che l’accuratezza non è tale da poterli utilizzare come unico criterio per la decisione di avvio o meno del trattamento antibiotico.

2) Tampone antigenico rapido e colturale faringeo

In letteratura il gold standard per la diagnosi di infezione da SBEGA è considerato il tampone colturale, per quanto anche questa metodica non permetta di discriminare pazienti portatori da infezioni acute. In caso di isolamento di SBEGA non è infrequente che i laboratori non producano un antibiogramma: questo è dovuto al fatto che nei decenni la sensibilità dello SBEGA all’amoxicillina si è sempre conservata. Nel caso in cui, per motivi specifici del paziente, non sia possibile utilizzare l’amoxicillina (per esempio allergia) e quindi si valuti la prescrizione di un macrolide, può essere richiesto al laboratorio l’emissione dell’antibiogramma in considerazione del fatto che l’incidenza di ceppi di SBEGA resistenti ai macrolidi è circa il 25% [12].

Negli ultimi anni si è consolidato l’utilizzo di Rapid Antigen Detecting test (RADT). La letteratura in merito all’affidabilità dei RADT è abbondante [28] per cui è accettato che RADT positivo non richieda l’esecuzione di un tampone colturale di conferma [29]. Rimane ancora aperta la possibilità di eseguire un colturale in paziente con clinica suggestiva ma RADT negativo, a discrezione del medico curante, valutando caso per caso. In un Paese a bassa incidenza per malattia reumatica, l’utilizzo diffuso di antibiotici in caso di potenziale infezione da SBEGA può portare a una situazione per cui gli effetti negativi dell’uso di antibiotici (effetti collaterali, aumento delle resistenze) abbiano un impatto maggiore rispetto agli effetti dei pochi casi di malattia reumatica.

L’utilizzo del RADT, più o meno combinato a score clinici, porta a una riduzione delle prescrizioni per infezione delle prime vie respiratorie del 20-30% [28]; per cui la sensibilità e la specificità media dei RADT è sufficiente per evitare l’uso inappropriato di antibiotici [29]. A questo però dobbiamo associare una corretta selezione dei pazienti da sottoporre al test, per ridurre il numero di isolamenti in pazienti portatori.

3) Corretta selezione del paziente da trattare

La corretta identificazione del paziente a cui deve essere prescritta la terapia antibiotica è il punto cruciale per l’ottimizzazione della terapia antibiotica per faringotonsillite. Alcune categorie di pazienti devono essere escluse fin dall’inizio dal percorso di valutazione:

• pazienti di età inferiore a 3 anni: il rischio di sviluppare la malattia reumatica è così basso da essere trascurabile;

• individui asintomatici;

• pazienti con sintomi suggestivi di infezione virale (coriza, congiuntivite, raucedine, tosse, stomatite anteriore, lesioni orali ulcerative discrete o diarrea);

• contatti asintomatici;

• pazienti che hanno terminato il ciclo antibiotico per faringotonsillite.

Una nota a sé per i contatti, anche asintomatici, con alto rischio di complicanze [Tabella 3]: è opportuno valutare caso per caso l’esecuzione di RADT.

Quale terapia?

La stessa Cochrane del 2023 riporta inoltre che non esiste alcun vantaggio nell’utilizzo dei macrolidi rispetto all’amoxicillina: come già menzionato, l’isolamento di ceppi di SBEGA re-

sistente ai macrolidi secondo il report del 2022 sulle resistenze in Emilia-Romagna su campioni di materiale purulento/ essudati è di circa il 26% [12]. I macrolidi dovrebbero quindi essere limitati ai casi di comprovata allergia alle penicilline e previa valutazione dell’antibiogramma.

1) Amoxicillina

La letteratura in generale, come i documenti considerati, sono concordi nel considerare l’amoxicillina la molecola di scelta per la terapia della faringotonsillite da SBEGA, con l’importante caratteristica di appartenere alla categoria Access [30] Tuttavia le indicazioni dei documenti considerati, che riflettono la variabilità presente in letteratura, differiscono in termini di dosaggio e durata.

Il documento SIP 2023 indica uno schema da 50 mg/kg/die in due somministrazioni oppure 40 mg/kg/die in 3 somministrazioni. Come detto in precedenza, questo documento classifica l’Italia come un Paese a medio rischio per malattia reumatica: di conseguenza la durata è prevista di 10 giorni. Il dossier Emilia-Romagna concorda con il dosaggio consigliato di 50 mg/kg/die in 2 somministrazioni. Per quanto riguarda la durata, il documento abbraccia l’ipotesi che gli aumenti del numero di casi di malattia reumatica in Italia siano dovuti più a oscillazioni annuali per aumentata circolazione di ceppi più reumatogeni: per questo motivo consiglia una durata della terapia di 6 giorni.

Il documento AWaRe si discosta dagli altri indicando come dosaggio 80-90 mg/kg/die in 2 somministrazioni; in merito alla durata indica 5 giorni per i Paesi a bassa incidenza di malattia reumatica e 10 giorni per i Paesi ad alta incidenza. Non si esprime sulla classificazione dell’Italia in una o l’altra categoria.

2) Cefalosporine

Alcuni lavori hanno riportato una maggior efficacia delle cefalosporine per ottenere l’eradicazione dello SBEGA; l’uso però di antibiotici ad ampio spettro si assocerebbe a un aumento degli eventi non desiderati quali resistenze antibiotiche ed effetti collaterali [30]. Per questo motivo le cefalosporine non sono indicate come terapia di I linea.

Il documento SIP 2023 riporta che “In assenza di altre indicazioni (recidive, fallimento terapeutico) o in assenza di controindicazioni all’amoxicillina, non è raccomandata la terapia antibiotica con amoxicillina-acido clavulanico, cefalosporine e macrolidi”.

Il dossier Emilia-Romagna cita l’utilizzo delle cefalosporine per pazienti che abbiano presentato una reazione allergica non di tipo I. Non vi sono indicazioni in termini di dosaggio o durata.

Il Manuale AWaRe cita come seconda linea la Cefalexina, una cefalosporina di I generazione, orale, appartenente alla categoria Access.

L’indicazione quindi all’utilizzo delle cefalosporine rimane quindi, in tutti i documenti, limitata a casi specifici.

3) Macrolidi

L’utilizzo dei macrolidi non è indicato come terapia empirica di I linea nel trattamento della faringotonsillite da SBEGA a causa dell’aumento di ceppi resistenti. Il report dell’EmiliaRomagna sulle resistenze locali del 2022, riporta che il 26% degli isolamenti di S. pyogenes su materiale purulento/essudati è risultato resistente all’eritromicina [12]. Secondo la classificazione AWaRe azitromicina e claritromicina rientrano nella categoria Watch, da non utilizzare quindi come prima linea se non in casi selezionati.

Come per le cefalosporine, il documento SIP 2023 limita l’utilizzo dei macrolidi a quelle condizioni di controindicazioni all’amocixillina (allergia) o per recidive e fallimenti terapeuti-

QUADERNI ACP 2/2024 55 FORMAZIONE A DISTANZA

ci. Riporta però che, in considerazione dell’alto tasso di resistenze, è indicato l’utilizzo di azitromicina a dosaggio aumentato (20 mg/kg/die in 1 somministrazione) per 3 giorni.

Il dossier Emilia-Romagna indica genericamente l’utilizzo di macrolidi, senza dare indicazione su quale molecola, a quale dosaggio e per quale durata.

Il Manuale AWaRe riporta i macrolidi come seconda scelta. Specifica, infatti, che in contesti a elevata prevalenza di resistenza dello S. pyogenes la claritromicina non deve essere utilizzata come terapia empirica. Nel caso in cui fosse necessario il suo utilizzo (allergia di I tipo all’amoxicillina) è raccomandato un dosaggio di 15 mg/kg/die in 2 somministrazioni. L’azitromicina può essere presa in considerazione, in alternativa alla claritromicina, quando quest’ultima non è disponibile; vi sono però crescenti preoccupazioni in merito alla potenziale comparsa e diffusione di antibiotico-resistenza a causa della sua lunga emivita [4]. Quale che sia tra i due la molecola prescritta, la durata indicata è di 5 giorni.

La gestione della faringite da SBEGA rimane un problema ancora aperto e discusso in termini di identificazione corretta dei pazienti e appropriatezza di trattamento antibiotico, progressivamente ridimensionato.

Conclusioni

L’armonizzazione delle linee guida è sempre un difficile obiettivo, data l’importanza di avere indicazioni operative il più univoche possibili.

Se nel caso dell’otite media acuta le differenze appaiono modeste, diversa e variegata è la posizione dei diversi documenti nei riguardi della faringite acuta.

Una recente revisione [31] di confronto tra le diverse linee guida nazionali e internazionali evidenzia le problematiche connesse alle diverse interpretazioni dei dati. La questione non è di facile soluzione e probabilmente saranno necessari ulteriori studi per identificare la migliore strategia per i singoli problemi, dato che in particolare per la faringite streptococcica sarebbero necessari una rilevazione epidemiologica italiana più generale e studi sulla dose e la durata del trattamento suggerito.

La bibliografia di questo contributo è consultabile online.

QUADERNI ACP 2/2024 56 FORMAZIONE A DISTANZA
melodiearico@gmail.com
Figura 3. Schede riassuntive faringite [4].

“Nella vita non c’è niente da temere, solo da capire.

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QUADERNI ACP 2/2024 57 INFOGENITORI

La chiarezza morale del direttore

della WHO: coscienza morale

della comunità sanitaria globale

Che le vostre scelte riflettano le vostre speranze, non le vostre paure.

Sul numero di Lancet di novembre 2023 Richard Horton pubblica un articolo dal titolo La chiarezza morale del direttore della WHO e lo conclude scrivendo: “ Ha ridefinito l’idea di leadership etica”. La frase di Horton descrive molto bene la posizione assunta dal direttore generale della WHO, Tedros Adhanom Ghebreyesus sul conflitto Israele-Palestina. La promozione della pace non può non interessare e coinvolgere chi promuove il diritto alla salute. Bisogna partire da questa riflessione per acquisire la consapevolezza di quanto la pace sia strettamente connessa con il diritto alla salute. Non è necessario vivere a stretto contatto di un conflitto per capirne l’enorme impatto sulla salute in particolare delle bambine e dei bambini.

In base alla Carta di Ottawa la pace è il primo dei prerequisiti fondamentali per la salute. Ne seguono poi altri quali il diritto a una abitazione, l’istruzione, il cibo, un reddito, un ecosistema stabile, le risorse sostenibili, la giustizia sociale e l’equità. Tutti fattori egualmente compromessi o distrutti dalla guerra, con effetti che perdureranno ben oltre la cessazione delle ostilità e che incidono fortemente sullo sviluppo di una bambina o di un bambino. Il Conflict data program della Università di Upsala (UCDP), è un programma di collezionamento ed elaborazione di dati sui conflitti armati nel mondo. L’UCDP evidenzia come nel mondo assistiamo a 55 conflitti armati in atto, 8 guerre e 22 conflitti divenuti internazionali e come allo stesso tempo si riduce lo spazio per gli interventi sanitari di urgenza. Il report segnala un aumento del 97% delle morti provocate dalla violenza organizzata a partire dalla invasione russa in Ucraina. Abbiamo visto le immagini dell’Ucraina che si sono ripetute nel conflitto israelo-palestinese a Gaza, come se i presidi sanitari fossero diventati obiettivi da centrare e non da preservare nonostante tutto. Come pediatre e pediatri, operatori sanitari, ma anche e principalmente come associazioni e comunità della salute globale non possiamo non far sentire la nostra voce e prendere una ferma posizione. Le più importanti riviste mediche internazionali hanno pubblicato un editoriale comparso su JAMA a luglio 2023 in cui si invitavano le associazioni delle professioni sanitarie di tutto il mondo a informare i propri membri e sostenere ogni sforzo per ridurre i rischi di una guerra nucleare, tra cui anche quelli non intenzionali e provocati da errori. L’editoriale di JAMA si apre con una dichiarazione del segretario generale dell’O -

NU António Guterres in cui afferma che il mondo si trova ora in “un’epoca di pericolo nucleare che non si vedeva dall’apice della Guerra Fredda”. Il pericolo è stato sottolineato dalle crescenti tensioni tra molti stati dotati di armi nucleari. In qualità di redattori di riviste mediche e sanitarie di tutto il mondo, le società internazionali firmatarie dell’editoriale su JAMA invitano i professionisti della salute ad allertare l’opinione pubblica e i propri leader su questo grave pericolo per la salute pubblica e per i sistemi essenziali di supporto alla vita del pianeta – e a sollecitare un’azione per prevenirlo. Il ruolo del direttore generale della WHO è sia tecnico che amministrativo, ma, come scrive Horton, Tedros Adhanom Ghebreyesus ha aggiunto una nuova dimensione al suo ruolo, quella di coscienza morale della comunità sanitaria globale, richiamando con forza e perseveranza l’attenzione sulle innumerevoli e ingiustificate morti dei bambini di Gaza e sulla crudele detenzione e i recenti assassini di alcuni ostaggi israeliani da parte di Hamas. Numerosi sono gli articoli comparsi sul New York Times dal mese di ottobre 2023, inizio della guerra, a oggi, a opera del direttore della WHO. Tra i primi quello del 16 ottobre 2023, poco dopo l’inizio del conflitto, dove si descriveva la situazione dell’ospedale Al-Shifa, la più grande struttura sanitaria della Striscia di Gaza, emblematico della catastrofe umanitaria in atto. Già sottorganico e sovraffollato, ospitava migliaia di persone che hanno cercato rifugio dai bombardamenti aerei israeliani piovuti sui loro quartieri dopo gli orribili e ingiustificati attacchi di Hamas contro i civili israeliani del 7 ottobre. Scrive Tedros Adhanom Ghebreyesus: “L’ospedale di Al-Shifa è sempre stato sottoposto a una tensione tremenda. Quando l’ho visitato nel 2018, ho incontrato pazienti e operatori sanitari e ho visitato un’unità di dialisi e un reparto di terapia intensiva neonatale, pieno di neonati in incubatrice. La loro timida presa sulla vita era sostenuta da generatori diesel che alimentavano l’ospedale quando mancava l’elettricità, come accadeva per diverse ore ogni giorno. Il personale, i pazienti e le loro famiglie dovevano affrontare scelte difficili ogni giorno. Con l’assenza di elettricità e l’esaurimento del carburante a Gaza, entro pochi giorni i generatori degli ospedali si spegneranno e le incubatrici, le macchine per la dialisi e altre apparecchiature mediche salvavita si spegneranno. Molti dei pazienti più critici, compresi i neonati, la cui vita è appena iniziata, probabilmente moriranno. Il tentativo di spostarli è altrettanto pericoloso. La scarsità d’acqua è una grave preoccupazione per i pazienti in difficoltà, soprattutto per i neonati”.

Tedros Adhamanos Ghebreyesus ha ricordato le sue esperienze legate alla guerra: “Da bambino intrappolato nelle ombre della guerra, ne conoscevo intimamente l’odore, i suoni e le immagini. Provo profonda empatia con coloro che ora si trovano nel mezzo di un conflitto, sentendo il loro dolore come se fosse il mio.” Questa empatia, che nasce da un vissuto personale, e che coraggiosamente Ghebreyesus eleva al di sopra dei ragionamenti tecnici, politici, bellici, economici e strategici che guidano tutte le decisioni, dovrebbe far riflettere tutte e tutti coloro che operano in ambito sanitario. Con forza ha censurato l’aumento dell’antisemitismo e dell’islamofobia insistendo per il rilascio immediato degli ostaggi. In diversi contesti ha espresso disperazione e rabbia per la situazione sanitaria: “Gli ospedali non sono campi di battaglia”. “Sono senza parole per questa tragedia”, ha scritto il 24 ottobre sempre sul New York Times. Ha intensificato i suoi appelli per un cessateil fuoco umanitario, invece “dell’attuale realtà del cessate-il cibo, cessate-l’acqua, cessate-il carburante, cessate-l’assistenza sanitaria imposti agli abitanti di Gaza”.

Grebeyesus è sempre tornato all’attacco chiedendo il rilascio immediato e protetto degli ostaggi presi da Hamas e ha fatto appello affinché da entrambe le parti si rispettino gli obblighi previsti dal diritto umanitario internazionale. Turbato

QUADERNI ACP 2/2024 58 OSSERVATORIO INTERNAZIONALE

e frustrato dai ritardi e dal silenzio in risposta alle sue parole nel richiedere l’accesso umanitario il 18 ottobre scrive: “Ogni secondo che aspettiamo per far arrivare gli aiuti medici, perdiamo delle vite... Dobbiamo fermare la violenza da tutte le parti”. “I proiettili e le bombe non sono la soluzione alla situazione tra Palestina e Israele”.

20 ottobre: “Rabbia, rabbia, ingredienti di guerra che producono solo distruzione e orrore”.

Il 21 ottobre sono entrati a Gaza aiuti limitati: “Dato il livello di distruzione”, ha scritto Tedros, “questo è ben lungi dall’essere sufficiente”. Le parole del direttore della WHO non sono state ascoltate e i bombardamenti su Gaza sono continuati con migliaia di morti civili, tra cui tanti bambini e bambine. Oggi l’UNICEF stima che almeno 17.000 bambini nella Striscia di Gaza siano non accompagnati o separati. Il futuro di queste bambine e bambini sarà per sempre compromesso dal trauma profondo da loro vissuto.

Non riesco a ricordare che un direttore generale della WHO abbia criticato uno Stato membro con tale forza, scrive Horton, evidenziando come Tedros “è stato la coscienza morale della comunità sanitaria mentre guardavamo Gaza diventare un cimitero di bambini e vedevamo gli ostaggi israeliani crudelmente tenuti da Hamas. La sua è stata una voce di principio, al di sopra della rissa degli interessi e dei compromessi politici nazionali”.

Il 27 dicembre 2023 l’Accademia Americana di Pediatria ha pubblicato un documento del consiglio direttivo: Protecting Children and Condemning Hate During a Time of War dove si condannano gli atti di violenza e di odio sottolineando che tutti i bambini e le bambine meritano un sostegno incondizionato. “Usiamo la nostra piattaforma come la più grande organizzazione pediatrica del mondo per parlare contro la violenza, l’odio, l’antisemitismo, l’islamofobia e l’inimicizia verso gli ebrei, i musulmani, gli israeliani e i palestinesi e per parlare a nome di tutti i bambini e le bambine che soffrono nei conflitti armati”, si legge nel documento, che è stato firmato da tutti i membri del consiglio di amministrazione dell’AAP. Il documento amplia la dichiarazione politica del 2018 sugli effetti dei conflitti armati sui bambini evidenziando inoltre l’opposizione dell’AAP alla persecuzione religiosa e all’aumento degli episodi di violenza e intimidazione nei confronti di ebrei, musulmani, e persone legate a Israele o alla Palestina negli USA:

• I bambini non devono mai essere danneggiati a causa delle credenze e dei valori religiosi, culturali e di altro tipo del bambino o bambina e/o della sua famiglia.

• Il danno ai bambini e alle bambine non dovrebbe mai essere usato come strumento o tattica di guerra o di conflitto.

• I bambini e le bambine devono essere protetti dagli effetti diretti dei conflitti armati e devono essere salvaguardate le loro esigenze alimentari, abitative, sanitarie e di altro tipo. L’Associazione Culturale Pediatri nel 2022 ha collaborato alla stesura del documento prodotto da AIE per la pace (Associazione Italiana di Epidemiologia) contro la guerra. Un documento nato dalla collaborazione di diverse società e associazioni scientifiche, in cui si condivide e si riafferma con forza la condivisione di quanto sostenuto dalla Carta di Ottawa. Il documento congiunto sottolinea inoltre il rischio grave per la salute delle popolazioni legato alle minacce crescenti d’utilizzo di ordigni nucleari.

Il Trattato di non proliferazione delle armi nucleari (TNP) impegna ciascuna delle 190 nazioni partecipanti “a perseguire negoziati in buona fede su misure efficaci relative alla cessazione della corsa agli armamenti nucleari in tempi brevi e al disarmo nucleare, e su un trattato sul disarmo generale e completo sotto un rigoroso ed efficace controllo internazionale”. Tuttavia l’ultima conferenza di revisione del TNP nel 2022, si è conclusa senza una dichiarazione concordata. Ci sono molti

esempi di disastri sfiorati che hanno messo in luce i rischi di dipendere dalla deterrenza nucleare per un futuro indefinito. Oggi più che mai la comunità sanitaria, che ha avuto un ruolo cruciale negli sforzi per ridurre il rischio di guerra nucleare, deve continuare a farlo. Negli anni ’80 gli sforzi degli operatori sanitari, guidati dall’International Physicians for the Prevention of Nuclear War (IPPNW), hanno contribuito a porre fine alla corsa agli armamenti della Guerra Fredda, educando i responsabili politici e l’opinione pubblica su entrambi i lati della Cortina di Ferro sulle conseguenze mediche della guerra nucleare. Questo è stato riconosciuto quando il Premio Nobel per la Pace 1985 è stato assegnato all’IPPNW. Nel 2007, l’IPPNW ha lanciato la campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari, che è cresciuta fino a diventare una campagna globale della società civile con centinaia di organizzazioni partner. Un percorso per il quale la campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari ha ricevuto il Premio Nobel per la pace 2017.

In un documento congiunto si scrive: “Chiediamo di lavorare per porre definitivamente fine alla minaccia nucleare, sostenendo l’avvio urgente di negoziati tra gli Stati dotati di armi nucleari per un accordo verificabile e limitato nel tempo per eliminare le loro armi nucleari in conformità con gli impegni assunti nel TNP… Il pericolo è grande e crescente. Gli Stati armati di armi nucleari devono eliminare i loro arsenali nucleari prima di eliminare noi”.

Nel suo bilancio relativo al 2023 il direttore della WHO sottolinea i tanti risultai ottenuti a partire dalla fine della pandemia, alla abolizione di molte malattie tropicali trascurate, alla diffusione del vaccino anti HPV in 30 Paesi, all’ultimo miglio verso l’eradicazione della poliomielite, ma sottolinea anche come il 2023 è stato un anno di sofferenze e minacce alla salute immense ed evitabili.

Bibliografia

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QUADERNI ACP 2/2024 59 OSSERVATORIO INTERNAZIONALE
presidente@acp.it

Disturbi del neurosviluppo e arricchimento ambientale: possiamo implementare il modello italiano?

1 Dipartimento di Neuroscienze dell’Età Evolutiva, IRCCS Stella Maris, Pisa

2 Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università di Pisa

3 Gruppo Salute Mentale ACP

Negli ultimi anni si è assistito a un aumento delle diagnosi di disturbo del neurosviluppo e questo sembra essere in parte legato all’incremento della sensibilità diagnostica correlata a sua volta a una maggiore attenzione a quelli che sono i campanelli d’allarme che permettono di individuare precocemente il manifestarsi del disturbo. Dall’altro lato la letteratura scientifica degli ultimi decenni ha evidenziato l’importanza dell’arricchimento ambientale sullo sviluppo del bambino in tutte le sue componenti (fisico-motoria, sociale-interattiva, cognitiva) agendo come fattore neuroprotettivo nello sviluppo sia tipico che atipico. La possibilità di formulare precocemente un dubbio diagnostico [1] costituisce prerequisito fondamentale per l’attuazione di un progetto terapeutico tempestivo che possa sfruttare i “periodi critici”, cioè quelle particolari finestre temporali in cui la maggiore sensibilità dei circuiti neuronali agli stimoli ambientali rendono massimo l’effetto dell’arricchimento ambientale in termini sia di sviluppo che di recupero funzionale. Proprio perché l’ambiente acquisisce un ruolo fondamentale, la presa in carico dovrà considerare non solo il bambino ma anche il contesto in cui egli vive, rivolgendosi in particolare ai genitori o, in modo più generale, ai caregiver (Family Centered Care) [2,3].

La riflessione di partenza che ha ispirato la composizione di questo articolo è domandarci se il nostro sistema sanitario possa rispondere in modo adeguato alla “pandemia” del neurosviluppo, accogliendo i concetti di prevenzione primaria, diagnosi precoce e intervento tempestivo centrato sulla famiglia In questo articolo cercheremo di mettere in luce brevemente le risorse del nostro SSN, riflettendo sulle sue potenzialità e su cosa potrebbe essere utile implementare portando come esempio alcune esperienze concrete che traggono nutrimento dalla ricerca e/o da associazioni di promozione sociale.

La struttura del SSN italiano, accogliendo il modello biopsicosociale e basandosi sulla sinergia della rete dei professionisti, rappresenta un’esperienza unica nel suo genere paragonata ad altre realtà sanitarie (europee e non). Il concetto di arricchimento ambientale è intrinseco alla nostra pratica clinico-sanitaria e rappresenta un approccio costruito negli anni mediante l’esperienza delle tante figure professionali che ruotano intorno al bambino e alla sua famiglia.

Il pediatra di famiglia rappresenta il primo responsabile della promozione e della salvaguardia della salute dei bambini e ha la possibilità di conoscere e riconoscere malattie, situazioni di povertà e disagio sociale all’interno dei bilanci di salute, che rappresentano un momento ideale per poter effettuare interventi di prevenzione primaria essenziali per stimolare e rafforzare i legami affettivi genitore-bambino, come la promozione dell’allattamento materno, il massaggio infantile, l’accudimento abilitativo, la lettura ad alta voce e l’ascolto del canto e della musica.

La ricca rete di professionisti che collabora con il pediatra di famiglia (medici degli adulti, ginecologi e ostetriche afferenti o meno ai consultori, neonatologi) hanno la possibilità di entrare in contatto precocemente con il bambino e la sua famiglia rendendo concreto il concetto di arricchimento ambientale attraverso azioni preventive che possono estendersi anche a molto tempo prima del concepimento (per esempio promuovendo uno stile di vita sano negli adolescenti/giovani adulti, incentivando bilanci ginecologici preconcezionali, favorendo attività di promozione del benessere della gestante e quindi del nascituro come l’ascolto della musica e l’attività fisica in gravidanza).

Anche i servizi territoriali o ospedalieri accolgono nella loro organizzazione i concetti sopra descritti: all’interno dell’équipe multidisciplinare troviamo figure professionali altamente specializzate sull’età evolutiva, la cui expertise si concretizza proprio in un approccio globale integrato che mette in primo piano il concetto di arricchimento ambientale, intrinseco alla ri-abilitazione. In particolare, l’esperienza italiana si contraddistingue proprio per la presenza di due profili professionali pressoché unici nel contesto internazionale, ovvero il neuropsichiatra infantile (NPI) e il terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva (TNPEE) [4]. Se da un lato il NPI rappresenta il coordinatore degli interventi e degli operatori che prendono parte al progetto ri-abilitativo del bambino e rappresenta il garante della globalità e multidisciplinarietà dell’approccio, il TNPEE è l’unico professionista dell’area della riabilitazione che si forma sull’età evolutiva per l’intero corso di studi svolgendo in età precoce, pediatrica ed evolutiva interventi di prevenzione, abilitazione e riabilitazione quando sono presenti atipie, ritardi o disturbi dello sviluppo. L’interesse per questa professione è cresciuto negli ultimi anni e ne è esempio anche una recente iniziativa patrocinata da ANUPI TNPEE, Federazione Nazionale degli Ordini TSRM e PSTRP e diverse società scientifiche (SICuPP, SIN, SINPIA) volta a far conoscere la professione del TNPEE attraverso un corso di formazione in modalità FAD con lo scopo di divulgare l’importanza della professione a quanti hanno in carico l’età evolutiva in ambito sanitario.

Quest’architettura del modello di cure del SSN italiano nei disturbi del neurosviluppo appare, almeno sulla carta, improntato a una visione moderna della presa in carico del bambino e della sua famiglia, e adatto, ab origine, a una visione olistica dell’approccio abilitativo al disturbo neuropsichico in età evolutiva. In questo contesto, appaiono come espressione diretta di questa matrice culturale, esperienze relativamente recenti come l’Osservatorio Nazionale Autismo [5] promosso dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e coordinato da Maria Luisa Scattoni che ho lo scopo di promuovere interventi finalizzati a garantire la tutela della salute, il miglioramento delle condizioni di vita e l’inserimento nella vita sociale delle persone nello spettro autistico. Strettamente connesso con questo, ma a livello regionale, è il progetto NET-AUT, che nasce dall’accordo tra Regione Toscana e ISS e ha lo scopo di istituire una rete di coordinamento territoriale tra le unità operative di neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza delle aziende sanitarie, il Centro Pivot della IRCCS Fondazione Stella Maris, i pediatri di famiglia, i servizi educativi per la prima infanzia e le unità

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di neonatologia, finalizzata ad anticipare la diagnosi e l’intervento attraverso la sorveglianza della popolazione generale e ad alto rischio insieme a programmi di formazione specifici per il riconoscimento, la valutazione e l’intervento precoce dei disturbi dello spettro autistico.

Queste esperienze, tra l’altro, hanno l’obiettivo di rappresentare un ponte tra la dimensione più tipicamente assistenziale a quella della scuola e, più in generale, della dimensione sociale. In questo ambito, però, il nostro Paese appare meno equipaggiato a gestire quella che potremmo definire come l’estensione nel sociale dell’esperienza di arricchimento ambientale, manifestando disomogeneità e spesso vera e propria arretratezza nei processi di inclusione e di promozione della partecipazione sociale verso il bambino con disabilità. Per fortuna, negli ultimi anni abbiamo assistito al fiorire di iniziative che vanno in questa direzione e può valere la pena in questo contesto citarne alcune a esempio, basandoci sulla nostra esperienza diretta e per questo necessariamente in modo circoscritto e per nulla esaustivo. Per quanto riguarda la nostra realtà locale vogliamo menzionare tre associazioni che nascono da bisogni diversi e reali della popolazione e che si avvalgono dell’esperienza di esperti e del sostegno delle famiglie.

Tarta-Blu è un’Associazione di Promozione Sociale (APS) che opera nel vasto territorio della Valdera, Volterra e Alta Val di Cecina e ha lo scopo di migliorare la qualità della vita di bambini/ragazzi con disturbo dello spettro autistico con iniziative rivolte ai ragazzi stessi come l’introduzione allo sport, alle famiglie come spazi di sostegno/ascolto da parte di esperti e ai servizi educativi come il progetto “Autismo non ti temo”. In particolare per questo progetto sono stati realizzati percorsi formativi dedicati alle educatrici della prima infanzia (asilo nido-scuola materna) attraverso l’utilizzo del manuale Campanelli Verdi e Rossi [1] e per i pediatri un corso sulle strategie di osservazione da applicare durante i bilanci di salute e un apposito corso sulla metodica SACS con la collaborazione di esperti come la psicologa Costanza Colombi. Per quanto riguarda la prevenzione primaria sarà coinvolta la popolazione dei due territori in incontri di informazione sull’importanza dei primi mille giorni di vita. Giardini delle mamme nasce sul territorio pisano come un servizio di assistenza all’infanzia con corsi, ambulatori e incontri per preparare i futuri genitori alla nascita di un figlio e accompagnarli nei primi anni

di vita del bambino. Tale servizio nasce come risposta concreta al bisogno di tanti futuri genitori e prende vita dall’incontro di quattro diverse professionalità: il pediatra Massimo Soldateschi, la neonatologa Laura Bartalena, l’ostetrica Vanna Bronzini, l’architetto Elisa Bifano. Sempre a Pisa, l’associazione Eppursimuove nasce invece come ente senza scopo di lucro, per volontà di un sodalizio tra la neuropsichiatra Stefania Bargagna, terapisti e famiglie, che propone attività ludiche motorie per bambini e giovani adulti con varie disabilità, anche gravissime.

Il nostro Paese è disseminato da esperienze simili, ed è certamente possibile intravedere un futuro in cui quella che abbiamo definito come la componente sociale dell’arricchimento ambientale possa essere naturalmente rinvigorita, in analogia con quanto già è possibile osservare ad altre latitudini (basti pensare ai paesi scandinavi). Certamente questo processo potrà essere incentivato da investimenti sempre maggiori di risorse pubbliche e private, ma siamo convinti che una forte spinta sarà rappresentata dalla crescente consapevolezza delle famiglie dei bambini con disabilità del loro ruolo nel progettare una società più moderna e inclusiva, in cui il bisogno di arricchimento ambientale troverà sempre più frequentemente nutrimento al di fuori del contesto di cura.

Bibliografia

1. Screening precoce e diagnosi per l’autismo: manuale Campanelli Verdi e Rossi, https://www.youtube.com/watch?v=LNESdcrbjhw.

2. Pecini C, Brizzolara D. Disturbi e traiettorie atipiche del neurosviluppo. McGraw-Hill Education, 2020.

3. Raccomandazioni della linea guida sulla diagnosi e sul trattamento del disturbo dello spettro autistico in bambini e adolescenti, ottobre 2023, https://www.iss.it/documents/20126/8977108/Linea+Guida+ASD_bambini+e+adolescenti+2023.pdf/e370f693-d5694490-6d51-8e249cd152b0?t=1696841617387.

4. Il Manifesto del TNPEE a cura della Commissione d’albo Nazionale TNPEE con il patrocinio di ANUPI TNPEE e AITNE, https://www. tsrm-pstrp.org/wp-content/uploads/2023/06/POSTER-TNPEE.pdf.

5. Osservatorio nazionale autismo, https://osservatorionazionaleautismo.iss.it/.

a.guzzetta@fsm.unipi.it

QUADERNI ACP 2/2024 61 SALUTE MENTALE

Disturbi dello spettro autistico e accesso ai servizi sanitari per le famiglie immigrate

Giovanni Giulio Valtolina1,2, Maria Luisa Gennari1, Giancarlo Tamanza1

1 Dipartimento di Psicologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano

2 Società Italiana di Psicologia Pediatrica (SIPPED)

Le famiglie migranti spesso presentano condizioni di salute peggiori rispetto a quelle degli autoctoni, a causa delle difficoltà di accesso e di engagement nei servizi sanitari. I bambini provenienti da contesti migratori che presentano un disturbo dello spettro autistico (ASD) sono in genere diagnosticati in età più avanzata rispetto ai bambini autoctoni e quelli i cui genitori non parlano adeguatamente la lingua del Paese ospitante ricevono meno attenzione e meno possibilità di cura. Lo studio mira a identificare gli ostacoli principali che impediscono alle famiglie immigrate con un bambino autistico di accedere ai servizi sanitari. Abbiamo intervistato 36 genitori di bambini con ASD, che vivono in Italia da più di 8 anni. Le principali difficoltà rilevate includono la mancata conoscenza della lingua italiana, una limitata alfabetizzazione sanitaria e incomprensioni nell’implementazione di pratiche educative utili al figlio, a causa della diversa tradizione culturale di appartenenza.

Migrant families often have worse health conditions due to difficulties in access and engagement in healthcare services. Children from migrant backgrounds with autism spectrum disorder (ASD) are typically diagnosed at a later age than non-migrante children, and those whose parents do not adequately speak the language of the host country receive less attention and fewer treatment options. The study aims to identify the main barriers that prevent immigrant families with an autistic child from accessing health services. We interviewed 36 parents of children with ASD who have been living in Italy for more than 8 years. The main difficulties noted include lack of knowledge of the Italian language, limited health literacy, and misunderstandings in the implementation of educational practices that are useful to their child, due to their different cultural backgrounds.

Introduzione

Le famiglie immigrate, in tutti i Paesi d’accoglienza, hanno grandi difficoltà nell’accesso all’assistenza sanitaria, a causa di diversi ostacoli, il più importante dei quali è la conoscenza linguistica [1]. Infatti, come mostrano numerosi studi [2], gli immigrati che non parlano la lingua del Paese ospitante hanno livelli di stress e di ansia più elevati e risultano affetti da condizioni di salute peggiori dei nativi.

Come noto da tempo [3], i principali fattori di stress sperimentati dai migranti includono sia le esperienze precedenti la partenza dal proprio Paese d’origine (povertà, morte di familiari, persecuzione, incarcerazione [4]), sia quelle vissute durante il viaggio migratorio (come, per esempio, maltrattamenti, tor-

ture, stupri, riduzione in schiavitù), sia quelle affrontate nel Paese d’accoglienza (il processo di acculturazione, in primis, ma anche le condizioni di vita precarie in centri di accoglienza sovraffollati, la discriminazione, la mancanza di familiari).

Queste esperienze si qualificano come eventi traumatici e non sorprende quindi il fatto che i migranti abbiano una probabilità dieci volte maggiore rispetto alla popolazione dei Paesi ospitanti di soffrire di stress post-traumatico (PTSD), come avviene in Italia [5].

Oltre ai fattori di stress generati dal processo migratorio in sé, i genitori migranti con figli disabili sono soggetti a un ulteriore livello di stress [6]. Un recente indagine, per esempio, ha rilevato che il 18,6% dei genitori di bambini con ASD soddisfaceva i criteri per una diagnosi di PTSD, rispetto allo 0,01% dei genitori di bambini con sviluppo tipico [7]. Lo stress derivante dalla migrazione e dal prendersi cura di un bambino con una disabilità fa sì che i caregiver di questi bambini siano più a rischio di sviluppare problematiche legate alla salute mentale [8].

Una popolazione particolarmente a rischio risulta essere quella dei genitori di figli con un disturbo dello spettro autistico (ASD). Infatti, nei Paesi occidentali, anche grazie al fatto che l’identificazione precoce dell’ASD e l’intervento tempestivo portano a un miglioramento delle performance, i genitori di bambini con ASD sperimentano livelli di stress più bassi rispetto ad altri Paesi [9]. I bambini con ASD nati da genitori migranti vengono sottoposti a valutazioni diagnostiche molto più tardi rispetto a quelli nati da genitori non migranti e il fatto che i genitori non abbiano o abbiano una conoscenza limitata della lingua del Paese ospitante fa sì che probabilmente ricevano meno supporti e abbiano minori probabilità di avere programmi riabilitativi comprendenti obiettivi di abilità sociale e di comunicazione rispetto a genitori autoctoni [10]. Questa disparità comporta performance più scarse nei bambini con ASD figli di genitori migranti, contribuendo a generare livelli di stress più elevati in questi genitori. Data la comprovata associazione tra stress e condizioni psichiche dei migranti, ridurre la disparità di trattamento tra bambini con ASD figli di migranti e bambini figli di nativi è una questione rilevante, che non dovrebbe essere ignorata.

Per ridurre tale disparità, è fondamentale conoscere i principali ostacoli che i genitori stranieri incontrano nell’accesso ai servizi sanitari per i loro figli affetti da autismo. Poiché sono molto poche le ricerche che a oggi hanno indagato questi elementi di difficoltà, il presente studio – finanziato dalla Fondazione ISMU ETS (Iniziative e Studi sulla Multietnicità Ente del Terzo Settore) di Milano – ha avuto come obiettivo primario quello di ricavare indicazioni utili alla pratica clinica, identificando le aree in cui operare, per migliorare i programmi di riabilitazione dei bambini stranieri con ASD e favorire la compliance dei genitori.

Materiale e metodi

È stata utilizzata una metodologia di ricerca qualitativa e sono state effettuate delle interviste in profondità, caratterizzate da bassa direttività e bassa standardizzazione, a 36 genitori (18 coppie) di diverse nazionalità, con almeno due figli, di cui uno con ASD. I genitori, tutti volontari, sono stati individuati su segnalazione di alcune associazioni di stranieri immigrati, presenti nella città di Milano. I genitori, tutti primo migranti e in possesso di regolare permesso di soggiorno, provenivano da: Senegal (2 coppie), Congo (2 coppie), Mali (1 coppia), Ecuador (3 coppie), Perù (2 coppie), Marocco (2 coppie) ed Egitto (2 coppie). L’età media delle madri era di 27,8 anni (DS: 4,1), mentre quella dei padri di 39,8 (DS: 3,9). L’anzianità migratoria era compresa tra gli 8 e gli 11 anni. Nessuna delle madri lavorava, mentre i padri hanno dichiarato di avere almeno un lavoro stabile e retribuito.

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A tutte le interviste è stata presente una mediatrice o un mediatore culturale bilingue, della stessa nazionalità della famiglia intervistata. A entrambi i genitori è stato richiesto di firmare un consenso scritto e l’autorizzazione a registrare l’intervista. Ogni intervista ha avuto una durata non minore di 60 minuti e non maggiore di 95. Le interviste sono state condotte da psicologhe cliniche, con una pluriennale esperienza di lavoro con famiglie immigrate, operanti in alcuni consultori del territorio milanese. Durante l’intervista, i mediatori culturali avevano la possibilità di intervenire, sia per chiedere chiarimenti relativamente alle risposte, sia per facilitare la comprensione delle domande da parte dei genitori. Le interviste sono state condotte presso la sede della fondazione, a Milano. Le verbalizzazioni degli intervistati sono state codificate dai ricercatori, con il supporto dei mediatori che avevano partecipato all’intervista. L’analisi del contenuto è stata condotta utilizzando il software Atlas.ti [11]. Successivamente, i risultati sono stati analizzati secondo i principi della grounded theory, concentrandosi sui significati emersi, evitando di selezionare i dati raccolti sulla base di categorie predefinite.

Risultati

Dall’analisi del contenuto, condotta sulle verbalizzazioni dei genitori intervistati, sono emerse tre principali difficoltà: la scarsa conoscenza della lingua italiana; la mancanza pressoché totale di conoscenza dell’organizzazione sanitaria e delle procedure richieste per l’accesso ai servizi; il divario tra le pratiche educative suggerite dai sanitari e le pratiche comunemente utilizzate dai genitori all’interno della loro cultura.

La scarsa conoscenza della lingua italiana

Il 93% dei genitori intervistati ha evidenziato l’estrema difficoltà di comprendere quanto richiesto o affermato da medici, psicologi o altro personale sanitario con cui era venuti in contatto nei servizi frequentati. Nessuno degli intervistati ha menzionato la presenza di un mediatore o di un interprete (un familiare o un connazionale) presente durante le numerose visite effettuate. Secondo quanto riferito nelle interviste, la mancanza di conoscenza della lingua ha impedito ai genitori di comunicare efficacemente con i sanitari, generando una sensazione di scoramento che ha portato in diversi casi a non aderire pienamente alle prescrizioni indicate al termine della visita. Per esempio, una coppia di genitori congolesi ha raccontato che la loro difficoltà a parlare correttamente italiano li ha portati a non impegnarsi del tutto nelle conversazioni con i medici e gli psicologi. Per questo, sempre secondo loro, gli specialisti hanno dedicato loro un tempo relativamente limitato durante le visite o le sedute terapeutiche e non hanno preso seriamente in considerazione le loro opinioni sulla disabilità del figlio. Oltre a questo, è emerso che talvolta la scarsa conoscenza della lingua ha anche impedito la possibilità di fissare un appuntamento con i sanitari, allungando i tempi di intervento riabilitativo sul figlio. Una madre egiziana ha dichiarato: “Una volta, all’ospedale mi hanno detto che dovevo compilare un foglio per avere appuntamento con dottore. Ma il foglio era tutto scritto in italiano, ma io non so bene italiano. Così l’ho stracciato e sono andata a casa senza fare l’appuntamento”. Sempre relativamente alla conoscenza della lingua italiana, una specifica difficoltà è stata rappresentata anche dalla generale assenza di materiali tradotti, come i moduli di richiesta o gli opuscoli informativi contenenti le indicazioni e i suggerimenti relativi ai comportamenti da tenere col figlio.

La limitata alfabetizzazione sanitaria

L’alfabetizzazione sanitaria si riferisce al “grado di capacità degli individui di ottenere, elaborare e comprendere le informazioni e i servizi sanitari di base, necessari per prendere decisioni appropriate in materia di salute” [12].

La limitata alfabetizzazione sanitaria dei genitori stranieri sembra aver ostacolato in maniera molto rilevante la loro possibilità di ottenere informazioni su come accedere alle prestazioni del servizio sanitario nazionale, spingendoli talvolta a cercare aiuto e supporto presso connazionali, spesso praticanti forme di medicina tradizionale, con inesistenti fondamenti scientifici. Una coppia di genitori centroafricani, per esempio, ha affermato di far riferimento, per la disabilità della figlia, più regolarmente a una figura che potrebbe essere definita come un guaritore, un santone. Il problema della ricerca di rimedi “tradizionali”, tipici della propria cultura d’origine, è troppo complesso per poter essere affrontato in questa sede, ma certamente riveste una rilevanza centrale nel farsi carico delle famiglie appartenenti a tradizioni culturali differenti da quella occidentale, nelle quali è presente un figlio con una disabilità. La difficoltà – burocratica, ma non solo – di accedere ai servizi è emersa in maniera esplicita in quasi tutte le coppie intervistate. Una madre marocchina ha affermato: “Quando sei nuovo in un Paese che non è il tuo, è impossibile trovare tutto quello che ti serve. (…) Perché non si capisce cosa si deve fare, anche se te lo spiegano nella tua lingua. È tutto molto complicato”. Un padre originario del Mali ha osservato: “voi (italiani) siete complicati; per ogni cosa bisogna andare da tante parti, chiedere fogli, scrivere. Non è facile per chi non è come voi. (…) E anche le parole sono difficili… io so l’italiano, ma quando vado per mio figlio non capisco mai cosa mi dice il dottore che ha mio figlio”. Come si può rilevare, non si tratta solo di una mancanza di conoscenze relativamente all’organizzazione dei servizi sanitari, ma anche dell’eccesso di pratiche burocratiche necessarie per accedervi, pratiche spesso impegnative per gli stessi italiani [13].

Il divario tra le pratiche educative occidentali e non occidentali

Nella relazione con i sanitari, le differenze culturali si manifestano sotto forma di disaccordo tra genitori e professionisti, soprattutto su cosa insegnare e su come intervenire per favorire un miglioramento dei comportamenti disfunzionali. Un elemento che rende ancor più difficoltoso il confronto/ scontro tra le diverse pratiche educative è l’impossibilità delle madri di comunicare con i professionisti maschi a causa di motivi religiosi e culturali, in particolar modo per le madri musulmane, che non possono interagire direttamente con un medico di sesso maschile, ma devono necessariamente fare ricorso alla mediazione del marito.

Discussione

Le barriere linguistiche incontrate dai genitori immigrati possono spiegare perché a una minore familiarità con la lingua italiana è sempre stato rilevato, nelle diverse ricerche, un minor numero di ore di servizi per la disabilità fruite dai figli e una minore probabilità di avere nei PEI degli obiettivi legati alle abilità comunicative e sociali. Dato, questo, peraltro rilevato anche in altri contesti nazionali [14]. A questo riguardo, Miller-Gairy e Mofya [15] hanno messo in evidenza come gli operatori sanitari dedichino un tempo relativamente limitato a conversare con i genitori che non parlano bene la lingua degli autoctoni e a tenere in poco conto le loro opinioni. Per contribuire a creare condizioni di equità per i genitori immigrati con un figlio autistico, i servizi sanitari dovrebbero considerare la possibilità di avere a disposizione mediatori culturali che siano in grado di comprendere non solo la lingua, ma anche le particolari esigenze di genitori appartenenti a culture dove la disabilità non è considerata un problema sanitario e dove le pratiche educative sono spesso diametralmente opposte a quelle italiane. Anche i siti web con le informazioni sui servizi necessari per i figli e su come avere accesso a questi dovrebbero essere disponibili in diverse lingue.

QUADERNI ACP 2/2024 63 SALUTE MENTALE

Per quanto riguarda l’“alfabetizzazione sanitaria”, potrebbe essere utile prendere in considerazione l’utilizzo di immagini illustrative [10]. Per esempio, i siti web che spiegano l’organizzazione del sistema sanitario dovrebbero avere anche immagini illustrate, che accompagnano ciascun testo. Anche se il testo è fornito in più lingue, si possono comunque includere immagini illustrative, perché l’alfabetizzazione sanitaria è influenzata da fattori quali l’alfabetizzazione linguistica di base, le conoscenze pregresse e le risorse culturali, fattori che possono mettere molti immigrati in una condizione di svantaggio. Inoltre, le terminologie specifiche del settore sanitario dovrebbero essere evitate, a favore di un linguaggio colloquiale, anche se ciò richiede l’utilizzo di più sforzi e più tempo. Quando è necessario utilizzare una terminologia medica specifica, sarebbe opportuno fornire sempre una definizione chiara del termine. È importante sottolineare che tutti i genitori che sono stati intervistati vivevano, con regolare permesso di soggiorno, da più di otto anni in Italia. Ciò significa che costoro, nonostante il tempo che hanno avuto a disposizione, non sono riusciti a raggiungere un adeguato livello di integrazione, tale da poter fruire appieno dei servizi sanitari offerti per l’educazione e la riabilitazione dei loro figli con ASD.

Conclusioni

Per ridurre gli ostacoli che i genitori migranti devono affrontare nell’accesso ai servizi di cura e di riabilitazione per i loro figlio con ASD, è necessario affrontare, in primis, la questione delle barriere linguistiche e della limitata alfabetizzazione sanitaria. L’erogazione di servizi che possano favorire una vera integrazione dei genitori stranieri passa, inoltre, dalla disponibilità di mediatori culturali, dall’uso di immagini illustrative e, se necessario, anche da uno specifico supporto ai genitori.

A causa delle circostanze, spesso dolorose, precedenti alla migrazione e di quelle sperimentate durante il viaggio migratorio, i migranti infatti possono soffrire di sindrome da stress post-traumatico o di depressione [4]. Se a ciò si aggiunge lo stress derivante dall’accudimento e dalla presa in carico di un bambino con ASD, i genitori migranti di bambini con ASD potrebbero necessitare di un supporto psicologico, quando non psichiatrico. Poiché i genitori immigrati descrivono il periodo di attesa tra la richiesta e la presa in carico dei servizi sanitari come “traumatico” [16], il supporto alla salute mentale di questi genitori può risultare particolarmente importante, anche in funzione di un miglior esito dei programmi riabilitativi intrapresi dal figlio o dalla figlia con ASD.

Bibliografia

1. Chiarenza A, Dauvrin M, Chiesa V, et al. Supporting access to healthcare for refugees and migrants in European countries under particular migratory pressure. BMC Health Serv Res. 2019 Jul 23;19(1):513.

2. Ding H, Hargraves L. Stress-associated poor health among adult immigrants with a language barrier in the United States. J Immigr Minor Health. 2009 Dec;11(6):446-52.

3. Bhugra D. Migration and mental health. Acta Psychiatr Scand. 2004 Apr;109(4):243-58.

4. Silove D, Sinnerbrink I, Field A, et al. Anxiety, depression and PTSD in asylum-seekers: associations with pre-migration trauma and post-migration stressors. Br J Psychiatry. 1997 Apr:170:351-7.

5. Fazel M, Wheeler J, Danesh J. Prevalence of serious mental disorder in 7000 refugees resettled in western countries: a systematic review. Lancet. 2005 Apr;365(9467):1309-14.

6. Valtolina GG, Pavesi N. Famiglie migranti e minori con disabilità: problematiche e prospettive della presa in carico. Mondi Migranti. 2022;3:61-75.

7. Stewart M, Schnabel A, Hallford DJ, et al. Challenging child behaviours positively predict symptoms of posttraumatic stress disorder in parents of children with Autism Spectrum Disorder and Rare Diseases. Res Autism Spectr Disord. 2020;69:101467.

8. Casale LM, Gentles SJ, McLaughlin J, et al. Service access experiences of immigrant and refugee caregivers of autistic children in Canada: A scoping review. PLoS One. 2023 Nov 9;18(11):e0293656.

9. Zwaigenbaum L, Bauman ML, Stone WL, et al. Early Identification of Autism Spectrum Disorder: Recommendations for Practice and Research. Pediatrics. 2015 Oct;136 Suppl 1(Suppl 1):S10-40.

10. Lim N, O’Reilly M, Sigafoos J, et al A Review of Barriers Experienced by Immigrant Parents of Children with Autism when Accessing Services. Rev J Autism Dev Disord. 2021;8:366-72.

11. Muhr T. Atlas.ti (Version 5.0). Scientific Software Development, 2004.

12. Ratzan SC, Parker RM. Health literacy. National Institutes of Health, US Department of Health and Human Services, 2000.

13. Pavesi N. Disabilità e welfare nella società multietnica. Franco Angeli, 2017.

14. St Amant HG, Schrager SM, Peña-Ricardo C, et al. Language Barriers Impact Access to Services for Children with Autism Spectrum Disorders. J Autism Dev Disord. 2018 Feb;48(2):333-40.

15. Miller-Gairy S, Mofya S. Elements of culture and tradition that shape the perceptions and expectations of Somali refugee mothers about autism spectrum disorder. Int J Child Adolesc health. 2015;8:425-38.

16. Dyches TT, Wilder LK, Sudweeks RR, et al. Multicultural Issues in Autism. J Autism Dev Disord. 2004 Apr;34(2):211-22.

giovanni.valtolina@unicatt.it

QUADERNI ACP 2/2024 64 SALUTE MENTALE

Conoscere il paziente: la cultura cinese

Marina Buzzetti

Esperta di lingua e cultura cinesi

Introduzione

Zhao Mengyu, una bambina di origine cinese di quattro anni, arriva dalla pediatra con febbre, forte mal di gola e mal di testa. Piange in particolare per il dolore alla gola e la specialista, durante la visita, nota delle “placche” sulle tonsille molto arrossate. Chiede se ha altri sintomi, come la tosse, e se è già stato somministrato qualche farmaco; i genitori annuiscono sempre, senza verbalizzare una chiara risposta. La pediatra ora riflette se prescrivere o meno l’antibiotico, dato che i genitori, che non parlano bene l’italiano, dicono che “sembra” manifestare anche la tosse.

Dopo aver ripetuto più volte la domanda riesce a capire che in realtà la bambina non ha nessun sintomo respiratorio, i genitori cinesi sembravano non voler contraddire la professionista. Prescrive, quindi, dell’amoxicillina in sospensione. La pediatra è colpita dall’assenza di domande da parte dei genitori: non sembra solo una questione linguistica, ma è come se non ci fosse totale trasparenza nella comunicazione. Che sia paura? Disinteresse? Per sicurezza, scrive sulla ricetta tutto quanto serve per una corretta assunzione dell’antibiotico: dosaggio, numero di somministrazioni e quante confezioni saranno necessarie.

Le barriere

Sempre più spesso i pediatri hanno a che fare con genitori cinesi che non parlano bene l’italiano e faticano a comprendere le parole del medico. Sono proprio i bambini di seconda e terza generazione a fare da traduttori, caricandosi di un ruolo importante che può avere un impatto emotivo (anche in contesti scolastici) [1]. Tuttavia, di certo non si può chiedere loro di fare da tramite nello scambio di informazioni con il pediatra, vista la minore età e la specificità del contesto e del lessico utilizzato.

La barriera linguistica al giorno d’oggi può essere superata grazie a strumenti di traduzione, dal banale Google Translator, al più immediato Google Lens, ovvero la “lente di Google” grazie a cui, scansionando un testo scritto, si riceve nell’immediato una traduzione nella propria lingua. Ciò nonostante rimane la difficoltà della cultura cinese che sembra essere così lontana e incomprensibile, quando in realtà basterebbe soffermarsi sui punti di vicinanza e avere una conoscenza basica riguardo le nozioni più generali sui loro costumi.

Alcune premesse

La Cina è un Paese molto vasto (si estende per tre fusi orari) in cui, sebbene sia presente una cultura di fondo che accomuna molti parlanti sinofoni, ogni persona è un individuo specifico a sé, con il proprio carattere e storia vissuta (quindi con un comportamento che la contraddistingue). I cinesi che vivono in Italia sono per la maggior parte originari di una piccola regione del sud della Cina, lo Zhejiang (di “soli” 58 milioni di abitanti) e quasi tutti provenienti dalla città di Wenzhou. Per questo motivo, le persone cinesi che approcciamo ci possono sembrare tutte simili, anche caratterialmente. Non sappiamo, tuttavia, che la realtà con cui abbiamo a che fare rappresenta solo una minima parte sullo sfondo della miriade di micro-

culture e costumi cinesi. È sempre bene, quindi, informarsi almeno sommariamente sulla cultura del paziente con cui avremo a che fare in anni di assistenza.

La cultura cinese è caratterizzata da collettivismo [2] e dunque dalla preferenza del bene comune rispetto a quello individuale, nonché dalla grande collaborazione all’interno della famiglia e di uno stesso gruppo in vista della collettività, proprio come prevedono i dettami confuciani.

Inoltre, è ben delineato il rapporto “superiore-subordinato”, nel quale la persona che appartiene al rango più alto (gli antenati, i parenti, i professori) detta legge e non viene quasi mai messa in discussione.

Al contrario, la cultura italiana (e di molti Paesi di stampo occidentale) è caratterizzata dall’individualismo, dunque dalla preferenza del proprio bene e del raggiungimento degli obiettivi personali oltre che da un minore rispetto dell’autorità, se paragonato alla concezione cinese.

“Perdere la faccia”

Date queste premesse, un altro aspetto da analizzare è quello del “perdere la faccia” (丢面子 diu mianzi in cinese). Si tratta di uno dei concetti alla base della cultura orientale la quale ritiene di vitale importanza la posizione che gli altri possiedono all’interno della società collettivista di cui tutti fanno parte, nessuno escluso [3]. Si tratta, quindi, di mantenere rispetto e di salvaguardare la reputazione dell’altro, in particolare se detiene una carica più alta della nostra. Può sembrare un concetto difficile da comprendere per noi che facciamo parte di una società di stampo individualista, che spesso mette in discussione le idee delle persone, qualsiasi sia il rango. Per una persona cinese, invece, “mantenere la faccia” è la conditio sine qua non perché la società funzioni, e tutti devono essere salvaguardati [4].

In generale, se l’autorità del professionista, in quanto esperto della materia, va ascoltata e tenuta in massima considerazione, per un sinofono (una persona che parla cinese) è fondamentale non far perdere la faccia al dottore che lo segue, al fine di non creare un clima di sfiducia e tensione nel rapporto medico-paziente. Affinché la reputazione venga mantenuta, l’aperta contraddizione è da evitare, e spesso i cinesi, anche se conoscono la lingua italiana, adottano un approccio fatto di domande indirette, piccole osservazioni o altri segnali non verbali. Contraddire significa suggerire che la persona di rango superiore non si sia spiegata a sufficienza e che quindi sia mancata una comunicazione trasparente da parte sua, o che non sia abbastanza capace nella spiegazione.

Questo è uno dei motivi per i quali (oltre alla barriera linguistica) un sinofono spesso annuisce e afferma di aver compreso quello che abbiamo detto, anche se in realtà non ha capito bene e vorrebbe chiarire. La cultura dell’essere impliciti, tipicamente orientale, per rimediare a un errore o a una mancanza di comunicazione può mettere in difficoltà chi non ne conosce gli aspetti più generali, ovvero le persone di stampo occidentale, dove la discussione (nell’accezione inglese discuss di parlare di un argomento) e la contraddizione dell’altro fanno parte del nostro modo di esprimerci.

Favorire il dialogo

Per aiutarli ad aprirsi con il proprio medico e guadagnare così la sua fiducia si può prima di tutto verificare che i genitori capiscano effettivamente la lingua italiana o almeno quella inglese.

A proposito dell’inglese: i cinesi purtroppo ne hanno scarsa conoscenza; spesso il loro studio si basa sulla ripetizione, lettura e ascolto di registrazioni, proprio come avveniva anche nel nostro Paese nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta secondo il metodo audio-orale basato sull’approccio comportamentista di Skinner [5]. La loro capacità di comunicare in

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inglese e di comprendere dialoghi autentici e reali tenderà, dunque, a essere molto bassa, in quanto non abituati ad avere scambi comunicativi spontanei con i parlanti nativi. L’inglese, comunque, può essere uno strumento di aiuto e compensazione qualora entrambe le parti ne posseggano una conoscenza almeno di base, e può fungere da strumento di supporto nel caso in cui il solo utilizzo dell’italiano non basti a trasmettere il messaggio desiderato.

Per quanto riguarda l’italiano, non basta porre la classica domanda “Ha capito?”, è necessario appurare che la comprensione del messaggio sia arrivata all’altro, per esempio utilizzando interrogative di tipo chiuso, dove è prevista una risposta coerente.

Il secondo fattore da tenere in considerazione con qualsiasi paziente straniero è che, per quanto una persona possa parlare bene la nostra lingua, andare dal medico comporta uno stato di agitazione emotivo dove “qualcosa non va” e dove si utilizza un linguaggio abbastanza specifico per comunicare. È sempre, quindi, buona norma avere pazienza e parlare abbastanza lentamente e, di tanto in tanto, fare una pausa nel discorso per assicurarsi che tutti i passaggi siano stati compresi. Con i genitori sinofoni può essere anche importante specificare che è assolutamente lecito porre domande se non fossero chiare, per esempio, le modalità di utilizzo di un farmaco. Come detto, probabilmente il paziente di origine cinese tenderà a non domandare; in ogni caso, è comunque importante ricordargli che la cultura italiana è differente e che è possibile chiedere consiglio o chiarificazioni qualora la spiegazione del pediatra non fosse completamente comprensibile.

La medicina tradizionale cinese

In Cina si fa largo uso della medicina tradizionale cinese. Solo in ospedale o in luoghi specializzati si possono trovare farmaci “internazionali” per i quali serve comunque la prescrizione di un professionista; nelle loro classiche farmacie, invece, sono presenti anche medicine con principi attivi più ridotti, molta fitoterapia e medicina alternativa.

Con questo non si vuole dire che le persone asiatiche utilizzino solamente medicine più blande o che facciano uso della sola medicina tradizionale cinese, ma che è fondamentale, nel caso di pazienti di origine straniera, tenere in considerazione anche quale ruolo gioca la medicina nella cultura e che cosa si intende per “medicina”.

Per un europeo i concetti di “dottore”, “prescrizione”, “cura” possono essere molto intuitivi e scontati; tuttavia non va mai dimenticato che in altre nazioni, anche vicine a noi, queste parole possono assumere sfumature e definizioni differenti, in particolare se si tratta di paesi in via di sviluppo.

Un genitore cinese sarà sicuramente a conoscenza del fatto che in Italia non si impieghi la medicina tradizionale del suo Paese; tuttavia, è buona pratica spiegare i farmaci prescritti ai loro figli, quale è la loro funzione e la posologia (evitando di considerare solo i sintomi e restituire una semplice ricetta, di difficile comprensione per un paziente straniero).

Con questo tipo di pazienti è consigliabile non solo scrivere la classica ricetta ma, se possibile, dedicare qualche momento a scrivere per punti il nome del farmaco, ogni quanto va preso, la modalità di assunzione, quante scatole è necessario comprare (se un ciclo di antibiotico dura sei giorni ma in una scatola si arriva solo a quattro, il paziente potrebbe non farci caso e credere che la cura sia finita perché le dosi della scatola sono terminate).

In conclusione

Un paziente di origine straniera richiede un’attenzione particolare da parte del pediatra, non solo per quanto riguarda le difficoltà linguistiche, ma anche per il diverso tipo di cultura e costumi che fanno parte della storia di ciascuno.

Con i genitori cinesi sarebbe buona norma rimuovere il pregiudizio che molti professionisti hanno nei loro riguardi; per esempio, il loro annuire e dire sempre “sì” può risultare come una presa in giro, un non ascolto del medico o un disinteressamento. In realtà, come accade in molte realtà dei Paesi asiatici, questi genitori stanno semplicemente tentando di salvaguardare la reputazione del pediatra che hanno di fronte e di non fargli “perdere la faccia”. Ciò potrebbe accadere qualora manifestassero chiaramente di non aver compreso quello che il medico voleva dire, implicando, nella loro mentalità, che la persona autorevole che li segue non è riuscita a spiegarsi. Preferiscono, dunque, adottare diverse strategie, per la maggior parte non verbali o che non richiedano una diretta ammissione di “ignoranza” nella comunicazione. Pertanto, prima di tutto non bisogna pensare che il paziente cinese non sia interessato o che si stia prendendo gioco di noi; in realtà sta solamente cercando di essere gentile nei nostri riguardi. Compreso questo concetto, bisognerà porre molta attenzione alla lingua utilizzata e ai termini specifici e assicurarsi di far passare il messaggio comunicativo, affinché il genitore comprenda che cosa ha il bambino, e come procedere per assisterlo. Si può, dunque, cercare di parlare lentamente, una volta appurato che l’interlocutore non conosca bene l’italiano; inoltre, è buona cosa fare un ulteriore sforzo perché capisca come somministrare una terapia.

Sicuramente i pediatri sono carichi di lavoro e hanno a che fare con tantissimi pazienti e situazioni diverse; nondimeno, in un mondo sempre più globalizzato è fondamentale essere aperti alla cultura degli altri. Va ricordato che molti atteggiamenti che noi italiani possiamo leggere come rudi, o quantomeno insoliti, sono per uno straniero un tratto tipicamente nella norma, nella sua cultura di origine: spesso non vorrebbero essere scortesi, ma avviene un semplice fraintendimento culturale.

Bilbiografia

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4. HWANG KK. Face and morality in Confucian society. In: HWANG KK (a cura di) Foundations of Chinese Psychology. Springer, 2012, pp. 265-8.

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6. Chiapedi N. Modelli linguistici descrittivi e approcci glottodidattici. Modulo didattico per il “Master in didattica della lingua e letteratura italiana” erogato dal Consorzio Icon, 2009 (pp. 1-39).

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Acqua da bere in pediatria. Ci sono

acque migliori

e peggiori?

Federica Meli

Specializzanda della Scuola di Pediatria dell’Ospedale Infantile Regina Margherita di Torino

Una corretta idratazione quotidiana è fondamentale nel bambino, che, soprattutto sotto l’anno di età, è a maggior rischio di disidratazione per diversi fattori, tra cui la diversa composizione corporea rispetto all’adulto, il turnover dell’acqua più rapido e la minore capacità di concentrare le urine.

Nel nostro Paese la maggior parte delle acque, potabili o in bottiglia, sono oligominerali (con un residuo fisso tra i 50 e i 500 mg/l) a composizione carbonato-calcica.

Nel caso del lattante alcuni parametri, come la sicurezza microbiologica, possono aiutare a fare una scelta più consapevole dell’acqua da utilizzare. Sotto i 6 mesi, infatti, la scarsa capacità di concentrare i soluti nelle urine, rende più idonee le acque minimamente mineralizzate o oligominerali. Inoltre, per il rischio di metaemoglobinemia, la concentrazione di nitrati non dev’essere maggiore di 10 mg/l. Infine, i fluoruri, utili per la salute dentale se sotto 1 mg/l, possono essere tossici a concentrazioni più alte.

Proper daily hydration is important in adults, but even more so in paediatrics. In fact, while in the adolescent and adult the water requirement is about 40 ml/kg, in the infant this value reaches 150 ml/kg. Children, especially under one year of age, are at greater risk of dehydration; a number of factors contribute to this disadvantage, including their different body composition (75% water VS 50-60% in adults), faster water turnover, and lower ability to concentrate urine.

In our country, most of the water available, whether drinkable or bottled, is oligomineral (with a fixed residue between 50 and 500 mg/l) with a carbonate-calcic composition; exceptions are those from central Italy, usually richer in sodium and magnesium and with a high fixed residue, due to the volcanic soil from which they originate.

So which water to choose? There are no better or worse waters, but in the case of infants, certain parameters, primarily microbiological safety, could help us make a more reasoned choice. Under 6 months, in fact, the poor capacity to handle solutes and concentrate solutes in the urine means that minimally mineralised or oligo-mineralised waters are more suitable. The concentration of nitrates must also be assessed, which must not be greater than 10 mg/l to avoid risking methaemoglobinaemia, and finally fluorides, which are useful for dental health if below 1 mg/l, but potentially toxic if at higher concentrations.

Premessa

Secondo l’EFSA (European Food Safety Authority) i fabbisogni idrici in pediatria sono: 0,7 l/die per i bambini da 0 a 6 mesi, 0,8-1 l/die nella fascia 7-11 mesi, 1,1-1,3 l/die per i bambini di 1-3 anni, 1,4-1,6 l/die per quelli di 4-8 anni, 1,9-2 l/die per la fascia 9-13 anni, e infine 2,5 l/die per i ragazzi di 14-18 anni.

Secondo la letteratura il 61% dei bambini non assume la quantità d’acqua quotidiana suggerita dall’EFSA.

L’acqua di rete (potabile) del nostro Paese è di elevata qualità, controllata e sicura, ma siamo primi in Europa e nel mondo per consumi di acqua minerale in bottiglia, con 223 litri pro capite all’anno. Le acque italiane, sia potabili che in bottiglia, sono nella maggior parte dei casi bicarbonato-calciche oligominerali (residuo fisso tra 50 e 500 mg/l).

Per il lattante sono da preferire acque oligominerali o minimamente mineralizzate (residuo fisso < 500 mg/l) e con basse concentrazioni di nitrati (< 10 mg/l); per il bambino più grande andranno bene anche acque con un residuo fisso tra 500 e 1500 mg/l ma sempre con fluoruri < 1,5 mg/l.

Quando pensiamo all’acqua, la prima cosa che ci viene in mente è la sua iconica formula, H 2O. Ma in realtà l’acqua che riempie i nostri bicchieri è una miscela omogenea, i cui soluti sono quelli che chiamiamo sali minerali. Molti di questi sono fondamentali per un gran numero di funzioni dell’organismo, dalla funzionalità cellulare fino a quella muscolare. Nelle acque italiane, potabili e in bottiglia, sono circa 66 gli elementi della tavola periodica che affiancano l’ossigeno e l’idrogeno, e vanno dall’argento allo zirconio. Assumere acqua per l’uomo è quindi fondamentale, e lo è a maggior ragione per il bambino. Infatti, mentre nell’adulto la percentuale di acqua non supera il 50-60%, nel neonato rappresenta circa il 75% dell’organismo [1]; inoltre, come dimostrò Gamble agli inizi del 1900 [2], il turnover dell’acqua è molto più rapido nel bambino (15% del peso corporeo/die) rispetto all’adulto (3-4% del peso corporeo/die). Ma non solo, ci sono altri fattori che espongono il bambino a un maggior rischio di disidratazione: la difficoltà a esprimere la sete, il maggiore rapporto tra superficie e massa corporea, la maggiore incidenza di gastroenteriti, febbre e iperventilazione, e una minore capacità di gestire i soluti a livello renale e concentrare le urine [3]. Da queste considerazioni nascono i valori del fabbisogno idrico giornaliero per fascia d’età stabiliti dall’EFSA: 0,7 l/die per i bambini da 0 a 6 mesi, 0,8-1 l/die nella fascia 7-11 mesi, 1,1-1,3 l/die per i bambini di 1-3 anni, 1,4-1,6 l/die per quelli di 4-8 anni, 1,9-2 l/die per la fascia 9- 13 anni, e infine 2,5 l/die per i ragazzi di 14-18 anni [4].

Ciononostante, sono diversi gli studi che dimostrano che spesso la pratica non segue la teoria. Secondo la survey Liq.In7, condotta nel 2016 in 15 Paesi di tutto il mondo, il 61% dei bambini non assume la quantità d’acqua quotidiana suggerita dall’EFSA [5]. Iglesia et al. hanno dimostrato inoltre, come in 6 Paesi sui 13 analizzati, in età pediatrica l’apporto quotidiano di bevande zuccherate e succhi di frutta superava quello dell’acqua naturale, che il 55% dei bambini e adolescenti presi in esame consumavano più di una porzione di bevande zuccherate ogni giorno, e, addirittura, che il 21% non aveva l’abitudine di assumere acqua ogni giorno [6].

E in Italia? Nel 2012 Assael et al. rispondono a questa domanda con un articolo dal titolo molto provocatorio: I bambini italiani vanno a scuola con un deficit idrico [7]. Gli autori riportano infatti che il 67,2% dei 515 bambini italiani di 9-11 anni oggetto di studio, avevano un’osmolalità urinaria mattutina di 800 mOsm/kg di acqua, e tra loro il 35% aveva un’osmolalità urinaria maggiore di 1000 mOsm/kg, nonostante avessero fatto colazione 30 minuti prima della minzione. Gli autori concludono quindi che quasi 2/3 dei bambini italiani, nonostante facciano colazione, hanno un deficit idrico all’arrivo a scuola, e che, dunque, per mantenere una corretta idratazione durante la mattina, il loro apporto idrico mattutino dovrebbe aumentare sensibilmente.

E in Italia che acqua abbiamo a disposizione per noi e i nostri bambini? Nonostante gli italiani possano contare su un’acqua di rete (potabile) di elevata qualità, controllata e sicura (l’84,8%

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dell’acqua prelevata proviene da fonti sotterranee, naturalmente protette e che richiedono minori processi di trattamento per la sua potabilizzazione), l’Italia è prima in Europa e nel mondo per consumi di acqua minerale in bottiglia, con 223 litri pro capite all’anno. Siamo obbligati dunque ad addentrarci nel mondo dell’acqua in bottiglia, prima di tutto chiarendo la definizione: secondo il Decreto Legislativo n. 176 dell’8 ottobre 2011 “Sono considerate acque minerali naturali le acque che, avendo origine da una falda o giacimento sotterraneo, provengono da una o più sorgenti naturali o perforate e che hanno caratteristiche igieniche particolari e, eventualmente, proprietà favorevoli alla salute”. Ma le acque minerali non sono tutte uguali; la principale classificazione si può fare in base al cosiddetto “residuo fisso”, un parametro solitamente espresso in mg/l che indica la quantità di sostanza solida che residua dopo aver fatto evaporare a 100 °C ed essiccare a 180 °C un litro di acqua. Riconosciamo quindi acque “minimamente mineralizzate”, se il residuo fisso non è superiore a 50 mg/l, “oligominerali” o “leggermente mineralizzate” se è tra 50 e 500 mg/l, “minerali” propriamente dette quando è tra 500 e 1500 mg/l, e “ricche di sali minerali” se è superiore a 1500 mg/l.

Nel nostro Paese il mercato delle acque in bottiglia è molto sviluppato, con circa 700 sorgenti, oltre 260 marche di acqua ripartite tra circa 140 stabilimenti, che imbottigliano oltre 14 miliardi di litri d’acqua ogni anno. Inoltre, le acque italiane, sia potabili che in bottiglia, a causa della composizione dei nostri suoli, sono nella maggior parte dei casi bicarbonato-calciche oligominerali, ossia con un residuo fisso tra 50 e 500 mg/l; le acque che nascono nel centro Italia rappresentano un’eccezione perché, a causa dell’origine vulcanica del suolo, sono più spesso ricche di magnesio e sodio e sono “minerali” propriamente dette perché con un residuo fisso di 500-1500 mg/l.

E quindi, che acqua dobbiamo dare ai nostri bambini?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo partire dal presupposto che, contrariamente a quanto molte persone ancora pensano, l’acqua del rubinetto di casa è generalmente molto valida, sia dal punto di vista microbiologico che da quello chimico e chimico-fisico. I controlli incrociati tra aziende erogatrici (gestori) e gli organi di vigilanza, resi più severi con l’avvento dell’ultima normativa sulle acque potabili, ne garantiscono l’effettiva salubrità. È anche vero, però, che per una popolazione speciale come quella pediatrica, in particolare quella dei neonati e dei lattanti, vale la pena spendere qualche parola in più. Che acqua scegliere per loro? Ci sono davvero acque migliori e peggiori, o solo acque che si adattano meglio alle nostre necessità del momento? L’Organizzazione Mondiale della Sanità, rivolgendosi a tutto il mondo, raccomanda solo la scelta di un’acqua microbiologicamente sicura, che nel nostro Paese, salvo qualche eccezione, è la normalità. Sono quindi altri i parametri da prendere in considerazione: la quantità di soluti, la concentrazione di nitrati e quella di fluoro. Come accennato poco fa, l’apparato urinario del neonato e del lattante sotto i 6 mesi è ancora dotato di scarse capacità di compenso, motivo per cui non è in grado di concentrare sufficientemente i soluti nelle urine, tanto che in questa fascia d’età l’osmolalità (la concentrazione dei soluti nelle urine) non supera usualmente le 450 mOsm/kg di solvente, contro i 1100 mOsm/kg del bambino di un anno [3]. Dal punto di vista fisiopatologico sembra che questa difficoltà sia dovuta a una minore sensibilità dei dotti collettori all’ADH, a un’immaturità strutturale dell’ansa di Henle e a una minore espressione dell’acquaporina 2. Lo sviluppo funzionale del nefrone viene ultimato ben oltre la fine del periodo neonatale, mentre i tubuli renali non completano il loro sviluppo fino al quinto mese circa. La combinazione di tutti questi fattori fa sì che le capacità del neonato di concentrare l’urina in modo sufficiente e quindi di conservare l’acqua del corpo siano ridotte [8].

In questo contesto, secondo la maggior parte dei nipiologi, per la ricostituzione del latte in formula in polvere sarebbero dunque da preferire acque con pochi soluti, per non sovraccaricare il rene, ma ricche di calcio, minerale fondamentale nel bambino. Le più adatte per questa fascia d’età sono dunque le acque oligominerali carbonato-calciche, ossia le più diffuse nel nostro territorio sia come acque dal rubinetto che come acque in bottiglia. Per quanto riguarda i nitrati, fu Comly, nel 1945, il primo a mettere in relazione la loro presenza nelle acque potabili con lo sviluppo di metaemoglobinemia in lattanti con gastroenterite [9]. I nitrati sono composti azotati presenti normalmente in natura, grazie ai batteri nitrificanti che popolano il suolo, oppure possono essere immessi dall’uomo come scarto dei processi di fertilizzazione dei campi. Quando ingeriti vengono trasformati in nitriti dai batteri della flora intestinale; i nitriti sono poi capaci di ossidare il ferro ferroso (Fe2+) contenuto nel tetramero dell’emoglobina a ferro ferrico (Fe3+). Questa ossidazione trasforma l’emoglobina in metaemoglobina, un tetramero incapace di legare correttamente l’ossigeno. Si configura così un quadro di metaemoglobinemia, caratterizzato da ipossia tissutale, cianosi (da cui il nome “sindrome del bambino blu”), caratteristico sangue color cioccolato, cefalea, ipotensione, alterazione della coscienza, coma e morte. La popolazione pediatrica, in particolare quella dei lattanti sotto i 6 mesi, è più a rischio di metaemoglobinemia a causa del più alto fabbisogno idrico per chilo di peso, di una minore quantità di metaemoglobino-reduttasi (che converte la metaemoglobina in emoglobina), e di una più alta percentuale di emoglobina fetale, che viene convertita più facilmente in metaemoglobina [10]. C’è da dire però che, come scrisse Comly, la metaemoglobinemia è tipica del bambino con gastroenterite, che ha un’alterata flora batterica intestinale che favorisce la riduzione da nitrato a nitrito, e del bambino che beve acqua proveniente da pozzi vicini a terreni fertilizzati con prodotti a base di nitrati.

Nonostante sia ancora difficile stabilire un collegamento chiaro tra la concentrazione di nitrati nell’acqua e il rischio di metaemoglobinemia e definire, quindi, una soglia di rischio [9], secondo la letteratura 10 mg/l è un limite sicuro per prevenire l’insorgenza [10]. Nel nostro Paese la legge impone dei limiti di nitrati di 50 mg/l per le acque potabili, 45 mg/l per le acque in bottiglia, e 10 mg/l per le acque in bottiglia destinate all’infanzia. In Italia, anche se la maggior parte delle acque in bottiglia ha basse concentrazioni di nitrati, sono presenti acque con concentrazioni tra i 10 e i 50 mg/l. Anche per le acque potabili c’è molta variabilità, perfino all’interno della stessa città. La legge specifica, inoltre, che i produttori di acqua in bottiglia possono indicare sull’etichetta che l’acqua venduta ha una concentrazione di nitrati minore di 10 mg/l ed è quindi adatta all’uso pediatrico, ma non sono obbligati a specificare il contrario. È quindi compito del consumatore leggere correttamente l’etichetta della bottiglia o, nel caso dell’acqua potabile, fare riferimento alle analisi del gestore locale, per fare una scelta informata.

E infine il fluoro. Sappiamo ormai da anni che basse concentrazioni di fluoro nell’acqua (< 1 mg/l) sono essenziali per la salute dentale dell’uomo grazie alla sua capacità di proteggere i denti dalle carie [11]. È noto, però, che a concentrazioni più alte possono avere effetti negativi sulla salute: a 2-5 mg/l possono portare a fluorosi dentale, a 4-10 mg/l a osteoporosi, a 8-50 mg/l a fluorosi scheletrica e disturbi neurologici, e infine a concentrazioni di 50-100 mg/l ad alterazioni tiroidee e difetti di crescita [12]. Ecco, dunque, che la legge italiana stabilisce i limiti a 1,5 mg/l di fluoruri per le acque potabili, 5 mg/l per le acque in bottiglia, e 1,5 mg/l per le acque in bottiglia destinate all’infanzia. Anche in questo caso il produttore di acqua in bottiglia non è obbligato a specificare se l’acqua venduta è adatta al consumo pediatrico; sta al consumatore leggere

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correttamente l’etichetta alla ricerca della concentrazione di fluoro. Nel nostro Paese la maggior parte delle acque in bottiglia ha basse concentrazioni di questo minerale, ma, soprattutto nel centro Italia, zona ricca di suoli di origine vulcanica, non è raro trovare concentrazioni di fluoruri tra 1,5 e 5 mg/l. Invece, per legge, tutte le acque potabili hanno concentrazioni minori del limite fissato per le acque destinate all’infanzia.

In conclusione, dunque, è ormai evidente quanto sia importante una corretta idratazione per il bambino, considerando che il suo rischio di disidratazione è 4 volte maggiore rispetto a quello dell’adulto. In Italia abbiamo la fortuna di avere acque potabili e acque in bottiglia valide, sicure e controllate. Nel caso dell’acqua in bottiglia non esistono marche migliori o peggiori, solo acque che sono più o meno indicate per fascia d’età. Nel caso del lattante, infatti, saranno da preferire acque oligominerali o minimamente mineralizzate (residuo fisso < 500 mg/l) e con basse concentrazioni di nitrati (< 10 mg/l); per il bambino più grande andranno bene anche acque con un residuo fisso tra 500 e 1500 mg/l ma sempre con fluoruri < 1,5 mg/l.

Bibliografia

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12. Solanki YS, Agarwal M, Gupta AB, et al. Fluoride occurrences, health problems, detection, and remediation methods for drinking water: A comprehensive review. Sci Total Environ. 2022 Feb 10;807(Pt 1):150601.

federica.meli@to.omceo.it

Nutrire attraverso una gastrostomia: alimenti casalinghi o formule commerciali?

Il numero dei bambini in nutrizione artificiale attraverso gastrostomia è in continua crescita. In Inghilterra si calcola una prevalenza di 84/100.000 per un totale di circa 10.000 bambini. Il posizionamento della gastrostomia per via endoscopica ha semplificato di molto gli aspetti tecnici, ma non risolve certamente, in maniera automatica, un certo numero di altre problematiche che si vengono a creare. Tra le principali, vi è quella relazionale che sottende al significato che ogni genitore dà alla nutrizione del proprio figlio con disabilità e quella di quale sia l’alimento più indicato per una nutrizione enterale (NE) di lungo termine: nella scelta tra alimento naturale (preparato in casa) e formula del commercio, entrambi le problematiche assumono un loro preciso significato. Ancora negli anni ’90, l’uso di alimenti naturali era piuttosto frequente: i genitori trovavano in questa modalità di alimentazione il mantenimento di un loro ruolo accudente nella nutrizione – seppure per via artificiale – del proprio figlio/a. Progressivamente, l’industria delle formule per NE ha fatto valere le proprie prerogative: standardizzazione e qualità delle formule, completezza ed equilibrio dei componenti, praticità di impiego e sicurezza nella conservazione.

Il dibattito su quale delle due modalità di NE fosse realmente migliore non si è mai spento e anche ESPGHAN e British Dietetic Association, che si erano inizialmente schierate a favore delle formule commerciali, hanno recentemente ammorbidito la propria posizione nei confronti delle preparazioni casalinghe. Un recente studio britannico appare in linea con questa rivalutazione dell’home made: i dati raccolti su 180 famiglie con bambini in NE indicano che chi è alimentato con preparati casalinghi ha meno sintomi gastrointestinali, riceve una più elevata quota di calorie e fibre, con contenuti di micronutrienti analoghi ai bambini alimentati con formule del commercio. Gli aspetti di sicurezza appaiono simili nei due gruppi e i maggiori costi delle formule commerciali sembrano compensati dai costi delle attrezzature necessarie alla miscelazione casalinga degli alimenti e dal tempo impiegato a questo scopo.

Al momento, quindi, possiamo dire che non esistono ancora evidenze che facciano ritenere, sempre e comunque, le formule commerciali superiori alle preparazioni casalinghe. È una buona notizia per quei genitori che, pur in un contesto di NE, sentono che preparare il cibo per il proprio figlio/a è un valore da preservare, senza nulla perdere in sicurezza e in equilibrio nutrizionale.

1. Fraser LK, Bedendo A, O’Neill M, et al. Safety, resource use and nutritional content of home-blended diets in children who are gastrostomy fed: findings from ‘YourTube’ – a prospective cohort study. Arch Dis Child. 2023 Dec 21:archdischild-2023-326393.

QUADERNI ACP 2/2024 69 IL PUNTO SU

Raccontiamoci… L’importanza della lettura e del dialogo perinatali

Accanto alla consolidata conoscenza sui benefici che musica e canto hanno sul bambino già in epoca gestazionale, un’importante influenza potrebbe avere anche la lettura di albi illustrati: per la loro struttura composta da parole e immagini, possono rappresentare un ponte tra il mondo dell’adulto e quello del bambino, facendo spazio alle emozioni. Queste, vissute dal genitore, vengono trasmesse al feto attraverso stimoli tattili e sonoro-uditivi, derivanti dall’emissione sonoro-vocale e dalla propagazione della stessa. Estendendo questa relazione intima anche al padre, queste emozioni diventano la base di un coinvolgimento precoce nel nuovo equilibrio relazionale che si viene a creare con la nascita del bambino.

Along with the well-established knowledge about the benefits that music and singing have on the child already in the gestational period, reading illustrated books could also have an important influence: because of their structure composed of words and pictures, they can represent a bridge between the world of the adult and the child, making room for emotions. These, experienced by the parent, are transmitted to the fetus through tactile and sound-auditory stimuli, resulting from the sound-vocal emission and its propagation. By extending this intimate relationship to the father as well, these emotions become the basis for early involvement in the new relational balance that is created with the birth of the child.

Premessa

Gocce di voce nel buio profondo, voci di mamme che cantano lente chiamano i figli, che vengano al mondo. da Gocce di voce, Fatatrac, 2006

Partendo dal bagaglio professionale di educatrice e operatrice del metodo “cantami, o mamma”, e attraverso corsi dedicati, seguiti per passione personale, ho potuto sperimentare direttamente l’importanza del linguaggio, sotto forma sia di dialogo che di lettura, nella creazione di un solido legame tra genitori e figli, già a partire dalla gravidanza. Le emozioni che tali esperienze suscitano nella mamma, propagandosi sotto forma di vibrazioni, vanno a “colpire” il feto attraverso il liquido amniotico. Tali emozioni e tali vibrazioni possono essere innescate anche da esperienze musicali: nella mia esperienza di futura mamma, appassionata di albi illustrati e musicista amatoriale, ho notato come musiche diverse e la musicalità propria del linguaggio degli albi illustrati influiscano diversamente sui movimenti fetali della mia bambina.

Obiettivo di questo articolo è una riflessione su come il linguaggio, il dialogo, la ricercatezza delle parole e la sonorità propria delle stesse possano divenire veicolo di emozioni positive e base di un legame di attaccamento sicuro. L’esposizione

precoce alla sonorità propria del linguaggio permette anche di familiarizzare con le cadenze della lingua madre, andando a creare nel feto le basi per un suo futuro apprendimento. La trasmissione delle emozioni, l’apprendimento della lingua, l’attaccamento sicuro non solo alla mamma, ma anche al papà, sono tutti aspetti che passano attraverso la voce che narra, che parla o che risponde.

A incipit di ogni paragrafo è stata scelta la frase di un albo illustrato che si avvicina o sintetizza il contenuto del paragrafo stesso. Gli albi illustrati cui si fa riferimento nel testo sono stati scelti dopo aver osservato le reazioni da essi suscitate sui movimenti della mia bambina già prima della nascita: albi in rima, cadenzati, ritmati, in cui la musicalità delle parole scelte si incontra con l’iconografia didascalica.

Anche le immagini, assieme alle parole, hanno suscitato emozioni percepite dal feto a livello non solo uditivo ma altresì tattile. Qualora a leggere o parlare fosse il papà, le reazioni suscitate in me dalla vicinanza e dalla condivisione emotiva intima erano diverse, poi trasmesse nel medesimo modo alla bambina: più cresce la frequenza più un suono è acuto; più decresce la frequenza più un suono è grave. Nel caso di suoni acuti, quindi, il numero di onde prodotte nell’intervallo di un secondo sarà maggiore che nel caso della produzione di un suono grave; risulta evidente che sia diversa anche la stimolazione tattile che ne deriva.

Introduzione

Là, nella pancia della mamma, avevo già ascoltato delle voci, e il suono di qualche strumento. Ma non potevo immaginare. da Quando sono nato, Topipittori, 2009

Nell’incredibile ricchezza di albi illustrati, emergono pochi ma ben pensati testi che trattano la tematica della nascita, celebrandola come qualcosa di magico, inizio di un susseguirsi di scoperte e conquiste. In questi stessi albi si trova qualche accenno alla vita intrauterina, con particolare attenzione alle differenze riscontrabili tra il “di là” (nel pancione) e il “di qua”. Per i futuri genitori dovrebbe essere molto stimolante conoscere le fasi di sviluppo e le potenzialità che il bambino ha già prima della nascita, attivo e competente nel percepire e reagire agli stimoli che gli giungono.

I primi sensi che si sviluppano sono quelli legati alla sensibilità chimica (gusto e olfatto), necessari alla sopravvivenza del bambino quando nasce: si sviluppano tra la settima e la nona settimana di gestazione, permettendo al feto di affinare le sue capacità di riconoscere e ricercare la madre e il latte materno fin dai primissimi istanti di vita. Nello stesso periodo si vanno formando le strutture atte all’udito, che impiegano molto più tempo a maturare, consentendo di percepire i primi stimoli sonori solamente verso il quinto mese di gravidanza. Questo fa comprendere la complessità che sottostà all’ascolto, e quanto quest’ultimo sia importante per l’individuo, che andrà ricercando, una volta nato, quelle stimolazioni percepite nel ventre materno, vissute come rassicuranti.

Si è osservato come già in epoca fetale sia possibile indurre il fenomeno dell’abituazione a determinati stimoli, sonori e non solo, che possono contribuire a creare una memoria prenatale [1]. Quest’ultima si andrà consolidando grazie alla qualità e alla ripetizione degli stimoli sonoro-vocali e agli effetti che gli stessi avranno sulla madre: la voce non può celare le emozioni che si manifesteranno nella tonalità e nella cadenza del parlato, creando una basa per il vocabolario emozionale del bambino: leggendo, parlando e cantando al bambino nel pancione si crea familiarità con parole e suoni che gli permetteranno di sperimentare e poi vivere le emozioni vissute dal genitore.

QUADERNI ACP 2/2024 70 I PRIMI MILLE

La risonanza delle parole Cresceva e andava imparando le cose. E le parole musica delle cose, e le parole che fanno le cose. da Storia piccola, Topipittori, 2015

A molti sarà capitato di vedere dei filmati o fare esperienza diretta dei primi istanti di vita di un bambino: il piccolo, in preda al primo vagito, si tranquillizza nel sentire la voce della mamma e del papà che lo accolgono, lo rassicurano, gli dicono quanto era atteso e quanto è amato.

La voce calma, familiare e carica di emozioni dei genitori, rende questo passaggio, naturalmente impegnativo, un approdare in un “porto sicuro”, un essere accolti alla vita; il neonato, competente, nei suoi primi istanti di vita, conosce e riconosce qualcosa di familiare, di cui ha fatto esperienza in quella vita ovattata in cui era stato protetto e immerso fino a qualche istante prima.

Da queste osservazioni emerge l’importanza di parlare al proprio bambino già durante la gravidanza. Ma perché aggiungere anche la lettura, oltre al dialogo?

Nei libri e negli albi illustrati le parole, attentamente ricercate dagli autori, creano unione tra mente e cuore, facendo nascere e risvegliando emozioni, vissute nella vita intrauterina sotto forma di movimento (vibrazioni).

Gli albi illustrati che più attivano il feto saranno allora quelli in rima, con ripetizioni e ridondanza di suoni e ritmi: le accentuazioni di timbro, le variazioni del ritmo e la forza del suono, propri sia della musica che dei testi rimati, portano all’induzione motoria che traduce in movimento una pulsione emotiva suscitata da tali elementi, strettamente legati alla grammatica musicale.

Queste emozioni vissute nella vita intrauterina sotto forma di vibrazioni, ritmo e movimento diverranno familiari per il nascituro, che le assocerà a sensazioni piacevoli e le ricercherà, una volta nato. Tali esperienze ritmico-melodiche, legate alla voce, contribuiranno allo sviluppo del legame di attaccamento sicuro: nel momento in cui il bambino troverà un genitore rispondente che riproporrà quanto attuato durante la gravidanza, il bambino proverà e rivivrà il benessere proprio della vita intrauterina che gli consentirà di creare una base sicura su cui, crescendo, potrà fare affidamento nell’aprirsi all’esplorazione del mondo.

La scoperta della realtà che lo circonda, carica di stimoli nuovi o semplicemente più vividi, infatti, sarà possibile “a condizione di sentirci protetti, certi che potremmo tornare” a una base sicura già nota e della quale si ha un’esperienza positiva di supporto e contenimento, soprattutto emotivi.

La voce inizia quindi a costruire una relazione tra genitore e figlio e il bambino appena nato mostrerà da subito risposte di ascolto.

È fondamentale quindi cantare, parlare e leggere al bambino e farlo fin dalla gravidanza, perché tra i diversi suoni che possono essere percepiti nell’utero (suoni digestivi, circolatori, battito cardiaco, rumori provenienti dall’esterno…) è proprio la voce, veicolo di relazione, a spiccare grazie alla sua frequenza.

L’apprendimento della lingua…

Se è vero che i neonati non sono in grado di capire il significato delle parole, è altrettanto vero che capiscono la voce: la sentono, l’ascoltano, ne hanno bisogno per crescere. […] Per i bambini molto piccoli il suono delle parole è più importante del loro significato.

da Gocce di voce, Fatatrac, 2006

“La comunicazione interattiva tra mamma e bambino promuove sia le capacità linguistiche sia la condivisione delle emozioni e dei comportamenti sociali.”

Se è certo che il bambino, già dal pancione, risponde agli stimoli e percepisce le parole, non è altresì vero che comprenda quanto gli viene detto o letto: per il bambino, durante la gravidanza, le parole risultano incomprensibili, ma certe sillabe e l’intonazione vengono invece riconosciute.

Risulta perciò evidente la necessità, oltre che l’importanza, di parlare al proprio bambino per permettergli di familiarizzare con la lingua madre.

Già a due mesi di vita i bambini sono in grado di raggruppare i suoni, per poi segmentarli in sillabe verso i quattro-sei mesi. Questa avanzata sensibilità dimostra come l’esposizione alla lingua madre, già prima della nascita, permetta ai bambini di sviluppare capacità e competenze propedeutiche allo sviluppo del linguaggio già in età tenerissima.

La stimolazione tramite il parlato e la lettura diviene quindi strumento privilegiato su cui fondare le basi per un futuro apprendimento della o delle lingue madri.

La lettura degli albi illustrati, in particolare, consente anzitutto ai genitori di approdare a terminologie magari nuove e sicuramente vicine a quello che sarà il linguaggio del bambino stesso, affiancando l’immagine come ulteriore ponte tra il parlato e il sentito emozionale, in fase fetale vissuto in un rapporto simbiotico con la madre.

…come musica

Il suono è invisibile. Ma attira la nostra attenzione, lo sentiamo… e poi, ascoltiamo.

da Forte, piano, in un sussurro, Jaca Book, 2018

Come accennato, il linguaggio, nelle prime fasi di vita, passa come suono e viene quindi percepito dal bambino come ritmo e melodia, come musicalità.

Proprio la musicalità è la caratteristica principale del motherese (comunicazione intrattenuta tra bambino e caregiver), in cui prevalgono aspetti ritmici e melodici, caratterizzati da tratti onomatopeici e un aumentato numero di ripetizioni. La musicalità intrinseca all’infant directed speech (linguaggio rivolto al bambino) ha un certo sistema tonale e si articola secondo una propria grammatica, che il bambino riesce a riconoscere. Questa comunicazione, inoltre, muove corde profonde, in quanto investe la sfera affettivo-relazionale: esporre il bambino a voci familiari, tramite dialoghi e letture già dal pancione, favorirà l’interesse per la lingua e fungerà da trampolino per le future esplorazioni linguistiche (gorgheggi, lallazione, ripetizioni…).

Gli studi delle neuroscienze hanno dimostrato che le aree del cervello deputate a musica e linguaggio sono adiacenti e, in parte, sovrapposte. La stimolazione precoce delle abilità uditive porterà quindi vantaggi nel memorizzare le parole, migliorare la pronuncia di sillabe e suoni e nell’apprendimento della lingua.

Parlare di musica e musicalità, associate al linguaggio e al suo apprendimento, risulterà quasi prevedibile: i bambini esposti alla musica fin da piccoli leggeranno con molta più facilità, in quanto avranno più familiarità con ritmo, cadenza dei suoni e consapevolezza fonologica.

Ma perché parlare di musica, associata alla lettura perinatale? La lettura, e più in generale le parole accostate l’una all’altra, hanno, come già accennato, una propria e spiccata musicalità che il bambino sarà in grado di riconoscere già nel periodo perinatale.

Negli albi illustrati per la primissima infanzia le parole che accompagnano le immagini sono ricercate non solo come narrazione (che per l’infante ha ben poco significato), ma anche e soprattutto per l’importanza della sonorità e della musicalità delle parole stesse. La semplicità, associata alla ridondanza, alla ripetizione di sillabe, parole o frasi, fanno assumere familiarità al suono-parola, rendendolo consueto e piacevole

QUADERNI ACP 2/2024 71 I PRIMI MILLE

nell’esperienza quotidiana. Se poi si parla, più nello specifico, di albi in rima o pensati per bimbi piccolissimi, risulta ancora più immediato il ricorso alla musicalità: l’intonazione della lettura, il tono delle parole ripetute e riprese con minime variazioni, proprie della rima, suonano e ritornano, accompagnano le immagini e schiudono mondi intangibili, proprio come un brano classico che sollecita specifiche corde per creare magiche vibrazioni.

Proprio le vibrazioni sono ciò che permette al suono di propagarsi attraverso l’aria (e l’acqua, nel caso del liquido amniotico) e di essere percepito dall’orecchio umano.

Le parole e le frasi o, più in generale, il linguaggio sottostanno alle medesime regole del suono inteso in senso stretto, per quanto riguarda la loro trasmissione e comprensione.

Sarà interessante, allora, provare a cambiare libro, intonazione, modo di lettura o lettore stesso, per osservare e sentire i mutamenti che ciò provocherà nelle reazioni del feto, provando anche a capire ciò che più lo sollecita, dandogli stimoli.

La prima volta che ho sentito della musica, non era la prima volta.

da La prima volta che sono nata, Sinnos, 2006

Nella mia esperienza di futura mamma, dopo aver proposto la lettura di una ristretta gamma di albi illustrati, ho notato come fossero proprio quelli in rima con una spiccata musicalità data da rime, ripetizioni, allitterazioni o cadenza ritmate, a generare maggiori risposte in termini di tipologia e durata dei movimenti fetali: la bambina produceva movimenti per tutta la durata della lettura, con intensità e frequenza più costante rispetto ai canonici “calcetti” dovuti al cambio di posizione.

Ciò si collega a quanto sostenuto da Gaston: il ritmo, qui inteso come cadenza della rima e dell’intonazione, “stimola l’azione muscolare e induce all’attività fisica” [2].

Osservazioni simili, legate per lo più alla tonalità dello stimolo sonoro, ho potuto trarle dall’esecuzione di brani in un’orchestra da camera, con strumenti classici (violini, flauto, oboe, violoncelli e contrabbasso): i suoni gravi provocavano un aumento dei movimenti fetali, rispetto ai suoni acuti.

Da queste osservazioni emerge l’importanza di variare non solo l’albo illustrato da leggere, per capire quale susciti più risposte (spesso legate anche alle emozioni mosse nella madre), ma anche il lettore: la voce del papà, solitamente più grave di quella materna, fornirà uno stimolo diverso, andando a generare diverse risposte.

Trasmettere emozioni

La musica è un’abilità innata, impressa nel nostro DNA emotivo e il senso del ritmo è dentro di noi fin dalla vita prenatale. La voce, con la sua melodia, il timbro, gli accenti, fa trasparire le emozioni più intime, senza possibilità di controllo. Sono proprio le emozioni che modificano questi fattori, rendendo l’elemento vocale manifestazione di diversi vissuti emotivi. La voce materna o, più in generale, dei genitori, caratterizza l’ambiente d’attesa e costruisce la relazione genitore/feto, guidando alla conoscenza del mondo [6].

La lettura di albi illustrati allora, grazie alle caratteristiche linguistiche e musicali proprie delle parole ricercate per accompagnare le immagini, diviene anch’essa trasmettitrice di emozioni, in particolare di quelle suscitate dall’albo stesso. Leggere e parlare al pancione dovrebbe essere un momento piacevole, di condivisione di vissuti e di tempo, dedicato a sé e al proprio bambino.

La rilettura dei medesimi libri e quindi la ripetizione del ritmo proposto negli albi (soprattutto quelli in rima, pensati per la primissima infanzia), oltre a creare familiarità, porterà a un aumento della commozione ritmica, intesa come coinvolgimento emotivo e sensazione piacevole generata dall’ascolto della musica (qui

sotto forma di musicalità del linguaggio): il bambino, nella rilettura, ritroverà il momento piacevole vissuto in precedenza [2]. Le emozioni che vengono evocate da parole e immagini fanno entrare in relazione il lettore e l’ascoltatore, andando a creare un involucro, uno spazio di condivisione profonda e sincera nel quale ci si incontra attivamente e reciprocamente. Quando l’adulto parla, racconta o legge una storia, il bambino percepisce lo stare insieme, c’è comunicazione, condivisione e nasce una sensazione di protezione e sicurezza

Questa sicurezza che si crea dialogando e leggendo al bambino in fase perinatale sarà quella che lui poi ricercherà una volta nato, rassicurandosi semplicemente nel sentire la voce dei genitori.

Tramite le emozioni veicolate da racconti, letture e riletture, si andrà quindi instaurando la relazione primaria con i genitori, basata su affetti e sensazioni fisiche e corporee, nelle quali il bambino troverà poi la “base sicura” da cui partire per l’esplorazione del mondo.

Il ruolo del papà

E quando il nostro cucciolo partirà per esplorare questo grande mondo, tu non sarai mai troppo lontano. da Papà-isola, Babalibri, 2014

Come già accennato in precedenza, la propagazione dei suoni gravi è diversa da quella dei suoni acuti e, di conseguenza, anche la voce dei papà arriva al feto e al bambino in modo diverso da quella della mamma.

Ecco come un padre, che potrebbe sembrare, inizialmente, un elemento marginale nella costruzione delle relazioni familiari del bambino, diviene invece membro fondamentale già dalla gestazione.

Proprio in questo periodo, delicatissimo, si creano ricordi atavici e basilari per la futura essenza dell’individuo: il neonato è capace di creare una sua primordiale identità sulla base di sensazioni e stimoli ritmico-sonori che provengono dall’ambiente. La relazione primaria per il neonato passa attraverso il tocco; tocco che in età fetale viene percepito prevalentemente da stimoli tattili propagati dal liquido amniotico. Non solo tocchi veri e propri, ma anche diversi tipi di vibrazioni, causate da diversi tipi di rumori, stimoli sonori e voci.

Un padre presente già in gravidanza sarà quindi arricchente per il figlio, che riceverà stimoli diversi da quelli materni e ambientali, e imparerà a rispondere in modo diverso agli stessi, costruendo relazioni precoci.

Nella mia esperienza è stato sorprendente osservare e sentire come la bambina nel pancione reagisse diversamente non solo al tocco del papà rispetto al mio, ma anche e soprattutto alla sua voce.

Questa capacità di riconoscimento e discriminazione degli stimoli diviene spunto per una necessità di partecipazione attiva dei padri, durante il periodo gestazionale: questo garantirà, tramite maggiori tipologie di sollecitazioni, una maggiore condivisione di emozioni e di vissuti, base per la costruzione di un buon vocabolario emozionale.

Coinvolgere il papà nella relazione, inoltre, non è utile solo per il bambino, ma per il padre stesso: questa vicinanza emotiva lo aiuta a entrare nella diade mamma-bambino, a conoscere aspetti della gravidanza intimi e magari difficilmente esprimibili a parole, aumentando il suo coinvolgimento e traducendosi in una maggiore propensione alla cura neonatale, quando il bambino sarà nato. Ciò aiuta a svincolarsi dalla tradizionale idea della mamma come unico caregiver, aprendo anche al padre la possibilità di vivere importantissimi momenti con il figlio neonato ed evitando, al contrario, di sentirsi escluso dalla nuova realtà familiare.

Tornando agli albi illustrati, gli stessi testi, letti dalla madre o dal padre, arrivano diversamente al bambino, non solo in ter-

QUADERNI ACP 2/2024 72 I PRIMI MILLE

mini di stimoli tattili: le emozioni mosse nell’uno o nell’altro genitore saranno diverse e molteplici, veicolate da voce, intonazione e cadenza.

L’albo illustrato diverrà inoltre costruttore di relazione tra i genitori stessi. Perché la lettura arrivi al bambino nel pancione, mamma e papà dovranno essere necessariamente vicini. Questa vicinanza non sarà solo fisica, ma anche emotiva: viene richiesta una condivisione profonda di vissuti che l’albo può far emergere e che saranno poi messi in gioco nella nuova famiglia.

Conclusioni

La ricchezza del dialogo e della lettura perinatali è evidente per la quantità di benefici a livello sensoriale e di stimolazione. Tutto ciò che viene messo in moto, dalle emozioni all’acquisizione della musicalità della lingua, fino agli aspetti più biologici come gli stimoli tattili, sono propedeutici a uno sviluppo armonico di competenze sociali alle quali il bambino si appoggerà per tutta la vita futura.

Gli albi illustrati si inseriscono perfettamente in questo, in quanto le loro molteplici potenzialità a livello relazionale, emotivo, linguistico e musicale li rendono strumenti privilegiati alla portata di tutti, pur mantenendo la semplicità e la familiarità di un oggetto da sempre amato e conosciuto, qual è il libro.

Bibliografia

1. Tafuri J. Nascere musicali, percorsi per educatori e genitori. EDT, 2007.

2. Casotto C, Danieli R, Veronese S. Si certo però... Guida alle attività motorie ritmico-espressive. Cortina, 2001.

3. Vecchini S. Una frescura al centro del petto. Topipittori, 2019.

4. Marchesi M. L’udito, il senso che avvia la relazione tra genitore e bambino. UPPA. 2019:103.

5. Ferrari R. L’affascinante rapporto tra musica e linguaggio. Yamaha Educational, 2019.

6. Nardi MT. Cantami, o mamma. Taita Press, 2019.

Bibliografia degli albi illustrati

y Bordiglioni S, Carminati C, Formentini P, et al. Gocce di voce. Fatatrac, 2006.

y Minhós Martins I, Matoso M. Quando sono nato. Topipittori, 2009.

y Bellemo C, Baladan A. Storia piccola. Topipittori, 2015.

y Romanyshyn R, Lesiv A. Forte, piano, in un sussurro. Jaca Book, 2018.

y Cuvellier V, Dutertre C. La prima volta che sono nata. Sinnos, 2006.

y Jadoul E. Papà-isola. Babalibri, 2014.

giudi93@gmail.com

Il mondo di Barbie dottoressa è abitato da pediatre, dentiste e infermiere

Nel tradizionale articolo natalizio, abitualmente in bilico tra il serio e il faceto, il BMJ ci propone uno studio che invita il lettore a riflettere su alcuni stereotipi di genere fortemente radicati in campo medico e incoraggia la nuova generazione di ragazze in ascesa a sognare in grande [1].

In un’analisi di 92 bambole Barbie (Mattel), l’autrice del lavoro segnala che le diverse carriere sanitario-scientifiche erano rappresentate con una numerosità ben definita: 53 medico, 10 scienziato, 2 educatore scientifico, 15 infermiere, 11 dentista e 1 paramedico. Le bambole rappresentative delle professioni sanitarie trattavano in maggioranza (66%) bambini, con solo il 4% che sembravano lavorare con gli adulti. Il 59% delle bambole erano bianche, il 28% nere e il 6% dell’Asia orientale e nessuna aveva disabilità fisiche. Tutte le dottoresse del marchio Barbie sembravano non avere alcuna specializzazione o erano pediatre senza apparente sottospecializzazione. L’analisi ha mostrato che gli accessori di sicurezza personale delle bambole erano inadeguati per la pratica standard: il 98% era dotato di stetoscopi, ma solo il 4% aveva mascherine. Nel complesso, il gruppo delle Barbie rimandava soltanto a una gamma molto limitata di carriere mediche verso le quali le professioniste di genere femminile sembrava fossero più portate (o destinate, non sappiamo) a impegnarsi.

Non c’è dubbio che, nel mondo di Barbie, sembra che la specialità più confacente al personaggio sia quella pediatrica. È una pediatria generica, non specialistica, che si occupa di bambini che appaiono in buona salute e che, pertanto, si deve desumere essere “semplice” e, magari, anche piacevole. Il genere femminile, impegnato nel sanitario, appare sempre e comunque come “protettivo” nei confronti dell’infanzia.

Interessante è anche la lettura dell’editoriale di accompagnamento all’articolo a firma di quattro chirurghe (donne) che sottolineano come il mondo di Barbie si limiti a prendere atto del contesto sanitario attuale mentre potrebbe e dovrebbe fare di più per aprire la mente delle giovani generazioni femminili verso orizzonti professionali più ampi e diversificati. Perché non rappresentare donne chirurghe, scienziate, dedite alla fisica nucleare o alle tipiche discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics)? Anche una Barbie potrebbe essere d’ispirazione.

1. Klamer K. Dream House. An analysis of Barbie medical and science career dolls: a descriptive quantitative study. BMJ. 2023 Dec 18:383:e077276.

2. Griggs C, McKinley S, Rangel E, Parangi S. This Barbie is a surgeon. BMJ. 2023 Dec 18:383:2781.

QUADERNI ACP 2/2024 73 I PRIMI MILLE

Focus sull’autonomia differenziata

Da questo numero inizia un focus sull’autonomia differenziata e tutte le sue possibili implicazioni, con particolare attenzione alla diseguaglianze nell’età evolutiva. Ospitiamo i primi due contributi a firma di Paolo Siani e Mario De Curtis. La rubrica proseguirà nei prossimi numeri e aspettiamo i vostri contributi.

La redazione

Perché ci dobbiamo occupare di autonomia differenziata

Si tratta di una riforma che prevede il decentramento alle Regioni di diverse competenze oggi attribuite allo Stato e in particolare sanità, lavoro, ambiente e istruzione.

Se approvata dal Parlamento, le Regioni avranno la possibilità di legiferare autonomamente, cosa che già avviene adesso, ma anche di trattenere, e questa è la novità, il proprio gettito fiscale, che non sarebbe più distribuito su base nazionale a seconda delle necessità collettive (come accade adesso) sulle quattro materie stabilite.

La proposta deriva dalla richiesta di 3 Regioni del Nord (Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna) che per prime hanno chiesto di calcolare il residuo fiscale, che è la differenza tra ciò che un individuo paga di imposte e ciò che riceve in termini di spesa pubblica, cioè di servizi, non su base individuale bensì territoriale, violando così il principio etico su cui si fonda la norma.

Il punto chiave per la politica economica è che la redistribuzione operata dall’azione pubblica non è fra territori ma fra individui.

Per questo motivo la norma prevede anche la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) per evitare il rischio che ci siano troppe differenze territoriali su alcuni servizi, ed è stato istituito un comitato coordinato dal professor Cassese che, in un documento di oltre 700 pagine, chiarisce l’importanza decisiva della definizione dei LEP prima che venga approvata la norma.

I LEP costituiscono, secondo il comitato, “un parametro che deve guidare la pubblica amministrazione nella erogazione delle prestazioni”. La pubblica amministrazione, grazie alla quantificazione finanziaria correlata al LEP, è posta nelle condizioni di potere erogare la prestazione nella qualità e nella quantità tale da rispettare il criterio della uniformità sull’intero territorio nazionale.

Inoltre, il comitato afferma che la giurisprudenza costituzionale ha chiarito (recentemente, per esempio, con la sentenza n. 220 del 2021) che i LEP indicano la soglia di spesa costituzionalmente necessaria per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale”.

Il comitato LEP ritiene inoltre che in materia di salute non sia necessario definire i LEP, vista la presenza dei LEA. In sanità oggi nel nostro Paese esistono importanti differenze territoriali certificate ogni anno dai punteggi LEA che vengono raggiunti dalle Regioni del Nord e non da quelle del Sud.

Rispetto al 2020 le Regioni adempienti per i LEA nel 2021 salgono da 11 a 14 e sono: Abruzzo, Basilicata, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche,

Provincia autonoma di Trento, Piemonte, Puglia, Toscana, Umbria, Veneto. In particolare, dal 2020 al 2021, tre Regioni diventano adempienti: Abruzzo, Basilicata e Liguria. Rimangono inadempienti 7 regioni: Campania, Molise, Provincia autonoma di Bolzano, Sicilia, Sardegna, Calabria e Valle D’Aosta. Prendendo in considerazione “i viaggi della salute” come vengono definiti in un recente documento della Corte dei conti, si evince che l’emigrazione sanitaria da Sud verso Nord, ha creato un enorme deficit nei conti delle Regioni del Mezzogiorno.

Nel decennio che va dal 2010 fino al 2019, e che ha riguardato il riparto del Fondo sanitario nazionale fino al 2021, tredici Regioni quasi tutte meridionali, hanno accumulato un saldo negativo di 14 miliardi. Soldi che sono finiti nelle casse della Sanità delle Regioni più ricche: Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna.

Nel riparto dei fondi tra le regioni per il SSN e pubblicato in GU il 21 marzo 23, si evince che la Campania, per esempio, ha accumulato per la mobilità extraregionale un deficit di 266.538,969 mentre la Lombardia è in attivo di 402.823.548 euro.

Sono 6 le Regioni che hanno una mobilità sanitaria in positivo: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Toscana, Molise.

Si segnala infine che l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù ha un saldo attivo di 251.072.123 euro.

Al momento il governo non ha ancora definito le risorse aggiuntive necessarie a garantire gli stessi servizi in qualsiasi Regione. È superfluo ricordare che, dove ci sono più risorse, cioè maggiori capacità fiscali, i servizi sono sempre migliori. Il PIL pro capite degli abitanti del Nordovest è quasi il doppio di quello dei connazionali del Mezzogiorno: 40.900 euro contro 21.700 euro (+88,5%).

La Provincia autonoma di Bolzano ha un PIL per abitante di 54,5 mila euro, seguita da Lombardia (44,4 mila), Provincia autonoma di Trento (44,2 mila euro) e Valle d’Aosta (43,7 mila euro). Il Lazio ha un PIL per abitante pari a 37,2 mila euro, seguita dalla Toscana (35,1mila), dalle Marche (30,8 mila) e dall’Umbria (28,2 mila euro).

A Sud, nel 2022 la Basilicata è la regione con il PIL per abitante più alto (27,8 mila euro), a seguire Abruzzo (27mila), Molise (24,5 mila) e Sardegna (23,7 mila), poi la Campania (21,2 mila euro), la Sicilia (20,1 mila euro) e per finire la Calabria all’ultimo posto con 19,4 mila euro.

Se non interviene lo Stato per riequilibrare le risorse economiche, così come avviene attualmente, è evidente che chi ha più risorse avrà più operatori sanitari, migliori tecnologie, farmaci più avanzati. Così come è evidente che, se non si evita questa disparità di trattamento tra le Regioni, “i viaggi della salute” dei cittadini del Sud del Paese verso le Regioni del Nord aumenteranno in modo esponenziale, mettendo così a rischio l’organizzazione e l’efficienza delle stesse strutture del Centro-Nord.

Inoltre, AGENAS ha reso noto il rapporto tra personale del SSN e popolazione per regione: la media italiana è di 6,1. Sono al di sopra della media l’Emilia-Romagna con un rapporto di 8,7, il Piemonte con 7, il Veneto con 7,18. Risultano invece al di sotto della media la Lombardia con 5,63 (unica Regione del Nord), la Calabria 5,67, la Puglia 5,60, la Sicilia 5,30 e la Campania 5,04.

Inoltre, è stato calcolato il tasso di turnover dei medici e degli infermieri per Regione, calcolando il rapporto tra il numero degli assunti a quello dei pensionati per ogni anno: se maggiore di 100, indica che si è in presenza di un ampliamento delle risorse; al contrario, se minore di 100, si è in presenza di una contrazione dell’organico.

Come si vede nella Tabella 1, solo le regioni del Centro-Nord presentano un ampliamento delle risorse.

QUADERNI ACP 2/2024 74 FOCUS

(Fonte: elaborazione Agenas su CA 2020 (sono state considerate solo le Regioni con più di 40.000 professionisti).

Infine va affrontato il tema dell’economia non osservata. Si tratta di quelle attività economiche che per diverse ragioni non risultano direttamente rilevabili: attività legali ma non dichiarate, soprattutto a fini fiscali; lavori illegali che vedono almeno una violazione del Codice penale; attività che comprendono la produzione a uso domestico e anche contratti informali in contesti di poco più ampi rispetto a quello familiare.

Per queste attività non vengono versati contributi, tasse o imposte impoverendo così le casse dello Stato. Questo tipo di economia ha un peso molto alto nel Mezzogiorno, dove rappresenta il 17,2% del complesso del valore aggiunto, seguito dal Centro (12,3%). Sensibilmente più limitata, inferiore alla media nazionale, è l’incidenza nel Nord-Est (9,7%) e nel NordOvest (9,2%).

In definitiva se non si attua una redistribuzione delle risorse in base ai livelli essenziali delle prestazioni, se non si colpisce l’economia non osservata, l’autonomia differenziata potrebbe dividere il Paese in un Nord sempre più ricco ed efficiente rispetto al Sud che continuerà ad arretrare inesorabilmente.

Direttore Struttura complessa di Pediatria, Ospedale Santobono, Napoli; già vicepresidente Commissione bicamerale infanzia e adolescenza

Autonomia differenziata e mortalità infantile in Italia. Profonde disuguaglianze geografiche ed etniche

I tassi di mortalità infantile sono tra i più significativi indici per valutare lo sviluppo sanitario e civile di un Paese. Il loro monitoraggio è un importante strumento per identificare nel tempo le variazioni influenzate da fattori sanitari, economici, organizzativi e per prevedere e implementare efficaci interventi di politica sociale e sanitaria.

In uno studio appena pubblicato1 , utilizzando i più recenti dati dell’ISTAT, abbiamo analizzato l’andamento della mortalità infantile (numero di morti nel primo anno di vita per mille nati vivi) e la abbiamo correlata alla cittadinanza dei genitori, alla Regione e all’area di residenza.

Nel 2020, anno in cui sono nati 404.892 bambini, la mortalità infantile è stata del 2,5 per mille ed è risultata più elevata per i bambini residenti nel Mezzogiorno e per i figli di genitori stranieri, cioè senza cittadinanza italiana. Un bambino, sia italiano che straniero, che risiede nel Mezzogiorno ha un rischio di morire nel primo anno di vita del 70% più elevato di uno che nasce al Nord. Se il Mezzogiorno avesse avuto lo stesso tasso di mortalità del Nord non sarebbero morti 155 bambini. I bambini stranieri hanno un tasso di mortalità infantile del 60% superiore a quello di genitori italiani, e se risiedono nel Mezzogiorno, il rischio è ancora più elevato. Analizzando la mortalità infantile delle Regioni con la natalità più elevata nel 2020, cioè oltre a 10.000 nati/anno, si è osservato che

quelle con i tassi più elevati sono state la Calabria, la Sicilia, la Campania e la Puglia,mentre quelle con i più bassi tassi sono state: l’Emilia-Romagna, la Toscana, il Veneto e il Piemonte. Il rischio di mortalità infantile della Calabria è risultato essere due volte maggiore rispetto all’Emilia-Romagna e alla Toscana (rispettivamente 2,31 e 2,20), per la Sicilia leggermente inferiore a due (1,95 e 1,86).

La maggiore mortalità nelle Regioni del Mezzogiorno è principalmente legata a storiche problematiche economiche e sociali. È noto che una peggiore condizione sociale come quella legata alla povertà, più frequente nel Sud, è strettamente correlata a un maggiore rischio di malattia. Inoltre le Regioni del Mezzogiorno presentano un’organizzazione sanitaria più critica di quella presente nelle Regioni del Centro-Nord, ulteriormente aggravata negli ultimi anni dai piani di rientro dal deficit economico che hanno determinato un significativo taglio dei finanziamenti per la sanità. Un segno indiretto di questo divario è rappresentato da una maggiore migrazione sanitaria dei minori dalle Regioni del Mezzogiorno verso le Regioni del Centro-Nord per ricevere cure (11,9% di tutti i minori con un’età inferiore a 15 anni).

Nonostante l’Italia sia uno dei Paesi europei con tassi più bassi di mortalità infantile, presenta profonde disuguaglianze territoriali ed etniche. È fondamentale ridurre le disparità geografiche nell’assistenza e garantire una parità di accesso alle cure per tutti i cittadini attraverso la creazione di servizi distribuiti in modo equo sul territorio. Purtroppo in Italia la salute, anche quella infantile, pur essendo un diritto tutelato dalla Costituzione, dipende dalla Regione in cui si ha la fortuna o la sfortuna di nascere o di risiedere. Va ricordato che per il miglioramento dello stato salute è necessario migliorare le condizioni sociali e l’organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale. Particolare preoccupazione suscita l’annunciata legge sull’autonomia differenziata perché potrebbe privare le Regioni del Mezzogiorno di ingenti risorse economiche aggravando ulteriormente il divario con il resto dell’Italia. Il Paese ha bisogno di offrire a tutti i cittadini gli stessi diritti e gli stessi servizi e sicuramente non di non accentuare le differenze tra le Regioni.

Note

1. Simeoni S, Frova L, De Curtis M. Infant mortality in Italy: large geographic and ethnic inequalities. Ital J Pediatr. 2024 Jan 17;50(1):5.

Mario De Curtis Cattedra di Pediatria, Università di Roma La Sapienza; Presidente del Comitato per la Bioetica della Società Italiana di Pediatria

QUADERNI ACP 2/2024 75 FOCUS Tabella 1 medici infermieri Campania 69 57 Sicilia 69 62 Lazio 69 62 Emilia-Romagna 102 108 Lombardia 100 102 Piemonte 92 95 Toscana 105 95 Veneto 101 99 Italia 90 95

Fine vita dopo l’inizio della vita

Giuseppe Pagano

UOC Pediatria a Indirizzo Critico e Patologia Neonatale, AOUI Verona

Che sia visto in termini personali o trans-personali, che si tratti di Paradiso o Nirvana o Happy Hunting Ground o del Giardino del Paradiso, il peso e l’autorità della tradizione sostengono che la morte è solo un’alterazione del nostro stato di coscienza e che la qualità della nostra continua esistenza nell’aldilà dipende dalla qualità della nostra vita qui e ora.

Quando si parla di fine vita in età pediatrica ci si confronta con uno dei campi più delicati dell’assistenza al bambino con malattia inguaribile/incurabile. Le peculiarità che circondano questa fase della malattia del bambino sono legate principalmente alla “innaturalezza” per i caregiver nella realizzazione che il proprio bambino possa morire prima di un adulto, nonostante la consapevolezza della presenza di una malattia che potrà anche portare a questo momento. D’altro canto, la complessità clinica, spirituale e sociale di questo evento coinvolge inevitabilmente tutta la rete assistenziale del bambino, inclusi il resto della famiglia, i servizi sanitari e lo stesso pediatra di base. Ci si trova spesso impreparati alla gestione di un evento del genere che, come purtroppo molto spesso accade, avviene molto di più nell’età pediatrica, rispetto all’età adulta, all’interno di un ospedale; al contrario della normale tradizione della “morte” di un congiunto, che prevedeva fino a pochi anni fa (e tuttora avviene così nei Paesi in via di sviluppo) l’assistenza del proprio caro “fino all’ultimo respiro” e anche dopo presso il proprio domicilio, all’interno della propria casa con una serie di rituali, oltre che riti propri di ogni tradizione che aiutano spesso anche la fase dell’elaborazione del lutto. Spesso gli stessi curanti non sono compatti nello stabilire il “quando” è il momento di smettere di fare tentativi disperati per trovare una cura e quando è invece il momento di pensare al conforto, alla dignità e alla pace per un bambino e la sua famiglia. Non è assolutamente semplice dare risposta a queste ultime domande e solo un approccio globale e sistematico può offrire risposte, magari non perfette, ma che partono dall’evidenza della letteratura e della pratica clinica e assistenziale di questi bambini e delle loro famiglie.

Mentre ero al pronto soccorso per la seconda volta in 24 ore perché sentivo muovere meno il mio bambino, sempre rimandata a casa perché i controlli sembravano andare bene, i medici si accorgono di un problema della flussimetria e dal tanto atteso parto spontaneo proposto più volte dal mio ginecologo mi ritrovo a subire il primo squarcio del mio corpo con un cesareo d’emergenza. Nel giro di qualche ora per una complicanza ginecologica mi ritrovo in terapia intensiva e il mio bambino in terapia intensiva neonatale. Chiedo di andare dal mio bambino che mi hanno detto genericamente “nato brutto” che vuol dire “brutto” “ma vi sembra il modo di parlare del mio bambino?” Mio marito non osava dire nulla, mi faceva vedere solo delle foto dove il mio Carlo mi appariva con un tubo in bocca, sembrava dormire, “è sedato” dicevano i medici a mio marito che me lo riferiva nel tentativo di rassicurarmi un po’. Dopo 24

ore finalmente esco dalla terapia intensiva e nonostante la notte insonne chiedo di vedere Carlo: piccolo, fragile, immobile, gelido, con gli occhi chiusi. I medici dicono che ha avuto un’asfissia perinatale. Prima i giorni poi le settimane passano, pieni di fili, tubi, tiralatte per me, i medici tolgono il tubo due volte in quelle settimane per rimetterlo dopo qualche ora. Mi dicono che Carlo non riesce a gestire la saliva, che non respira regolarmente, che la risonanza magnetica del cervello mostra danni corticali e sottocorticali diffusi… “Ma che vuol dire?” chiedo. Vuol dire che probabilmente non parlerà, non sentirà, non camminerà e non potrà nutrirsi da solo. Da allora io, mio marito e nostra figlia Remi, allora di quattro anni, abbiamo vissuto in terapia intensiva per 22 giorni senza sapere cosa fare, con una strada interrotta per sempre, la strada di Carlo, la nostra strada. Qualcuno ci ha proposto un contatto con le cure palliative pediatriche, avevamo poco a che fare con loro e abbiamo sentito che erano la nostra ultima risorsa, secondo qualche familiare sembrava che coinvolgere le cure palliative avrebbe significato rinunciare a Carlo. Se solo avessimo saputo allora quello che sappiamo ora. Carlo ha trascorso l’ultima settimana della sua vita in un hospice pediatrico. Siamo stati una delle famiglie fortunate che hanno avuto l’opportunità di essere nutrite, guidate e sostenute attraverso l’addio più difficile che avremmo mai detto. Il personale dell’hospice è ora la nostra famiglia allargata e il servizio che hanno fornito a tutta la nostra unità familiare non ha prezzo. Carlo è morto con “mamma” da una parte e “papà” dall’altra del suo letto, dopo aver trascorso giorni sentendo l’aria fresca che entrava dalla finestra del giardino dell’hospice, con la sua sorellina maggiore che lo accarezzava ogni giorno mostrandogli tutte le sue bambole. Siamo così grati per la nostra cura di fine vita. In hospice, abbiamo incontrato famiglie che erano in lista d’attesa, alcune che avevano figli che sarebbero sopravvissuti in condizioni di disabilità importante, alcuni con bambini con malattia senza nome che assomigliavano a Carlo. Commossi dalla nostra esperienza e testimoniando le lotte degli altri, io e mio marito Francesco abbiamo deciso di cercare di essere una voce per queste famiglie, bambini malati, fratelli e nonni. Abbiamo iniziato a vedere più chiaramente le criticità delle cure palliative, la mancanza di finanziamenti e di consapevolezza e il modo incompleto in cui le cure palliative sono spesso percepite nella comunità. C’è un grande bisogno di più hospice pediatrici e di una presenza più forte di cure palliative nei nostri ospedali pediatrici. C’è l’opportunità di dissipare la paura come abbiamo sperimentato, attraverso l’impegno precoce, l’educazione e di sostenere in modo proattivo le persone negli ultimi giorni dei loro figli, al momento del loro dolore e oltre.

Introduzione

Le ultime ore, giorni, a volte settimane della vita di un bambino con malattia inguaribile/incurabile rappresentano una sfida per la sua famiglia e i professionisti che fanno parte della rete assistenziale del bambino. Parlare di fine vita in età pediatrica e di interventi non può prescindere dall’analizzare i famosi indicatori di processo necessari per “misurare” le strategie messe in atto dalla rete assistenziale che si occupa del bambino e della sua famiglia. Prima di questo e prima di decidere quali interventi mettere in atto per gestire al meglio questo aspetto, chi si occupa ogni giorno di cure palliative pediatriche (CPP), ribadisce il ruolo del “partire dai bisogni” del bambino e della sua famiglia.

Il bambino

I bambini con bisogni complessi sono molto eterogenei poiché, com’è vero che “un bambino non è un piccolo adulto” è altrettanto vero che “un bambino è fatto di tanti bambini” poiché diverse sono le peculiarità delle diverse età pediatriche in termini sia di sviluppo psicofisico, cognitivo, emozionale e spirituale, sia della condizione patologica di base a volte priva anche di

QUADERNI ACP 2/2024 76 FINE VITA

un’etichetta fisiopatologica. Possiamo distinguere 4 gruppi di bambini con i quali chi si occupa di cure palliative pediatriche deve confrontarsi [Tabella 1]: bambini con patologie “life threatening”; bambini con bisogni clinici complessi; bambini che sono dipendenti dalla tecnologia; bambini con disabilità del neurosviluppo “life limiting”. In ognuno di questi gruppi cambia un po’ il ruolo dello stesso bambino e della sua famiglia all’interno del sistema e spesso un bambino può avere in sé le caratteristiche comuni a tutti e 4 i gruppi. Con le diverse età cambiano inoltre gli aspetti relazionali e assistenziali all’interno del sistema bambino-famiglia, con un diverso coinvolgimento dei caregiver e della rete assistenziale che ruota intorno a loro; da una parte neonati con diagnosi spesso poste in utero di patologie incompatibili con la vita nei quali la complessità assistenziale ruota intorno alla mamma principalmente oltre che al papà e all’intera famiglia, fino a bambini con aspettative di vita brevi e prima che si sviluppi quella consapevolezza cognitiva della propria condizione di bambino o adolescente. La sfida dell’assistenza al fine vita in età pediatrica è pertanto, prima fra tutte, l’offrire la competenza nella gestione di questo aspetto che non coinvolge solo conoscenze farmacologiche o cliniche, ma soprattutto competenze comunicative e psicosociali necessarie all’approccio efficace al bambino con bisogni complessi e alla sua famiglia. Tanto per citare qualche esempio, in un articolo di circa 10 anni fa pubblicato sul New England Journal of Medicine veniva evidenziato come, in un’intervista di genitori di bambini deceduti per cancro all’ospedale di Boston, l’89% di essi dichiarava che i loro figli avevano sofferto molto a seguito del ricevimento di trattamenti aggressivi. Questa è una criticità legata “all’atteggiamento” dei medici che, concentrandosi solo o prevalentemente sugli aspetti curativi, scotomizzano un efficace controllo dei sintomi [1]. D’altronde se il dolore ha accompagnato questi bambini per tutto il corso della loro malattia, nella fase del fine vita costituisce spesso uno dei problemi principali da affrontare e che pesano più di altri aspetti, sulla qualità del fine vita di questi bambini fino alla capacità di elaborazione del lutto da parte dei genitori.

Tabella 1. 4 gruppi di bambini che hanno maggiori probabilità di una presa in carico da parte delle cure palliative in base alla loro condizione

Gruppo Condizione patologica

1 Condizioni “life threatening” per le quali il trattamento terapeutico può essere fattibile ma può fallire. Laddove l’accesso ai servizi di CPP può essere necessario quando il trattamento fallisce, i bambini in remissione a lungo termine o dopo un trattamento terapeutico efficace non sono inclusi (es. tumori, insufficienza d’organo (cuore, fegato, reni) irreversibile)

2 Condizioni nelle quali la morte prematura è inevitabile, in cui ci possono essere lunghi periodi di trattamento intensivo volti a prolungare la vita e consentire la partecipazione di questi bambini alle normali attività (es. fibrosi cistica)

3 Condizioni progressive senza opzioni di trattamento curativo, dove il trattamento è esclusivamente palliativo e può comunemente estendersi per molti anni (es. mucopolisaccaridosi, distrofia muscolare)

4 Condizioni irreversibili, che causano gravi disabilità che portano alla suscettibilità alle complicanze per la salute e alla probabilità di morte prematura (es. paralisi cerebrale infantile grave, esiti di asfissia severa)

La famiglia

I genitori di questi bambini partono da punti di vista molto diversi tra loro anche in base alla patologia del piccolo, alla presenza di una malattia sin dalla nascita piuttosto che alla sua

comparsa nel corso della vita di un bambino per loro atteso o considerato come “sano”. Questi punti di partenza diversi condizionano in qualche modo anche le aspettative dei genitori; alcuni di loro, nel corso della vita del loro bambino con bisogni complessi, hanno assistito a episodi critici con rischio di vita che poi si sono risolti e quindi, di fronte a una pianificazione di cura in corrispondenza del fine vita, si pongono con delle modalità molto diverse fra loro. A volta capita che le famiglie descrivono i loro bambini come “sani” non considerando così vicino il momento del fine vita; altre volte, stante la perdita di speranza, in eventi critici nell’arco della vita del bambino si pongono di fronte al fine vita con una sorta di atteggiamento “miracolistico” con false aspettative, spesso non chiarite dagli stessi curanti: ciò correla spesso con la loro volontà di non accettare questa fase della malattia del piccolo, chiedendo di fare “tutto quello che si può fare” e perdendo di vista i bisogni e la qualità della vita del loro piccolo. Spesso i medici curanti, con aspettative poco realistiche, contribuiscono a rendere difficile la realizzazione del progetto del fine vita del bambino, mantenendo terapie futili per tutto il tempo fino “all’ultimo”. A questo si aggiunge la percezione del momento della malattia “a due velocità” fra il caregiver principale (in genere la madre) e il secondario che, nel momento di affrontare la fase del fine vita, complica il raggiungimento di decisioni condivise fra i due coniugi in merito al prendere le decisioni. Anche la presenza dei fratelli condiziona spesso alcune decisioni, come per esempio il luogo da scegliere per il fine vita; la propria casa viene vista a volte non come luogo preferito per gli ultimi momenti della vita, proprio per la presenza di altri fratelli che, nel percepito dei genitori, vivrebbero male quei momenti, con l’instaurarsi di ulteriori difficoltà per loro dopo la morte del fratellino o della sorellina. In base a quest’ultimo punto c’è da dire che, mentre per l’adulto la preferenza del miglior luogo in cui morire è la propria casa, nel caso del bambino le evidenze a tal proposito sono contrastanti [2]. A volte anche il livello della tecnologia con la quale è assistito il piccolo può condizionare la scelta dei genitori di portarlo in ospedale o in un hospice, ma su questa scelta più di tutto interviene la paura di essere “soli” in quel momento.

I tempi del fine vita

Ogni bambino e ogni famiglia dovrebbero essere aiutati a decidere circa una pianificazione del fine vita e dovrebbero essere supportati in tutti gli aspetti e i tempi di questa pianificazione [Tabella 2]. Nel 2012 un gruppo di esperti ha stilato alcuni punti fondamentali raccolti nella carta dei diritti del bambino morente proprio per venire incontro prima di tutto al bambino [Tabella 3]. Quando si parla di “tempi del fine vita” si parla essenzialmente di 4 fasi della presa in carico:

• prima della morte;

• al momento della morte;

• dopo la morte;

• supporto nell’elaborazione del lutto.

Prima della morte

Le criticità di questa fase sono essenzialmente legate alla complessità nel prendere le decisioni e nella gestione dei sintomi. Va da sé che per il primo degli obiettivi è essenziale un’adeguata comunicazione che assurge a un ruolo centrale nella relazione fra gli operatori coinvolti nella rete assistenziale e tra questi, la famiglia e il bambino. Particolare cura dovrebbe essere data al linguaggio del corpo e alle capacità comunicative non verbali, alla capacità di ascolto, alla capacità di rimanere in silenzio, alle domande aperte e mirate, alla capacità di costruire un rapporto di fiducia sempre rispettoso dell’altro. I familiari del bambino e, quando possibile, lo stesso bambino dovrebbero essere coinvolti e aiutati nel prendere le decisioni, tenendo a mente che ogni famiglia reagisce in maniera diversa e ha bisogno di ricevere informazioni, anche in più momenti, nelle differenti fasi di questo

QUADERNI ACP 2/2024 77 FINE VITA

Tabella 2. Obiettivi della pianificazione del fine vita

– I professionisti dovrebbero essere aperti e onesti con le famiglie quando viene riconosciuto il momento che richiede un approccio al fine vita

– La pianificazione congiunta con le famiglie e i professionisti coinvolti dovrebbe avvenire il prima possibile

– Una pianificazione “scritta” dovrebbe essere concordata e condivisa con i servizi di emergenza e dovrebbe includere il livello di cure assistenziali in caso di rianimazione

– Le pianificazioni anticipate di assistenza dovrebbero essere riviste e modificate in base ai cambiamenti della traiettoria delle condizioni del bambino

– Dovrebbe essere pianificato un piano di gestione dei sintomi di 24 ore che includa le modalità di accesso ai farmaci necessari

– I professionisti della rete, deputati alla gestione dei sintomi dovrebbero essere competenti e qualificati allo scopo preposto

– Dovrebbe essere reso disponibile un supporto emotivo e spirituale per il bambino e la sua famiglia

– I bambini e le loro famiglie dovrebbero essere sostenuti nel raggiungimento delle loro scelte relative al fine vita

– Ci deve essere una chiara comprensione dei processi formali e dei tempi necessari nelle cure dopo la morte

– Le famiglie dovrebbero avere tempo e privacy con il loro bambino dopo la morte

processo. I curanti devono considerare che i genitori del bambino possono cambiare spesso il loro punto di vista, per cui il loro atteggiamento deve mantenersi sempre non giudicante. La più importante abilità da apprendere prima di addentrarsi nella gestione congiunta di un trattamento in tutti gli ambiti delle CPP è tuttavia la capacità di impegnarsi pienamente per garantire l’instaurarsi di fiducia tra l’équipe, il bambino e la sua famiglia [3,4]. Nella gestione del processo bisognerebbe cominciare introducendo il bambino e ricapitolandone la storia, passando a come tutto questo possa modificarsi e presentare bisogni diversi da quelli visti fino a quel momento. Ciò consentirebbe di pianificare insieme alla famiglia e al bambino, quando possibile, i passi successivi, verificando in ogni momento che vi sia comprensione delle cose dette, comunicando dove si vuole andare e quali sono gli obiettivi da raggiungere, cioè quella che viene definita una “pianificazione anticipata di cure”. In questa fase i genitori di un neonato possono chiedere quale sarà il destino del proprio bambino o quanto potrà sopravvivere, per cui il ruolo dell’équipe curante deve essere quello di rispondere in maniera onesta, sulla base delle evidenze della letteratura ed evitando derive irrealistiche. Spiegare ai genitori che il loro contributo nelle decisioni assistenziali è importante, ma che non saranno lasciati soli nel prendere le decisioni, rafforzando la presenza attiva del team multidisciplinare e del case manager, fornendo informazioni in merito al ruolo che tale figura ha e che potrebbe cambiare in base ai bisogni assistenziali o al setting di cura. Particolare attenzione andrà offerta ai fratelli che avranno da affrontare diverse criticità, quali la malattia e la morte del loro fratello e gli effetti del lutto su genitori e caregiver. Affrontare il fine vita vuol dire che, una volta individuato, il momento va discusso con i genitori riguardo cosa potrebbe aiutarli e confortarli, esplorando dunque gli aspetti relativi alla spiritualità, la raccolta dei ricordi (fotografie, ciocche di capelli, impronte delle mani) e, in tempi di social, anche i contenuti dei social media. Va concordato il luogo dove il bambino e la sua famiglia vogliono essere assistiti nel fine vita. Ciò deve tener conto di desideri personali e individuali, valori religiosi, spirituali e culturali, indicazioni dei professionisti sanitari coinvolti nel caso e, non ultimi, due fattori come la sicurezza e la praticità, legati al livello di invasività al quale è sottoposto il bambino. Va esplicitato ai genitori che le decisioni prese possono essere modificate, in particolare il luogo del fine vita; ciò perché a volte i genitori possono cambiare idea o spesso

Tabella 3. Carta di Trieste sui diritti del bambino morente

– Essere considerato una persona fino alla morte, indipendentemente dall’età, dal luogo, dalla situazione e dal contesto assistenziale

– Ricevere un’adeguata terapia del dolore e dei sintomi fisici e psichici che provocano sofferenza, attraverso un’assistenza qualificata, globale e continua

– Essere ascoltato e informato sulla propria malattia nel rispetto delle sue richieste, dell’età e della capacità di comprensione

– Partecipare, sulla base delle proprie capacità, valori e desideri, alle scelte che riguardano la sua vita, la sua malattia e la sua morte

– Esprimere e vedere accolte le proprie emozioni, desideri e aspettative

– Essere rispettato nei suoi valori culturali, spirituali e religiosi e ricevere cura e assistenza spirituale secondo i propri desideri e la propria volontà

– Avere una vita sociale e di relazione commisurate all’età, alle sue condizioni e alle sue aspettative

– Avere accanto la famiglia e le persone care adeguatamente aiutate nell’organizzazione e nella partecipazione alle cure sostenute nell’affrontare il carico emotivo e gestionale provocato dalle condizioni del bambino

– Essere accudito e assistito in un ambiente appropriato alla sua età, ai suoi bisogni e ai suoi desideri e che consenta la vicinanza e la partecipazione dei genitori

– Usufruire di specifici servizi di cure palliative pediatriche, che rispettino il migliore interesse del bambino e che evitino sia trattamenti futili o sproporzionati sia l’abbandono terapeutico

le condizioni del bambino richiedono un cambio di rotta. Per i bambini che necessitano di assistenza durante il fine vita presso il loro domicilio, dovrebbero essere garantiti consulenza h24 da parte di uno specialista di cure palliative pediatriche, assistenza infermieristica pediatrica h24, visite domiciliari da parte di uno specialista delle cure palliative per la gestione dei sintomi, un supporto pratico con dispositivi necessari all’assistenza (es. ossigeno, aspiratore, nutrizione enterale terapie endovenose ecc.) e la prescrizione anticipata per bambini che hanno maggiore probabilità di sviluppare alcuni sintomi (es. stipsi in caso di somministrazione regolare di oppioidi ecc.) [5]. Parte di ciò che rende le persone umane è la necessità di dare un senso alla vita e trovare un significato alla morte, aspetto per molti raggiunto mediante la spiritualità, la fede e i valori culturali; da qui la necessità per il team di esplorare la cultura, i valori e le credenze della famiglia per arrivare a offrire il supporto migliore anche in questo ambito. È importante considerare che non avere una religione non vuol dire non avere una spiritualità o rituali (es. in alcuni contesti il funerale del bambino può essere fatto subito dopo la morte, in altri contesti viene contemplata la cura della salma prima di procedere alle esequie) [6,7].

Nessun approccio psicologico, organizzativo o comunicativo può essere intrapreso senza un adeguato controllo dei sintomi. I genitori e soprattutto i bambini, quando hanno un livello cognitivo adeguato, hanno più paura dei “sintomi del morire” piuttosto che della stessa morte per cui uno degli obiettivi più importanti per il bambino e la sua famiglia è affrontare adeguatamente questi sintomi con competenza, oltre che con la giusta vicinanza. Alla fine della vita di un bambino la diagnosi, l’età, l’abilità a comunicare giocano un ruolo fondamentale nell’esprimere il distress e questi fattori influenzano anche l’abilità del clinico nell’interpretazione degli stessi. Spesso anche la percezione dei sintomi del bambino da parte del caregiver può essere variabile. Alcuni bambini e alcuni genitori possono trarre beneficio dal sentire quali segni fisici fanno parte del fine vita e che possono comportare non solo dolore ma anche angoscia (es. gemiti, irrequietezza, smorfie facciali, corrugamento della

QUADERNI ACP 2/2024 78 FINE VITA

fronte ecc.). Questa narrazione da parte dei genitori e del bambino con il curante può aiutare a fortificare l’alleanza terapeutica, soprattutto in un contesto nel quale la presenza del personale sanitario accanto al bambino può essere intermittente. Il trattamento inadeguato dei sintomi presenti nel fine vita inoltre può condizionare anche difficoltà nell’elaborazione del lutto da parte dei genitori: da qui la necessità di dare un’adeguata risposta a questi sintomi come una vera e propria “emergenza” nel processo assistenziale. I sintomi più comuni nel fine vita sono dati da dolore, dispnea, ansia, agitazione o delirium, “fatigue”, nausea, vomito, inappetenza: l’approccio a questi sintomi prevede tecniche non farmacologiche e farmacologiche. A volte i genitori sono impauriti dal fatto che l’utilizzo dei farmaci analgosedativi possa in qualche modo accelerare la morte [8]: per tale motivo, da una parte il medico deve bilanciarne l’utilizzo per ottenere l’effetto desiderato, e dall’altra riparlarne con i genitori spesso per calibrare i trattamenti sugli obiettivi con loro condivisi riguardo al bambino.

Al momento della morte

Nei bambini con condizioni “life limiting” o “life threatening” la morte può avvenire improvvisamente oppure no; il bambino può essere collegato macchinari (es. ventilazione meccanica, dialisi) oppure avere un’infusione di farmaci vaso attivi e/o idratazione. Il compito dell’équipe curante deve essere quello di spiegare ai genitori gli obiettivi dei trattamenti in corso rispetto ai reali bisogni del bambino. Bisognerebbe evitare espressioni come “sospensione delle cure o dei supporti vitali”, concentrandosi piuttosto sul comunicare tutti quei trattamenti che possono non promuovere il comfort del bambino; la sospensione dei trattamenti di supporto vitale può essere eticamente sostenibile quando il peso del trattamento supera i benefici per il bambino [9]. La stessa nutrizione e idratazione vengono assimilati a trattamenti di supporto vitale e a tal proposito uno studio ha dimostrato che i genitori traggono giovamento, in termini di accettazione, dal fatto che il medico li rassicuri sul fatto che il bambino sta morendo per la sua malattia e non per la sospensione di questi trattamenti [10]. Nei casi in cui la sospensione di questi trattamenti non possa essere in alcun modo accettata dai genitori, anche dopo adeguati colloqui, può essere utile il coinvolgimento di un esperto in bioetica, fino al caso estremo dell’affrontare la questione in sede giudiziaria. Nelle ultime fasi della vita i genitori possono rivolgersi ai clinici dicendo “per favore fate qualcosa”, oppure “non potete aiutare il mio bambino?”: queste frasi vanno contestualizzate nell’enorme carico emozionale che coinvolge i familiari in quel momento, per cui bisogna rassicurarli sul fatto che si sta facendo ogni cosa per garantire comfort e pace al loro piccolo, senza modificare il piano di trattamento intrapreso insieme in precedenza. Spesso i genitori, quando il bambino è vicino alla fine della sua vita, cercando un significato e una ragione a quello che sta accadendo e possono chiedere anche in merito alla possibilità di una donazione degli organi. In tal caso il “case manager” può inserire nella rete assistenziale altri professionisti per fornire risposte adeguate a tale quesito.

Dopo la morte

Dopo la morte del bambino, i medici che lo hanno preso in carico devono affrontare una nuova fase di sostegno alla famiglia, occupandosi anche dell’espletamento delle pratiche post mortem (certificato di morte, richiesta o meno di autopsia) previste dallo Stato e dal regolamento ospedaliero (es. tempi di trattenimento della salma al domicilio o in ospedale, contatti con l’obitorio dell’ospedale ecc). Ma prima di questo il momento della dichiarazione di morte del bambino (in genere fatta da un medico vicino alla famiglia o dal medico che ha constatato il decesso in ospedale/hospice) definisce una pietra miliare per i genitori nei confronti della transizione attraverso il dolore della perdita: l’empatia del clinico e l’offerta della pro-

pria disponibilità hanno un impatto importante sull’elaborazione del lutto [11,12]. È opportuno non usare termini quali “passato” o “trapassato”, ma piuttosto offrire le proprie condoglianze per la perdita del loro bambino lasciando ai genitori tempo e spazio per fare domande [13]. È oltremodo utile permettere ai genitori di prendersi cura del corpo del proprio piccolo (es. fare l’ultimo bagnetto, vestirlo), anticipando i cambiamenti ai quali andrà incontro il bambino dopo la morte. A distanza di alcuni giorni è importante organizzare un debriefing con tutti gli operatori che si sono occupati del momento del fine vita e, dopo il funerale, chiedere ai genitori se desiderano un ulteriore contatto. Sarebbe una buona pratica offrire un controllo a distanza, congiunto, fra alcuni degli attori della rete assistenziale del bambino e la famiglia, esplorando anche la condizione dei fratelli e individuando nella comunità di appartenenza ulteriori servizi che possono essere di aiuto alla famiglia nel processo di elaborazione del lutto.

Supporto nella elaborazione del lutto

Cosa succede dopo la morte di un bambino poco dopo la nascita? Le risposte a questa domanda possono essere molteplici. Per sopravvivere a una tale perdita, i genitori devono sopportare l’insopportabile: amore straordinario seguito da dolore straordinario, dolore straziante, tristezza brutale, senso di colpa e solitudine [14]. La maggior parte delle persone è in grado di far fronte efficacemente al dolore senza un ulteriore intervento psicologico. Tuttavia, circa il 25-30% delle donne con dolore molto intenso sperimenterà anche problemi di salute mentale gravi e prolungati, come un rischio quadruplo di sviluppare sintomi depressivi, il doppio del rischio di screening positivo per l’ansia e più di sette volte il rischio di sviluppare un disturbo da stress post-traumatico (PTSD) [15-17], oltre a un aumento del doppio del rischio di morte prematura del genitore in lutto che può persistere fino a 15 anni dopo la morte del bambino [18]. Individuare i genitori a rischio di sviluppo di un’elaborazione sbagliata del lutto è fra gli scopi dell’équipe che si è occupata del bambino. A tal proposito, per le morti in epoca neonatale uno score predittivo validato soprattutto nelle madri è il “Perinatal Grief Intensity Scale”, di cui esistono anche delle app online, che aiuta gli operatori a individuare precocemente il livello di intensità del lutto e a intervenire tempestivamente [19,20]. Si sottolinea ulteriormente in questa fase la presa in carico anche dei fratelli del bambino deceduto, che vanno aiutati e supportati adeguatamente nel processo di elaborazione del lutto che può durare anche molto a lungo. Il dolore non ha una linea temporale finita ma è un processo adattivo. I supporti per il lutto forniti dagli hospice in genere terminano dopo un anno, anche se le famiglie probabilmente continuano ad aver bisogno di sostegno per gli anni a venire [21]. Le componenti della cura del lutto possono includere supporti da genitore a genitore, gruppi di lutto online o consulenza sul dolore.

Conclusioni

La morte di un bambino e i suoi ultimi periodi di vita vanno gestiti con una pianificazione di cure che coinvolge molti attori della rete assistenziale: la collaborazione di curanti, hospice, pediatra di famiglia, reti di supporto locale rappresenta un passo essenziale affinché si realizzi non solo quella che può essere definita una “buona morte”, ma anche un aiuto a una sana elaborazione del lutto da parte di “chi resta”. Bisogna ricordare che tutto non finisce con la morte del bambino, ma con un corretto recupero dell’equilibrio familiare, che va sostenuto attivamente da tutta la rete curante e non presente attorno alla famiglia.

La bibliografia di questo contributo è consultabile online.

QUADERNI ACP 2/2024 79 FINE VITA
peppepag@yahoo.it

Le tematiche salienti delle famiglie con madre nubile

Laura Fruggeri

Centro bolognese di terapia familiare

In ambulatorio

Martina, 32 anni, si presenta nel mio ambulatorio accompagnata dal proprio padre, un uomo di circa 65 anni molto attivo e orgoglioso del nipote, nato da pochi giorni. È la prima visita e, quando compilo l’anamnesi familiare e chiedo i nomi dei genitori, la madre dice: “il padre non c’è. Questo è il mio bimbo”. Si rifiuta di dare qualsiasi altra notizia rispetto al padre e si mostra fiera di aver condotto da sola questa gravidanza e aver deciso di avere questo bambino, che “porta il mio cognome”. Il nonno sorride e supporta le affermazioni della figlia. Martina ha un lavoro stabile, come segretaria presso uno studio privato; da poco si è trasferita di casa, scegliendo un’abitazione più vicina a suo padre in previsione di un sostegno per la crescita di Nicola. Martina e il nonno si mostrano molto accudenti e attenti nei confronti di Nicola; nei primi mesi sono entrambi sempre presenti alle visite di bilancio. Verso i 10 mesi Martina si presenta da sola alla visita programmata e durante il colloquio mi chiede: “Come faccio a parlare a Nicola dell’assenza del padre? Tra un po’ inizierà il nido e vedrà che gli altri bambini hanno un papà e una mamma e lui no. Io cosa gli dico?” Mi racconta allora che lei ha avuto per anni una relazione con il suo datore di lavoro, il quale ha una propria famiglia. Quando Nicola è nato, Martina dice che non si aspettava, come infatti è accaduto, che “lui” lo riconoscesse e, quando si è offerto di contribuire economicamente, lei ha declinato la proposta. Pur riconoscendosi orgogliosa della sua maternità e un genitore capace e competente, si sente “in colpa” nei confronti di Nicola per l’assenza della figura paterna. Non riesce, inoltre, ancora a immaginarsi come potrà parlargli del “padre”, senza trasmettergli il senso di delusione e l’amarezza che prova nei confronti di quest’uomo che “ha rifiutato suo figlio”. Questo tema sarà il leitmotiv di tutti i successivi bilanci di salute fino a oggi.

Le riflessioni stimolate dall’incontro con questa famiglia sono certamente frutto di miei forti pregiudizi nei confronti dei “padri disimpegnati” che collegano, ai miei occhi, le storie di tante famiglie con madre single incontrate in ambulatorio, come un fil rouge che sottolinea una “ferita” originaria. Certo è evidente, almeno nel racconto di Martina, la scelta consapevole e orgogliosa della propria genitorialità, il punto di forza credo su cui poter costruire una successiva “narrazione della nascita” al proprio figlio, ma il tema dell’abbandono subito resta un punto con il quale Martina si sta ancora misurando e che certamente avrà un ruolo nel come sceglierà di affrontare “l’assenza della figura paterna”.

Mi chiedo se questo tema dell’assenza, seppur nell’unicità di ogni situazione, possa in qualche modo essere considerato un aspetto comune nelle famiglie con genitore single, oppure rappresenti in questo caso una criticità del contesto familiare. E, ancora, in modo più generale, quali sono i temi a cui un pediatra deve porre attenzione nell’accompagnare queste famiglie nel loro percorso evolutivo?

Riflessioni a partire dal caso

La situazione presentata dal pediatra e le sue considerazioni in proposito forniscono lo stimolo per approfondire le tematiche fondamentali che le famiglie con madre nubile devono affrontare, ovvero: il giudizio sociale negativo sulla donna nubile con figli, l’assenza del padre biologico, la comunicazione su tale assenza e il vissuto della madre relativamente alla relazione tra lei e il padre biologico del figlio.

Il giudizio sociale negativo sulla donna nubile con figli

Il ricorso ancor oggi alla definizione un po’ dispregiativa e un po’ compassionevole di “ragazza madre” per indicare la donna nubile che ha un figlio è il sintomo sociolinguistico del perdurare di un giudizio negativo su tale figura. Pur non ricorrendo alle pratiche punitive che fino a non tanti decenni fa obbligavano le donne nubili ad abbandonare la prole o a essere esposte al pubblico ludibrio, la società patriarcale continua a rinnovare un pregiudizio negativo su di loro. Pochi anni fa sono stata intervistata da una giornalista che stava facendo un servizio sulle donne che sceglievano di avere figli senza un partner e la domanda con cui iniziò l’intervista è stata: “Qual è il problema psicologico di una donna che decide di avere un figlio senza un partner?” [sic]. Le feci notare il pregiudizio insito nella domanda e, ovviamente, l’articolo prese una piega molto diversa da quella che la giornalista si era immaginata! Il giudizio negativo sulle madri nubili deriva indubbiamente da una cultura passatista che individua nel matrimonio, nel patriarcato e nella famiglia tradizionale i suoi punti irrinunciabili. Ma non solo. La concezione negativa della madre nubile deriva anche dal fatto che le madri nubili sono state esclusivamente identificate come quelle che Poussin e Sayn [1] hanno denominato “madri nubili involontarie” per distinguerle da quelle “per scelta”. Le prime si trovano a subire una situazione di genitorialità che, non avendo desiderato o avendo sperato di portare avanti in due, devono affrontare da sole, spesso in un contesto socioeconomico svantaggiato; le madri nubili volontarie, oggi decisamente prevalenti, sono invece donne che, individuando nel rapporto con il figlio il contesto della propria realizzazione affettiva, scelgono la monogenitorialità, anche eventualmente pianificandola attraverso tecniche di procreazione assistita1 . Adottando un’ottica processuale, tuttavia, anche le famiglie che nascono sull’abbandono del partner maschile, non sono necessariamente votate alla disfunzionalità. Infatti, il modo in cui la famiglia monogenitoriale fa fronte a questo inizio critico dipende da come essa utilizzerà le risorse interne ed esterne nel corso del suo sviluppo. La qualità del funzionamento delle famiglie con madre nubile è infatti l’esito di un complesso intreccio di fattori di rischio e di fattori di protezione a livello individuale, familiare e sociale [2]. Ed è proprio questo dato della ricerca scientifica che sollecita ad affrontare l’interrogativo che il pediatra che ha proposto il caso ha formulato: “Quali sono i temi a cui un pediatra deve porre attenzione nell’accompagnare queste famiglie nel loro percorso evolutivo?” Il pediatra, infatti, è tra le risorse sociointerpersonali a disposizione delle famiglie nel fronteggiamento dei loro particolari compiti di sviluppo. Una prima doverosa risposta è quella dell’autoriflessività, ovvero della necessità di interrogarsi sui propri eventuali pregiudizi al riguardo. È difficile che un pediatra possa essere risorsa per una famiglia con madre nubile se ha dei pregiudizi verso le donne che scelgono (o anche subiscono) tale scelta. Ma, per essere di sostegno a queste famiglie, è anche importante riflettere sui giudizi negativi verso tutti i personaggi implicati, incluso il padre biologico che non ha riconosciuto il figlio, come anche il pediatra che ha presentato il caso lucidamente segnala. Infatti, come vedremo più avanti, nella comunicazione ai figli sull’assenza paterna è importante intrattenere delle conversazioni che restituiscano comunque ai figli un’immagi-

QUADERNI ACP 2/2024 80 TRAIETTORIE E ORIZZONTI FAMILIARI

ne non negativa del loro padre biologico. Aggiungerei infine che i pregiudizi possono anche investire i figli di queste famiglie, spesso trattati come vittime inconsapevoli della situazione; come figli a cui è stato sottratto qualcosa, quando come vedremo tra poco, l’assenza fisica di un padre non significa che i figli non possano godere comunque di una funzione paterna. Né pregiudizio, né pietismo dunque!

L’assenza del padre biologico

In una società ancora largamente patriarcale qual è la nostra, le famiglie caratterizzate dall’assenza del padre sono oggetto di pregiudizi e stereotipi, nonostante la ricerca scientifica abbia ampiamente dimostrato la loro infondatezza. Esse vengono considerate famiglie incomplete, mancanti di un elemento fondamentale: il genitore maschile. Eppure, anni di raccolta dati hanno documentato che per il benessere dei bambini è importante la qualità dell’ambiente familiare in cui crescono, indipendentemente dal fatto che i genitori siano conviventi, separati, risposati, single, dello stesso sesso [3]. Più in particolare, in un recente studio sulle famiglie con madre single, Golombok e collaboratori [4] concludono: “I risultati della presente indagine, aggiungendosi alle tante evidenze già acquisite, suggeriscono che la presenza di due genitori – o di un genitore maschio – non è essenziale per la crescita dei bambini”, p. 200 [corsivo mio].

La psicologia su questo tema, infatti, distingue fin dagli anni Ottanta tra padre come persona fisica e funzione paterna. Da questo punto di vista l’assenza del padre biologico non corrisponde automaticamente all’assenza della funzione paterna [5]. La struttura monadica della genitorialità, infatti, non deve trarre in inganno. Le famiglie monogenitoriali, come tutte le famiglie, non sono isolate, ma inserite in una complessa rete di rapporti interpersonali, di parentela, amicali e istituzionali, all’interno dei quali trovano anche un supporto all’esercizio delle loro funzioni, oltre che ai processi di coping che debbono essere attivati durante le molteplici transizioni che i gruppi familiari attraversano nel corso del loro sviluppo [6]. Secondo Lamb [7], i caregiver esterni alla famiglia possono fungere da elemento di compensazione rispetto a diverse funzioni familiari e questo indipendentemente dalla struttura delle famiglie, visto che anche i bambini che crescono in famiglie con due genitori hanno come riferimento un ventaglio di figure allevanti. È tuttavia evidente la particolare rilevanza che la presenza di “multiple caregivers” assume nel caso dei bambini che crescono in famiglie con un solo genitore.

È in questo contesto di rapporti che la questione dell’assenza paterna può trovare un’adeguata rielaborazione. In una situazione di assenza fisica di un padre, il ruolo paterno non viene necessariamente meno, ma può essere efficacemente ricoperto da altre figure presenti nel contesto delle relazioni significative della famiglia monogenitoriale in cui il bambino può trovare modelli maschili con i quali identificarsi, anche se non rappresentati da persone con le quali egli convive. A questo proposito la letteratura indica nell’autonomia della famiglia e nella connessione con il contesto sociale i due temi intrecciati il cui equilibrio risulta centrale in questo tipo di famiglie. L’autonomia della famiglia garantisce alla madre di esercitare il suo ruolo genitoriale e rassicura i figli sulla tenuta del loro contesto di appartenenza familiare. La connessione con il contesto sociale garantisce la presenza delle figure terze con cui la diade composta da madre e figli si rapporta nello sviluppo della dinamica triangolare che fa da contesto all’esercizio della genitorialità. È interessante che nel caso presentato, Martina si presenti alla visita pediatrica insieme al proprio padre, a segnalare che il suo bambino non è privo di supporti affettivi. Da questo punto di vista i pediatri possono sostenere, valorizzandola, questa genitorialità allargata che deve tuttavia realizzarsi in un equilibrio tra “dentro” e “fuori”. Infatti, ciò che assume centralità nel rap-

porto tra madre e figli, nelle famiglie monogenitoriali, è la capacità di triangolarsi con riferimenti esterni alla famiglia, senza perdere il senso della propria identità familiare, che Margareth Nelson [8] identifica con la capacità della madre di tenere per sé soprattutto le istanze disciplinari. Ella, infatti, descrive come l’equilibrio tra identità della famiglia monogenitoriale e condivisione della funzione genitoriale con altri è possibile quando la madre favorisce l’attaccamento dei figli anche ad altre figure di riferimento oltre a sé stessa, pur mantenendo dei confini chiari per quanto riguarda la disciplina; quando cioè “è aperta a condividere i piaceri della genitorialità, ma tiene per sé il potere di dire no”, p. 793.

La comunicazione sull’assenza del padre biologico e il vissuto della madre relativamente alla relazione tra lei e il padre biologico del figlio

All’interno della propria famiglia e nel rapporto di attaccamento con le proprie figure di riferimento, i figli di madri nubili sviluppano una propria rappresentazione della loro realtà familiare di appartenenza che costituisce per loro la “normalità”. In essa e nella rete dei rapporti extrafamiliari, i bambini possono trovare la risposta a tutti i loro bisogni senza sentimenti di mancanza rispetto a forme familiari diverse dalla propria. Il tema della diversità della loro famiglia si pone al momento dell’incontro col sistema normativo sociale che avviene intorno ai tre anni quando i bambini incominciano a scambiarsi informazioni sui rispettivi sistemi di appartenenza, confrontandoli rispetto alla loro composizione: presenza di fratelli o sorelle, di un papà, o due, di una o più mamme [9]. Naturalmente questo scambio/confronto procede man mano che l’età dei bambini avanza, dando origine a curiosità e richiesta di spiegazioni circa la loro “differenza”. È dunque sulla formazione della famiglia che i bambini si confrontano inizialmente ed è rispetto a questa che possono chiedere “perché io non ho un papà?”

Un primo aspetto, dunque, quando i bambini sono ancora piccoli, è quello di rassicurarli sul fatto che le famiglie possono avere tante forme: alcune con solo mamma, altre con un papà e una mamma, altre con un papà, altre ancora con due papà o due mamme. A sostegno di questo tipo di conversazione esistono dei libri molto creativi e utili a introdurre i bambini alla differenza familiare (basta cercare online “libri per bambini sulla diversità familiare” ed escono decine di titoli). Man mano che i bambini crescono, i loro interrogativi si focalizzano, tuttavia, sempre più sulla figura del padre biologico. L’accessibilità all’informazione è a questo punto fondamentale, i ragazzi devono cioè sentire che le domande sul padre assente possono essere formulate quando e se ne sentono il bisogno. A quel punto le risposte dovranno essere chiare ed essenziali2 Alcune indicazioni in proposito [10]:

1. Dire qualcosa di positivo sul padre biologico o almeno non dire nulla di male su di lui. Figli di madre nubile intervistati da adulti hanno raccontato di aver apprezzato quando la madre ha fatto commenti positivi sul padre biologico. Le madri possono cercare di tenere presente che se i figli soffrono già per l’assenza del padre, le critiche non fanno che rendere tutto più difficile. Mentre sapere che era una brava persona li aiuta a fare i conti con l’assenza.

2. Riconoscere l’assenza del padre e i possibili sentimenti del bambino in proposito. Se la madre evita le critiche e offre qualcosa di positivo sul padre, c’è l’opportunità di avere conversazioni più profonde nei momenti chiave in cui il bambino si apre con sentimenti di perdita, confusione o rabbia. È importante che la madre convalidi i sentimenti del bambino. La madre può semplicemente dire: “So che è difficile non avere tuo padre nella tua vita, e va bene che tu sia triste e arrabbiato a volte”. Ma anche ricordargli che ha tante altre persone che gli vogliono bene.

QUADERNI ACP 2/2024 81 TRAIETTORIE E ORIZZONTI FAMILIARI

3. Dire che non si sa perché è assente. Quando un bambino chiede perché il padre non è coinvolto, è meglio che la madre non cerchi di dare una spiegazione o almeno eviti di dare delle spiegazioni negative (“Non gli importa. È un irresponsabile”). La strada più sicura è dire con compassione:

“A volte le persone non si sentono capaci o non sono nelle condizioni di affrontare certe situazioni”.

4. Sottolineare che l’assenza non è colpa del bambino

Se questi sono alcuni suggerimenti, occorre comunque ricordare e sottolineare che si tratta di un dialogo che non può essere imposto, ma che può prendere corpo soltanto in risposta alle sollecitazioni e agli interrogativi del figlio. Da questo punto di vista è utile rassicurare le madri che sentono la comunicazione sull’assenza come urgente, che è importante che aspettino e rispettino i tempi della curiosità dei figli. Certo che i figli, per esprimere le loro curiosità, devono sentire che le domande sul padre assente possono essere formulate. E questo è inestricabilmente legato al modo in cui la madre elabora per sé stessa l’assenza del padre biologico. Spesso l’urgenza di parlare del padre biologico ai figli è più un’esigenza della madre che dei figli. Questo può essere il segnale di una mancata elaborazione dell’assenza. Il pediatra che intuisca questa circostanza può aiutare la madre a distinguere il bisogno proprio da quello del figlio, suggerendo di prendere contatti con uno psicoterapeuta perché l’elaborazione di perdite, abbandoni e delusioni ha bisogno di una competenza specifica che va oltre l’ascolto empatico.

In conclusione, è bene tenere presente che spesso la curiosità dei figli rispetto al proprio padre biologico assente dalla loro vita è limitata al “che tipo di persona è”, cercando una rassicurazione circa le proprie origini, accontentandosi di sapere che il padre biologico, da cui una parte di sé proviene, è una brava persona.

Note

1. Il ricorso a tecniche di fecondazione assistita da parte di donne single non è ammesso dalla legislazione italiana; le donne che desiderano farlo vanno all’estero dove tale pratica è legale.

2. Siccome sempre più spesso le madri single ricorrono a pratiche di fecondazione medicalmente assistita, è il tema del donatore, e dunque la gestione delle possibili curiosità a esso inerenti, a diventare saliente (Riccio M. Quaderni acp. 2022;29:134-6).

Biblioteca

1. Poussin G, Sayn I. Un seul parent dans la famille. Approche psychologique et juridique dans la famille monoparentale. Le Centurion, 1990.

2. Hetherington EM, Stanley-Hagan M. Diversity among stepfamilies. In: DH Demo, KR Allen. Handbook of family diversity. Oxford University Press, 2000:173-96.

3. Fruggeri L. Oltre il pregiudizio: la specificità dei processi di sviluppo delle famiglie contemporanee. Quaderni acp. 2021;28:88-90.

4. Golombok S, Zadeh S, Freeman T, et al. Single mothers by choice: Parenting and child adjustment in middle childhood. J Fam Psychol. 2021 Mar;35(2):192-202.

5. Battistelli P. La relazione triadica nella famiglia monoparentale. Bambino Incompiuto. 1987;3:63-70.

6. Ihnger-Tellman M. Quality of life and well-being of single parent families: Disparate voices or a long overdue chorus? Marriage & Family Review. 1995;20:513-32.

7. Lamb M. Parenting and child development in “non-traditional” families. Erlbaum Mahwah, 1999.

8. Neslson M. Single mothers ‘‘do’’ family. Journal of Marriage and Family. 2006;68:781-95.

9. Ferrari F. La famiglia in-attesa. I genitori omosessuali e i loro figli Mimesis, 2015.

10. Doeherty W, Craft S. Single mothers raising children without fathers. In: WB Wilcox, K Kovner Kline. Gender and parenthood. Columbia University Press, 2013:322-37.

Long Covid: la persistenza del virus può essere la causa?

laura.fruggeri@gmail.com

L’articolo non è recentissimo, ma l’argomento è tuttora ampiamente dibattuto dalla medicina dell’adulto e ancor più dalla pediatria [1]. Gli autori – appartenenti a entrambi i mondi – affrontano il tema lavorando su un’ipotesi patogenetica unificante che poggia, essenzialmente, sulla persistenza del virus nell’organismo e sulla conseguente attivazione di altrettanto persistenti, quanto inefficaci, meccanismi infiammatori tendenti alla sua definitiva eliminazione. Apparentemente i numeri del long Covid non sembrano piccoli: il 12-15% dei bambini ha sintomi persistenti fino a 5 settimane dall’infezione [2] o, secondo altra casistica, fino al 30-50% a 120-160 giorni dall’esordio del Covid-19 [3]. Si va dal malessere generale all’astenia, ma anche a sintomi cardiorespiratori, gastrointestinali, otorinolaringologici, dermatologici, fino alle meno ben inquadrabili manifestazioni neurpsicologiche. La genetica ha, probabilmente un suo ruolo: polimorfismi del locus 3p21.31 e dei geni codificanti per ACE2 e serin-proteasi 2 possono determinare il livello di gravità della malattia acuta. Nel long Covid il prolungarsi dei sintomi potrebbe essere ricondotto al persistere nell’organismo del virus o di sue componenti antigenicamente rilevanti o di cellule infettate dal virus stesso. L’ipotesi è che in alcuni soggetti, all’iniziale risposta immunitaria innata e alla successiva attivazione delle funzioni adattative dei linfociti B e T, seguirebbe una terza fase nella quale subentrerebbe un’eccessiva risposta citochinica e pro-infiammatoria. L’incapacità della risposta immune complessiva di eliminare gli antigeni virali porterebbe alla formazione di autoanticorpi la cui presenza, ripetutamente dimostrata, avrebbe un ruolo patogenetico nel determinare livello e persistenza della sintomatologia. A questo punto si entra nel complesso campo dell’immuno-disregolazione e dell’alterato controllo della reazione infiammatoria dell’ospite in grado di rivolgersi contro diversi organi e apparati, polmoni, cuore e reni non escludendo neppure il SNC. La plausibilità biologica di questa ipotesi è sostenuta dagli autori con ampio riferimento a suggestioni della letteratura che chiamano in causa il ruolo delle citochine e di alcuni fattori regolanti la produzione di radicali attivi dell’ossigeno quali il nuclear factor k B(NF-kB) e la protein-chinasi p38. Si tratta, naturalmente, di ipotesi che devono trovare ulteriori conferme nella realtà clinica ma che, se verificate anche solo in parte, potrebbero sostenere approcci interpretativi e terapeutici di sicuro interesse.

1. Buonsenso D, Piazza M, Boner AL, Bellanti JA. Long COVID: A proposed hypothesis-driven model of viral persistence for the pathophysiology of the syndrome. Allergy Asthma Proc. 2022 May 1;43(3):187-193.

2. Nafilyan V, Islam N, Ayoubkhani D, et al. Ethnicity, household composition and COVID-19 mortality: a national linked data study. J R Soc Med. 2021 Apr;114(4):182-211.

3. Buonsenso D, Di Gennaro L, De Rose C, et al. Long-term outcomes of pediatric infections: from traditional infectious diseases to long Covid. Future Microbiol. 2022 May:17:551-571.

QUADERNI ACP 2/2024 82 TRAIETTORIE E ORIZZONTI FAMILIARI
Disposizioni per la prevenzione delle discriminazioni e la tutela dei diritti delle persone che sono state affette da malattie oncologiche

Legge 7/12/2023 n. 193 (nota come diritto all’oblio oncologico)

Augusta Tognoni Magistrato

Dignità e rispetto della “persona”, soggetto di diritti, senza discriminazioni, con parità di diritti in tutti gli ambiti della società, nei rapporti individuali e collettivi: è questo il messaggio forte di una legge di profonda sensibilità e di intensa umanità, con espresso riferimento agli artt. 2, 3, 32 della Costituzione, alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, al Piano europeo di lotta contro il cancro, all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Qual è l’obiettivo della legge?

Esplicito è l’art. 1: “Escludere qualsiasi forma di pregiudizio o disparità di trattamento e consentire parità di trattamento, non discriminazione, uguaglianza e garanzia del diritto all’oblio delle persone guarite da patologie oncologiche”.

Che cosa significa diritto all’oblio oncologico?

Art.1: “Per diritto all’oblio oncologico si intende il diritto delle persone guarite da una patologia oncologica di non fornire informazioni né subire indagini in merito alla propria pregressa condizione patologica, nei casi di cui alla presente legge”.

Quali sono i casi indicati dalla legge?

La legge, rispettando criteri scientifici, elenca i casi e le modalità di attuazione del diritto all’oblio nell’art. 2: “Ai fini della stipulazione o del rinnovo di contratti relativi a servizi bancari, finanziari, di investimento e assicurativi nonché nell’ambito di ogni altro contratto, anche esclusivamente tra privati, quando, al momento della stipulazione del contratto o successivamente, le informazioni sono suscettibili di influenzare condizioni e termini, non è ammessa la richiesta di informazioni relative allo stato di salute della persona fisica contraente concernenti patologie oncologiche da cui la stessa sia stata precedentemente affetta e il cui trattamento attivo si sia concluso, senza episodi di recidiva, da più di dieci anni alla data della richiesta. Tale periodo è ridotto della metà nel caso in cui la patologia sia insorta prima del compimento del ventunesimo anno di età.” Con una puntualizzazione significativa: “Le informazioni non possono essere acquisite neanche da fonti diverse dal contraente e, qualora siano comunque nella

disponibilità dell’operatore o dell’intermediario, non possono essere utilizzate per la determinazione delle condizioni contrattuali”.

Il testo è chiaro, non consente dubbi interpretativi.

Il diritto all’oblio oncologico si configura come un diritto alla cancellazione dei propri dati personali in forma rafforzata, è il diritto di non dover comunicare il proprio stato di salute, di non rivelare il passato sanitario, di non fornire informazioni né subire indagini in merito alla pregressa patologia; il cancro non è più considerato uno stigma sociale.

Il diritto all’oblio consente più tutele e diritti per non subire discriminazioni economiche; l’intento della legge è quello di rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’uguaglianza e assicurare la parità dei diritti per dare realizzazione concreta ai principi fondamentali della Costituzione e delle convenzioni internazionali espressamente richiamati nell’art. 1.

L’oblio oncologico riguarda soltanto i rapporti bancari, assicurativi, finanziari?

Gli artt. 3 e 4 prevedono altre ipotesi.

Art. 3: modifiche alla legge 4 maggio 1983 n. 184, in materia di adozione.

Per superare le difficoltà di un paziente oncologico nel procedimento dinanzi al Tribunale per l’adozione di un minore, la legge stabilisce che “le indagini concernenti la salute dei richiedenti non possono riportare informazioni relative a patologie oncologiche pregresse quando siano trascorsi più di dieci anni dalla conclusione del trattamento attivo della patologia in assenza di recidive o ricadute, ovvero più di cinque anni se la patologia è insorta prima del compimento del ventunesimo anno di età”. Con la puntualizzazione che “con decreto del Ministro della salute, di concerto con il Ministro della giustizia, sentita la Commissione per le adozioni internazionali sono stabilite le modalità di attuazione delle disposizioni”. La patologia oncologica ritenuta ostativa nei procedimenti di adozione era una discriminazione dolorosa nella vita familiare e sociale, l’accesso all’adozione dell’ex paziente oncologico è un esempio significativo di attenzione, di sensibilità e umanità per l’affermazione della libertà e del rispetto della “persona”. Art. 4: Accesso alle procedure concorsuali e selettive, al lavoro e alla formazione professionale. “Quando nel loro ambito sia previsto l’accertamento di requisiti psico-fisici o concernenti lo stato di salute dei candidati, è fatto divieto di richiedere informazioni relative allo stato di salute dei candidati medesimi concernenti patologie oncologiche da cui essi siano stati precedentemente affetti il cui trattamento attivo si sia concluso” (nei tempi e con le modalità già richiamate negli articoli precedenti).

È interessante notare che “con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sentite le organizzazioni di pazienti oncologici, iscritte nel registro nazionale del terzo settore, possono essere promosse, nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, specifiche politiche attive per assicurare a ogni persona che sia stata affetta da patologia oncologica, eguaglianza di opportunità nell’inserimento e nella permanenza nel lavoro, nella fruizione dei relativi servizi e nella riqualificazione dei percorsi di carriera e retributivi”.

Le disposizioni sopra riportate consentono di affermare che la legge riconosce la guarigione non solo a livello clinico, ma anche sociale, lavorativo, professionale con parità di diritti e di opportunità.

Come si rapportano i ragazzi, i bambini alla propria storia di tumore?

La legge ha un significato particolare, di intensa sensibilità in età pediatrica, perché consente all’ex bambino/adolescente paziente oncologico di chiudere un capitolo della propria vita,

QUADERNI ACP 2/2024 83 IL BAMBINO E LA LEGGE

di essere un adulto libero, senza tracce della patologia nei documenti ufficiali, senza ombre, senza discriminazioni nell’ambito familiare, lavorativo, professionale, sociale, nell’accesso ai concorsi pubblici.

Nell’art. 5 sono illustrate le disposizioni per l’applicazione della legge, con la precisazione che entro tre mesi dalla data di entrata in vigore, con decreto del ministro della Salute, è definito l’elenco delle eventuali patologie oncologiche per le quali si applicano termini inferiori rispetto a quelli previsto negli artt. 2 e 4.

Conclusioni

Il diritto all’oblio è una legge di civiltà con l’obiettivo di dare realizzazione concreta ai principi fondamentali della Costituzione e delle convenzioni internazionali per rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà; è un traguardo scientifico, culturale, sociale; è un segnale positivo di uguaglianza e di solidarietà, rappresenta una tutela essenziale della “persona”, un

diritto per garantire alla “persona” di liberarsi dello stigma che accompagna la malattia.

Alla cura del paziente sul piano della salute si aggiunge la tutela giuridica, che restituisce pienezza ed effettività ai diritti di ogni persona.

Francia, Belgio, Olanda, Portogallo, Romania hanno approvato specifici strumenti legislativi che impediscono agli operatori bancari e assicurativi di considerare lo stato clinico dei richiedenti; in Lussemburgo il diritto all’oblio è esteso all’epatite C e all’HIV.

Il Parlamento europeo con la risoluzione 16 febbraio 2022 “chiede che entro il 2025 al più tardi tutti gli Stati membri garantiscano il diritto all’oblio a tutti i pazienti europei nei termini fissati”.

augusta.tognoni@gmail.com

Bassa statura? Rivolgiti al genetista

Un bella sintesi sull’impiego delle moderne risorse genetiche – tecnologie di sequenziamento di nuova generazione (NGS) come il sequenziamento dell’esoma (ES) e l’analisi dei microarray cromosomici (CMA) –nello studio della bassa statura è riportata in un recente Archivist di Archives of Disease in Childhood [1].

Oltre alle tradizionali anomalie cromosomiche, si conoscono oggi diversi fattori genetici che contribuiscono alla bassa statura, quali le variazioni del numero di copie (CNV) e le varianti a singolo nucleotide. In quale misura queste potenti risorse ci possano aiutare a fare una diagnosi più precisa non è ancora chiaro. Li e coll. [2] hanno completato una revisione sistematica e una metanalisi per cercare di definire il ruolo di CMA ed ES in questo ambito. Sono stati presi in esame 20 studi (10 CMA, 6 ES e quattro entrambi) dopo una scrematura che partiva da 5.222 lavori inizialmente considerati. I venti studi comprendevano 1.350 pazienti con bassa statura sottoposti a ES e 1.070 pazienti che avevano completato la CMA. Il rendimento diagnostico complessivo di ES e CMA è risultato essere rispettivamente del 27,1% (95% IC: 18,1%-37,2%) e 13,6% (95% IC: 9,2%-18,7%). Questi dati suggeriscono un importante contributo delle NGS nella definizione diagnostica dei pazienti con bassa statura e rappresentano un solido riferimento per i pediatri al momento di prendere decisioni informate sull’impiego di questi test. I due geni più frequentemente identificati erano FGFR3 – associato all’acondroplasia, all’ipocondroplasia e ad altre sette condizioni mendeliane che si accompagnano alla bassa statura – e il gene PTPN11 responsabile della sindrome di Noonan. In entrambe le situazioni, le caratteristiche fenotipiche consentono di porre l’iniziale sospetto clinico.

Wojcik e Wu [3] commentano che una resa del 27% per l’ES da sola supporta il suo utilizzo come test di primo livello per questa indicazione, in particolare se abbinato alla valutazione delle varianti del numero di copie che coinvolgono più geni. La valutazione critica del fenotipo è evidentemente importante per ottimizzare la resa diagnostica del test e la sua interpretazione e si tratta, quindi, di indirizzare le indagini, se si sospetta una sindrome genetica specifica con bassa statura e caratteristiche sindromiche definite (es. disabilità intellettiva, ritardo dello sviluppo neurologico, dismorfismi o altre anomalie congenite). Il suggerimento è che dobbiamo utilizzare queste indagini con attenzione, ma che non possiamo più limitarci a verificare semplicemente il cariotipo per la sindrome di Turner quando indaghiamo su una bassa statura.

1. Short stature? Call the geneticist. Arch Dis Child. 2023 Dec 14;109(1):43-5.

2. Li Q, Chen Z, Wang J, et al. Molecular Diagnostic Yield of Exome Sequencing and Chromosomal Microarray in Short Stature: A Systematic Review and Meta-Analysis. JAMA Pediatr. 2023 Nov 1;177(11):1149-57.

3. Wojcik MH, Wu AC. The Role of Genetic Testing for Short Stature Now and in the Future. JAMA Pediatr. 2023 Nov 1;177(11):1127-8.

QUADERNI ACP 2/2024 84 IL BAMBINO E LA LEGGE

Ecoansia: una nuova forma

di ansia o un

nuovo modo di stare al mondo?

Vincenza Briscioli, Sabrina Bulgarelli Gruppo ACP Pediatri per un mondo possibile

L’uomo deve pensarsi non come padrone della natura, ma come un’espressione della natura, senza nessun privilegio rispetto alle altre espressioni, animate e non animate, perché è la natura e non la potenza dell’uomo sulla natura, la fonte della vita.

U. Galimberti, L’etica del viandante

I giovani sono sempre più consapevoli degli effetti negativi dei cambiamenti climatici sul pianeta e sulla salute umana.

“Ecoansia” è parola utilizzata dagli psicologi per classificare una serie di ecoemozioni direttamente collegate alla crisi climatica e agli eventi meteorologici estremi.

La preoccupazione climatica può portare a una serie di problemi di salute mentale, tra i quali depressione, stress, ansia, insonnia, disturbo da stress post traumatico (PTSD), dolore, perdita di identità, senso di colpa, disperazione, perdita di luogo e senso di disconnessione dalla propria comunità. Lo scopo di questo articolo è approfondire le emozioni che le persone possono provare in relazione al cambiamento climatico. Molti esperti sostengono la necessità di ulteriori studi per aiutare le persone a gestire le proprie emozioni, perché il cambiamento climatico rappresenta una minaccia fisica e una minaccia esistenziale. Abbiamo bisogno di aumentare le nostre capacità di affrontare le sfide imposte dal cambiamento climatico, non solo attraverso la tecnologia, ma anche con il supporto psicologico, l’educazione alla sostenibilità e la consapevolezza politica.

The younger generation is acutely aware of the detrimental effects of climate change on the planet and human health. “Ecoanxiety” is a term used by psychologists to categorize a range of ecoemotions that are directly linked to the climate crisis and extreme weather events.

Climate worry can lead to a variety of mental health problems, including depression, stress, anxiety, insomnia, post-traumatic stress disorder (PTSD), grief, loss of identity, guilt, hopelessness, loss of place, and a sense of disconnection from one’s community. The purpose of this article is to delve into the emotions that people may feel in connection with climate change. Many experts support the need for more studies to assist people in managing their emotions, because climate change poses a physical threat and an existential one. We need to improve our skills to cope with the challenges of climate change, not just through technology, but also through psychological support, sustainability education and political awareness.

Introduzione

Da un sondaggio dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza (Il futuro che vorrei), pubblicato nel maggio 2023, che ha coinvolto 6.500 ragazzi e ragazze di età compresa tra i

12 e i 18 anni, emerge che in Italia il 48,3% dei giovani è preoccupato per i cambiamenti climatici; lo sono di più gli studenti del liceo (53,5%) rispetto a quelli della scuola secondaria di primo grado, per i quali la maggiore preoccupazione è invece la sicurezza della rete (62,5%). L’81,6% ritiene che siano poche le azioni messe in atto dalla politica contro i cambiamenti climatici. Per il 53,9 % sono fondamentali le azioni individuali a favore dell’ambiente. In sintesi, emerge che ciò che li preoccupa di più sono i cambiamenti climatici, le disuguaglianze economico-sociali e la guerra [1]. Analoghe percentuali sono state riscontrate in sondaggi condotti in altri Stati europei (Finlandia, Gran Bretagna) e negli Stati Uniti, dove emerge che il 41% degli intervistati non si fida della capacità degli adulti di affrontare le sfide poste dal cambiamento climatico [2,3]. Decenni di ricerche hanno dimostrato che eventi meteorologici estremi, quali quelli associati al cambiamento climatico, determinano un aumento dei disturbi da stress post traumatico (PTSD), di depressione, ansia, abuso di sostanze e violenza domestica. I bambini soffrono maggiormente di questi eventi estremi, a causa della loro dipendenza dalle figure adulte e della loro maggiore vulnerabilità fisica. È noto che esperienze traumatiche precoci possono causare effetti a lungo termine, possono compromettere la capacità dei bambini di regolare le proprie emozioni e possono portare a problemi di salute mentale in età adulta.

Con il termine “ecoansia” si definisce un disagio causato in misura significativa dalla crisi ecologica, può essere correlato alle esperienze personali e alle circostanze sociali, e non è un problema di salute mentale [4]. Alcuni autori propongono l’espressione “ansia ecosociale”, in quanto le crisi ecologiche e quelle sociali si intrecciano, influenzandosi a vicenda e creando situazioni stressanti [5].

Diverse sono le definizioni date all’ecoansia; la più attuale sembra quella degli psicologi sociali, redatta in un importante rapporto pubblicato dall’Associazione Americana di Psicologia (APA) e da EcoAmerica [6,7], ovvero “l’ecoansia come paura cronica del disastro ambientale”. Questa definizione può indurre a interpretazioni patologiche, tanto che Rosemary Randall (psicologa del clima) ha suggerito di utilizzare il termine “disagio climatico” anziché ansia climatica [5]. Anche Susan Clayton [6], che ha redatto il rapporto APA, sostiene che l’ecoansia dovrebbe essere considerata un segno importante del fatto che le persone si preoccupano dello stato del pianeta, piuttosto che una patologia.

L’ansia è definita come una sensazione di disagio causata dall’incertezza legata al futuro, è strettamente correlata alla paura, anche se in quest’ultima la minaccia è maggiormente definita e la risposta fisica è più forte [8]. Il concetto di ansia è usato in modo diverso a seconda del contesto; per esempio, gli psicologi clinici hanno in mente forme problematiche di ansia, mentre i neuroscienziati usano questo termine per indicare specifici processi che si verificano nella mente quando ci sono situazioni di incertezza; tutti comunque enfatizzano il potenziale adattativo dei fenomeni ansiosi.

L’ecoansia è un fenomeno ampio, integralmente connesso con molte emozioni ecologiche e stati mentali, può modificarsi nel tempo ed evolvere in forme di ecodepressione se le crisi ambientali sono molto forti. Diverse ricerche hanno evidenziato che l’ansia climatica è presente in numerosi gruppi (attivisti per il clima, bambini, giovani, climatologi, studenti universitari e professionisti), dove i fattori di vulnerabilità sono differenti, in base all’età e al ruolo sociale; inoltre, diversi sondaggi hanno dimostrato che le persone sotto i trent’anni e le donne riportano più ecoansia; può inoltre esserci un’ecoansia repressa, che rimane misconosciuta a causa di fattori sociopolitici [5]. Mancano purtroppo ricerche approfondite sulle forme meno facilmente riconoscibili; gli studi esistenti suggeriscono che c’è più ecoansia tra gli adulti e le persone anziane, rispetto

QUADERNI ACP 2/2024 85 AMBIENTE E SALUTE

a quanto rilevano i sondaggi. Lo status socioeconomico ha un forte impatto sull’ansietà climatica, così come il vivere direttamente dei prodotti della terra o lo svolgere lavori che abbiano a che fare con la protezione dell’ambiente; le popolazioni dei Paesi più poveri sono a forte rischio per la loro storica vulnerabilità. Anche il progetto di avere dei figli è evocativo di profonde emozioni riguardo al futuro e ciò può comportare la decisione di non procreare, a causa della crisi ecologica.

Emozioni e sentimenti nel disagio climatico

Le emozioni e i sentimenti correlati all’ecoansia sono molteplici: il dolore ecologico, il trauma, lo stress, il senso di colpa, la vergogna, la rabbia, l’entusiasmo. La necessità di approfondire tali sentimenti dipende dal fatto che questi stati emotivi stanno aumentando globalmente per frequenza, diffusione e intensità; tali emozioni (negative o positive) variano a seconda del coinvolgimento affettivo delle persone verso l’ambiente naturale. Il dolore ecologico è legato alla perdita ecologica fisica, della propria identità ambientale, della cultura legata a uno specifico territorio e alla previsione di future perdite; l’ansia che ne deriva fa parte del processo del lutto [9].

La capacità di superamento dipende dalle caratteristiche dell’individuo, ma anche dagli strumenti di supporto che la collettività può offrire [5]. Una forma particolare di lutto ecologico è la solastalgia, neologismo coniato dal filosofo Gleen Albrecht, che combina la parola latina solatium (conforto/ consolazione) con la radice greca -algia (dolore, sofferenza, lutto) [9]. Questo nuovo vocabolo descrive la sensazione di nostalgia di casa che una persona può provare connessa alla distruzione del proprio ambiente.

Il trauma ecologico è connesso all’esperienza ansiosa; in generale si può dire che la combinazione della percezione di minaccia e di incertezza collega l’ecoansia al potenziale traumatico della crisi ecologica. Alcuni autori hanno esplorato il concetto di “stress pretraumatico” per descrivere i modi in cui la gravità della crisi climatica colpisce già ora le persone; questa condizione è una combinazione di qualcosa che sta già accadendo e qualcosa che si stima accadrà in futuro.

Ci sono altri tipi di sentimenti che vengono descritti legati all’ecoansia, quali la sopraffazione, la confusione, l’assurdità, l’impotenza. Le emozioni ecologiche, come il sentimento della vergogna e il senso di colpa per il disastro ambientale, oltre alla rabbia climatica o “ecorabbia” sono multidimensionali e complesse (Albrecht ha coniato anche il neologismo terrafurie, per descrivere la rabbia causata dal danno ecologico [9]). L’ansia è strettamente connessa al senso di colpa ed è infine correlata all’aspettativa, all’eccitazione e all’entusiasmo. L’incertezza può generare sia paura che curiosità; ci sono legami tra ansia e motivazione che spingono a cercare di risolvere i problemi (ansia pratica). Per ulteriori approfondimenti si rimanda all’articolo di Panu Pihkala, Verso una tassonomia delle emozioni climatiche e al suo sito, segnalando la ricchezza di risorse utili per educatori, insegnanti e genitori [10,11].

Come affrontare il cambiamento climatico e gestire l’ansia climatica

Per quanto riguarda la gestione delle emozioni che il disagio climatico suscita, le strategie di coping (ovvero i meccanismi di adattamento e di risposta che si mettono in atto per fronteggiare situazioni di stress) si riferiscono alle abilità di conviverci e di alleviare le sue forme più debilitanti. Alcuni autori sottolineano l’importanza di “imparare a convivere con il cambiamento climatico” [12], mentre altri fanno riferimento alla “resilienza esistenziale” [5]. Gli psicologi che definiscono l’ecoansia con connotazioni sintomatiche raccomandano le terapie approvate per i disturbi d’ansia; quelli che l’affrontano in modo più ampio pongono maggiore enfasi sulle abilità quotidiane di convivenza con le diverse emozioni. In re-

lazione alla peculiarità non patologica dell’ecoansia, tutte le raccomandazioni sono orientate verso la creazione di strategie che sfruttano il potenziale adattivo dei sentimenti ecologici e permettono la costruzione di abilità emotive [11]. Gli esperti concordano sul fatto che una certa quantità di ansia e depressione sarà presente nella nostra epoca di crisi sovrapposte, ma i livelli di disagio potranno essere ridotti e i sintomi potranno essere alleviati con il supporto degli altri e attraverso la cura di sé. I metodi per incanalare l’energia emotiva sono numerosi, spaziando dalle pratiche di mindfullness alle attività creative (come scrittura, danza, teatro, pittura) fino alla pedagogia dell’outdoor e dell’avventura, basata sulle attività esperienziali, come l’immersione e la connessione con gli ambienti naturali. Costruire una maggiore consapevolezza emotiva, dare un nome alle emozioni è uno sforzo concreto che gli psicologi climatici raccomandano, in quanto aiuta le persone a incanalare l’energia emotiva in modo più costruttivo [5]. C’è bisogno di forme di azione sia individuali che collettive: queste ultime dovrebbero essere privilegiate, perché capaci di alleviare i sintomi dell’ecoansia dovuta ai limiti personali e al sentimento di impotenza; la sola azione individuale può portare al burnout o a visioni irrealistiche. È necessario trovare il supporto dei pari, costruire reti socioculturali che possano offrire supporto emotivo all’incertezza.

È inoltre fondamentale integrare le conoscenze acquisite sulle dinamiche legate all’ansia climatica nei progetti di educazione ambientale; secondo Pihkala sarà necessario prepararsi a esaminare criticamente la pluralità dei possibili obiettivi educativi [5]. Un approccio interessante per motivare le persone a incontrare le loro emozioni ecologiche è il Progetto InsideOut, sviluppato da un’importante psicologa del clima, Renee Lertzman [13]. È fondamentale la formazione degli operatori sanitari, degli insegnanti, degli educatori ambientali e degli psicologici scolastici su tali tematiche, al fine di ridurre il disagio emotivo. Iniziative per aumentare la consapevolezza sull’ecoansia tra gli operatori sanitari e gli psicologi scolastici sono state intraprese in alcuni Paesi, come la Gran Bretagna e la Finlandia, come anche reti di supporto a sostegno del benessere mentale, quali Good Grief Network negli Stati Uniti [14]. È essenziale la “prescrizione sociale” di attività che supportino e migliorino sia il benessere ambientale, sia la salute fisica e mentale delle persone (come trascorrere tempo nella natura, incrementare il verde urbano, passare a fonti di energia pulita, migliorare le infrastrutture per ridurre l’uso dell’automobile). A livello di istituzioni ci sono molte opportunità e anche pro-

QUADERNI ACP 2/2024 86 AMBIENTE E SALUTE
Figura 1. Emozioni, sentimenti e affetti correlati all’ecoansia (modificata da [5]).

blemi; le organizzazioni possono creare protocolli di condivisione e progetti di supporto, oltre a fornire una formazione sulle emozioni ecologiche e sulle strategie di coping. Tuttavia, come sempre, per poter svolgere tutte le progettualità servono risorse e motivazione e la tematica dell’ansia climatica è incline a evocare sentimenti di resistenza in molti decisori politici e in altrettanti contesti organizzativi [5].

Conclusioni

Da quanto è noto sembra urgente e necessaria da parte dei medici, degli operatori di sanità pubblica, delle famiglie, degli educatori e dei decisori politici una maggiore consapevolezza e una conseguente reazione al disagio prodotto dall’ansia climatica. È fondamentale considerare le paure che le famiglie e i bambini potranno sperimentare nel cambiamento delle abitudini di vita e puntare alla sicurezza delle attività pro-ambiente. Tutto questo serve per promuovere la speranza e il coraggio, attraverso attività orientate a specifici obiettivi a favore dell’ambiente e della salute, in modo che sia garantita la tutela della salute mentale, l’equità sanitaria e l’accesso alle risorse per tutti. Ciò di cui si sente il bisogno è la volontà politica di garantire che vengano finanziate le strategie e le ricerche necessarie per rafforzare e sostenere gli approcci di guarigione e resilienza. Riconoscendo che le emozioni sono spesso motore di cambiamento è possibile che i sentimenti di ansia ecologica, anche se scomodi, siano in realtà “la prova del fuoco” che l’umanità deve affrontare per guidare con determinazione e sicurezza i cambiamenti salvavita, che sono e saranno richiesti [2]. L’ansia climatica probabilmente incrementerà all’aumentare della consapevolezza dello stato degli ecosistemi del pianeta, ma è anche possibile che molte persone ricorreranno sempre più alla negazione o dovranno rispondere a bisogni più urgenti. È giunto il momento di stabilire pratiche che consentano relazioni compassionevoli tra l’uomo e il “mondo più che umano” (ovvero il mondo naturale non umano che circonda, sostiene e permea l’umanità) [15].

Bibliografia

1. Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza. Il futuro che vorrei. Risultati della consultazione pubblica promossa dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza. 2023, https://www.garanteinfanzia.org/sites/default/files/2023-06/futuro-che-vorrei-web.pdf.

2. Cunsolo A, Harper SL, Minor K, et al. Ecological grief and anxiety: the start of a healthy response to climate change. Lancet Planet Health. 2020 Jul;4(7):e261-e263.

3. BBC. Climate anxiety: Survey for BBC Newsround shows children losing sleep over climate change and the environment 2020. https:// www.bbc.co.uk/newsround/51451737.

4. Clayton S. Climate anxiety: Psychological responses to climate change. J Anxiety Disord. 2020 Aug:74:102263.

5. Pihkala P. Eco-Anxiety and Environmental Education. Sustainability. 2020;12,10149.

6. Clayton S, Manning CM, Krygsman K, et al. Mental Health and Our Changing Climate: Impacts, Implications, and Guidance. APA & EcoAmerica, 2017.

7. Clayton S, Manning CM, Speiser M, Hill AN. Mental Health and Our Changing Climate: Impacts, Inequities, Responses. American Psychological Association, ecoAmerica, 2021, https://www.apa.org/news/ press/releases/mental-health-climate-change.pdf.

8. Grupe D, Nitschke J. Uncertainty and anticipation in anxiety: an integrated neurobiological and psychological perspective. Nat Rev Neurosci. 2013 Jul;14(7):488-501.

9. Innocenti M. Ecoansia. I cambiamenti climatici tra attivismo e paura. Erickson, 2022.

10. Pihkala P. Toward a Taxonomy of Climate Emotions. Front Clim. 14 January 2022.

11. Climate Mental Health Network. Resources: Emotions Wheel, Worksheets, Meditations. https://www.climatementalhealth.net/ resources.

12. Verlie B. Bearing worlds: Learning to live-with climate change. Environ. Educ Res 2019; 25:751-66.

13. Project InsideOut di Lertzman R. 2019, https://projectinsideout. net/.

14. Good Grief Network. 2019, https://www.goodgriefnetwork.org/.

15. Abram D. Center for Humans and Nature. https://humansandnature.org/to-be-human-david-abram/.

v.briscioli@gmail.com

Tumori intracranici ed esposizione a radiazioni nell’infanzia: attenzione alla tomografia computerizzata

La tomografia computerizzata (TC) è ampiamente utilizzata negli adulti come nei bambini perché in grado di fornire informazioni accurate e tempestive. Uno studio USA stimava che ogni anno 29.000 casi di cancro e 14.500 decessi nella popolazione generale potessero essere indotti dall’esposizione alla TC. Una ricerca australiana ha rilevato che una dose di irradiazione superiore a 20 mSv per la popolazione generale era associata a un rischio >1:1.000 di sviluppare tumori o gravi malattie ereditarie. Analogamente, molti studi hanno dimostrato che l’esposizione a radiazioni ionizzanti nei bambini possono favorire la comparsa di tumori maligni; il midollo osseo e il tessuto cerebrale sono infatti altamente radiosensibili, soprattutto durante l’infanzia. In Australia, l’incremento dell’incidenza di tutti i tumori negli individui di età compresa tra 0 e 19 anni esposti alla TC è stato stimato in 9,38:100.000 persone/anno. Uno studio britannico ha riportato che il rischio relativo (RR) per individui di età compresa tra 0 e 22 anni che hanno ricevuto dosi di radiazioni del midollo >30 mGy era 3,18 e per quelli che hanno ricevuto dosi di radiazioni cerebrali >50 mGy era 2,824. La leucemia, i tumori maligni intracranici e il linfoma sono le neoplasie più comuni nei bambini e svariati studi hanno evidenziato una relazione tra leucemia, tumori maligni intracranici e esposizione alle radiazioni ionizzanti.

Su questo tema, uno studio di popolazione taiwanese ha raccolto i dati di soggetti di età inferiore a 16 anni: 1.479 erano affetti da leucemia, 976 da tumori intracranici e 301 da linfoma. La popolazione di controllo era costituita da 126.677 soggetti iscritti al sistema sanitario nazionale. I dati indicano che il rischio di tumori intracranici sarebbe aumentato di circa 1,5-2 volte dopo 1-2 anni dall’esposizione alle radiazioni della TC. Gli autori non sono stati in grado di dimostrare un analogo incremento del rischio per leucemia e linfomi, ma è possibile che il tempo di osservazione, per questi tumori, non sia stato adeguatamente prolungato. Studi sui sopravvissuti allo scoppio della bomba atomica indicano un picco di diagnosi di 6-8 anni dall’esposizione. Il rischio di sottoporre a radiazioni ionizzanti un bambino deve essere ben presente nella mente di radiologi e pediatri. Le più moderne tecnologie consentono una considerevole riduzione del carico di radiazioni rispetto al passato, ma il ricorso a risorse diagnostiche alternative deve essere sempre preso in considerazione ove possibile.

1. Li IG, Yang YH, Li YT, Tsai YH. Paediatric computed tomography and subsequent risk of leukaemia, intracranial malignancy and lymphoma: a nationwide population-based cohort study. Sci Rep. 2020 May 8;10(1):7759.

QUADERNI ACP 2/2024 87 AMBIENTE E SALUTE

Info

Rubrica a cura di Sergio Conti Nibali

Rapporto sulla nascita in Italia

Nel corso del 2022 prosegue il calo delle nascite (535.428 nati totali nel 2012, 393.997 nel 2022), ma diminuisce (seppur lievemente) la percentuale di nati morti, in tutte le aree del Paese. Il fenomeno è in larga misura l’effetto della modificazione della struttura per età della popolazione femminile e in parte dipende dalla diminuzione della propensione ad avere figli. Le cittadine straniere hanno finora compensato questo squilibrio strutturale; negli ultimi anni si nota, tuttavia, una diminuzione della fecondità delle donne straniere. Il tasso di natalità varia da 4,9 nati per mille donne in età fertile in Sardegna a 9,2 nella Provincia Autonoma di Bolzano rispetto a una media nazionale del 6,7. Le Regioni del Centro presentano tutte un tasso di natalità con valori inferiori alla media nazionale. Nelle Regioni del Sud, i tassi di natalità più elevati sono quelli di Campania, Calabria e Sicilia che presentano valori superiori alla media nazionale. È quanto risulta dal Rapporto sull’evento nascita in Italia, realizzato dall’Ufficio di Statistica del Ministero. Nel Rapporto sono presentate le analisi dei dati rilevati dal flusso informativo del Certificato di Assistenza al Parto (CeDAP) dell’anno 2022.

La fecondità si mantiene pressoché costante rispetto agli anni precedenti: nel 2022 il numero medio di figli per donna è pari a 1,24 (rispetto a 1,42 del 2012). I dati per il 2022 danno livelli più elevati di fecondità al Nord nelle Province Autonome di Trento e Bolzano e nel Mezzogiorno in Campania e Sicilia. Le Regioni in assoluto meno prolifiche sono invece Sardegna e Molise. L’89% dei parti nel 2022 è avvenuto in istituti di cura pubblici, il 62,2% in strutture dove avvengono almeno 1.000 parti annui. Il 20,0% delle madri sono straniere. L’età media al primo figlio è per le donne italiane superiore a 32 anni.

I trend 2012-2022

Nel Rapporto sull’evento nascita in Italia anno 2022 sono stati introdotti alcuni elementi innovativi, relativi agli andamenti di tendenza, dall’anno 2012 all’anno 2022 (sia in veste di rappresentazioni grafiche che di tabelle), delle principali variabili osservate: il luogo del parto, le caratteristiche delle madri, la gravidanza, il parto, il neonato e le tecniche di procreazione medicalmente assistita.

La percentuale dei parti pretermine (<37 settimane) passa da circa 7 parti pretermine ogni 100 parti a 6; aumenta l’età media delle madri al primo figlio (sia per le italiane che per le straniere); l’età media al primo figlio per le donne italiane passa da 31,5 del 2012 a 32,2 del 2022. Per le donne straniere l’età media al primo figlio passa da 27,7 a 29,2 anni. Aumenta notevolmente il numero di visite di controllo effettuate in gravidanza, così come le ecografie (seppur meno marcatamente); nel 91,9% delle gravidanze il numero di visite ostetriche effettuate è superiore a 4 mentre nel 76,7% delle gravidanze si effettuano più di 3 ecografie. Per l’amniocentesi invece la percentuale delle madri con più di 40 anni, che ricorre a questa tecnica diagnostica, passa dal 33% del 2012 al 6% del 2022 (e si riduce drasticamente per tutte le classi di età analizzate).

Anche la percentuale di parti cesarei si riduce, passando dal 36% del 2012 al 31% circa del 2022, effetto diversificato a seconda della tipologia di struttura ospedaliera dove essi avvengono; di conseguenza si assiste a un aumento della percentuale di parti vaginali. I dati evidenziano ancora come in Italia vi

è un ricorso eccessivo all’espletamento del parto per via chirurgica. Rispetto al luogo del parto si registra un’elevata propensione all’uso del taglio cesareo nelle case di cura accreditate, in cui si registra tale procedura in circa il 44,5% dei parti contro il 29,3% negli ospedali pubblici. Il parto cesareo è più frequente nelle donne con cittadinanza italiana rispetto alle donne straniere: si ricorre al taglio cesareo nel 27,4% dei parti di madri straniere e nel 31,8% dei parti di madri italiane. La percentuale di donne che ricorre alla fecondazione in vitro con successivo trasferimento di embrioni nell’utero (FIVET) passa dal 37% del 2012 al 48% dell’anno 2022 e continua a essere la tecnica più utilizzata; aumenta invece solo lievemente la percentuale di chi ricorre al metodo di fecondazione in vitro tramite iniezione di spermatozoo in citoplasma (ICSI). Il ricorso a una tecnica di procreazione medicalmente assistita (PMA) risulta effettuato in media in 3,7 gravidanze ogni 100. La tecnica più utilizzata è stata la fecondazione in vitro con successivo trasferimento di embrioni nell’utero (FIVET), seguita dal metodo di fecondazione in vitro tramite iniezione di spermatozoo in citoplasma (ICSI).

Nel complesso i parti con procreazione medicalmente assistita PMA aumentano del 73% nel periodo considerato, ma diminuisce notevolmente la percentuale di parti plurimi in gravidanza con PMA (21% nel 2012, 9% nel 2022). Nel 2022 delle 387.934 schede pervenute, 14.364 sono relative a gravidanze in cui è stata effettuata una tecnica di procreazione medicalmente assistita (PMA), in media 3,7 per ogni 100 gravidanze. A livello nazionale circa il 2,8% dei parti con procreazione medicalmente assistita ha utilizzato trattamento farmacologico. La fecondazione in vitro con trasferimento di embrioni in utero riguarda il 47,8% dei casi mentre la fecondazione in vitro tramite iniezione di spermatozoo in citoplasma riguarda il 35% dei casi e il 5,6% il trasferimento dei gameti maschili in cavità uterina. L’utilizzo delle varie metodiche è molto variabile dal punto di vista territoriale. Nelle gravidanze con PMA il ricorso al taglio cesareo nel 2022 si è verificato nel 52,5% di casi. La percentuale di parti plurimi in gravidanze medicalmente assistite (8,9%) è sensibilmente superiore a quella registrata nel totale delle gravidanze (1,6%). Si osserva una maggiore frequenza di parti con procreazione medicalmente assistita tra le donne con scolarità medio alta (5,6%) e tra le donne con età superiore ai 35 anni. La percentuale di parti con PMA aumenta al crescere dell’età, in particolare è pari al 18,1% per le madri con età maggiore di 40 anni.

Dove partoriscono le donne in Italia

L’89,0% dei parti è avvenuto negli istituti di cura pubblici ed equiparati, il 10,8% nelle case di cura e solo lo 0,15% altrove (altra struttura di assistenza, domicilio ecc.). Nelle Regioni in cui è rilevante la presenza di strutture private accreditate rispetto alle pubbliche, le percentuali sono sostanzialmente diverse. Il 62,2% dei parti si svolge in strutture dove avvengono almeno 1.000 parti annui.

Le caratteristiche delle madri: cittadinanza, grado di istruzione e professione

Nel 2022, circa il 20% dei parti è relativo a madri di cittadinanza non italiana. Tale fenomeno è più diffuso nelle aree del Paese con maggiore presenza straniera, ovvero al CentroNord, dove più del 26% dei parti avviene da madri straniere. Le aree geografiche di provenienza più rappresentate, sono quella dell’Africa (28,7%) e dell’Unione europea (19,6%). Le madri di origine asiatica e sudamericana costituiscono rispettivamente il 19,3% e il 7,9% delle madri straniere.

Delle donne che hanno partorito nell’anno 2022 il 42,5% ha una scolarità medio-alta, il 22,7% medio-bassa e il 34,8% ha conseguito la laurea. Fra le straniere prevale invece una scolarità medio-bassa (41,3%).

QUADERNI ACP 2/2024 88 INFO

L’analisi della condizione professionale evidenzia che il 58,6% delle madri ha un’occupazione lavorativa, il 24,7% sono casalinghe e il 14,5% sono disoccupate o in cerca di prima occupazione.

I neonati

Lo 0,9% dei nati ha un peso inferiore a 1.500 grammi e il 6,2% tra 1.500 e 2.500 grammi. Nei test di valutazione della vitalità del neonato tramite indice di Apgar, il 98,5% dei nati ha riportato un punteggio a 5 minuti dalla nascita compreso tra 7 e 10. Sono stati rilevati 994 nati morti corrispondenti a un tasso di natimortalità, pari a 2,4 nati morti ogni 1.000 nati, e registrati 4.332 casi di malformazioni diagnosticate alla nascita. fonte: www.salute.gov.it/statistiche

Menù scolastici

L’8° Rating dei menù scolastici fa emergere una grande ostilità dei bambini verso il cibo della mensa con un 35% dei bambini che non mangia a priori. Migliora un menù su tre, ma aumenta (+ 6%) il cibo processato. Lo riporta l’indagine annuale di Foodinsider che fotografa lo stato della mensa e ne traccia l’evoluzione , per scoprire la quantità di scarti, le best practice e i Comuni che migliorano anche grazie all’applicazione dei Criteri Ambientali Minimi (CAM), la legge che trasforma la mensa in uno strumento di sviluppo del territorio in chiave sostenibile. Secondo i dati dell’indagine, riferita all’anno scolastico 20222023, continua il trend di miglioramento delle mense scolastiche iniziato nel 2022, dopo la fine del Covid. Migliora un Comune su tre. Un cambiamento positivo atteso dopo lo scioglimento definitivo dei vincoli post Covid, ma che è anche l’effetto dell’applicazione della nuova legge che disciplina le gare d’appalto del servizio di ristorazione scolastica. Il risultato è spesso riscontrabile in menù più equilibrati, con un minore impatto ambientale, più varietà, con i legumi che aumentano e diventano un secondo piatto in un terzo dei menù analizzati, più prodotti locali e di origine biologica e sempre meno stoviglie usa e getta a favore dei piatti lavabili. I cibi processati (prosciutto, tonno in scatola, bastoncini di pesce, formaggio spalmabile e budini) invece crescono del 6%.

Il problema dello scarso consumo di cibo in mensa è la questione principale da risolvere. Ci sono troppi bambini che “rifiutano il cibo a priori” (il 35% dei casi secondo i dati del sondaggio), mentre il 31% ha “paura di assaggiare nuovi piatti” e solo il 14% sembra “mangiare con gusto”.

La top ten della classifica non offre sorprese: numero uno rimane Fano, seguita da Cremona e Parma, una triade di Comuni virtuosi che ogni anno sembra fare meglio. Molto vicini per qualità ed equilibrio sono i Comuni di Jesi, Sesto Fiorentino, Rimini, Ancona, Bergamo, Perugia e Mantova. Il Sud è ancora distante dalle mense più numerose e virtuose del Centro e del Nord. Si distingue la Puglia con Lecce e Brindisi dove i menù sono equilibrati e con piatti della tradizione gastronomica locale e Bari che eccelle per le alte percentuali di biologico. Dall’analisi emerge che un buon 29% delle mense del campione analizzato è ben radicato sul territorio da cui si rifornisce con più di 10 prodotti locali a settimana e un 13% che ne acquista almeno 5. È interessante anche identificare le mense che esprimono la cultura gastronomica del proprio paese come gli spätzle a Trento e Bolzano, i passatelli a Fano e a Rimini, a Brindisi le orecchiette con le cime di rape, a Lecce ciceri e trie, a Bari la purea di fave . Sull’altro fronte però ci sono menù che non hanno alcun radicamento, sono uguali sia a Nord che a Sud e sono quelli che privilegiano i cibi processati. I menù continuano a essere in prevalenza “muti” (il 61% del campione analizzato) e a non esplicitare la qualità delle materie prime mentre i menù “parlanti” sono solo il 39%, e si distinguono perché dichiarano quali sono gli alimenti surgelati,

il biologico, i prodotti DOP/IGP, quelli a KM0 e a filiera corta. I menù parlanti ci sono e si possono esprimere con icone come nel caso di Bolzano o con informazioni testuali come per il menù di Mantova, due esempi diversi di come si può essere trasparenti attraverso la tabella dietetica.

Tra le novità di quest’anno ci sono i pediatri e gli psicologi che entrano in campo sulle questioni del mangiare a scuola. Succede a Bolzano dove si organizzano incontri con i pediatri per sensibilizzare genitori e insegnanti sull’importanza di una corretta educazione alimentare e di un’alimentazione più varia fin dalla prima infanzia. Ad Aosta invece gli psicologi sono stati ingaggiati dal Comune per studiare le dinamiche di relazione durante il consumo del pasto in mensa.

Tre le best practice di cui si parla nel report: la mensa scolastica gestita dal comitato genitori di Faedis, che da più di trent’anni si occupa degli acquisti, in prevalenza di biologico, da produttori locali; la mensa del Comune di Fano, che non a caso è conosciuto come la “città dei bambini e delle bambine” e da tre anni è in cima alla classifica. La terza realtà virtuosa si chiama Laore, l’agenzia per lo sviluppo rurale della Sardegna, che da più di 10 anni ha avuto mandato dalla Regione di sviluppare progetti di formazione degli insegnanti, tavoli di lavoro sulla mensa per i Comuni con l’introduzione di un nuovo soggetto a supporto dell’educazione dei bambini: la rete delle fattorie didattiche.

Per sostenere i Comuni in questo processo di miglioramento mancano ancora dei tasselli che potrebbero potenziare il ruolo di motore di sviluppo della mensa per la comunità e il territorio: bisogna riportare le cucine dentro o vicino alle scuole, valorizzare i cuochi, rendere il monitoraggio degli avanzi sistematico, avviare continui percorsi di formazione degli insegnanti e di educazione dei bambini e delle famiglie, e connettere la mensa alle produzioni locali sostenibili.

Sarebbe di aiuto al raggiungimento di questi obiettivi definire una serie di indicatori semplici per assegnare un punteggio a chi trasforma la mensa in uno strumento di salute e di sviluppo del territorio, secondo la vocazione locale e in una logica sostenibile. Come, in passato, il decreto per le mense certificate biologiche del MIPAAF del 2017 ha dato impulso all’incremento di biologico nei menù scolastici, così, oggi, un sistema che riconoscesse valore ai Comuni che investono nella mensa scolastica a beneficio dei bambini e della comunità – e premiasse tale merito con fondi – fornirebbe strumenti concreti per realizzare la sovranità alimentare e dare attuazione ad alcuni punti dell’Agenda 2030 e alla strategia europea della Farm to Fork. Una strategia politica, a livello governativo, capace di incrementare la qualità dei menù connessi alla produzione locale diverrebbe volano di sviluppo economico e sociale eliminando, nel contempo, i fattori inquinanti presenti in mensa.

QUADERNI ACP 2/2024 89 INFO

La lezione dell’infanzia in The Quiet Girl

Rubrica a cura di Italo Spada

Comitato per la Cinematografia dei Ragazzi di Roma

The Quiet Girl

Regia: Colm Bairéad

Con: C. Clinh, C. Crowley, A. Bennet, M.P. Carmody

Irlanda, 2023

Durata: 97’

Della piccola Cáit, protagonista del film The Quiet Girl, resteranno impressi gli sguardi, i silenzi, la corsa e il salto sulle braccia di Seán. Poca roba per chi ama il cinema di azione; tanto materiale per chiedere al pubblico, com’era nelle intenzioni dell’esordiente regista irlandese Colm Bairéad, “un passo indietro e ritrovare le sensazioni dell’infanzia”.

Per non cadere nell’errore di sentirci estranei alla vicenda, non facciamo caso all’ambientazione geografica (una piccola parte rurale dell’Irlanda sudorientale) e al periodo storico (1981). Certe storie, come avviene nelle fiabe, trascendono luoghi e tempi; interpretiamole, allora, soprattutto per quello che intendono dirci.

Cáit, quinta figlia di contadini poveri, ha nove anni. Cenerentola poco sopportata dalle due sorelle adolescenti (per le quali è solo “quella là”), umiliata dal padre (per il quale è “ la vagabonda”), riceve attenzione e affetto solo dalla madre. Taciturna e trasandata, preferisce nascondersi e covare dentro di sé il trauma di vivere in una famiglia disfunzionale. Nell’estate in cui sta per arrivare un altro fratellino la sua presenza diventa ingombrante e i genitori decidono di affidarla ai Kinsella, coppia di mezza età senza figli e loro parenti lontani. La bambina si ritrova, così, in un’altra fattoria dove, però, si respira aria di affetto. Eibhlin è una donna dolce e premurosa e Seán un contadino cupo ma gentile. È qui che, per la prima volta in vita sua, Cáit scopre la dolcezza di una carezza, l’importanza delle attenzioni, la bellezza del vivere sereni in una casa dove “non ci sono segreti”. Eibhlin l’adora e le sussurra “Se fossi mia figlia, non ti lascerei mai a casa di estranei”; Seán, quando qualche amico saputello gli fa notare che si è preso cura di una bambina molto silenziosa, la difende dicendo: “È una bambina che dice solo quello che ha bisogno di dire”. Da ospite gradita a figlia acquisita il passo è breve; Cáit si affeziona, legge, apprende, gode delle attenzioni di Eibhlin, aiuta Seán a ripulire la stalla, corre felice per i campi. Quando arriva il momento del rientro, la timida e introversa ragazzina ha già scoperto un altro modo di vivere e di interpretare i rapporti con gli altri. Ha saputo che su quel letto dove lei ha dormito per tutta l’estate c’era un vuoto lasciato dal cuginetto vittima di una disgrazia; ha capito, soprattutto, che non tutte le famiglie sono come la sua. Non può opporsi al padre padrone che non sembra entusiasta di ritrovarsela tra i piedi, ma può impartirgli una bella lezione: voltargli le spalle, correre dietro a chi le ha voluto bene e, prima che la macchina

dei Kinsella varchi il cancello, saltare addosso a Seán e sentire ancora una volta il calore del suo abbraccio. Tratto da un racconto breve (poi diventato romanzo) di Claire Keegan, The Quiet Girl ha ottenuto una candidatura agli Oscar, vari riconoscimenti e premi. Non sono, tuttavia, mancate le critiche per il ritmo, la fotografia e la messinscena. Chi ama effetti speciali, inquadrature incantevoli e colpi di scena lo trova freddo, troppo lento e, a tratti, noioso. Errore. Si sta confondendo il genere filmico. È come cercare il brivido in Pierino la peste e la risata nella Corazzata Potëmkin. In questo racconto di formazione c’è un insegnamento impartito a ruoli invertiti: chi si crede maestro apra bene gli occhi su quello che vogliono i bambini; chi è abituato a predicare ascolti. Cáit non vuole giocattoli, ma attenzione. Le basta il biscottino che Seán deposita con discrezione sul tavolo per saziare la sua fame di affetto; le basta la mano delicata di Eibhlin che la pettina davanti allo specchio e l’accarezza nella vasca del bagno per farle avere ciò che non aveva mai avuto. I silenzi, nel cinema come nella vita, parlano; il passaggio dal nascondiglio alla corsa non è una scelta tecnica per snellire il ritmo narrativo, ma metafora della scoperta di un altro modo di vivere.

Questa ragazzina che buca lo schermo con lo sguardo sarà pure “quiet”, ma rimanere tranquilli dopo la sua lezione significa ignorare che, tra le tante finalità, il cinema ha anche quelle di denunciare ciò che non va e di invitare a riflettere.

QUADERNI ACP 2/2024 90 FILM
italoepifaniospada@gmail.com

Libri

Occasioni per una buona lettura

Rubrica a cura di Maria Francesca Siracusano

Il visconte cibernetico di Andrea Principe, Massimo Sideri Luiss, 2023, pp. 105, € 10

siero degli autori del testo recensito, che il tema ci pone delle domande sul futuro ruolo degli esseri umani nelle loro attività, del pensiero e dell’azione sulla base del pensiero del presente/ passato. Così, tra i possibili benefici per la salute delle nuove tecnologie, ci sono anche tanti rischi in agguato. E probabilmente ha ragione il filosofo Byung-chul Han quando afferma che “L’Intelligenza Artificiale, per la sua mancanza di pathos, è soltanto in grado di calcolare, fare correlazioni e riconoscere schemi, non di pensare. Non di immaginare ciò che non è stato immaginato”. E ancora, come dicono gli autori del nostro Visconte, a differenza di Socrate l’IA non sa di non sapere.

Giancarlo Biasini

I bambini del maestrale

di Antonella Ossorio

Neri Pozza, 2023, pp. 384, € 19

Muovendo dal mio interesse degli anni ’80 per Italo Calvino e, in modo particolare, del suo culto per le irrealtà del Visconte dimezzato, Il barone rampante, Il cavaliere inesistente e ancora per le sue fiabe italiane, mi sono imbattuto in libreria in questo Visconte cibernetico di Andrea Principe e Massimo Sideri. Il libro mi ha fatto anche ricordare però il mio scarso interesse, verso la fine degli anni ’90, per qualche “deviazione” di Calvino in campo cibernetico in alcune conferenze dal titolo Cibernetica e fantasmi e forse anche nelle Cosmi-comiche Dunque ho avuto voglia di leggerlo, questo Visconte cibernetico, stimolato anche dalla attuale attenzione per ChatGPT, (Chat Generative Pre-trained Transformer) e in generale per l’IA generativa. Perché il visconte, che da dimezzato diventa cibernetico, esemplifica il progressivo contatto tra i due poli del naturale e dell’artificiale e quindi anche tra uomo e tecnologia. Gli autori del Visconte cibernetico, seguendo Calvino, ci portano dentro il tema che riguarda l’utilizzo pratico dell’IA hic et nunc e da qui in avanti. È già chiaro qualche ambito: la stesura di tesi accademiche, di articoli di taglio scientifico da pubblicare su riviste con comitati di revisione e forse anche di brani di prosa o di poesia o addirittura di composizioni musicali. Nel campo dell’insegnamento ci si chiede come cambi il ruolo dell’insegnante e degli studenti. Ed è anche abbastanza da attendersi, secondo un ampio documento di OCSE del gennaio 2024, che l’IA avrà un impatto profondo sui sistemi sanitari trasformando assistenza, sanità pubblica e ricerca. Ma va tenuto sempre presente per il cittadino il rischio della produzione di suggerimenti falsi, imprecisi, tendenziosi o incompleti, che potrebbero danneggiare le persone che utilizzano le informazioni per prendere decisioni sulla loro salute. Va però anche ricordato che già siamo abituati all’informazione basata sulla cultura delle domande e delle risposte. Fino a oggi abbiamo utilizzato Google, o il più raffinato ed esigente Google Scholar, o Wikipedia. Oggi è qui ChatGPT, il futuro nel presente. Sarà necessario utilizzare domande giuste per chiedere i contenuti creati in autonomia da ChatGPT e tenere conto che forse ci capiterà più frequentemente del passato di avere risposte come da Google e compagni che non ci soddisfacevano. Una profonda questione rimane legata al dubbio del genere umano sulla capacità delle macchine di rispondere in maniera credibile alle nostre domande umane.

È dunque certo un bene che si abbia timore di questa tecnologia molto potente e in arrivo: Samsung annuncia che a fine anno saranno in circolazione 100 milioni di dispositivi tascabili con IA. Si parla di smartphone con traduzioni in tempo reale, di suggeritori nelle chat, di riassunti delle registrazioni, di riassunti trasformati in punti. Senza dimenticare, è un altro pen-

La nave in disarmo “Francesco Caracciolo” – ancorata nel porto partenopeo dopo numerose avventure di navigazione, per quindici anni, dal 1913 al 1928 – diventa una nave-asilo per i bambini orfani e abbandonati dai sei ai dodici anni. “Questo popolo infantile disperso nel vento e nel sole, nella miseria, è una caratteristica della nostra città”, scrive Giulia Civita Franceschi, protagonista di questa storia basata su avvenimenti storici documentati. Giulia appartiene all’alta borghesia e vive con il marito e il figlio in una tenuta agreste, lontana dalla città. Riceve la proposta da parte del Ministero della Marina di dirigere la nave-asilo dopo che alcune esperienze a Genova e a Venezia si sono rivelate funzionare. Dopo un primo momento di disorientamento, l’idea la seduce, il marito la appoggia, le amiche la incoraggiano e così Giulia accetta la proposta e si trasferisce in breve tempo sulla “Caracciolo” che diventa anche la sua dimora. Oltre ad avere un certo numero di marinai per la sorveglianza, sull’imbarcazione ci sono maestre e un maestro. Grazie all’opera del reverendo Andrea Viggiano i bambini vengono raccattati per le strade in condizioni misere, sperduti, magri, denutriti e accompagnati sulla nave dove vengono accolti con cura. All’inizio l’idea è quella di fargli apprendere un mestiere marinaresco, ma in seguito Giulia capisce che in questo modo si limitano le potenzialità dei ragazzi. Astutamente riesce a modificare il programma e a inserire interventi educativi differenziati per andare incontro alle inclinazioni dei piccoli. Vincenzo, Luigi, Raffaele, alcuni scugnizzi scrivono i ricordi della propria vita, tra vissuti in postriboli, elemosine, padri e madri in carcere o deceduti, storie di ordinaria sopravvivenza. Accanto a queste storie c’è quella di Felice che purtroppo riesce sempre a scappare dalla presa di don Viggiano, convinto di evitare il serraglio. Così, accanto alle vite riscattate dei “caracciolini”, assistiamo alla fatica disperata di un bambino di strada, toccato da personaggi e avvenimenti ambigui e perduti che ne segnano duramente l’anima.

“Salpare”, “navigare”, “resistere”: queste le tre parti del romanzo. Accanto alla storia dei bambini, c’è quella politica di un Paese che vede un giovane Mussolini abbracciare le posizioni belliche, fondare la propria testata interventista e prendere il potere. La nave alla fine viene presa in carico dall’Opera Nazionale Balilla e dal personale della Regia Marina che impongono regole diverse, a partire dal numero di ore di esercizi ginnici studiati per sviluppare i muscoli e addomesticare i pensieri dei ragazzi.

QUADERNI ACP 2/2024 91 LIBRI

La visione di Giulia sugli scugnizzi caracciolini travalica quella ottocentesca empirica (esiste ciò che vedo) e si concentra su quella più moderna ontologica (esiste ciò che non vedo) per disegnare il loro percorso di educabilità. A discapito della concezione ontologica che risponde all’educabilità umana universale dove ogni persona ha un’identità in continua formazione riconoscibile, la storia racconta la svolta verso un pensiero utilitaristico, una posizione che in pedagogia è inammissibile.

Liberi tutti

Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento di Valeria P. Babini

il Mulino, 2023, pp. 364, € 14

Il titolo in prima battuta fa pensare alla liberazione dei malati di mente, ma in realtà è necessario un cambio della società rispetto alla malattia in questione per produrre l’auspicato percorso virtuoso. Il libro traccia la storia della psichiatria italiana del Novecento fino alla rivoluzione introdotta da Franco Basaglia con l’esperienza di Gorizia prima e di Trieste poi, con il breve intermezzo di Colorno (Parma). Si parte con lo scandalo dei manicomi messo in luce nel 1901 a Venezia, dalla commissione istituita ad hoc, nei due manicomi di San Servolo (maschile) e San Clemente (femminile). L’Italia non ha ancora una legge nazionale che vede la luce solo nel 1904 durante il governo Giolitti (legge 36). Con questa legge la psichiatria italiana vede riconosciuto il proprio controllo totale sulla cosiddetta follia. L’autrice mette in rilievo il mancato incontro tra psichiatria e psicanalisi nel contesto italiano a differenza di quello europeo. La prima guerra mondiale offre la triste condizione di usare la trincea come laboratorio, a partenza dai traumi psichici e fisici innescati dal conflitto e dalle condizioni di fame e stress. Il periodo fascista non rappresenta certo un contesto favorevole per il cambiamento e nel

I tropici in ambulatorio

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1937 Ugo Cerletti mette a punto la tecnica dell’elettroshock che si diffonde anche al di fuori dei nostri confini ed è occasione di aspro dibattito nei congressi internazionali. Peraltro la speranza di curare i malati con tecniche simili veniva usata a partire dallo shock insulinemico e della febbre malarica. Inutile dire che gli effetti collaterali erano pesanti e mettevano a rischio la vita di questi pazienti. Dopo la seconda guerra mondiale e la fine del regime fascista il cambiamento sociale e la voglia di voltare pagina pervadono tutta la psichiatria come testimoniato dal congresso parigino del 1950. Nel libro si parla giustamente di giro di boa a proposito di questo periodo. E sempre negli anni ’50 irrompono con prepotenza gli psicofarmaci. Negli anni della contestazione si assiste alla rivoluzione psichiatrica con le già citate aperture dei manicomi e con la figura di Basaglia, soprannominato “il filosofo” con un certo sussiego dall’Accademia. La legge 180 sancisce il cambio di passo della psichiatria e nella trasmissione televisiva Tv7 del 3 gennaio 1969 Sergio Zavoli porta in prima serata nelle case degli italiani la realtà dei manicomi. È proprio il contesto sociale mutato che accompagna i passi in avanti della psichiatria italiana. Nel libro si affacciano personaggi importanti per questo cammino come lo scrittore/psichiatra Mario Tobino con la sue opere letterarie e la poetessa Alda Merini, in veste anche di paziente, con la bellissima poesia La terra santa. L’autrice insegna storia della psicologia presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna e riesce a coinvolgere il lettore a partire da un’ampia e approfondita documentazione.

QUADERNI ACP 2/2024 92 LIBRI
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PEDIATRA CURIOSO 1 Il medico di fronte alle nuove sfide per la salute globale in età pediatrica a cura di Fabio Capello e Costantino Panza
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Lettere

Pubblichiamo la lettera di Mario Renato Rossi e Patrizia Elli che riprende il dibattito iniziato su Quaderni acp 6/2023. Visto l’interesse suscitato ci auguriamo di poter ospitare altri contributi nel rispetto di tutte le opinioni.

La redazione

sione cerca di rispondere a una domanda su una pratica che non è di per sé una limitazione alla libertà civile, ma è un atto biologico naturale, e non invade libertà e diritti altrui, naturale limite alla libertà individuale.

Sì, no, dipende

La lettera pubblicata sul numero 6/2023 di Quaderni acp e la risposta di Stefania Manetti aprono la discussione sulla donazione d’utero. Tutti rifiutiamo qualunque mercimonio, rimane la donazione spontanea di una donna a un’altra donna, unica condizione accettabile su cui discutere. Le posizioni sono diversificate se non contrapposte. Movimenti femministi, bioeticisti, associazioni ecc. appoggiano questo gesto come atto di donazione. Altri, progressisti, aperti, attenti al bambino si oppongono con varie argomentazioni. Inoltre, chi scrive pensa che la condizione di maschio renda difficile, se non impossibile, entrare nell’ambito del desiderio di maternità e del significato di gravidanza per una donna; è un pesante limite che si cerca di superare con il ragionamento etico e giuridico e cercando di immedesimarsi, per quanto possibile, con il sentire femminile; ed è qui che l’essere maschio limita l’esprimere un parere convinto fino in fondo. Molti colleghi e amici, portatori di idee di libertà, uguaglianza e progresso, si oppongono alla donazione d’utero motivando che la gravidanza non è solo essere portatrice di un nascituro, ma definisce un rapporto, un’intensità di sensazioni, una partecipazione da cui non si può prescindere e segnerà il rapporto delle madri tra loro e del bambino con le madri; a sostegno si portano i lavori pubblicati sul rapporto madre/nascituro (es. la letteratura sui primi 1.000 giorni). Molte donne che chiedono la gravidanza con un utero donato accampano un diritto di maternità. La domanda che viene in mente è: la gravidanza è un diritto? Oppure è un accadere naturale, un desiderio che ad alcune è negato? È un diritto civile e di libertà? È uno dei diritti umani? La discus-

Gli scriventi pensano che la gravidanza non sia un diritto perché la sua presenza o assenza non inficia la libertà individuale e i diritti civili della donna. La gravidanza è un desiderio naturale volto alla continuazione di sé come genitore, al lasciare a chi da me nasce cose, idee, principi accumulati che voglio donare perché continuino e si arricchiscano. Uno degli scriventi ha l’esperienza personale dell’adozione di una bambina. Non c’è gravidanza, non c’è utero prestato, c’è solo il desiderio di crescere con amore chi sarà dopo di noi. È un diritto soddisfatto? Oppure è stato un desiderio d’amore per un bambino già nato? È esclusa la gravidanza con le sue implicazioni biologiche ed emotive che fanno rifiutare l’utilizzo di un utero altrui. L’amore per un bambino adottato è diverso da quello per un bambino partorito? Non pensiamo; molte coppie hanno adottato bambini di ogni età e, tranne rari casi, l’amore per il figlio adottato è stato totale e totalmente ricambiato malgrado i problemi per l’abbandono subito. Due madri sono frequenti nell’adozione, a volte problematica altre volte felice. Anche il “figlio d’anima” raccontato da Michela Murgia in Accabadora è un’esperienza di due madri, in parte di bisogno e in parte di generosità.

Quindi la gravidanza non è un diritto, ma un desiderio forte e condivisibile che può avverarsi o meno; volere un figlio a ogni costo può sconfinare nel patologico. La gravidanza per conto di altri va considerata nelle conseguenze per il bambino (gli diciamo che è uscito da un’altra pancia? Quando lo diciamo? Come lo diciamo?), per la donna portatrice del feto (madre?), per il diritto come jus, per il riflesso sociale che può derivarne. Non ci sentiamo, tuttavia, di condannare o malgiudicare una donna che per solidarietà, affetto, generosità consente a un’altra donna di avere un figlio grazie a lei. Ogni caso è diverso e vanno considerati e discussi senza regole normative insufficienti e ingiuste rispetto a una realtà molto varia. Vanno evitati i parossismi del considerarlo un diritto, una battaglia di libertà e andrebbero capiti, gestiti, consigliati i desideri di maternità perché si dirigano verso la forma migliore, anche con la donazione d’utero, cercando di creare le condizioni necessarie perché le conseguenze vengano gestite al meglio nel rispetto del bambino e delle madri.

Mario Renato Rossi, Patrizia Elli

QUADERNI ACP 2/2024 93 LETTERE

Piano operativo regionale autismo lombardo e sviluppo di progettualità dedicate

Eravamo in tanti il 17 gennaio a Milano – epidemiologi, psichiatri, neuropsichiatri infantili, pediatri, terapisti della neuroriabilitazione, psicologi, educatori – a condividere modelli di buone pratiche, concrete, possibili, efficaci anche grazie al supporto di strumenti di qualità nella gestione di una disabilità complessa, oggetto del piano operativo regionale dedicato (ottobre 2021). In una Regione molto grande, con differenti realtà locali e contesti organizzativi diversi, i progetti e i modelli che sono stati presentati, previsti nella prima fase di sviluppo del piano, si caratterizzano tutti per la multidisciplinarietà, l’implementazione della rete dei servizi, l’aspetto formativo, oltre a rappresentare anche solidi modelli di ricerca: il progetto AUTER (Attivare una risposta territoriale), rivolto ai pazienti maggiori di 16 anni e mirato all’inquadramento diagnostico e al trattamento, ma anche a fornire consulenze per la definizione e l’attuazione di un progetto di vita con la collaborazione della rete dei servizi territoriali; il progetto PERVINCA (Per una visione inclusiva e continuativa dell’autismo), rivolto alla fascia di età 7-21 anni; la piattaforma WIN4ASD per lo screening precoce dei disturbi dello spettro autistico nelle cure primarie e i suoi futuri sviluppi; il percorso diagnostico condiviso nei Nuclei funzionali autismo; l’accompagnamento della famiglia dopo la diagnosi; la complessità del lavoro di rete nel percorso di transizione verso l’età adulta; la formazione dei contesti per la gestione delle emergenze comportamentali (lavoro preventivo nei servizi di primo livello, accoglienza di persone con criticità nel secondo livello, sviluppo del potenziale umano nei servizi di terzo livello); lo sviluppo della rete DAMA (Disabled Advanced Medical Assistance), modello organizzativo

che vuole rispondere alle difficoltà che le persone con disabilità hanno nell’affrontare le comuni patologie e l’ospedale, utilizzando competenze e risorse già presenti nelle strutture ospedaliere.

L’esperienza pediatrica sul campo con la piattaforma web WIN4ASD (v. Quaderni acp 2021;1:17-20) è stata portata da Chiara di Francesco (AFT Gallarate e Somma Lombardo, ASST Valle Olona), che ne ha illustrato i punti di forza:

• input positivo al lavoro di tutti i pediatri coinvolti;

• semplicità di utilizzo;

• screening Chat omogeneo e universale;

• dinamicità dell’interconnessione con il Nucleo funzionale autismo;

• identificazione precoce anche di potenziali disturbi del neurosviluppo non ASD;

e anche alcune criticità: difficoltosa somministrazione ai bimbi con genitori stranieri e scarsa conoscenza dell’italiano e possibili falsi positivi in alcuni bambini e bambine a 16-20 mesi ancora poco complianti in ambulatorio.

Sempre nello stesso contesto territoriale una particolare attenzione viene rivolta alle famiglie nel periodo successivo alla diagnosi di autismo, partendo dal presupposto che ogni famiglia reagisce a modo suo, con un proprio impatto emotivo che può avere ripercussioni successive (sull’accesso ai servizi, sulla compliance, sulle terapie) e nella consapevolezza che il modello degli incontri periodici oggi non funziona più: concentrare gli incontri e poi lasciare spazi vuoti in cui succede altro, poi da riprendere in momenti successivi, è una modalità di accompagnamento che si sta rivelando più efficace in situazioni dove le traiettorie evolutive non sono tutte uguali, né gli aspetti clinici sono modificabili tutti nella stessa maniera. In un ambito della cura in cui si è costretti a vivere di progettualità e in una precarietà legata a questioni amministrative, e in un’epoca complessa che non premia le professioni di aiuto, l’incontro lombardo, promosso dall’istituzione regionale e svoltosi nella sede istituzionale, ha testimoniato un lavoro intenso e continuo nel territorio ai diversi livelli, ma ancora carico di sfide: tra queste, la stabilizzazione delle professioniste e dei professionisti che nei servizi e nei Nuclei funzionali autismo stanno lavorando con competenza e professionalità; il superamento della progettualità a termine; l’implementazione e la valorizzazione di azioni pensate nel tempo, strutturate, validate, non “reazione all’urgenza”, alla luce dei nuovi bisogni emergenti (es. famiglie straniere); il potenziamento della continuità di cura e presa in carico. A beneficio dei bambini e delle bambine e delle loro famiglie.

Federica Zanetto

QUADERNI ACP 2/2024 94 CONGRESSI IN CONTROLUCE

Errore, incertezza e dintorni.

Dalla filosofia

alla pratica clinica

Il laboratorio della conoscenza Carlo Corchia ha organizzato a Firenze (18-19 gennaio 2024) questo convegno, già preannunciato su questa rivista in un editoriale di Dante Baronciani (Quaderni acp 2023;6:241) dove è possibile rileggere le premesse che hanno portato alla progettazione e alla realizzazione dell’evento. Di errore in medicina non si parla, come fosse un vero e proprio tabù, perdendo una possibile occasione di formazione a partenza dall’evento critico. Durante il convegno si sono approfonditi il significato dell’errore in medicina e i motivi per cui si sbaglia. E ancora, quando si sbaglia, quali sono le conseguenze per il paziente e il professionista e come fare per evitarle. L’incontro, multidisciplinare, ha coinvolto filosofi, psicologi, ingegneri, informatici, magistrati e rappresentanti della stampa generalista e scientifica. La sua scrupolosa preparazione ha promosso la ricerca di un linguaggio comune tra professionisti di varia formazione; i confronti tra gli esperti, inframezzati dalle letture, hanno permesso ai partecipanti di approfondire i vari aspetti di questa tematica spinosa e rifiutata a priori.

Giampaolo Donzelli ha scaldato l’aula con un intervento dedicato alla cura dell’errore e che ha trovato degna declinazione nei successivi interventi. È impossibile riprodurre in breve la ricchezza di spunti emersi nel convegno, che vuole rappresentare un punto di partenza e non di arrivo.

Il laboratorio Carlo Corchia si propone di sviluppare la tematica anche con iniziative editoriali.

A questo proposito non si può prescindere dalla lettura del libro Errore di Giulio Giorello e Pino Donghi (il Mulino, 2019), di facile lettura ma denso di significati. Un altro testo consigliato, e recensito in Quaderni acp (2023;6:281), è Zona d’ombra (Il Pensiero Scientifico, 2022), in cui l’autore, Renato Luigi Rossi, si sofferma sull’incertezza in medicina come possibile causa di errore. Il ricorso all’euristica nota come rasoio di Occam consiste nella preferenza dell’ipotesi più semplice: se ci troviamo di fronte a un problema nuovo ricorriamo alla nostra esperienza e non certo ai “pensieri lenti” di Kahneman. Questo modo di procedere è più che giustificato nella pratica clinica, ma richiede una continua revisione se l’evoluzione della malattia sospettata non è corrispondente all’ipotesi iniziale. Del resto la medicina basata sull’evidenza dà risposte certe in una piccola parte della pratica medica. Carlo Corchia si è sempre occupato dell’EBM e dei suoi limiti con la consueta lucidità: la lettura di Marcello Orzalesi, a lui dedicata, ha messo in evidenza i progressi della neonatologia e l’importanza della figura di Carlo. Orzalesi si è soffermato in particolare sul danno iatrogeno in questa branca in rapida evoluzione e che ha saputo imparare dall’errore.

Nell’ultima sessione sono state poste le basi per la proposta formativa del laboratorio che si rivela quanto mai necessaria in questo contesto.

Per una volta tanto vale la pena di dire: cosa vi siete persi!

INDICE PAGINE ELETTRONICHE DI QUADERNI ACP 2023; 30(6)

Newsletter pediatrica ACP

n.1 Diarrea da antibiotico e probiotici: un matrimonio di scarsa utilità clinica. I risultati di un RCT

n.2 La profilassi antibiotica nei lattanti con reflusso vescicoureterale di grado elevato: più svantaggi che vantaggi

n.3 Cochrane Database of Systematic Review: revisioni nuove o aggiornate (settembre-ottobre 2023)

Documenti

d.1 Greenfeeding, un’alimentazione ecosostenibile fin dalla nascita.

Commento a cura di M.E. Bettinelli, V. Briscioli, S. Conti Nibali, C. Pilato, E. Uga d.2 Linee Guida per la diagnosi e il trattamento dei bambini e degli adolescenti con disturbi dello spettro autistico (ASD).

Commento a cura di Laura Reali

Ambiente & Salute a&s.1 Ambiente e salute news (n. 23, settembre-ottobre 2023)

L’ Articolo del Mese

am.1 La Medicina Traslazionale: un ponte tra laboratorio e letto del paziente?

Commento a cura di Daniele De Brasi

Nutrizione

nu.1 Nutrizione news (n. 3, agosto-settembre 2023)

Poster congressi

p.1 Poster specializzandi (V parte) “Parmapediatria 2023”

QUADERNI ACP 2/2024 95 CONGRESSI IN CONTROLUCE

IL VIAGGIO: 50 ANNI INSIEME

20-21 settembre 2024, Villaggio Marzotto, Jesolo – www.villaggiomarzotto.it

09.20 – 09.50

09.50 – 10.30

10.30 – 12.00

VENERDÌ 20 SETTEMBRE

Registrazione partecipanti e saluti

Lettura sulle diseguaglianze di Giuseppe

Costa: il tram si è fermato?

Introduzione di Dante Baronciani

Sessione “Le scuola di specialità: nuovi e vecchi percorsi”

Moderano Stefania Manetti, Laura Reali

10.30 – 10.55 Il percorso delle cure primarie: l’esperienza di Salerno e di Roma [Claudia Mandato + specializzanda; Laura Reali + specializzanda]

10.55 – 11.15

Possiamo imparare dall’Africa? [Luigi Greco, specializzanda Asia Zerbato]

11.15 – 11.40 Gli specializzandi nel progetto del CUAMM [Giovanni Putoto + specializzanda Giulia Cassol]

11.40 – 12.00

La disfagia pediatrica: gestione multidisciplinare del paziente [specializzando Orl + Annalisa Salerno, Hospice pediatrico di Padova]

12.00 – 13.00

12.00 – 12.20

Sessione “Ambiente e salute infantile”

Moderano Giacomo Toffol, Mara Tommasi

PFAS in Veneto: a che punto siamo [Angela Pasinato]

12.20 – 12.40 La banalità del male: la plastica [Annamaria Moschetti]

12.40 – 13.00 Discussione

13.00 – 14.00 PRANZO

14.00 – 16.00

Sessione “Aggiornamento avanzato”

Moderano Michele Gangemi, Giovanna La Fauci

14.00 – 14.30

14.30 – 15.00

15.00 – 15.30

15.30 – 16.00

Screening dei portatori sani di FC: uno su trenta e non lo sa [Carlo Castellani]

Le infezioni nel bambino con ritardo cognitivo [Federico Marchetti]

Malattie infiammatorie croniche intestinali: la genetica influenzerà la clinica?

[Daniele De Brasi]

Limiti e orizzonti dell’AI in pediatria [Fabio Capello]

16.00 – 16.30 COFFEE BREAK

16.30 – 19.00

20.00

09:00 – 10.30

Assemblea e risultato votazioni

CENA SOCIALE CON BUFFET MA SEDUTI AL TAVOLO

SABATO 21 SETTEMBRE

Sessione “I farmaci: quali novità”

Moderano Assunta Tornesello, Antonella Lavagetto

09.00 – 09.30 Update sull’antibiotico terapia [Melodie O. Aricò]

09.30 – 10.00 Ha ancora senso parlare di uso off-label dei farmaci? [Antonio Clavenna]

10.00 – 10.30 Quali farmaci nelle urgenze psichiatriche in età evolutiva [Alessandro Albizzati]

10.30 – 11.00 COFFEE BREAK

11.00 – 13.00

Sessione “Lavori in corso”

Moderano Federica Zanetto, Maria Francesca Siracusano

11.00 – 11.20 Progetto 4eparent? [Giorgio Tamburlini]

11.20 – 11.40 Progetto DICO EACH con Unifi sull’impatto delle tecnologie digitali? [Cosimo Di Bari]

11.40 – 12.00 La profilassi con benzilpenicillina: l’esperienza delle famiglie [Emanuela Ferrarin]

12.00 – 12.30 ACP-CSB: da Nati per Leggere a... [Team CSB]

12.30 – 13.00 Da “Reach Out and Read” a “Nati per Leggere” [Perri klass]

13.00 – 14.00 PRANZO

14.00 – 16.00 Sessione “Salute mentale e adolescenza” Moderano Franco Mazzini, Federico Marolla

14.00 – 14.30 L’utilizzo della Scheda ASQ sul rischio suicidario [Stefano Vicari]

14.30 – 15.00 Le nuove guide linea sull’autismo [Maria Luisa Scattoni]

15.00 – 15.30 I risultati finali del progetto WIN4ASD [Massimo Molteni]

15.30 – 16.00 Abuso di sostanze nel bambino e adolescente [Giorgio Ricci]

16.00 – 17.30 Sessione “Abuso all’infanzia. Il pediatra davanti alla solitudine e al dubbio, che fare?” Moderano Antonella Brunelli, Silvia Zanini Un ricordo di Carla [Corrado Rossetti]

16.00 – 16.30 La prevenzione: il pediatra attore o solo spettatore? [Monia Gennari]

16.30 – 17.00 La diagnosi: un abuso sessuale dubbio, come procedere? [Maria Rosa Giolito]

17.00 – 17.30 La segnalazione e la denuncia: cosa succede dopo? [Anna Aprile]

17.30 SALUTI E ARRIVEDERCI AL PROSSIMO ANNO

QUOTE DI ISCRIZIONE E INFO

- Socio ordinario: € 220

- Specializzando/a: € 110

- Non socio: € 280 (con iscrizione ACP in omaggio)

L’iscrizione comprende la partecipazione ai lavori e gli iscritti al congresso avranno in regalo per i 50 anni dell’ACP il nuovo libro FAD (2018-2023)

L’ospitalità sarà in modalità pensione completa a costi estremamente contenuti (seguiranno istruzioni dettagliate).

LOGISTICA

La sede del congresso è il Villaggio Marzotto sito in viale Oriente 44 a Jesolo Lido (VE), mail: info@villaggiomarzotto.it, sito web: https://villaggiomarzotto.it/. (A breve indicazioni dettagliate per il raggiungimento della sede dall’Aeroporto Marco Polo di Venezia e dalla stazione di Mestre)

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA

Michele Gangemi (responsabile formazione ACP) Gianni Piras (segretario nazionale) segreteria@acp.it

SEGRETERIA SCIENTIFICA

Presidente e Direttivo nazionale ACP

36° CONGRESSO NAZIONALE ACP

RESPONSABILE SCIENTIFICO:

MICHELE GANGEMI

Direttore della rivista “Quaderni acp”

DIAGNOSI E TERAPIA DELLE PATOLOGIE NELL’ AREA PEDIATRICA IN AMBITO TERRITORIALE E OSPEDALIERO.

XII EDIZIONE

MODULO 1: 15 MARZO 2024 - 20 DICEMBRE 2024

ANTIBIOTICOTERAPIA PER IL PEDIATRA:

TRA LINEE GUIDA E NUOVE INDICAZIONI AWARE

Melodie Aricò, Emma Bonaguri, Desiree Caselli, Anna Ragazzini

MODULO 2: 12 SETTEMBRE 2024 - 28 FEBBRAIO 2025 ENTEROPATIE EOSINOFILE

Martina Fornaro, Enrico Valletta

MODULO 3: 16 DICEMBRE 2024 - 30 MAGGIO 2025 ABUSO DI SOSTANZE NEL BAMBINO E ADOLESCENTE

Marco Marano, Mara Pisani

Fad Asincrona

WWW.MOTUSANIMIFAD.COM

N.

CATEGORIE ACCREDITATE:

MEDICI PEDIATRI E PEDIATRI DI LIBERA SCELTA MEDICI DI MEDICINA GENERALE E DI CONTINUITÀ ASSISTENZIALE

Quote di iscrizione

€. 25 per singoli moduli (SOCI ACP)

€. 60 per intero corso (SOCI ACP)

€. 30 per singoli moduli (NON SOCI)

€. 80 per intero corso (NON SOCI)

Il pagamento è da effettuarsi tramite bonifico bancario alle seguenti coordinate:

IBAN: IT56P0344017211000035017181

Banca: Banco DESIO

Intestazione: Associazione Culturale Pediatrivia Montiferru, 6 - 09070 Narbolia (OR)

Causale: QUADERNI ACP 2024 + NOME E COGNOME Inviare distinta di bonifico a: segreteria@acp.it

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA E PROVIDER ECM VIA S. TRINCHESE, 95/A - LECCE TEL 0832/521300 - CELL 393/9774942 info@motusanimi.com
PARTECIPANTI: 500
ECM 1° MODULO: 5 CREDITI ECM 2° MODULO: IN ACCREDITAMENTO
ECM 3° MODULO: IN ACCREDITAMENTO
CREDITI
CREDITI

Bimonthly magazine of Associazione Culturale Pediatri xxxi, 2, March-April 2024 redazione@quaderniacp.it

Editorial

49 Silence has fallen

Patrizia Elli, Mario Renato Rossi

Distance learning

50 Antibiotic therapy for the pediatrician: between guidelines and new aware indications

Melodie O. Aricò, Anna Ragazzini, Emma Bonaguri, Desiree Caselli

Info parents

57 Childhood that counts

Antonella Brunelli, Antonella Salvati, Stefania Manetti

A window on the world

58 WHO director’s moral clarity: moral conscience of the global health community

Stefania Manetti

Mental health

60 Neurodevelopmental disorders and environmental enrichment: can we implement the Italian model?

Andrea Guzzetta, Massimo Soldateschi, Martina Orlando

62 Autism Spectrum Disorder and access to healthcare for immigrant families

Giovanni Giulio Valtolina, Maria Luisa Gennari, Giancarlo Tamanza

Update to practice

65 Getting to know the patient: Chinese culture

Marina Buzzetti

Appraisals

67 Drinking water in paediatrics. Are there better and worse waters?

Federica Meli

The first thousand days

70 The importance of perinatal reading and dialogue

Giuditta Bacchin

Via Montiferru 6 09070 Narbolia (OR) www.acp.it

Focus

74 Focus on differentiated autonomy

End of life

76 End-of-life after the beginning of life Giuseppe Pagano

Family trajectories and horizons

80 The salient issues of single-mother families

Laura Fruggeri

The child and the legislation

83 Provisions for the prevention of discrimination and protection of the rights of people who have been affected by oncological diseases

Augusta Tognoni

Environment and Health

85 Is eco-anxiety a new form of anxiety or a new way to cope with the world?

Vincenza Briscioli, Sabrina Bulgarelli

88 Info

90 Movies

91 Books

93 Letters

Meeting synopsis

94 Lombardy Regional Autism operational plan and development of dedicated projects Federica Zanetto

95 Error, Uncertainty, and Surroundings. From philosophy to clinical practice

Michele Gangemi

96 ACP 36° national meeting Program “Il viaggio: 50 anni insieme”

Come iscriversi o rinnovare l’iscrizione all’ACP

La quota d’iscrizione per l’anno 2024 è di 100 euro per i medici, 10 euro per gli specializzandi, 30 euro per il personale sanitario non medico e per i non sanitari.

Il versamento può essere effettuato attraverso una delle modalità indicate sul sito www.acp.it alla pagina «Come iscriversi».

Se ci si iscrive per la prima volta occorre compilare il modulo per la richiesta di adesione e seguire le istruzioni in esso contenute, oltre a effettuare il versamento della quota come sopra indicato. Gli iscritti all’ACP hanno diritto a ricevere la rivista bimestrale Quaderni acp, le pagine elettroniche di Quaderni acp e la newsletter mensile Appunti di viaggio. Hanno anche diritto a uno sconto sull’iscrizione alla FAD di Quaderni acp; a uno sconto sulla quota di abbonamento a Medico e Bambino (come da indicazioni sull’abbonamento riportate nella rivista); a uno sconto sull’abbonamento a Uppa (se il pagamento viene effettuato contestualmente all’iscrizione all’ACP); a uno sconto sulla quota di iscrizione al Congresso nazionale ACP.

Gli iscritti possono usufruire di iniziative di aggiornamento e formazione a quota agevolata. Potranno anche partecipare ai gruppi di lavoro dell’Associazione.

Maggiori informazioni sono disponibili sul sito www.acp.it.

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