Why Marche n.45

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di Tommaso Lucchetti

Questa sapienza sopraffina, che moltissimi cronisti e relatori del passato attribuivano in particolare alle donne, partiva già dall’identificazione e classificazione selettiva delle erbe adatte per favorire la cagliatura, e notoriamente la conoscenza della flora selvatica era dominio culturalmente in gran parte femminile. Angelo Antonio Rastelli, autore nel 1808 del manuale di agronomia Il Dottore in villa riferisce in merito alla tecnica casearia: “Sogliono spesso le vostre Donne caciaruole lamentarsi, che in qualche anno lor vien male il cacio, che o si gonfia, o si crepola, o s’inverninisce, o non si coagula bene. Ne danno subito la colpa a qualche occhio malevolo ecc. Son tutte vane osservanze”. In effetti in una pratica apparentemente magica ed oscura della coagulazione del latte, può sembrare entrarci qualcosa di arcano, di misterioso, di alchemico, per cui ci si lega alle credenze ed alle superstizioni. Era inevitabile che attorno alla composizione dei formaggi talvolta fiorissero dicerie, leggende, autentici rituali dagli echi pagani che saldavano indissolubilmente profano e sacro. È significativa in proposito una documentazione di inizio Ottocento, ossia la relazione redatta da uno dei compilatori dell’Inchiesta Agraria Napoleonica, l’avvocato Simonetti di Falerone, nella quale è riportata la convinzione popolare che lega il formaggio, ed anche il caglio, il “priso”, alla ricorrenza sacra dell’Ascensione (quaranta giorni dopo Pasqua, quindi variabilmente tra maggio e giugno): “Il cacio che si fa in questo giorno non si divide col padrone, né si mangia, ma essi lo conservano gelosamente per unirlo alla mistura che fanno e che chiamano priso alla formazione della pasta del cacio nell’anno futuro. Dicono che senza di questa unione, fatta in devozione di quella festa, la pasta non può venir bene”. Tra tutti i segreti che la cultura contadina e pastorale perpetuava gelosamente, tramandandoli di generazione in generazione, le formule di confezione del caglio erano le più recondite ed imperscrutabili, nonché decisamente laboriose: vi entravano ingredienti complessi, a

volte anche oscuri se non ripugnanti, e si richiedevano procedure e raccomandazioni persino rituali, tramandati nelle case con la gelosia di precetti alchemici, all’apparenza quasi come fossero filtri magici o intrugli stregoneschi. Ancora pochissimi decenni fa una studiosa di Fossombrone, Adele Rondini, riusciva a raccogliere da una testimonianza orale la ricetta antica di un caglio: “Si prendeva dello stomaco dei primi agnellini, quella parte in cui il latte resta ristretto, cioè l’abomaso, (due o tre per la dose annuale in argomento); si teneva poi per un anno sotto il camino, sino a che, ritirato e secco, si poteva grattugiare, si aggiungeva un chilo di olio di oliva vergine, mezzo chilo di pecorino grattugiato, un pizzico di “occhi” freschi di noce (quei germogli-aborto che si vedono vicino alla foglia), peli di carciofo selvatico secco e noce moscata grattugiata finemente, un bicchiere di vino bianco e un’inezia di sale. Secondo la tradizione, il martedì di Carnevale, si procedeva a fare l’operazione: si impastava il tutto in una pignatta dove poi, questa specie di pasta, untuosa e brozzolosa, si conservava; durava un anno intero; la dose, facciamo conto per una cagliata di sei o sette litri, era tanta quanto una fava; se poi si pigliava lo stomaco di capretto allora il formaggio riusciva piccante e dai più anziani veniva benedetto come un santo per i miracoli. Più piccante del solito riusciva se si usava latte di capra. Più buono e saporito, se la pastura era di macchia o di pura lupinella”. Appena un po’ meno sinistra una ricetta di caglio non popolare e pastorale, ma al contrario signorile, presente nel ricettario manoscritto di Tommaso Zaccagnini, notabile di Staffolo, dove si legge del “Guaglio per fare la Giungata”: “Si prende la pelle che sta dentro il grigino di piccione e polito // con uno straccio si fa seccare, si pesta e mette dentro il latte e così questo si congela.

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