
6 minute read
LA MAGIA DI MONTE FURRU
La magia di Monte Furru e i suoi tesori nascosti: il gazebo in marmo e la casa degli spiriti. Monte Furru, nell’agro di Sassari, raggiungibile appena dopo via Baldedda, è uno scrigno di tesori nascosti e purtroppo dimenticati, divorati dal tempo e dalle intemperie.
In questi luoghi sono nate storie affascinanti e leggende, in cui è racchiusa la cultura di Sassari, specie dei secoli appena passati, vissuti da una società più semplice, ma profondamente crudele, divisa per classi.
Advertisement
In cima c’erano i pochi colti: avvocati, notai, professori, medici e ma- gistrati, ma la ricchezza vera la possedevano i grandi proprietari agrari. In mezzo c’era la borghesia sassarese, talvolta illuminata, composta soprattutto da commercianti, la cui unica legge in genere era il profitto e non certo il potere o la cultura.
Infine, numeroso, il terzo stato: un esercito di braccianti, ortolani o agricoltori, spesso analfabeti, che eseguivano le mansioni più umili, e soprattutto faticose. Se si guarda con occhio attento i vecchi poderi di Monte Furru sono evidenti queste disparità: le ampie stanze per i padroni, i piccolissimi alloggi per domestici e mezzadri.
E quel gazebo ottocentesco di un vecchio casolare della zona (da tanti lustri tormentato dalle erbacce), elegantissimo e a pianta circolare, con splendide colonne in marmo, doveva essere uno sfizio dedicato a pochi eletti, un riparo estivo, dove si poteva pranzare con gli ospiti e volgere lo sguardo verso la bellissima valle.
Il volgo invece poteva solo riposare e fantasticare, nel poco tempo libero a disposizione, magari osservando i nobili gozzovigliare.
A Monte Furru, dove fiorirono queste dimore sfarzose, nacque anche la magia della Casa degli spiriti, quella delle mura appartenute a Don Cri- stoforo Dequesada, marchese di San Saturnino, morto di vecchiaia a 80 anni, nel 1893.
Vari anni dopo la sua dipartita si narravano di canti e di strane voci provenienti da quelle pareti decadenti.
LA LEGGENDA DEGLI SPIRITIUn viandante un giorno tornava a Sassari.
Dalla zona di Logulentu s’inerpicava verso Monte Furru, che gli avrebbe spalancato le porte della città.
Era quasi buio e l’uomo vide un bagliore provenire dalla casa del marchese, udì anche voci gioiose, soprattutto femminili e ne fu irresistibilmente attratto.
Nella casa venne accolto come un re e poi invitato da una fanciulla a partecipare ad un grande girotondo.
All’inizio non sentiva la fatica, ma quel girotondo era sempre più vorticoso e veloce.
All’uomo, dopo l’estasi, girava la testa e le sue gambe divennero molli e pesanti, ammorbate da una stanchezza improvvisa che lo stava uccidendo.
Accanto a lui gli uomini e le donne che partecipavano al girotondo non sentivano la fatica e continuavano a sorridergli felici.
Con la forza della disperazione il viandante si sottrasse a quella presa mortale e scappò, correndo col cuore in gola.
(segue pagina 4)
(segue dalla pagina 3)
Poi ebbe il coraggio di voltarsi, ma dietro di lui non c’era nessuno, le luci erano sparite e i canti gioiosi non si udivano più: c’era solo silenzio, ombre e un vecchio rudere, la casa di Don Cristoforo. Solo in quel momento l’uomo si accorse di avere ballato con dei fantasmi, quelli che volevano ammazzarlo di fatica. Il viandante raccontò a tutti quella storia, che fece il giro della città. In molti gli credettero, altrettanti lo presero per matto.
Ma da quel giorno la casa del marchese Cristoforo Dequesada divenne per tutti la Casa degli spiriti. E lo era sino a qualche anno fa.
Ora, infatti, la leggenda magica è caduta nell’oblio e questa vecchia storia la ricordano soprattutto i più anziani. Il bellissimo gazebo (e il relativo appezzamento agricolo) è distante poche centinaia di metri dalla casa di Don Dequesada, quella dei fantasmi. Pur coperti dai rovi e dall’incuria dell’uomo, entrambi potrebbero essere valorizzati e riaccolti dalla storia, finalmente strappati dall’ingiusto anonimato a cui sono stati condannati decenni fa. Argentino Tellini.
Aggiungo che altri hanno scritto sull’argomento, che rispecchia in pieno tutti gli scritti.
Con affetto, il vostro. Giò Del Giò.
ROBERTA VANALI, CURATRICE DEGLI
EVENTI DI THE SOCIAL GALLERY, DESCRIVE QUESTA NUOVA REALTÀ
NATA A QUARTU
SANT’ELENA PER PROMUOVERE I
TEMI LEGATI ALLA
GIUSTIZIA SOCIALE
E ALLA LOTTA PER I PROPRI DIRITTI.
USANDO L’ARTE
COME BUSSOLA progetto “The Social Gallery” nasce a Seattle da un’intuizione condivisa da Giovanni Coda, regista e fotografo, e Aurora Martin, direttrice del Social Justice Film Festival.
Idea di fondo?
La creazione di uno spazio polifunzionale legato ai temi della giustizia sociale, dei diritti violati, negati, perduti, il tutto filtrato attraverso una prospettiva artistica che si muove come un flusso di coscienza, senza confini né barriere.
La Social Gallery viene allestita a Quartu Sant’Elena, nella centrale via Eligio Porcu, contemporaneamente alla sua gemella Justice Gallery, in fase di allestimento a Seattle, con la quale sono previsti scambi culturali virtuali e fisici, nell’ottica di promuovere le istanze sociali.
LE INIZIATIVE DI THE SOCIAL GALLERY
Ho ricevuto l’incarico di curare gli eventi di The Social Gallery che hanno preso avvio con la mostra di Giorgio Russo, fotografo di scena di Coda da ben dodici anni, con una selezione di scatti tratti dalla trilogia di genere che contempla “Il rosa nudo”, “Bullied to death” e “La sposa nel vento” oltre a “Storia di una lacrima”, inno alla vita che affronta il tema dell’eutanasia, tratto dal libro di Piergiorgio Welby “Ocean Terminal”.
E proprio a Welby, che ha combattuto per anni contro l’accanimento terapeutico, abbiamo voluto dedicare il se- condo evento con una selezione tra acquerelli, incisioni e una serie di elaborati digitali realizzati con Corel Drow quando la sua condizione fisica si aggrava ulteriormente.

GLI ARTISTI DI THE SOCIAL GALLERY

Con l’obiettivo di ricadute positive sul territorio si è deciso di valorizzare con una serie di progetti alcuni giovani artisti residenti a Quartu Sant’Elena, a iniziare da Davide Gratziu, la cui mostra di illustrazione DOUBLE è attualmente in corso.
Vedi il video https://vimeo.com/789420710
Al centro della sua ricerca ci sono una forte attenzione per la fragilità esistenziale, il tema dell’identità in continuo mutare e il superamento dei confini di genere ma soprattutto la soggettività della percezione di se stessi e degli altri.
A seguire, nel mese di febbraio, si terrà l’esposizione di Voci dal profondo di Matteo Piccioni, un percorso nella pittura che muove dal lato oscuro dell’esistenza umana e dove l’atto creativo diventa strumento di autoterapia, veicolo per analizzare con spietata ferocia i mali dell’anima. Il tutto si inserisce nella programmazione del V-art Festival Internazionale Immagine d’Autore “Exposition”, ideato e diretto da Giovanni Coda.
Roberta Vanali
https://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2023/01/the-social-gallery-progetto-artistico-sardo-ispirato-giustizia-sociale/ uando uscì per la prima volta, nel 1976, per i tipi di Einaudi, “Il formaggio e i vermi” di Carlo Ginzburg divenne subito un best-seller e negli anni successivi fu tradotto in venti lingue. Dalla sua aveva numerosi punti di forza: era innanzitutto scritto molto bene, si leggeva con piacere pur essendo il resoconto di una ricerca d’archivio che chiunque altro avrebbe trasformato in un pedante testo infarcito di note a piè di pagina; raccontava una storia affascinante, quella di un mugnaio friulano del Cinquecento che, a causa di letture disordinate, arrivò a costruirsi una propria cosmologia antitetica a quella ortodossa e finendo inesorabilmente bruciato dall’Inquisizione; era, infine (e soprattutto), un’opera-manifesto di un genere nuovo, quello della microstoria, che riusciva a rappresentare un’intera epoca (in questo caso, quello dell’ambigua religiosità popolare dell’età della Controriforma) a partire da uno studio di caso, e che sceglieva per questi casi non più “le gesta dei re” (come scriveva Ginzburg nella prefazione della sua opera) ma quelle degli ultimi, degli sconfitti, rimossi dalla memoria storica. La microstoria giungeva all’apice di un’autentica rivoluzione copernicana, inaugurata dalla scuola (segue pagina 6)
(segue dalla pagina 5) storiografica francese delle Annales, la storica rivista fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucien Febvre, che a differenza degli “Annales” quasi omonimi di Tacito si fondava sul rifiuto della histoire événementielle, la storia esclusivamente politico-militare, per concentrarsi su quella economica e sociale.
Questa “nuova storia”, come la definì Jacques Le Goff, iniziò con l’analisi delle dinamiche profonde delle società nel loro evolversi storico; gradualmente, l’attenzione alla società spinse in seguito a prediligere una nuova unità d’analisi, quella della “cultura popolare”, con l’obiettivo di restituire voce a coloro che non apparivano mai nelle cronache e negli annali, se non quando iniziavano a costituire un problema, esattamente come il Menocchio di Ginzburg di cui nulla sapremmo se non fosse entrato in rotta di collisione con l’Inquisizione lasciando traccia di sé negli archivi processuali. Si trattava di scrivere la “storia dei marginali”, come la definì Jean-Claude Schmitt, i veri attori della storia: gli “anonimi muratori” che avevano innalzato le mura di Tebe, come scrisse Ginzburg riferendosi alle “Domande di un lettore operaio” di Bertold Brecht.
Se in una prima fase si provò a fare questo tipo di storia sulla base di dati