FOOD SOCIAL CLUB
Un mondo di sapori, ma anche di saperi, di relazioni, di impegno sociale e civile vissuti in prima persona: dieci esperienze da conoscere e replicare
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1 FOOD SOCIAL CLUB INDICE Il cibo in transizione di Stefano Arduini 1. Agrivis Filiera corta ma insieme ai fragili 2. Alimenta Quando il sociale sta sul mercato 3. Gioosto Il marketplace dal volto umano 4. Il frigo di quartiere Coltiva cavoli, combatti lo spreco 5. Le cene galeotte I sapori hanno aperto le celle 6. Locanda centimetro zero Il cibo riduce le distanze 7. Pizzaut Così facciamo lievitare l’aiuto 8. Refettorio Ambrosiano Il bello sta nel piatto e intorno 9. Riempi il piatto vuoto Sfamare qui pensando a chi è là 10. Robin Food Piccola cooperativa, grandi fattorini Dialogare con le comunità del cibo di Maura Latini p. 3 p. 7 p. 15 p. 23 p. 31 p. 39 p. 47 p. 55 p. 63 p. 71 p. 79 p. 86
Editing e grafica: Vita Società Editoriale S.p.A. impresa sociale www.vita.it via Ermanno Barigozzi, 24 - 20138 Milano © 2022
direttore: Stefano Arduini coordinamento: Giampaolo Cerri illustrazione di copertina: Gabriele Ghisalberti grafica e impaginazione: Matteo Riva testi: Nicola Varcasia (Anna Spena, a pag. 15) revisione: Antonietta Nembri stampa: Plotino Milano
Realizzato in occasione dell’evento Food Social Club, tenutosi il 15 dicembre 2022 a Milano, in collaborazione con Coop Italia
Il cibo in transizione —
di Stefano Arduini
«Siamo ciò che mangiamo» diceva il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach e, prima di lui, Ippocrate: «Fa’ che il cibo sia la tua medicina e che la medicina sia il tuo cibo».
Quella del cibo è una delle partite decisive su cui oggi ci giochiamo il futuro. Qualche dato utile in modo da avere chiara la cornice di partenza. La produzione mondiale oggi sarebbe in grado di sfamare 12 miliardi di persone, a fronte di una popolazione di 8 miliardi. Ovvero produciamo, con tutto quello che ne deriva in termini di utilizzo di energia, acqua, forza lavoro, il 50% degli alimenti in più rispetto a quanto avremmo bisogno.
Non solo: circa un terzo del cibo prodotto viene buttato via. E ancora. Se allarghiamo lo zoom della nostra fotografia scopriamo che in questo stesso momento al mondo si contano quasi 900 milioni di persone malnutrite a cui non è garantita la sicurezza alimentare e 200 milioni di persone che letteralmente soffrono la fame.
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EDITORIALE
In questo stesso mondo però ci sono 1,7 miliardi di persone che soffrono di ipernutrizione, obesità (13% della popolazione mondiale) e malattie cardiovascolari. Il cortocircuito è evidente.
È quanto mai evidente che questo meccanismo perverso che considera il cibo una semplice commodity stia andando completamente fuori bolla anche in termini di rispetto di chi lavora nella filiera alimentare. Dalla produzione alla distribuzione, le zone d’ombra dello sfruttamento e del mercato nero sono da anni una costante delle cronache del nostro Paese; da Nord a Sud.
È proprio nelle pieghe della filiera alimentare però che sta emergendo un attivismo sempre più diffuso che nel piccolo e dal basso lancia la sua sfida nel nome della lotta allo spreco, della sostenibilità e dei diritti dei lavoratori e dei consumatori, considerati non più come clienti necessari per alimentare la domanda di cibo a buon mercato e bassa qualità, ma come alleati di un nuovo modello produttivo.
Partecipazione, socializzazione, fraternità, benessere: è attraverso queste parole d’ordine che sta venendo alla luce una sorta di transizione alimentare con potenzialità in grado di ri-orientare i meccanismi distorti del mercato.
Il compito che ci siamo assunti, come attori del racconto sociale di questo Paese, è quello di dare visibilità e quin-
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di concretezza e replicabilità alle esperienze più promettenti in termini di modelli economici e sociali.
Il book che avete in mano nasce da questa consapevolezza e dal lavoro di scouting e narrazione che facciamo ogni giorno online su Vita.it e ogni mese su Vita magazine.
In queste pagine raccontiamo esperienze (ne abbiamo scelte dieci, ma continueremo a raccontarne molte altre nei prossimi mesi sia sul sito, sia sul giornale) che testimoniano come dietro il cibo ci sia un mondo straordinario di conoscenza, cultura e impegno sociale.
Si tratta di esperienze straordinarie per capacità di impattare sulla propria comunità di riferimento, straordinarie ma al tempo stesso tutt’altro che rare.
Molto differenti, per genesi e modelli operativi, lette in controluce hanno una medesima filigrana: la visione sociale e imprenditoriale di considerare i bisogni (delle persone con disabilità piuttosto che dei lavoratori sfruttati e così via) come leve per costruire meccanismi di fraternità, anche economica. Perché, citando un grande sociologo francese Edgar Morin, il problema principale del nostro tempo non è legato a questioni giuridiche, come la libertà, ma è legato alla fraternità; è la fraternità infatti che produce appartenenza a una comunità. I diritti legati alla libertà da soli non basterebbero. Tornando a Ippocrate: è questa la medicina di cui abbiamo bisogno. Buona lettura.
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AGRIVIS FILIERA CORTA MA INSIEME AI FRAGILI
Milano
CARTA DI IDENTITÀ
Nel Parco Sud di Milano, in un terreno abbandonato, è nata un’impresa sociale agricola, specializzata in coltura ortofrutticola, che coltiva secondo i criteri del biologico e dà lavoro alle persone in difficoltà.
agrivis.it
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Frutta & verdura nell’hinterland di Milano, così l’agricoltura diventa sociale
Strappate dall’incuria un terreno agricolo nel comune di Milano, coltivateci prodotti biologici, che poi trasformerete e rivenderete, dando lavoro a persone con fragilità. Poi offrite alla città opportunità di incontro e inclusione e, negli stessi spazi, avviate anche un progetto di co-housing. Otterrete così l’idea e, soprattutto, la storia di Agrivis, una cooperativa sociale che più generativa non si può.
«Produciamo prodotti orticoli biologici certificati, in particolare verdure di stagione e frutti di bosco quali more, lamponi e fragole», spiega Andrea Foschi, responsabile comunicazione e marketing del Gruppo L’Impronta, il network di cinque cooperative di cui Agrivis fa parte. Prodotti che vengono venduti ad aziende una volta trasformati in passa-
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te e marmellate. Ma anche a ristoranti di Milano che li acquistano freschi, a gruppi d’acquisto, online e al circuito interno di Agrivis costituito da comunità, famiglie e dal non lontano ristorante Gustop. Sì, perché i capitoli dell’avventura del gruppo L’Impronta sono ben intrecciati, prendendo il la alla fine degli anni ’90, a Gratosoglio, quartiere milanese, con iniziative di volontariato per le disabilità. Negli anni l’attività si ingrandisce dando forma a diversi spin off gestiti tutti con l’intendo di accogliere, sostenere e includere persone con fragilità.
«Quindici anni fa, accanto alle attività più tradizionali di accoglienza socio-educativa e le comunità alloggio, si è pensato che il mondo del lavoro fosse la vera sfida per la disabilità: venne da qui l’idea di realizzare nella zona sud di Milano, dove un po’ mancavano queste iniziative, un ristorante aperto a mezzogiorno per la pausa pranzo delle aziende», aggiunge Foschi. Partendo dalla ristorazione, all’Impronta hanno accarezzato l’idea di creare una vera e propria filiera alimentare, aprendo dopo qualche anno un panificio pasticceria e, alla fine nel 2016, il campo agricolo Agrivis.
«Abbiamo acquistato un terreno dietro all’Istituto Europeo di Oncologia-Ieo, impegnato con una monocultura di grano e, dopo due anni di transizione con l’aiuto di un agronomo che ha seguito tutti i processi, lo abbiamo reso adatto per la coltivazione biologica. L’orticultura è, a sua volta,
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Nella cascina c’è anche un progetto di housing sociale con tre appartamenti destinati a persone fragili
molto adatta per il lavoro manuale e noi avevamo bisogno di far lavorare le persone manualmente, con l’obiettivo di inserirne il più possibile in ambito occupazionale».
Non solo, dopo una lunga e complessa ristrutturazione (il terreno non prevedeva in precedenza alcuno spazio decoroso per ospitare chi vi lavorava, c’erano soltanto una roulotte e una tettoia) realizzata grazie a una importante campagna di raccolta fondi, i terreni di Agrivis oggi ospitano una cascina, costruita secondo i criteri del piano regolatore del Parco agricolo Sud Milano. I nuovi spazi sono stati inaugurati a giugno del 2022, con annesso il laboratorio di trasformazione dei prodotti agricoli coltivati e poi venduti. Non solo agricoltura, in Agrivis c’è di più. «La cascina è divisa in tre blocchi e, in uno di questi, è partito anche il progetto di housing sociale Sai, con tre appartamenti destinati all’accoglienza di migranti segnalati dal Comune di Milano e provenienti dai centri di prima accoglienza. Con l’aiuto di un tutor, li aiutiamo a trovare una casa, a regolarizzare la loro posizione e a trovare un lavoro. Uno di loro lo abbiamo assunto direttamente noi come operaio agricolo».
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Nel campo di Agrivis, aggiunge Foschi, oggi lavorano «due ragazzi con storie difficili, provenienti dall’Africa subsahariana, un signore ucraino, sordo, che era in Italia già da prima della guerra, un ragazzo italiano con disabilità cognitiva e proprio da poco abbiamo assunto un ex-detenuto del carcere di Opera».
Recuperare un terreno, renderlo bio, creando lavoro è attuare i principi della sostenibilità
Nel laboratorio, oltre alla tecnologa alimentare, che è una professionista, lavorano altri due ragazzi e una ragazza con disabilità cognitive che l’aiutano. In proposito, è molto interessante l’analisi dell’impatto sociale dato dalla presenza del laboratorio di trasformazione che, di fatto, inserisce le eccedenze alimentari in un processo di trasformazione che allunga i tempi di vita dei prodotti.
I prodotti trasformati vengono venduti per generare posti di lavoro per persone in condizione di fragilità. La stima fatta da Agrivis è che, a fronte di una vendita di 15 tonnellate di pomodori e 12 tonnellate di frutta, si generi un utile tale che dà la possibilità di assumere un lavoratore in condizione di fragilità.
«L’idea di rigenerare un terreno agricolo situato all’in-
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In cascina, attività con scuole, cittadini e aziende.
Queste ultime, a fare team building nel campo agricolo
terno del comune di Milano», conclude Foschi, «con una caratteristica di grande prossimità alla campagna, renderlo biologico e creare lavoro è il nostro esempio di attuazione dei principi della sostenibilità odierna: produrre bio, avere un impatto sociale e coinvolgere i diversi stakeholder sui temi e le urgenze meritevoli di sensibilizzazione. In cascina organizziamo infatti le attività con le scuole, i cittadini e le aziende. Queste ultime vengono sempre più spesso da noi a fare team building nel campo agricolo, raccogliendo i prodotti e partecipando a piccole lavorazioni assieme ai nostri ragazzi».
Aziende del calibro di Snam, Ups, Banco Santander, Fastweb, Coface, Altea Federation, Covivio, Esprinet, Biogen sono già state ospiti di Agrivis, per attività di questo genere direttamente in campo.
Anche così si contribuisce a mandare avanti un’attività non profit che sta sul mercato e si sostiene principalmente con la vendita dei suoi prodotti agricoli.
Molto articolata è anche l’attività educativa e formativa: da circa un anno e mezzo, in primavera poi in estate, Agri-
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vis ha avviato una serie di laboratori di educazione ambientale, alimentazione sana e promozione dell’inclusione rivolta a scuole, singoli e gruppi di famiglie.
Durante o al termine di queste attività è sempre possibile acquistare (e in alcuni casi raccogliere direttamente in campo) i prodotti coltivati negli orti, per contribuire a lasciare la propria «impronta» in questo progetto inclusivo.
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ALIMENTA QUANDO IL SOCIALE STA SUL MERCATO
Milano
Benevento
Lecce
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Una rete di bar che vendono anche prodotti dell’agricoltura sociale realizzata in alcune terre di comuni consorziati. Che vogliono produrre welfare senza auto-ghettizzarsi. «Perché la coesione sociale», spiegano, «non è per i fragili ma per tutti».
consorziosaledellaterra.it/project/alimenta
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Nei nostri caffè-bottega produciamo inclusione sociale
Sono da poco passate le sette del mattino. Shu serve il primo caffè della giornata, questo lavoro gli piace. Va d’accordo con i sui colleghi. Soprattutto va d’accordo con Luca che gli sta insegnando tutti i segreti del mestiere: come funziona la macchina del caffè, come far partire la lavastoviglie, come servire un calice di vino e lavorare al banco.
Siamo a Milano, in via Tiziano 13, zona Buonarroti, quartiere centrale e trafficato della città. Qui lo scorso settembre ha aperto Alimenta Cafè, ma non fatevi confondere dal nome. Alimenta non è solo un bar, Alimenta è un nodo, un nodo di un movimento di coesione sociale che sta attraversando l’Italia.
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Shu ha 30 anni e questo lavoro per lui è così importante perché, da un lato e come tutti, ha bisogno di uno stipendio, ma, dall’altro, può finalmente dimostrare che non è la sua disabilità psichica - o la fragilità in generale - che lo definisce come persona.
Alimenta Cafè, che è anche una bottega dove è possibile acquistare i prodotti che nascono dall’agricoltura coesiva, è stato pensato come un locale diurno dedicato alla colazione, a un pranzo leggero o a un aperitivo e non offre un caffè qualunque: «Abbiamo gli specialty coffee Lot Zero della torrefazione Sevengrams, miscele e monorigini di altissima qualità da ogni parte del mondo», spiega Luciana Peschiera, direttrice Alimenta Cafè Milano. «Il caffè rispetta i produttori e gli ecosistemi. Il packaging è certificato Fsc, e si adotta una filosofia plastic free. Offriamo anche un servizio di delivery fornito da SoDe, il delivery sociale, solidale, sostenibile di Rob de Matt. Ed grazie alla collaborazione con A&I Cooperativa sociale onlus che nel bar lavoreranno altre persone in condizione di fragilità come Shu».
Ma non si tratta solo di caffè o cibo: «Noi», spiega la direttrice, «non vendiamo solo un prodotto o un servizio. Noi raccontiamo una storia. A oggi siamo quattro dipendenti e speriamo di allargarci. Ci stiamo facendo conoscere dal quartiere. E tutti stanno apprezzando i nostri caffè, i vini, i dolci. I nostri prodotti hanno un valore aggiunto: e il valore
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Noi non vendiamo
solo un prodotto o un servizio. Noi raccontiamo una storia
sta nelle persone che li realizzano e in chi li serve o propone ai clienti, come Shu». Ma chi li realizza? Facciamo un passo indietro. Alimenta Cafè è uno dei nodi della Rete di Economia civile Sale della Terra, un consorzio di cooperative sociali, formato da strutture ricettive e ristorative - pasticceria, alberghi diffusi, bistrot - in diverse città italiane, e una rete di fattorie e orti sociali, dove lavorano persone destinatarie di percorsi di riabilitazione sociale e lavorativa, persone in progetti terapeutici riabilitativi individualizzati con budget di salute, persone con disabilità, e ancora in misure alternative alla detenzione o con fragilità sociale ed economica, migranti usciti dal circuito di accoglienza del Sistema Accoglienza e Integrazione-Sai.
I prodotti venduti e serviti ai tavoli arrivano dalla rete di fattorie e orti sociali aperte nelle «Terre del Welcome», terre da salvare dall’abbandono e dallo spopolamento, in cui il consorzio Sale della Terra concentra la sua attività. Ma il valore di questi prodotti, dal vino alle passate di pomodoro, dalla pasta ai dolci, dall’olio evo ai legumi, non veniva pienamente compreso dalla grande distribuzione, e quindi servi-
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Persone di diversa provenienza e con fragilità, sono impegnate
nella
produzione .
va una vetrina nuova per raccontarli meglio. «Persone di diversa provenienza, con fragilità sociale o economica, sono impegnate nelle realizzazione di questi prodotti. E siamo convinti che l’incontro, il confronto, il mix di culture e persone diverse sia la chiave di volta per dare un prodotto di altissima qualità al mercato ma che allo stesso abbia un inestimabile valore sociale», continua Peschiera, «si è scelto di aprire anche a Milano per dare forza ai nostri percorsi di riscatto, stringendo alleanze con una città che è da sempre simbolo di accoglienza, di intraprendenza e di generosità». E infatti il Cafè di Milano nasce da un primo esperimento riuscito, quello di Alimenta Bistrot a Benevento, un wine bar e ristorante del consorzio, inaugurato a giugno del 2019, nato all’ombra dell’Arco di Traiano, nel centro della città. Il nome Alimenta prende spunto proprio dagli istituti alimentari creati dall’imperatore, uno dei primi provvedimenti di welfare rurale a favore dell’infanzia indigente che risale al II secolo d. C. Qui sono assunte dieci persone, sei in condizione di fragilità. «Tutti i prodotti», dice Angelo Moretti, presidente del
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Nella filosofia del welcome social food, il cibo è inteso non come merce, ma come scambio culturale
Consorzio Sale della Terra, «devono essere buoni e giusti, nel segno della condivisione prima che del consumo e rispettoso della filosofia del welcome social food, per la quale il cibo è inteso non come merce, ma come valore di scambio culturale per costruire un legame tra le persone, tra le persone e i territori abitati dalle persone e tra diversi territori. Scegliere i piatti elencati in un menu, conoscerne le materie prime e i sistemi produttivi, deve essere gesto politico prima ancora che gesto di consumo».
Alimenta nasce anche per invertire la rotta: «Il sociale», chiosa Moretti, «deve diventare il mercato normale. Prendiamo ad esempio l’agricoltura sociale, ma che significa “sociale”? Che pochi ettari di terra sono coltivati in un certo modo etico e il resto è tutto sfruttamento? Va marchiato ciò che non è sociale, e non viceversa come avviene oggi». Lo scorso novembre è stato aperto anche a Lecce un Alimenta Bistrot, otto assunti di cui tre in condizione di fragilità e il prossimo nascerà a Torino: «Il fattore sociale e innovativo di Alimenta è l’idea di creare dei luoghi dove il welfare
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c’è ma non si vede. I clienti stanno bene da Alimenta ma non sentono di essere dentro un’opera di welfare. Non esiste il marketing “aiutiamo i fragili”, il nostro slogan è «produrre coesione sociale». E la coesione sociale non è solo per i fragili, ma per tutti. E in modo particolare Alimenta a Milano è nato con l’idea che non possiamo stare a fare il nostro welfare nel Sud Italia e basta».
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GIOOSTO MARKETPLACE DAL VOLTO UMANO
CARTA DI IDENTITÀ
Una piattaforma e-commerce diversa dalle altre, dove non domina il «sotto-costo» ma l’equa remunerazione del produttore, per la qualità offerta. Le aziende che vi partecipano si sottopongono a un rating Esg, impegnandosi al miglioramento nelle aree a votazione più bassa. gioosto.com
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Roma
L’e-commerce con gli alimenti caporalato-free? È nato in un Good Friday
Si possono acquistare dei prodotti gastronomici di qualità, a un prezzo ragionevole, con la certezza che le fasi di lavorazione e produzione rispettino tutti gli standard della sostenibilità? La domanda dovrebbe, a rigor di logica, trovare una risposta affermativa in ogni negozio o supermercato del nostro Paese. Ma sappiamo che le cose non sono così semplici e che su certi standard c’è ancora da lavorare. Rivolgiamo allora la domanda a Elisa Bianchini, responsabile della comunicazione di Gioosto, che ci racconta di una esperienza molto interessante, dove l’intera catena alimentare, dal produttore al consumatore, segue un percorso controllato, mettendo un argine al fenomeno, iper consumistico, del ribasso a ogni costo. Senza per questo trasformarsi
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in una nicchia per pochi eletti. «Gioosto è una piattaforma di e-commerce», spiega Bianchini, «popolata da alcune decine di aziende accomunate dal fatto di essere sostenibili a 360 gradi. Non solo dal punto di vista dell’impatto ambientale, ma soprattutto su quello etico e sociale».
Parliamo dunque di articoli, principalmente alimentari, prodotti da aziende che scelgono di lavorare con una particolare attenzione per le persone, l’inclusione lavorativa e le comunità locali, oltre che per la tutela dell’ambiente: «La piattaforma è nata con l’intento di voler mettere insieme tutte queste piccole realtà che, per fortuna, in Italia sono tante - e aumentano giorno dopo giorno - impegnate sul versante della sostenibilità, offrendo alle persone un’offerta aggregata».
Sul sito, infatti, si possono acquistare prodotti di tante aziende diverse con un’unica spedizione, aggregando le offerte: «Mettendo insieme queste realtà potevamo offrire una esperienza diversa rispetto a ciò che esiste in commercio negli store online».
Questo non impedisce ovviamente alle singole aziende più strutturate di avere il proprio sito di e-commerce per vendere solo i propri prodotti.
Si favorisce però, nel contempo, l’acquisto di prodotti di imprese diverse senza moltiplicare i costi di spedizione.
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Gioosto.com è una realtà ancora piuttosto giovane, ma sta crescendo e a oggi coinvolge circa una cinquantina di produttori in tutta Italia. Il sito è on line da fine novembre 2019, in una giornata che è coincisa simbolicamente con il Black friday, ribattezzato per l’occasione Good friday: «Per noi era il modo più adatto per dire no all’acquisto al massimo ribasso. La nostra piattaforma è un «no» al «compro-tutto-sottocosto», spiega Bianchini. Non a caso, tra i fondatori di Gioosto c’è Leonardo Becchetti, economista, docente universitario e fondatore dell’associazione Next - Nuova economia per tutti, elemento che fa di Gioosto un passaggio importante per mettere in pratica i principi dell’economia civile, traducibili nell’avere attenzione e rispetto verso ciò che si compra tutti i giorni. Ma come si candidano le aziende a entrare nella piattaforma Gioosto? «In quanto spin off dell’associazione Next, che è attiva dal 2011, negli anni abbiamo raccolto un buon numero di aziende che lavoravano secondo i parametri e le attenzioni verso le persone, i lavoratori e le comunità che richiediamo. Il primo gruppo dei fornitori è perciò stato creato con
La nostra piattaforma? È un ‘no’ deciso al ‘compro-tuttosottocosto’
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le aziende con cui già da anni collaboravamo su questi temi a livello culturale e informativo: quando abbiamo proposto di imbarcarci nell’avventura concreta sono stati contenti di partecipare».
I pacchi dell’inclusione arrivano da aziende che impiegano persone fragili
Tra le varie curiosità che si incontrano navigando su www.gioosto.com ci sono i nomi dei pacchi. Tutti i siti di e-commerce propongono dei pacchi tematici, ma a Gioosto si sono superati: «Abbiamo pensato di articolare la nostra offerta declinandola secondo i temi a noi più cari: per esempio, i pacchi dell’inclusione sociale sono creati da aziende e piccole realtà che lavorano dando un’opportunità di lavoro a persone delle fasce protette. Allo stesso modo funzionano i pacchi no alla mafia o caporalato free».
Dal punto di vista logistico, Gioosto non è un semplice marketplace, ossia una piattaforma digitale virtuale, ma è un e-commerce con un magazzino fisico e centralizzato, situato a Benevento: «La scelta è stata quella di offrire un servizio vero alle aziende che si appoggiano a noi perché, spesso e volentieri, i piccoli produttori, magari insuperabili nella coltivazione e trasformazione dei propri prodotti, non han-
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Quando paghiamo un prezzo troppo basso, la differenza la mette sempre qualcun altro
no nel loro core business il commercio on line, che segue logiche molto precise. Perciò abbiamo deciso di centralizzare il magazzino per gestire al meglio ordini, spedizioni e pagamenti in maniera diretta ed efficace e metterci così a confronto con gli altri operatori di e-commerce più tradizionali, che forniscono servizi di consegna rapida e un certo livello di assistenza clienti. Spesso, come consumatori diamo questi servizi per scontati e ignoriamo la mole di costi che si portano dietro».
Il magazzino è stato aperto a Benevento perché tra i principali collaboratori di questa avventura c’è il Consorzio Sale della Terra che ha sede nella cittadina campana: «Il Consorzio riunisce una serie di cooperative sociali che lavorano sul territorio impegnandosi sui temi dell’inclusione dei migranti e della disabilità. Ne fanno parte alcune cooperative agricole con le quali abbiamo un rapporto di partnership consolidato», spiega Bianchini.
Su Gioosto si trovano prodotti alimentari all’80%, mentre il restante 20 è composto da prodotti di artigianato locale, una filiera che si sta ancora strutturando: «Il cibo riguarda
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tutti molto da vicino, sono anni che lavoriamo sulla crescita della consapevolezza di ciò che si porta in tavola, non solo sotto il profilo della bontà e della qualità. Il nostro obiettivo è far capire che dietro ogni prodotto c’è anche tutta la parte di lavoro, di giustizia sociale e di solidarietà. Quando paghiamo un prezzo», prosegue la responsabile comunicazione, «troppo basso per un bene, la differenza tra il prezzo giusto e quello che versiamo la mette sempre qualcuno altro o qualcos’altro. Il prodotto in realtà non costa di meno: magari noi non tiriamo fuori i soldi di tasca nostra, ma qualcuno o qualcosa sì: un lavoro sottopagato, un maltrattamento dell’ambiente in cui viene realizzato o una serie di altre distorsioni che purtroppo esistono», conclude Bianchini.
Per partecipare a Gioosto come rivenditore è molto semplice: Next mette a disposizione delle aziende un indice –chiamato Next Index – che permette di assegnare un valore alla sostenibilità dell’azienda, restituendo una fotografia del suo impegno nei principi Esg: ambientale, sociale e organizzativo.
Nel caso emergessero punteggi bassi in alcune aree, le aziende si impegnano a migliorare in quella determinata area con l’aiuto di Next. Ma non si lascia indietro nessuno.
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IL FRIGO DI QUARTIERE
COLTIVA CAVOLI, COMBATTI LO SPRECO
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Una storica ong decide di occuparsi delle periferie del capoluogo piemontese, unendo la socialità della coltvazione degli orti al recupero delle eccedenze alimentari e alla lotta allo spreco. Ne nasce un sistema capace di combattere la povertà alimentare ma soprattutto generare inclusione. www.reteong.org
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Torino
Cooperanti a casa nostra. Fra orti urbani ed eccedenze, l’ong va in periferia
C’è un frigorifero sempre aperto per chi ha bisogno.
In un momento in cui il caro energia morde e il problema alimentare tocca sempre più famiglie, è una proposta semplice, efficace e utile. Naturalmente, l’elettrodomestico non è posizionato a caso, c’è un luogo, anzi, un intero e ben strutturato contesto di cooperazione sociale intorno a cui l’iniziativa Frigo di Quartiere si è avviata. L’ha messa in campo Rete ong di Torino - un’organizzazione non governativa attiva già dai primi anni ’80 con iniziative di cooperazione internazionale a sostegno delle comunità locali - nell’ambito del progetto AgroBarriera.
Sempre di più il bisogno morde anche nel nostro Paese e dunque, tra i vari progetti messi in campo dalla Rete, vi sono
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anche quelli di prossimità: «Il mondo della cooperazione è molto cambiato negli ultimi anni», spiega Giuseppe Deplano, responsabile progetto AgroBarriera per la Rete ong, «se prima in Italia si faceva principalmente un racconto dei progetti sviluppati all’estero, adesso il Paese è diventato esso stesso un’area di azione».
Così, dal 2015, AgroBarriera utilizza l’agricoltura urbana come strumento di inclusione sociale, a Barriera di Milano, nella periferia nord di Torino, per sostenere tante situazioni di povertà educative, alimentari e sociali. Al centro di tutto c’è l’orto: «Un luogo dove le persone possono trovarsi in un ambiente agreste e sviluppare una comunità del fare, prendersi cura di uno spazio e curare i prodotti», spiega Deplano. Così emergono anche quegli aspetti terapeutici insiti nel coltivare e la correlata parte educativa, che rappresentano l’obiettivo sostanziale del progetto: «L’orto funziona molto bene come legante tra persone fragili, mettendo in atto un importante ribaltamento del ruolo. Persone in difficoltà, ad esempio con problematiche psichiche, entrando nell’orto diventano gli ortolani, al pari di altri cittadini e questo è un aspetto importante per il rilancio della persona».
Accanto a questi percorsi di ortoterapia a supporto di famiglie e individui fragili, il progetto AgroBarriera prevede anche attività con le scuole e gruppi di minori, realizzando percorsi di educazione ambientale e di educazione alla cit-
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È
un luogo dove
le persone possono trovarsi in un ambiente agreste e sviluppare una comunità del fare
tadinanza globale. A ciò si affiancano altre attività formative e di reinserimento socio-lavorativo, laboratori per sensibilizzare i cittadini ad uno stile di vita sostenibile, nonché progetti sul recupero del cibo e contrasto allo spreco alimentare. Qui rientra in gioco il frigorifero. All’interno di uno dei tre orti urbani nei quali si svolge l’azione di AgroBarriera, la scorsa estate è stato avviato il progetto sociale di prossimità Frigo di Quartiere, realizzato con NovaCoop. Il suo funzionamento è molto semplice: i volontari di Rete recuperano le eccedenze alimentari della Coop situata in piazza Respighi, distante appena trecento metri dall’orto, e distribuiscono i prodotti alle famiglie, principalmente nuclei in condizione di fragilità, che partecipano alle varie iniziative messe in campo. L’iniziativa del frigo si incrocia poi con il progetto Buon Fine, con cui Nova Coop destina l’invenduto dei propri negozi a onlus impegnate per il sostegno a persone in difficoltà. Con il progetto Frigo di Quartiere, Rete ong cerca di superare nella pratica la logica puramente assistenziale, pro -
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muovendo il cosiddetto empowerment di comunità.
Le persone hanno un ruolo attivo: vogliamo scardinare la logica assistenziale
I beneficiari dei prodotti diventano cittadini proattivi, partecipando agli eventi di cura dello spazio pubblico, alle attività di agricoltura sociale e collettiva e agli eventi di sensibilizzazione: «È molto importante per noi coinvolgere persone che hanno un ruolo attivo nel progetto: vogliamo scardinare la logica assistenziale. Infatti, ci siamo resi conto che spesso la logica del pacco alimentare non è funzionale per fare ripartire le persone».
Non si tratta solo di fornire di cibo, cosa comunque importante, in certi casi indispensabile, ma innescare un rilancio della persona, per quanto possibile: «Proviamo a prenderci cura di gruppi di persone un po’ più piccoli che nell’orto si occupano di agricoltura, di cura degli spazi e partecipano alle attività. Il conoscersi, l’essere in relazione sono elementi che diventano importanti nel momento in cui poi queste stesse persone ricevono i prodotti del supermercato in fase di scadenza».
È il concetto di economia circolare che diventa strumento di inclusione sociale: «Nella nostra attività, che di fatto si
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occupa di contrasto alle povertà alimentari, cerchiamo di spostare il fuoco sul contrasto allo spreco alimentare: in questo modo creiamo alleanze più forti a livello territoriale, riuscendo a coinvolgere più persone impegnate nel combattere questo tipo di battaglia». Non solo: «Se lavoriamo esclusivamente sul concetto di povertà alimentare, in qualche modo rischiamo di appiccicare l’etichetta di povero alle persone e, al tempo stesso, altre persone e realtà del quartiere, magari interessate al contratto allo spreco alimentare, non si avvicinano perché temono di essere riconosciute a loro volta nella condizione di poveri. Cambia di nuovo il ruolo: non si riceve il pacco perché si è poveri, ma perché tutti insieme si lotta contro lo spreco». Alimentare e sostenere il contrasto allo spreco alimentare, coinvolgendo l’intera cittadinanza diventa poi l’occasione anche per realizzare laboratori di cucina sociale. L’obiettivo è dare un nuovo significato al concetto di “scarto” e costruire collettivamente l’immaginario di cibo “bene comune”. Il poter cucinare insieme è un altro momento rilevante di apprendimento e di ricostruzione di legami e di
Se lavoriamo solo sul concetto di povertà alimentare, rischiamo di appiccicare un’etichetta
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relazioni, di riscoperta di sé e dell’altro, di valorizzazione di competenze trasversali nelle varie biografie individuali.
L’esperienza del frigo di quartiere è dunque una vera e propria sperimentazione sociale che, nel panorama dei progetti sviluppati nell’ambito del Buon Fine, si completa poi con la collaborazione con mense, centri di accoglienza o empori solidali. Questa sperimentazione è facilitata dall’opportunità del progetto Im.patto, con cui Nova Coop, dal 2021, sviluppa azioni a favore delle comunità in cui è presente, sulle tematiche del cibo, della salute e della sostenibilità, lavorando in coprogettazione e condividendo obiettivi e risorse con stakeholder locali.
Ancora una volta, il cibo, nella sua più ampia accezione, diventa occasione di riscatto sociale.
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LE CENE GALEOTTE
Volterra
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I SAPORI HANNO APERTO LE CELLE 5
Grazie a SlowFood e Unicoop, il carcere si apre: entrano chef e sommelier a preparare, con i detenuti, splendide cene. Dopo 16 anni, oltre 40 ex-ristretti hanno trovato lavoro nei ristoranti della zona. E 20mila persone hanno varcato la soglia di un penitenziario. fb.com/cenegaleotte
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Cucinare e servire a tavola affratella. E rende tutti più liberi
Da sedici anni a questa parte, il carcere di Volterra, in Toscana, già conosciuto per avere la sua sede in un’antica Fortezza medicea, è diventato famoso anche per l’iniziativa «stellata» delle Cene galeotte.
Dove il cibo e il gusto conquistano una dimensione visibile di riscatto sociale e condivisione, in un contesto non semplice come quello della prigione.
«Nel 2006 si è pensato di portare la cultura dell’associazione Slow Food all’interno dell’istituto», ricorda la direttrice, Maria Grazia Giampiccolo, ideatrice dell’iniziativa. Le serate della prima annata erano degli eventi a tema, ispirati alle tradizioni culinarie dei paesi di provenienza dei cuochi, per cui, nella prima stagione si sono svolte una serata ziga-
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na, una calabrese, una araba e altre serate etniche. «Dall’anno successivo», prosegue Giampiccolo, «si è unita al progetto Unicoop Firenze che le ha dato un respiro diverso: da allora le serate sono state coordinate da chef stellati e, a ognuna di esse, è stata abbinata anche una cantina scelta dalla delegazione storica della federazione dei Sommelier di Volterra, con il coordinamento gastronomico del gourmet e giornalista Leonardo Romanelli».
Dopo questi anni, si può affermare con certezza che i detenuti affrontano queste serate-evento come una vera a propria esperienza che non termina lì per lì, grazie anche alla cura con cui viene organizzata: per tre giorni, quello precedente l’evento, il giorno della cena e quello successivo, i detenuti che vi partecipano diventano dei veri e propri «dipendenti» della Coop, con lo chef stellato che li guida in tutto e per tutto e immancabilmente insegna loro i trucchetti del mestiere: «Si è sviluppato un percorso di competenze oltre che di apertura del carcere alla città», aggiunge Giampiccolo, che riassume il successo delle Cene galeotte con alcuni numeri che danno un’idea chiara della fecondità di questa iniziativa: «Nel corso di questi 16 anni, più di 40 dei nostri ragazzi sono stati assunti dai ristoranti del territorio: un progetto interno si è così trasformato in una esperienza di lavoro e di vita. Oltre 200mila euro sono stati raccolti per i progetti di solidarietà sociale della fondazione Il cuore
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In 16 anni, più di 40 nostri detenuti hanno trovato lavoro nei ristoranti del territorio
si scioglie, con il ricavato delle serate che viene interamente devoluto in beneficenza ai relativi progetti. Inoltre, quasi 20mila persone sono venute in istituto per partecipare a queste serate evento». Quello della partecipazione della gente è un aspetto particolarmente rilevante, che contribuisce ad abbattere il muro della diffidenza: «Aprire in maniera così significativa le porte del carcere al territorio, all’interno di serate particolari, fa conoscere veramente una dimensione in genere poco nota e poco conosciuta».
Le serate hanno portato con sé anche un altro frutto, forse il principale di tutto questo percorso e per nulla scontato. Non si offrono soltanto dei momenti felici ma, per così dire, isolati dalla vita del penitenziario, a partire da queste cene si è arrivati infatti a realizzare un corso di studi dedicato: «Ormai da svariati anni è partito un corso turistico alberghiero con indirizzo eno-gastronomico. Grazie all’esperienza delle serate anche il nostro panorama delle offerte scolastico-formative ai detenuti si è accresciuto in questo specifico settore», spiega Giampiccolo.
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Questo corso è frequentato attualmente da una trentina di persone circa, si ripropone ogni anno con tutte e cinque le classi e quindi ogni anno porta al diploma una serie di nuovi cuochi che hanno la possibilità di mettere in gioco le nuove competenze acquisite nella loro vita, una volta scontata la pena.
C’è un’altra particolarità sulla nascita di questo corso che dice davvero molto su quanto l’apertura e l’inclusione non siano dei sogni. D’accordo con il sindaco, le associazioni di categoria e in generale con la città, i primi anni del corso alberghiero si rivolgevano non solo agli studenti detenuti, ma anche agli esterni. C’erano quindi ragazzi e ragazze di Volterra che andavano a studiare in carcere assieme agli studenti detenuti. Questa bellissima esperienza si è poi andata a esaurire nel tempo perché, nel frattempo, l’istituto alberghiero ha aperto anche una sede sul territorio. Il fatto che un indirizzo scolastico si sia avviato praticamente dietro le sbarre resta una un fatto straordinario con una particolare valenza sociale ed educativa molto alta.
Partecipare a una delle Cene galeotte è molto semplice, an-
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Non sono momenti isolati dalla vita del penitenziario: grazie alle cene è nato un percorso di studi
In carcere, non solo il cibo affratella ma consente di realizzare esperienza condivise
che se bisogna rispettare delle procedure, com’è ovvio che sia in queste circostanze: il giorno dell’evento, le persone che si sono prenotate tramite il consorzio turistico o altri enti che concorrono all’organizzazione, devono fornire il proprio documento di riconoscimento e farsi identificare per accedere alla zona dove si svolge al serata.
Il giorno prima si svolge la fase preparatoria con l’arrivo dello chef che prepara i piatti concordati assieme ai detenuti. Alcuni di loro fanno da chef, altri da cameriere, ciascuno con un compito.
In conclusione, chiediamo alla direttrice Giampiccolo, quale ruolo hanno elementi quali il cibo e il gusto per il riscatto sociale delle persone: «Evidentemente, se pensiamo alla cultura di Slow Food, da cui questa iniziativa è nata, si è condivisa fin da subito questa possibilità. In un particolare contesto come il carcere, non solo il cibo affratella, ma consente di realizzare esperienze che sono poi aperte e condivise tra tutti. Non soltanto tra i detenuti, anche fra le persone che vengono qui in istituto per partecipare alle serate. È stato», conclude Giampiccolo, «veramente un veicolo di
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apertura importantissimo ed è stata una delle molle principali per le quali questo progetto si è svolto».
Aggiungiamo che non solo si è svolto, ma si continua a svolgere. Prima del Covid, il carcere di Volterra era arrivato a ospitare dalle sei alle otto serate all’anno.
Tutto, purtroppo, si è dovuto fermare per circa un anno e mezzo.
Ora però si sta ripartendo.
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LOCANDA CENTIMETRO ZERO
DA NOI IL CIBO RIDUCE LE DISTANZE
CARTA DI IDENTITÀ
Dal desiderio di creare un luogo che desse lavoro a persone con disabilità, mossi addirittura da una serie tv, alla concretissima realizzazione di un ristorante di qualità che si basa sul lavoro di tante persone fragili. E ora, arriva anche la cioccolateria.
locandacentimetrozero.it
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Pagliare del Tronto
Coi buoni piatti serviamo empatia. Per questo continuiamo a crescere
«Non avevamo nessuna esperienza di disagio in famiglia, eppure tante volte guardo questi ragazzi e penso: è stata proprio una fortuna averli incontrati, ci hanno cambiato la vita, ma in meglio! Se penso a come mi dovevo comportare in passato e a come mi rapporto oggi con le persone, dico: ma perché non l’ho fatto prima?». Il commento che Roberta D’Emidio ci ha regalato alla fine della conversazione racchiude, in poche parole, la portata di un progetto sociale legato alla ristorazione citato anche dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel messaggio di fine anno del 2019. Parliamo della Locanda Centimetro Zero, situata a Spinetoli, in provincia di Ascoli Piceno, a metà strada tra le montagne dell’Appennino e il mare di San Benedetto del Tron-
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to. Avviata alcuni anni fa da Roberta assieme a due soci, oggi dà lavoro a 20 ragazzi con sindrome di down o altre disabilità intellettive.
Tutto è partito da un’idea rimasta lì a germogliare per qualche tempo: «Avevo visto in tv alcune puntate della serie Hotel 6 stelle, dove l’accoglienza veniva fatta da ragazzi con sindrome di down. Allora ho cominciato a fantasticare e a informarmi. Nel 2014, la Fondazione Carisap di Ascoli ha emesso un bando sul sociale e abbiamo deciso di lanciarci in questa avventura».
Il fatto principale, osserva D’Emidio, non era che né lei –impegnata nella comunicazione e nel marketing – né gli altri due soci della nascente cooperativa, un insegnante e un commercialista, provenissero dal sociale: «L’aspetto importante è che eravamo tutti un po’ stanchi della vita così com’era e delle sue formalità. Sognavamo qualcosa che desse spazio, liberasse le menti e i cuori».
Sicuramente, di energia, in questa impegnativa esperienza ne è stata sprigionata moltissima e la fatica che la Locanda Centimetro Zero fa oggi è quella di accogliere tutte le richieste che riceve, sia da parte di ragazzi per lavorare (provenienti da tutta la provincia, in collaborazione con gli ambiti territoriali di competenza) sia delle persone che vogliono trascorrere una serata: «Il nostro è un ristorante a tutti gli effetti, abbiamo così tante richieste da non riuscire a soddisfa-
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I ragazzi son diventati così bravi che qualche ospite chiede: ‘Ma son persone con disabilità?’
re la domanda. Spesso qualcuno arriva e pensa di trovare una certa situazione ma poi in realtà ne trova un’altra. La disabilità la devi proprio cercare, altrimenti non la trovi. È un luogo talmente pieno, impegnato e indaffarato, animato da ragazzi nel tempo diventati talmente bravi tanto che una delle domande che ci sentiamo rivolgere è: lui è una persona con disabilità?».
Ma come si spiega, D’Emidio, questa particolare empatia notata ormai a tanti livelli? «Siamo persone che si sono «create» un’esperienza e hanno incluso questi ragazzi accogliendoli così come sono, senza problemi, io la definisco sempre una cosa molto strana, che io stessa non mi spiego del tutto. Si coglie una particolarità, ma non quell’impatto che uno si aspetta di trovare in un ristorante dove sa che lavorano ragazzi con disabilità. Credo dipenda proprio dal fatto che è una avventura nata più dal cuore che dall’esperienza pregressa».
In questi anni, naturalmente, di esperienza Roberta D’Emidio e i suoi ne hanno fatta, non a caso il sito della Locanda, concesso da una signora del luogo, si è allargato e l’8 di-
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Mi piaceva che questi ragazzi facessero un lavoro che li facesse socializzare
cembre 2022, a venti metri di distanza, è stata inaugurata anche una cioccolateria, che darà lavoro ad altri sei ragazzi che non possono, per varie ragioni, impegnarsi nel ristorante. Ma torniamo all’attività core della locanda, partita con un ristorante da 50 coperti solo all’interno e che oggi, dopo una ristrutturazione, riesce a ospitare, in diverse sale, 100 coperti al chiuso e 120 all’aperto d’estate.
Ai 20 ragazzi con fragilità, che sono soci lavoratori della cooperativa, svolgendo turni di tre giorni alla settimana, si aggiungono anche sei dipendenti, quattro in cucina, una alle stoviglie e una in sala.
Perché scegliere proprio un’attività di ristorazione per includere? «La Locanda nasce dal cibo innanzitutto perché nasce dall’accoglienza. Mi piaceva pensare che questi ragazzi facessero una professione che li portasse a socializzare. Un’esperienza a tavola - lo vedo costantemente tutti i giorni - è davvero un dire, un fare, un parlare dei nostri piatti, così come dell’orto, del vino e dell’olio che produciamo. Con l’apertura della cioccolateria, poi, si apre un altro capitolo. Per me il cibo è tutto ciò che si apre al mondo e all’emo -
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Portare un ragazzo con fragilità e integrarsi in una attività che non ha mai svolto richiede responsabilità
zione. Avremmo potuto aprire un ufficio per qualche altro servizio, ma il rapporto che c’è con un cliente che entra, mangia, assapora e poi si confronta con i ragazzi e si fa consigliare da loro è completamente diversa da qualsiasi altro tipo di esperienza lavorativa».
Portare un ragazzo con fragilità e integrarsi in una attività che non ha mai svolto prima e che richiede anche delle responsabilità non è un percorso né semplice, né breve: «Ci vogliono almeno 24 mesi di formazione, ma io tengo a dire che dopo due anni questi ragazzi quasi non li riconosciamo! Parliamo di ragazzi che, quando arrivano, in qualche caso hanno impiegato anche un’ora di tempo per varcare la soglia. Oggi vediamo persone autosufficienti, preparate, consapevoli delle proprie mansioni, dalla cucina alla sala». Chiaramente, ogni ragazzo e ogni fragilità è diversa: «Essendo abbastanza liberi nell’esprimersi e nel muoversi, bisogna controllare che non superino certi limiti: ma i limiti sono sempre quelli del non stare troppo vicini al cliente o del socializzare troppo, l’esatto opposto di quando sono arrivati».
Le curiosità legate all’attività della Locanda Centimetro
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Zero sono tante. Tra queste, il coinvolgimento dell’enologo Roberto Cipresso, che produce nel vigneto circostante il rinomato vino Soqquadro. O anche le sedie su cui ci si accomoda, a loro volta recuperate e dipinte a mano dallo staff. Ma ce n’è una che si ricollega alla particolarità di questa esperienza, legata al nome prescelto per indicarla e che contiene un’altra bella sorpresa. Il nome «centimetro zero» non si riferisce tanto ai prodotti coltivati nell’orto, all’olio, al vino, alla farina e ora anche al cioccolato: «Di solito viene interpretata come km zero, in realtà quando ho pensato al centimetro zero è perché non c’è nessuna distanza tra le persone, tra noi che facciamo parte di questa avventura e chiunque arriva».
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PIZZAUT COSÌ FACCIAMO LIEVITARE L’AIUTO
de’ Pecchi
CARTA DI IDENTITÀ
Una famiglia che immagina soluzioni per il proprio figlio autistico e che poi comprende che da quella steìssa idea, può nascere l’inclusione di tanti.
Una solidarietà che “impasta” sempre più persone, all’interno ma anche all’esterno. pizzaut.it
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Cassina
«Ci dicevano: è impossibile. Ma le nostre pizze solidali saranno presto in franchising»
«Se lei pensa di riuscirci è più handicappato dei suoi ragazzi. Se nessuno lo ha mai fatto prima ci sarà un motivo! Gli autistici non entrano in relazione con le altre persone, come fanno a fare i camerieri? Lei è il solito padre frustrato che non si arrende alla disabilità di suo figlio e si inventa progetti irrealizzabili».
Questi sono soltanto alcuni dei commenti che Nico Acampora dovette leggere in risposta a un post su Facebook in cui iniziava a presentare l’idea che gli era venuta qualche giorno (e una notte) prima: aprire una pizzeria e farla gestire da ragazzi autistici. Ebbene, da quel momento, nonostante lo scetticismo che lo circondava, Acampora, fondatore di Pizzaut, ha preparato – o meglio ha fatto preparare
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ai suoi ragazzi, lui dice di essere un cattivo cuoco – 200mila pizze, ha aperto un ristorante a Cassina de’ Pecchi, in provincia di Milano, in cui ci vogliono due mesi e mezzo di prenotazione per andare a mangiare, fa lavorare con regolare contratto di assunzione 19 ragazzi autistici e sta per aprire un secondo ristorante a Monza. Inoltre, durante la pandemia, per non tenere totalmente fermi i ragazzi che aveva cominciato a coinvolgere, si è inventato due pizza-autobus – «c’era dentro la parola aut, suonava molto bene!» – in versione track food a bordo dei quali andava in giro a fare le pizze con questo claim: «Invece di portarti la pizza a domicilio, al domicilio ti portiamo tutta la pizzeria». Il precedente di questa avventura sociale diventata anche molto conosciuta per la sua dirompente efficacia e, bisogna dirlo, genialità in atto, nasce dalla storia personale: «Ho pensato alla pizza per un motivo molto semplice: ho un bambino autistico e, quando andiamo fuori a mangiare, è sempre un dramma. Spesso nei ristoranti non c‘è un’alimentazione adatta, oppure ti senti in imbarazzo quando le persone ti guardano male per le sue stranezze. Anche a cena dagli amici è difficile, magari tuo figlio si mette a saltare sul divano nuovo o si agita con le sue spade laser facendo cadere i soprammobili», racconta. Così, lui e sua moglie hanno cominciato a invitare gli amici a casa, in modo tale che tutta la famiglia potesse continua-
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Perché una pizzeria?
Ho
un bambino autistico e, quando andavamo a mangiar fuori, era
re a frequentare delle persone e per il bambino ci fosse una comfort zone in caso di piccoli o grandi danni.
«In quelle occasioni», prosegue Nico, «spesso mia moglie preparava la pizza e Leo, pian piano, ha incominciato a darle una mano con l’impasto e la farina. Cosa non banale, visto che mio figlio è allergico al glutine, al latte vaccino e a tutta una serie di selettività alimentari che caratterizzano molte persone autistiche».
un dramma
A un certo punto è scattata la fatidica domanda: «Se mio figlio, che è piccolo e ha un autismo severo, riesce a farlo, vuoi che ragazzi autistici più grandi non siano in grado? Così, una notte, me la ricordo ancora, era l’una, ho svegliato mia moglie: “Stefania, dobbiamo aprire un ristorante gestito da ragazzi autistici!”. Lei, che fa l’infermiera, ha i turni e quel giorno si alzava alle cinque e mezza, mi ha detto di continuare a dormire. Dall’una alle 5.30 ho inventato il nome, Pizzaut - pizza e autismo - il claim “nutriamo l’inclusione“ e ho scritto il progetto che avevo in mente».
Così siamo tornati al post su Facebook del 2017, in cui Nico cercava alleati, a cominciare da famiglie con ragazzi
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Per
la seconda apertura è partita la campagna ‘dei 100 matti’: cento persone disposte a investire 5mila euro
autistici più grandi interessate a coinvolgersi da subito, oltre che contributori. Il business plan andò a gonfie vele e a maggio 2023 saranno già due anni di attività del primo ristorante. Per il secondo, racconta Acampora, è in atto una nuova raccolta fondi chiamata «campagna dei 100 mattoni» che, volendoci scherzare un po’ su, si è messa alla ricerca di «“100 grandi matti”, imprenditori ma non solo, che investano 5 mila euro a testa per coprire una parte degli 1,2 milioni di euro necessari per costruirlo e che poi, naturalmente, avranno il loro mattone con il logo dell’azienda. Siamo arrivati circa alla metà della cifra».
Nota a margine, il costo di questo nuovo investimento è lievitato dai 700 mila euro stimati inizialmente, a causa della guerra che ha comportato un forte aumento dei forni speciali e di una serie di altre attrezzature adatte per facilitare il lavoro dei ragazzi.
Già, i ragazzi: sono loro il senso di questo impegno totalizzante ma che regala ogni giorno sorprese: «Io faccio un ristorante vero e do uno stipendio vero ai ragazzi, non posso avere con me anche delle altre persone, degli educato -
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In Italia ci sono
600mila
ragazzi autistici: altre associazioni potrebbero duplicare la nostra
esperienza
ri, che affiancano i ragazzi. I miei camerieri, i miei pizzaioli diventano dei professionisti». Il percorso, messo a punto insieme all’istituto della Fondazione Mazzini di Cinisello Balsamo, prevede prima un’accademia formativa, poi un tirocinio retribuito che può durare anche 12 mesi e, al termine, se ci sono le condizioni di autonomia e di sicurezza, l’assunzione. A oggi, dei 19 ragazzi autistici che lavorano a Pizzaut, 10 di loro hanno finito la formazione, mentre gli altri 9, una volta concluso il percorso, andranno a lavorare nel nuovo ristorante di Monza non appena pronto. A completare lo staff, oltre a Nico, ci sono quelle che lui chiama «due unità di personale neurotipiche, uno chef e un cameriere». Può tutta questa ricchezza sociale limitarsi a due soli punti di lavoro e di incontro? Può non crescere ancora un luogo in cui un ragazzo autistico che, dopo quattro anni in un Servizio di formazione all’autonomia -Sfa, viene assunto a maggio, arriva a dire: «Lì io morivo un po’ ogni giorno e qua sono rinato»? Ma, soprattutto, può un’esperienza di questa portata, non aprirsi al bisogno di altri? Acampora ha le idee chiare in proposito: «L’idea mia e degli altri genitori è di aprire
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un franchising: sarebbe il primo esempio di ristorazione sociale al mondo. In Italia ci sono 600mila ragazzi autistici, altre famiglie, altre realtà e associazioni potrebbero duplicare la nostra esperienza. Intendiamo trovare imprenditori con la voglia di fare un investimento sociale importante ma al tempo stesso produttivo, perché Pizzaut non è in perdita dal punto di vista economico. Con gli utili abbiamo appena comprato un appartamento per fare palestra di autonomia abitativa per i ragazzi».
C’è molto da fare e c’è bisogno di tutti. Se ci è consentito, questo è l’appassionato aut aut di Nico Acampora.
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IL BELLO STA NEL PIATTO. E INTORNO
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Un vecchio teatro parrocchiale dismesso di una zona periferica milanese e il desiderio, della Caritas Ambrosiana, di rispondere all’urgenza dei poveri. refettorioambrosiano.it
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Milano
Nel vecchio teatro di periferia ora si dà da mangiare agli affamati
Se siete a Milano e cercate un luogo nuovo e ad un tempo antico, dove scoprire il vero spirito della città, vi conviene far visita al Refettorio Ambrosiano. O diventarne volontari. Parliamo di uno spazio che fa incontrare solidarietà e arte, nella convinzione che la bellezza, in ogni sua forma, sia veicolo di promozione della persona e strumento per riconoscerne la profonda dignità. Con numeri molto “milanesi”, che badano al sodo: nel 2019, l’anno precedente alla pandemia, attraverso il Refettorio sono stati donati più di 20.000 pasti gratuiti realizzati grazie al recupero di 60 tonnellate di cibo. È stata offerta animazione e formazione per 1.244 ragazzi delle scuole e 32 laboratori di cucina per gli anziani del quartiere Greco di Milano.
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Sono state inoltre realizzate 40 iniziative, tra concerti, presentazioni e spettacoli, promosse dell’Associazione per il Refettorio Ambrosiano e sono state ricevute 42 visite di gruppi, delegazioni e team aziendali. Tutto questo grazie al prezioso lavoro degli operatori e di 82 volontari che hanno messo la loro competenza e le loro energie al servizio del Refettorio Ambrosiano.
Un po’ di storia, a questo punto, diventa necessaria. Così come lo vediamo oggi, il Refettorio Ambrosiano è il frutto di un’iniziativa ideata dallo chef Massimo Bottura e dal regista Davide Rampello con l’obiettivo di coniugare l’atto di offrire cibo a chi ne ha bisogno con i valori di arte e cultura, grazie al coinvolgimento della Caritas Ambrosiana. Il Refettorio è stato ricavato dalla ristrutturazione di un teatro abbandonato nel quartiere periferico di Greco, a Milano, alla quale hanno partecipato molti protagonisti dell’eccellenza italiana, quali designer, artisti, artigiani e grandi aziende. Alla base c’è il progetto sociale della Caritas Ambrosiana, lo storico motore della solidarietà milanese, che ha tratto ispirazione da una riflessione di Papa Francesco del 2013, che in questa come in altre occasioni, ha levato la sua voce per denunciare la cultura dello scarto che riduce a rifiuti uomini e cose: «Purtroppo nella nostra epoca, così ricca di tante conquiste e speranze, non mancano poteri e forze che finiscono per produrre una cultura dello scarto; e questa tende a di-
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Purtroppo nella nostra epoca, (...) non mancano poteri e forze che finiscono per produrre una cultura dello
venire mentalità comune. Si tratta di una mentalità che genera quella cultura dello scarto che non risparmia niente e nessuno: dalle creature, agli esseri umani e perfino a Dio stesso».
scarto
PAPA FRANCESCO
Così, per l’Expo di Milano dedicata all’alimentazione Caritas ha coltivato il desiderio di interpretare quel pensiero e di tradurlo in opera. Che cosa poteva esserci di meglio allora che un vecchio teatro abbandonato alla periferia di Milano, per mettere in scena una rappresentazione contro la cultura dello scarto? Con e per le persone. L’elemento più importante. È da loro che Caritas è partita. Come sempre. A beneficare di questa iniziativa sono persone messe ai margini dalla sfortuna, dai propri errori o dalle regole del mercato: «La cosa che colpisce di più in questo periodo è il fatto che da noi continuano a chiedere un aiuto persone che un lavoro lo hanno ritrovato o non lo avevano neanche perso», spiega Luciano Gualzetti, direttore della Caritas Ambrosiana. Non sempre avere un lavoro è sufficiente per uscire dalla povertà: «C’è un problema di diritti e di contratti regolari inapplicati. Molte persone hanno un contratto di poche ore, magari integrano col nero,
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lavorano a intermittenza o vivono situazioni di precarietà o di mancanza di competenze e non riescono a inserirsi nella cosiddetta ripresa che vediamo».
Saremo riusciti nel nostro intento soltanto se chi verrà a consumare la cena si sentirà anche accolto e amato
Il problema è anche di organizzazione sociale delle risposte: «Non bastano i trasferimenti monetari, pensiamo al dibattito sul reddito di cittadinanza, ma bisogna accompagnare con progetti individuali per riuscire a capire quali sono le condizioni per poter andare avanti con le proprie gambe». Il Refettorio è un esempio di questo metodo, un progetto multidimensionale di aiuto in cui l’accoglienza a tavola delle persone in difficoltà continua in un percorso: «Non bisogna accontentarsi di offrire un pasto caldo o di dare pacchi viveri. Col fondo Diamo lavoro, ad esempio, cerchiamo di inserire i giovani o i disoccupati che si sono rivolti a noi. Altrimenti il rischio è continuare a pagare bollette della luce o del gas senza risolvere alla radice il problema. È una filosofia dei servizi del Terzo settore completamente diversa da quella che prende un po’ tutti di solito durante le feste. Per fare veramente il bene di queste persone bisogna creare servizi, coinvolgere operatori e volontari che affianchino e aiuti-
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Trasformare un teatro in un refettorio, è passare dall’immaginazione a una pièce in cui i personaggi recitano se stessi
no le famiglie e i singoli ad andare verso la loro autonomia», conclude Gualzetti. Il tutto in una logica di economia circolare: si stima che in Italia venga gettato via il 25% del cibo acquistato ogni settimana, pari ad un valore di 1.600 euro all’anno per famiglia, l’equivalente di un mese di stipendio di medio livello. Lo spreco alimentare, prodotto dagli italiani solo all’interno delle mura domestiche, vale 8,7 miliardi di euro, ovvero oltre mezzo punto di Pil. Chi è costretto a risparmiare sul cibo e chi il cibo lo spreca: una contraddizione contro la quale occorre impegnarsi anche costruendo luoghi come questo, che coniugano azione, carità e bellezza. Il progetto di ristrutturazione del teatro è stato curato dal Politecnico di Milano. Sono stati i professori Remo Dorigati e Francesco Fuoco, collaboratori del progetto, ad aver ricordato che la location che ospita il refettorio è un teatro parrocchiale che negli anni ’70 ha avuto un ruolo significativo nella cultura delle periferie milanesi.
Trasformare un teatro in un refettorio per i poveri, hanno spiegato, è come passare dall’immaginazione della realtà a una rappresentazione in cui i personaggi recitano se stessi.
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Come in un cambio di scena, il luogo degli spettatori è lo spazio in cui gli attori divengono essi stessi le figure del racconto. Dove era la scena, infatti, si colloca la cucina. E poi ci sono le opere d’arte, grazie ad alcuni affermati artisti contemporanei italiani che hanno donato delle opere uniche realizzate appositamente per gli spazi. Tra queste: le tele di Carlo Benvenuto ed Enzo Cucchi, la grande installazione a neon di Maurizio Nannucci, l’acquasantiera di Gaetano Pesce e il Portale dell’accoglienza in terracotta di Mimmo Paladino. Franco Origoni e Anna Steiner sono invece i due architetti che hanno regalato un’identità visiva al Refettorio Ambrosiano, realizzando un simbolo che riassume i temi e i valori di questo progetto. Infine, i 13 tavoli di design che arredano gli interni sono stati realizzati da Riva 1920 con materie prime di grande qualità. Buon appetito.
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SFAMARE QUI PENSANDO A CHI È LÀ
Bologna
CARTA DI IDENTITÀ
La storica ong bolognese Cefa, che festeggia 50 anni di attività, in occasione della Giornata mondiale dell’alimentazione, raccoglie fondi per le popolazioni del Corno d’Africa e generi alimentari per le mense sociali del capoluogo emiliano.
cefaonlus.it/eventi/riempi-il-piatto-vuoto-2022
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RIEMPI IL PIATTO VUOTO
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Aggiungi il Corno a tavola. In Piazza Grande per sostenere Etiopia, Kenya e Somalia
Di fronte a un’iniziativa come Riempi il piatto vuoto c’è soltanto una cosa da fare: attendere la prossima Giornata mondiale dell’alimentazione, riempire il carrello di prodotti alimentari, andare a svuotarlo in piazza Maggiore, a Bologna, la Piazza Grande di Lucio Dalla, seguendo le indicazioni dei «pixel artisti» e poi ripartire con il carico in direzione mense dei poveri della città.
Nell’attesa, si può anche guardare lo spettacolare video di un minuto e mezzo - su YouTube e sul sito del Cefa che lo organizza - in cui ciò di cui si parla in questo articolo prende forma e contenuto, lanciando un messaggio dirompente.
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Partiamo allora dall’inizio di questo gesto che sublima l’azione del dono, nato 12 anni fa su iniziativa del Cefa, un’organizzazione non governativa che, da 50 anni, lavora per vincere fame e povertà, aiutando le comunità più povere del mondo a raggiungere l’autosufficienza alimentare e il rispetto dei diritti fondamentali quali istruzione, lavoro, parità di genere e tutela dei minori.
Un inizio che ci viene spiegato da Jacopo Soranzo, responsabile della comunicazione di Cefa: «L’evento è nato dodici anni fa ed è il modo con cui abbiamo deciso di celebrare la Giornata mondiale dell’alimentazione, stabilita ogni anno nella giornata del 16 ottobre. In questo modo vogliamo ricordare a tutti che ancora oggi ci sono oltre 820 milioni di persone che vivono l’insicurezza alimentare sia in Italia sia nel resto del mondo. Parliamo quindi di una celebrazione globale, che non vuole guardare solo dentro ai nostri confini, ma a tutti».
Per questo, l’iniziativa Riempi il piatto vuoto aiuta contemporaneamente sette mense cittadine di Bologna e svariati progetti in atto per affrontare l’emergenza alimentare nel Corno d’Africa. Ma come funziona e che cosa c’entra la pixel art?
«Ogni 16 ottobre, invadiamo letteralmente Piazza Maggiore, la piazza più prestigiosa di Bologna, con una installazione di pixel art, utilizzando migliaia di piatti ordinati in
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Il 16 ottobre, in Piazza Maggiore, c’è un momento di condivisione artistico-simbolica
modo da formare a loro volta una immagine che lancia un messaggio legato al tema della giornata. Quello dell’anno scorso era il piatto degli obiettivi del Millennio mentre, quello di quest’anno, sono due mani che si stringono a rappresentare la cooperazione indispensabile per affrontare le sfide difficili dell’insicurezza alimentare».
L’enorme «piatto di piatti», che viene costruito sul pavimento della piazza, ha un diametro di 30 metri e viene realizzato con l’aiuto di circa 200 volontari. Una volta disegnato, viene fisicamente riempito con i prodotti portati da centinaia di carrelli prestati dalla Coop e che il Cefa distribuisce alla città nei 20 giorni precedenti l’evento: «Quando arriva il 16 ottobre, le persone alla guida dei carrelli - ciascuno di essi riempiti del cibo e da un salvadanaio in cui vengono raccolte le offerte per il Corno d’Africa - arrivano in piazza, svuotano il proprio carrello all’interno dell’enorme piatto costruito nelle ore precedenti dando forma compiuta all’installazione». Terminato il momento di condivisione artistico e simbolico, i carrelli vengono di nuovo riempiti (alcuni restano già
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pieni intorno all’installazione perché la generosità è sovrabbondante) e cominciano a ripercorrere le vie della città in direzione delle mense di Bologna, per essere così consegnati direttamente ai beneficiari.
La risposta di Bologna è sempre molto buona, sia per quel che riguarda le donazioni di cibo sia
per quelle di denaro
«La risposta della città è sempre molto buona», osserva Soranzo, «sia per quanto riguarda la parte delle donazioni di cibo, che di anno in anno hanno visto crescere la partecipazione dei singoli e anche da parte di aziende, quali Granarolo ed EmilBanca, sia per quanto riguarda le donazioni in danaro».
Ma la risposta, aggiunge ancora Soranzo «è molto buona anche per quanto riguarda il messaggio di voler travalicare i nostri confini e provare a guardare a queste sfide come sfide globali, che devono essere affrontate non singolarmente e non solo localmente ma guardando al mondo intero» .
A questo proposito, proprio nel 2022, Cefa compie appunto mezzo secolo di vita, proseguendo con la sua presenza un’importante opera in tutti e tre i Paesi principali che formano il Corno d’Africa, Etiopia, Kenya e Somalia, con progetti prevalentemente agricoli ma dal grande respiro so -
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ciale ed educativo.
In questo momento, spiega Soranzo, c’è una congiuntura negativa, data da una parte dalla siccità - siamo alla quarta stagione delle piogge mancata in questi territori - dall’altra parte per l’aumento dei costi dei beni alimentari primari, quali la farina. Una situazione che sta creando quella che rischia di diventare in termini tecnici una carestia, ossia la possibilità che le persone muoiano di fame nel 2023.
In Africa aiutiamo le famiglie contadine in cooperative, per farle accedere al mercato
Cefa, con i suoi progetti, affianca attualmente più di 25mila agricoltori attraverso la fornitura di attrezzature con kit agricoli spesso anche molto basilari quali zappe, rastrelli e sementi. A questo aggiunge la formazione sul loro utilizzo e sulle modalità di semina, un tassello fondamentale senza cui gli strumenti stessi non servirebbero a nulla. Inoltre, la ong bolognese realizza interventi anche più corposi quali la costruzione di pozzi, canali e impianti di irrigazione: «La nostra attività consiste poi nel riuscire a unire le famiglie contadine in cooperative, affinché abbiano la possibilità di accedere a un mercato e vendere i propri prodotti per avere un reddito e mandare i figli a scuola, andare in ospedale che
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sappiamo essere a pagamento e condurre quindi una vita dignitosa», conclude Soranzo.
Tornando al gesto Riempi il piatto vuoto, che è soltanto una delle tantissime modalità con cui Cefa si fa conoscere e aiuta chi ha bisogno, bisogna sapere che per costruire l’installazione occorrono da 3.500 a 6mila piatti, a seconda del soggetto che viene disegnato in piazza Maggiore.
Cefa li ha recuperati da un magazzino dismesso dodici anni fa e ogni anno li conserva, tirandoli fuori per l’occasione. Sebbene non sia del tutto semplice, l’organizzazione del Cefa mette a disposizione tutto il suo know how tecnico e artistico per le città che volessero gemellarsi con Bologna il prossimo 16 ottobre per la giornata Giornata mondiale dell’alimentazione.
Il cuore e i carrelli, naturalmente, ce li deve mettere ciascuno di noi per allargare i confini.
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VUOTO
ROBIN FOOD
PICCOLA COOP, GRANDI FATTORINI
Firenze
CARTA DI IDENTITÀ
Rider stanchi di fare le consegne per le grandi piattaforme hanno dato vita, nel capoluogo toscano, a una cooperativa che è cresciuta, dando lavoro e prospettiva a molti altri. Così la consegna di cibo a domicilio è diventata più sociale e più sostenibile.
robinfoodfirenze.it
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«Bada come consegnano!» A Firenze, arriva il food delivery sociale
Per decidere di chiamarsi Robin Food e mettersi in concorrenza con le multinazionali del food delivery, si immagina che occorra molto coraggio. Farlo poi a Firenze, dove l’internazionalità è di casa per via del - fortunatamente ripartitoflusso turistico, ancor di più.
In realtà, ciò che ha mosso Nadim Hammani e gli altri suoi cinque soci a intraprendere questa strada è stata anzitutto una grande passione. Trasformatasi nel tempo in un’idea, un lavoro e, oggi, in un’impresa sostenibile. Per l’esattezza, una cooperativa.
La passione, oseremmo dire, sfrenata, è quella per la bicicletta e il mondo delle due ruote. È da qui, infatti, che parte il racconto di Nadim: «È nato tutto dall’amore per il ciclismo.
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Fin da quando facevo il rider, da studente, per me lavorare in bici è sempre stato più un divertimento che non un lavoro. So che per molte persone l’idea di lavorare così è percepita come una cosa faticosa e nemmeno tanto piacevole, per me è il contrario». Così, mentre Nadim studiava (si è laureato in Germania in gestione sostenibile del turismo), ha cominciato a fare il rider. Vivendo poi a Firenze, univa ai pedali l’altra sua passione, quella di riprendere e fotografare gli scorci antichi e sempre nuovi della città: «Lo sviluppo sostenibile è un tema a cui sono affezionato», continua, «per questo ho poi deciso di fondare la cooperativa Robin Food, per portare un ventata di cambiamento nella logistica su due ruote a Firenze, nonostante abbia fatto studi che mi potevano permettere di fare anche altri lavori».
Con il suo gruppo di amici, anche loro fattorini fiorentini, Duccio D’Agnano, Simone Di Giulio, Luca Manetti e Salvatore Micciché, Nadim ha perciò avviato quella che loro stessi definiscono come una cooperativa umana, locale e sostenibile, che ha come valori primari la dignità del lavoratore, l’economia locale e il territorio: «Assumiamo tutti i rider fornendo loro una paga dignitosa e un contratto da dipendente, a differenza di quanto solitamente fanno molte delle piattaforme dei grandi gruppi multinazionali». Inoltre, prosegue, «teniamo corsi di formazione sul codice stradale e le norme igieniche alimentari e puntiamo a offrire un servi-
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Chiediamo una percentuale più
bassa rispetto
alle piattaforme: il ristoratore è un partner
zio di delivery davvero ecosostenibile, per non contribuire all’aumento dell’inquinamento nella nostra amata città, utilizzando solo bici o bici elettriche per le nostre consegne».
Se si chiede a Nadim di fare un paragone ancora più dettagliato tra la sua realtà e le modalità di lavoro dei big del delivery, indica tre caratteristiche. La prima riguarda un aspetto formale: «Siamo una piccola cooperativa mentre i grandi del delivery sono essenzialmente società multinazionali». La seconda caratteristica è geografica: «Siamo una realtà a carattere locale, che opera solo nel territorio di Firenze e quindi al confronto delle multinazionali siamo molto piccoli. È ancora presto per dire se ci allargheremo o meno ad altre città, ben sapendo che ci sono anche altre esperienze simili, anche se non del tutto sovrapponibili alla nostra, ma non lo escludiamo». La terza caratteristica, di gran lunga il più importante, è il sistema valoriale, molto forte, che porta con sé anche delle conseguenze economiche: «In media chiediamo una percentuale sullo scontrino un po’ più bassa rispetto alle altre piattaforme: noi vogliamo vedere il ristoratore
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come un partner, non come un elemento solo da sfruttare ma questo non può valere solo a parole, bisogna dimostrarlo con i fatti». Ecco perché Robin Food mira a creare una rete di collaborazioni con aziende locali, per sviluppare una economia circolare che cresca e resti del territorio. Anche gli altri soci di Robin Food sono stati tutti quanti rider in precedenza. E tutti concordano su un fatto: «Le condizioni delle grandi piattaforme sono state sempre un po’ complicate, anzi, tendevano a peggiorare e, col tempo, è venuta a mancare sempre più la fiducia. Volevamo fare qualcosa di nostro e di nuovo e il settore del food delivery era quello che conoscevamo meglio. Dunque era per noi più facile partire da questo campo per avviarci». Per il resto, oltre al coraggio e alla passione di cui si è raccontato, occorreva una certa intraprendenza e capacità opertiva che ai «ragazzi» non mancava, sollecitati in parte dalla conoscenza già acquisita del settore, con rapporti di stima già avviati con alcuni ristoratori: «Attraverso un progetto di crodwfunding abbiamo coperto le spese di costituzione. La partenza effettiva è avvenuta l’8 novembre 2021. Il Natale dell’anno scorso
Volevamo fare qualcosa di nostro e di nuovo e il settore del food delivery era quello che conoscevamo meglio
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Sono arrivati nuovi clienti e qualche ristorante ci ha scelto come unico referente per le consegne a domicilio
ha portato buone nuove e tanti regali. Abbiamo cominciato a crescere e farci conoscere, sono arrivati nuovi clienti e la maggior parte dei quali si è confermata. Qualche ristorante ci ha anche scelto come unico referente per le consegne a domicilio», conclude Nadim che, assieme ai suoi soci, ha visto crescere l’organico di Robin Food di altri quattro ragazzi in modo da portare a dieci la forza lavoro quotidianamente operativa.
Il funzionamento di Robin Food è semplice ed è simile a quello a cui siamo ormai abituati da quando la figura dei rider è diventata qualcosa di familiare anche nelle nostre città. Si va sul sito www.robinfood.it si sceglie il ristorante, si ordina e un rider arriva e porta il cibo a casa del cliente. Prima di prenotare, non resta che togliersi la curiosità sul logo di Robin Food: un pettirosso. L’idea nasce da un gioco di parole. Pettirosso è in effetti la traduzione letterale del termine inglese Robin.
Nadim e i suoi soci lo hanno scelto come simbolo di una creatura piccola ma tenace, che affronta con spavalderia le intemperie del meteo.
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Nella cultura popolare, spiegano ancora, il pettirosso è colui che facilita il passaggio dall’inverno alla primavera. Il suo canto ispirò d’altra parte Chopin per il tema della Grande Polonaise e da ciò è nata l’abitudine di chiamare il pettirosso lo Chopin dell’aria: «Sarebbe stato più giusto chiamare il musicista Pettirosso di Varsavia», scherzano quelli della cooperativa. Passione, coraggio e poesia, quindi. E, naturalmente, due polmoni molto generosi. «Bada come consegna, Robin Hood!», si potrebbe dire, parafrasando un famoso ristoratore fiorentino, che spopola sui social: Tommaso Mazzanti de L’Antico Vinaio.
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Dialogare con le comunità del cibo
di Maura Latini Ad Coop Italia
Gli ultimi indicatori economici parlano chiaro. Nel nostro Paese si vive una situazione di disagio. Non ancora completamente usciti dalla minaccia pandemica e con una guerra alle porte dell’Europa, le famiglie si trovano ora anche alle prese con un’inflazione alta che non si vedeva dagli anni ’80; per molti consumatori e molte imprese una situazione del tutto sconosciuta. Parimenti, i salari rimangono congelati e si accentua la divaricazione fra una parte crescente del Paese, che rimane fragile, una classe media che scivola verso il basso e paradossalmente una maggiore agiatezza di alcuni.
Per chi come noi lavora in cooperative di consumatori si riconferma prioritario il dovere di essere presidio di garanzia di qualità a prezzi convenienti per prodotti di largo e generale consumo e questo per tutti gli italiani, qualunque sia la loro condizione sociale. È evidente tuttavia che la missione è sempre più complessa, visti gli effetti provocati prima dalla pandemia, poi dalla guerra con le sue ripercussioni sul costo dell’energia e delle materie prime. E con la pressione dei for-
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nitori che chiedono aumenti di listino a più riprese con una frequenza mai riscontrata. In una situazione simile occorre avere lucidità ma anche coraggio e non perdere di vosta la rotta. È proprio in questi momenti che è importante mantenere il presidio di alcune scelte che, seppur nel mercato abbiano un costo maggiore, non sono negoziabili. La trasparenza, la sostenibilità, l’eticità hanno un costo. Oggi sarebbe facile rinunciare a tutto questo per compensare la morsa degli aumenti da cui siamo anche noi operatori schiacciati. Non è facile e lo sappiamo. E chiediamo a soci e consumatori di crederci quanto noi. Come Coop abbiamo scelto di fare fino in fondo la nostra parte e stiamo puntando su un forte e innovativo sviluppo della nostra marca, del Prodotto Coop, come faro della nostra offerta, perché pensiamo che il nostro prodotto possa essere un argine alle difficoltà crescenti, estendendoci su più gamme, toccando anche un’offerta più basica, con prezzo sfidante, ma non per questo inferiore per sicurezza e rispetto dei diritti dei lavoratori. E mantenendo al tempo stesso intatta la nostra identità, fatta di comunità del cibo con cui le cooperative intrattengono rapporti, creano progetti, salvaguardano i territori. Sono queste le storie che abbiamo voluto rappresentare nella collaborazione con Vita: testimonianze da più parti del Paese, facendo del cibo un collante fra persone, quindi esso stesso generatore di comunità.
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