
4 minute read
Arché, Cbm, Moas
Uno dei momenti salienti delle celebrazioni per i 30 anni di Arché è stato l’incontro che papa Francesco ci ha riservato nella Sala Clementina il 2 settembre 2021: eravamo in 200 tra mamme, bambini, volontari e operatori. Tutt’altro che parole di circostanza, quelle che il Papa ci ha rivolto! Anzi, fin dalle prime battute ha messo a fuoco la nostra mission, arricchendola di una lettura profonda per imparare a stare sull’essenziale, sull’amore. Ecco le sue parole: «L’avete chiamato “Arché”, che richiama l’origine, il principio, e noi sappiamo che in principio c’è l’Amore, l’amore di Dio. Tutto ciò che è vita, tutto ciò che è bello, buono e vero viene da lì, da Dio che è amore, come dal cuore e dal grembo di una madre viene la vita umana, e come dal cuore e dal grembo di una Madre è venuto Gesù, che è l’Amore fattosi carne, fattosi uomo». Un amore che deve continuamente essere alimentato da una lettura critica e attenta per far sì che, come ha ricordato nel concludere il suo messaggio, «la struttura sia sempre al servizio delle persone, non il contrario». Uno stimolo importantissimo a non cedere alla facile tentazione di alimentare l’organizzazione che finisce per essere autoreferenziale. Devo riconoscere che, con una certa audacia, già quando Arché muoveva i suoi primi passi, ci ripetevamo come un ritornello che quanto andavamo facendo doveva essere pensato e vissuto perché un giorno non ci dovesse essere più bisogno di noi.
Per non “perdere la testa” papa Francesco ci ha suggerito la necessità di guardare sempre i volti: «E allora, in questa logica, in principio ci sono i volti: per voi sono i volti di quelle mamme e di quei bambini che avete accolto e aiutato a liberarsi dai lacci della violenza, del maltrattamento. Anche donne migranti che portano nella loro carne esperienze drammatiche». Crediamo che ognuno di noi venga al mondo con una missione, quella di lasciare questa terra migliore di come l’ha trovata; ma non solo: ci assumiamo anche la responsabilità di non lasciare indietro chi pensa di non avere niente di buono da donare. Perché ciascuna persona, qualsiasi sia la sua ferita o la sua colpa, ha un dono da condividere.
Advertisement
Grazie papa Francesco: anche noi, insieme a te, «sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!» (Fratelli tutti, 8).
Sono 115 anni che cerchiamo di fare la nostra parte al fianco delle persone con disabilità. Spesso penso a quanta profezia c’era nell’entusiasmo ma anche nella fatica del nostro fondatore Ernest Christoffel ad accogliere bambini ciechi e con disabilità. Era il lontano 1908. Un pensiero che è riemerso forte lo scorso 3 dicembre — Giornata Internazionale delle persone con disabilità — quando ho incontrato papa Francesco in Vaticano. La comprensione di questa dimensione profetica e carismatica mi ha richiamato ancora una volta alle nostre responsabilità di oggi sostenuta dalle parole del Papa quando ricorda che siamo chiamati a «trasformare l’indifferenza in prossimità e vicinanza». E poi ancora: «Non basta difendere i diritti delle persone; occorre adoperarsi per rispondere anche ai loro bisogni esistenziali, nelle diverse dimensioni, corporea, psichica, sociale e spirituale». Come non pensare allora all’impegno quotidiano di noi di Cbm in difesa dei diritti delle persone con disabilità ma anche al nostro fare concreto nel cercare di dare risposta ai tanti bisogni. Un’operazione di cataratta a chi vive nel buio della cecità. Una protesi per quella gamba amputata a causa di una infezione. Un piatto di cibo per chi non mangia da giorni perché persona povera e disabile. Un lavoro che permetta di mantenersi assieme alla propria famiglia pur essendo su una carrozzina. Un banco di scuola per un bambino cieco. Ma mi accorgo così, richiamato dalle parole di Francesco, di quanto lavoro ancora c’è e ci sarà da fare per «generare e sostenere comunità inclusive (…), eliminare ogni discriminazione e soddisfare concretamente l’esigenza di ogni persona di sentirsi riconosciuta e di sentirsi parte. Non c’è inclusione, infatti, se manca l’esperienza della fraternità e della comunione reciproca».
Parole quelle di papa Francesco che evocano uno spirito di speranza sul solco dell’impegno concreto. Ecco cosa mi è entrato dentro, in profondità, incontrandolo. Un padre sapiente guidato dallo Spirito, certo provato dalla fatica dell’essere sempre a servizio, dalle prove fisiche imposte dalla vecchiaia eppure sempre capace di una «profezia concreta» che lui riesce a trasmettere con fermezza, con forza ma anche con tanta tenerezza. E con l’esempio. Come un padre.
Nel dicembre 2016 ho incontrato il Santo Padre in Vaticano. Mentre mi avvicinavo per parlargli e stringergli la mano, avevo la sensazione di incontrare un amico, una persona cara. La grandezza di papa Francesco sta proprio in questa sua capacità di porsi con semplicità ed immediatezza. Un uomo fra gli uomini, un uomo fra noi. Mi ha esortata a continuare a portare avanti l’impegno a favore delle persone migranti lanciando una riflessione sulle parole, le speranze e le azioni concrete che ci aiutano a custodire la nostra umanità e a contrastare l’indifferenza. Da quel giorno non ho mai smesso di pensare che non possiamo ignorare il dolore di chi scappa da situazioni di violenza, persecuzioni e fame.
L’incontro con il Papa mi ha fatta interrogare a lungo su come si può accettare che altre creature — fatte ad immagine e somiglianza di Dio come noi — vengano torturate e umiliate perché sono nate nella parte sbagliata del mondo.
Dopo l’incontro la nostra determinazione è stata sempre più forte. E ancora una volta, seguendo l’appello di papa Francesco che dopo l’esodo dei Rohingya del 2017 invitava tutti a non dimenticare la sofferenza di questa comunità storicamente perseguitata, abbiamo avviato con Moas (Migrant Offshore Aid Station) una missione per curare le persone che più ne avevano bisogno nei campi profughi del Bangladesh.








