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Lettere come abbracci

DI DAPHNE SQUARZONI

Studentessa in Studi storici e filologico-letterari

Qualche volta è difficile. Poi penso che anche in questa situazione di crisi io sono sempre tra i fortunati del pianeta, tra quelli nati dalla parte giusta del mondo. E allora ringrazio. Non è facile. Ma quattro mura in cui stare rinchiusa le ho, a differenza di tante altre persone là fuori. E soprattutto le persone a cui voglio bene non stanno male. In questo momento penso a tutte le persone che stanno come Maria sotto la croce: ferme a guardare qualcuno che muore. Non voglio nemmeno immaginare un dolore così. Non voglio nemmeno pensare a come deve essere sentirsi impotente mentre qualcuno che ami sta intubato e non sai se e quando lo rivedrai. Non voglio pensare a cosa vuol dire non poter fare un funerale. Non avere nessuno fisicamente vicino in un momento di dolore. In questi giorni pensavo a tutte queste cose, al dolore, alla frustrazione, alla gratitudine immensa di vivere in un contesto protetto per quanto possibile. Pensavo alle distanze e al fatto che tutto questo ci sta insegnando realmente cosa vuol dire stare lontani. Mentre ci pensavo, mi è venuto in mente un romanzo di Jane Austen. Ambientato a fine ’700 e inizio ‘800. A quell’epoca per restare in contatto si usavano le lettere. A quell’epoca la distanza era molto più insostenibile di adesso. E mentre ci pensavo, mi sono resa conto che le lettere potrebbero essere una chiave di conversione per questo tempo difficile. È un tempo d’attesa, un’attesa dolorosa, tanto vale convertirla in un’attesa piacevole. L’attesa trepidante di quando si aspetta un pacco. Nel 2021 nessuno scrive lettere. Le lettere sono l’arte dell’attesa in un secolo di corsa. E così mi è venuto questo pallino. Le lettere chiedono tempo, tempo per fermarsi, tempo per scrivere, tempo per leggere, tempo per esprimersi. Richiedono tempo per arrivare. E tu rimani in viaggio con la tua lettera. È un viaggio del cuore. È un’attesa piacevole perché sai che prima o poi ti arriverà quell’affetto su carta. Non è immediato. Per questo mi piace. Perché stiamo vivendo l’attesa, il dubbio, l’incertezza. Voglio che la mia attesa si componga di tante piccole attese piacevoli. Voglio prendermi il tempo di comunicare. Un tempo pulito in cui stare in contatto con le persone a cui voglio bene. Perché la carta è un contatto fisico. Adesso che dobbiamo stare distanti, mi piace pensare alle lettere come abbracci. Sicuramente sono meno virtuali di un messaggio. È qualcosa che puoi stringere tra le mani, di cui puoi respirare il profumo. È qualcosa che è stato realmente tra le mani di qualcuno a cui voglio bene. Qualcosa che ho atteso come attendo di «tornare alla normalità». Qualcosa che è arrivato. E solo per questo mi sento più fiduciosa: se arrivano le lettere, arriverà anche la libertà.

Consolate, consolate il mio popolo

DI TIZIANO CIVETTINI

Sociologo e teologo

CONSOLARE: il significato di questo vocabolo rimanda al termine “solo”, quindi, “consolare” è sostanzialmente “stare con uno che è solo”. Il card. Ravasi scrive che “tanta tristezza o dolore nasce proprio dall'essere soli e abbandonati, privi di una presenza che ti riscaldi, di una mano che ti accarezzi, di una parola che spezzi il silenzio e le lacrime. (…) La solitudine è il campo da gioco di Satana, ed è per questo che lo Spirito Santo è detto il Consolatore”.

Per consolare c’è un combattimento da affrontare, una lotta spirituale, perché in questo tempo di pandemia rischiamo di essere travolti da tutti i punti di vista: familiare, sociale, sanitario, finanziario, materiale, e anche spirituale.

Il primo combattimento è accettare i limiti, a cui non siamo abituati. Dopo le ristrettezze della guerra mondiale, ci siamo convinti che possiamo tutto e abbiamo diritto a tutto. E allora abbiamo bisogno di umiltà per guardare con tenerezza ai nostri limiti e a quelli degli altri, e coraggio per non cedere alla voglia di guardare indietro, all’idea romantica dei ‘vecchi tempi’, accettando che “siamo non in un'epoca di cambiamento, ma in un cambiamento d’epoca” (papa Francesco). Il clima ansiogeno che ci attornia fa crescere le paure. Allora qui scatta il combattimento per rimanere prossimi al nostro prossimo. Con altre modalità, con nuova creatività. L’alternativa è cedere alla rabbia, al sospetto, allo scoraggiamento, alla nostalgia e al rimpianto. Non possiamo fare tutto, ma possiamo fare qualcosa, forse molto, se non ci lasciamo accecare dal rimpianto di non saper fare quello che non possiamo fare!

Non siamo chiamati a minacciare i castighi di Dio, ma ad incoraggiare, a consolare. Abbiamo molti modi per farlo. Prendo quello della preghiera gli uni per gli altri; anche questo è un combattimento, accessibile a tutti.

Scrive il teologo Pierangelo Sequeri: “Ciascuno di noi è chiamato a riscoprire, anche nel suo forzato isolamento, la benedizione del gesto di intercessione. Ognuno, per gli altri. L’essenza del cristianesimo sta qui, la certezza della redenzione sta qui. L’intercessione comunica un messaggio potente. Non pensate neppure per un istante che i nostri peccati possano indurre Dio ad abbandonarci nella prova. E non scaricate sul vostro prossimo i mali che ci affliggono, sostituendo l’intercessione con l’intimidazione. In momenti di straordinaria angoscia, il semplice e coraggioso gesto dell’intercessione, che supplica Dio di non abbandonare nessuno, testimoniando che noi stessi non lo faremo, non ha prezzo. È un giuramento di fedeltà che ricompone la comunità: per ciascuno e per tutti”.