Val Vibrata Life - Ottobre 2014

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1649 Pellizza da Volpedo Il Quarto Stato 1898-1902 olio su tela cm 283x550 esposto al Museo del Novecento di Milano OTTOBRE 2014 MENSILE A DISTRIBUZIONE GRATUITA

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LIFE

Val VIBRATA TERRITORIO CULTURA ECCELLENZE AMBIENTE SOCIETÀ

TERRITORIO CULTURA ECCELLENZE AMBIENTE SOCIETA’

LAVORO è PROFONDO ROSSO




IL DITO MEDIO DEGLI ITALIANI

editoriale

SOVRAPPENSIERO

ALEX DE PALO Se non fosse perché vilipende, gli italiani terrebbero tutto il giorno il dito medio alzato. Davanti alla tv mentre ascoltano i politici o se li vedessero passare. Viene anche spontaneo pensare di farlo- quando no lo si fa per davvero- sostando davanti ai palazzi dello Stato. Non ci viene certamente spontaneo nemmeno di spargere petali di rosa alle passerelle di vip strapagati e ai signori in odore di corruzione. Peggio ancora, mineremmo volentieri il campo al transito degli evasori fiscali mentre spogliano l’Italia della sua ricchezza che coincide spesso con quella da noi prodotta, portando liquidità e società nei paradisi fiscali o in Stati a minore tassazione. Dito medio alzato anche a quegli imprenditori che sfruttano i lavoratori e che si fanno pagare dagli italiani il costo di ammortizzatori sociali delle false crisi. E se dico Europa? Si, quella disunita a cui tutti stiamo pensando che ci chiede doveri ma nega diritti e che pretende di dirci anche come ci dobbiamo vestire la mattina e che per colazione anziché d’arancia, metterebbe nel bicchiere una spremuta di italiani. Non ci viene di inginocchiarci davanti ai palazzi di giustizia. Forse un segno di Croce sì, lo faremmo, per quel senso di insoddisfazione del diritto e della incertezza della pena che fa santi, spesso, i delinquenti e martiri gli onesti.

VAL VIBRATA LIFE Anno III Numero 25 DIRETTORE RESPONSABILE Alex De Palo HANNO COLLABORATO Alfonso Aloisi, Marvin Angeloni, Marco Calvarese, Martina Di Donato, Noemi Di Emidio, Alessandra Di Giuseppe, Francesco Galiffa, Giordana Galli, Virginia Maloni, Stefania Mezzina, Michele Narcisi, Nando Perilli, Cinzia Rosati, Paride Travaglini EDITORE Diamond Media Group s.r.l. Via Carlo Levi, 1- Garrufo di Sant’Omero (TE) Tel. 0861 887405 - redazione@diamondgroup.it VAL VIBRATA LIFE Reg. Trib. di Teramo n° 670\2013 GRAFICA Diamond Media Group s.r.l. STAMPA Arti Grafiche Picene s.r.l. PUBBLICITA’ info@diamondgroup.it FACEBOOK Val Vibrata Life Free Press TWITTER @VALVIBRATALIFE RESPONSABILE TRATTAMENTO DATI Dlgs 196/03 Alex De Palo Riservato ogni diritto e uso. Vietata la riproduzione anche parziale


SOMMARIO Ottobre 2014

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LE VACANZE TORTORETANE DEI VIP

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IL SANTUARIO DI SAN GABRIELE

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INTORNO A UN CHICCO DI GRANO

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GLI SPLENDIDI GIOIELLI DI ARGILLA

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“FA’VOLÁ” PER TUTTI

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VAL VIBRATA BABY

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IL PICCOLO GENIO DEGLI SCACCHI

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PMI E GLOBALIZZAZIONE

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COLOGNA HA LA SUA OASI MARINA

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SATIRA DI PERILLI

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STREET ART: LA NUOVA FORMA DI COMUNICAZIONE

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LA TERAPIA DEI SENSI CON LO SHIATSU

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LUPINI, ARACHIDI E COZZE FRITTE

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L’ORO ROSSO DI GIULIANOVA

AL CAPEZZALE DEL LAVORO PERDUTO

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LA RUA: DA ASCOLI A MTV

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GLI ANTICHI TRABOCCHI GIULIESI

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MUSICA MAESTRO

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LA CASA MUSEO DI MAURO CROCETTA

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PEPPER & JELLIES A SUON DI BLUES & JAZZ


IN FILA AL “SANTUARIO” DEL COLLOCAMENTO NOSTRA INCHIESTA

In provincia di Teramo cresce la disoccupazione, i Centri per l’impiego scoppiano, giù l’offerta anche nel turismo E’ coma-lavoro

TERRITORIO

MARVIN ANGELONI

L

o tsunami della crisi economica internazionale si è infranta sull’Italia con un delay di qualche anno rispetto ai Paesi d’oltreoceano, e solo ora si avverte il suo ritirarsi, lasciando però dietro di sé le macerie e le evidenti colpe di una politica economica decennale assolutamente inadeguata. Un’ondata che si è prolungata più del previsto, con un annaspare continuo da parte delle istituzioni che trovano difficoltà nell’affrontare le emergenze di una disoccupazione crescente e di una perdita esponenziale del numero di industrie ed investimenti su tutti i settori. Più delle sensazioni, risultano prove inconfutabili i numeri che danno dimostrazione di dove l’onda si è infranta. Il nostro territorio non è esente da questo maremoto ed i dati raccolti e le testimonianze da parte dei responsabili dei Centri per l’impiego confermano come il problema economico rischia di avere una deriva di esasperazione sociale. La disoccupazione in provincia Dalla provincia di Teramo ci arrivano i dati sul nostro territorio riguardante la disoccupazione delle due fasce d’età sensibili (fino ai 29 anni compresi e quelle oltre il ventinovesimo anno di età), nell’ambito del lavoro nel periodo 2011 - 2014, ovvero dall’inizio della crisi sulle banche e le imprese italiane. Tra il 2011 ed il 2014 il numero dei disoccupati è quasi raddoppiato per entrambe le fasce di età (8.424 unità per la fascia entro i 29anni, 15.298 unità per gli over 29) con un allarme maggiore per quanto riguarda le persone di età superiore ai 29 anni che vedono ancora più dei giovani le difficoltà non solo di mantenere il proprio tenore di vita, ma di sopravvivere e garantirsi quantomeno la propria dignità. In aggiunta va segnalato che i numeri sull’esercito di disoccupati sono “gonfiati” anche dalla crescente immigrazione sul territorio, anche se gli stranieri, soprattutto provenienti dalla Repubblica cinese, difficilmente utilizzano le strutture istituzionali per la richiesta e somministrazione di lavoro. Inoltre le imprese che coinvolgono l’agricoltura e la pesca si dimostrano in uno

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stato di immobilità mentre il manifatturiero crolla insieme agli investimenti su sanità, scuola e fonti di energia. Ferme al palo anche le attività turistiche che, perfino durante gli scorsi quattro mesi, hanno abbassato notevolmente le richieste di manodopera aggravando ulteriormente il numero di disoccupati che trovavano nella stagione estiva una boccata d’aria indispensabile. Tutto questo è stato confermato dai responsabili dei Centri per l’Impiego, in particolare dal dott. Quarchioni, dell’ufficio di Giulianova e dalla dirigente provinciale del settore, Renata Durante, che sottolineano come gli sportelli lavoro siano oggi più che mai delle trincee per quella che rischia di diventare una guerra tra poveri. I Centri per l’Impiego come “trincee” Parafrasando le parole della dirigente Renata Durante e seguendo il discorso di Quarchioni, possiamo tranquillamente definire i Centri per l’Impiego


La percezione da parte degli addetti ai lavori è sicuramente più genuina di semplici cifre o percentuali, anche perché è superficiale ridurre individui a numeri quando, in uno stato di crisi, il rischio maggiore dell’impoverimento è quello di una crescente esasperazione sociale. A questo punto le “trincee” danno ragione a questo pesante soprannome perché svolgono non soltanto il lavoro di consulenza e mediazione lavoro, ma diventano il “vomitorium” di quelle persone che giornalmente si presentano allo sportello. “Prima alcune persone venivano ogni tanto e non con una frequenza abituale, ora invece mi capita di vederli quotidianamente e spesso le loro richieste sono lontane dalle nostre competenze ma sia per umanità che per professionalità cerchiamo di accontentarli - continua Quarchioni. Io ed i miei collaboratori sentiamo ora più che mai di avere anche e sopratutto una funzione sociale perché l’ansia è aumentata. L’utenza si è comunque mantenuta educata e con un atteggiamento costruttivo ma il fattore d’ansia data da una crisi prolungata che non sembra finire li ha segnati. Credo che il loro andirivieni sia appunto per segnalare quello che è non solo una questione economica ma un problema sociale.”

Oltre la trincea Allargando il discorso sui segnali di ripresa, gli addetti ai lavori hanno notato una flebile luce alla fine del tunnel soprattutto nell’ultimo mese di settembre con un movimento positivo di richiesta di manodopera da parte di aziende del territorio. E’ però prematuro e fin troppo ottimistico dire che questo possa diventare un trend che permetta alla percentuale di disoccupati abruzzesi di scendere quantomeno ai livelli del 2010. D’altronde alcuni progetti di mediazione lavorativa sono stati abbandonati soprattutto per quanto riguarda la componente di stranieri in regola che affronta problematiche maggiori rispetto ad un qualsiasi italiano nel momento della ricerca di un impiego. Per i giovani invece viene fatto troppo poco, con un progetto a finanziamento europeo chiamato GaranziaGiovani (tutte le informazioni sul sito www.garanziagiovani.gov.it) che intende recuperare quei ragazzi tra i 16 ed i 29 anni che non studiano, non lavorano e non hanno e fanno formazione alcuna attraverso un bonus occupazionale per le aziende che si offrono di assumerli passando per l’INPS. L’incidenza non è però decisiva perché si tratta in ogni caso di una piccola parte di utenza demotivata che bisogna andare a prendere quasi a casa. E’ necessario ora più che mai un potenziamento delle strutture che affrontano sul campo il problema lavoro, quantomeno per riconoscergli quella plusvalenza sociale che contribuisce ad evitare derive pericolose.

TERRITORIO

come il territorio di confine e l’ultimo approdo dove le persone disorientate della crisi si recano sperando di avvistare da lì e per primi la “terra promessa” della ripresa. La parola “trincea” non è affatto abusata in questo caso. Quarchioni: “Abbiamo certamente riscontrato un grande aumento di disoccupati nel periodo 20112014, dunque i numeri sono reali, e come dicevo, anche le attività stagionali hanno avuto un decremento di unità sia per la crisi che ovviamente per i problemi climatici che hanno afflitto la stagione“.

Disoccupazione Provincia di Teramo 2011-2014

100000

90000

Disoccupati dai 16 ai 29 anni

80000

Disoccupati oltre oltre i 29 anni

70000 60000

51101

50000 40000

35803

39226

44054

30000 20000 9988

10000 0

12173

15103

18412

0 2011

2012

2013

2014

fonte: Provincia di Teramo

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L’ORO ROSSO DEGLI ABISSI C’è un po’ di Abruzzo nella cesellatura del corallo e nella cultura popolare, come racconta l’orafo Rubini

TERRITORIO

ALFONSO ALOISI

T

ito Rubini appartiene ad una famiglia di orafi presente con la propria attività a Nereto da diversi decenni. Parlando dell’arte orafa abruzzese, lo stesso Tito Rubini dedica molta attenzione alla lavorazione del corallo riservandole una serie di appunti di carattere storico e non solo. Il suo esordio è proprio incisivo: “Un capitolo a parte merita il corallo”. Ne traccia l’evoluzione che ci riguarda sottolineando che in Italia, tra il XIX e XX secolo, si erano affermate tre grandi aree di lavorazione del corallo. Le città cui faceva capo tale attività erano Livorno in Toscana, Torre del Greco in Campania e Giulianova in Abruzzo. In provincia di Teramo, a Giulianova, i fratelli Migliori avviarono un grosso e qualificato laboratorio destinato alla produzione di articoli artigianali in corallo di eccellente qualità. Famose le collane sfaccettate a mano denominate appunto “millefacce” per la particolare lavorazione che trasformava il corallo allo stato puro in un poliedro geometricamente perfetto. Tale tipo di lavorazione era praticata a Livorno già nel 1700. Tito Rubini ricorda che nella villa dei Migliori denominata “alla Montagnola”, ubicata nella parte alta della Città, esisteva nel salone delle feste una volta in mattoni con la scritta molto poetica: “Giù nel mare profondo, per mani operose, vai corallo del mondo a adornare le spose”. Ritornando al corallo non possiamo non ricordare che in Val Vibrata il rito della “collana rossa” era molto seguito. La futura suocera, cingendola al collo della prossima nuora, pronunciava la frase propiziatoria: “Ije te l’appenne, ije te l’allacce, a la

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fine dell’anne nu fije maschie”. Altra colorita filastrocca viene dalla reminiscenza della famiglia Rubini (orafi dal 1850): “Nghe la cullane rosce e grosse te vasce cchiù che posse, nghe la cullane rosce e grosse te leve pure l’osse, nghe la cullane rosce e grosse te porte là la fosse”. I fratelli Migliori, come ricorda lo storico Pasquale Rasicci, erano discendenti di quell’Ernesto Migliori nato nella cittadina giuliese il 22 dicembre 1867 da Vincenzo e Maria Concetta Braga, sorella del violoncellista Gaetano. Ernesto fu il primo ad approdare nel mondo del corallo. Da commerciante frequentava Livorno ed il suo attivissimo porto. Nella città toscana sposò una ragazza con cui iniziò a condividere la passione per il corallo. Di li a poco Ernesto Migliori divenne raffinato orafo, abile e ricercato intenditore nella lavorazione del prezioso materiale degli abissi. In brevissimo tempo, grazie anche all’aiuto dei fratelli più giovani, la sua azienda corallifera divenne una delle più rinomate. Alla fine del XIX secolo Ernesto Migliori frequentava con successo, grazie anche all’alta qualità della sua produzione, le piazze di Londra e Milano ed i relativi mercati. Ben presto il commercio del corallo di Giulianova si attestò su livelli molto interessanti tanto da condividere la supremazia nazionale con le più blasonate città di Livorno, Torre del Greco ed in parte Genova. Nei laboratori di viale dello Splendore, sede appunto della ditta Migliori, erano impiegati fino a 150 dipendenti e quasi tutte donne. La materia prima proveniva a Livorno dal Mar del Giappone. Il corallo rosso e rosa veniva largamente impiegato per la creazione di grosse e pesanti collane che, come già abbiamo sottolineato, nei tempi andati rappresentavano il più ambito ornamento per la sposa. I coralli del Giappone venivano utilizzati anche per creare eleganti orecchini, anelli, medaglioni e bracciali. La seconda guerra mondiale segnò la fine della lavorazione del corallo a Giulianova. Intensi rapporti commerciali intercorrevano a quei tempi tra gli orafi neretesi Tito e Raffaele Rubini, considerati dei veri e propri maestri d’arte nella provincia teramana, ed i fratelli Migliori. Ad un certo punto il corallo perse un po’ del suo interesse e così gli eredi Rubini (Peppino e Francesco


Belfiore, Bruto e Attilio Di Michele continuano per diversi anni a produrre bellissimi cammei, collane e rosari richiestissimi dalla clientela locale. L’arte dell’intaglio e dell’incisione di estrazione giuliese ha continuato a vivere nelle mani di nuove generazioni di corallari toscani. Sottolinea Tito Rubini: “Mi piacerebbe sviluppare un progetto tra Giulianova e Nereto che riproponga la lavorazione e la commercializzazione del corallo tenendo presenti i fasti di quella “avventura del corallo” che nei primi anni del XX secolo creò nella nostra regione un polo di eccellenza straordinario”.

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detto Checchino) divennero i più grossi acquirenti e raccoglitori di collane di corallo della Val Vibrata. Attorno al corallo, nel XIX secolo, si affollavano anche credenze popolari che trovavano albergo soprattutto nella vanità femminile. Nel teramano fu lanciata un’apposita linea di tipici esemplari a “bottoncino” chiamati “lupine” per la forma lenticolare del corallo, come l’omonimo seme di legume. I monili tondeggianti erano molto diffusi e venivano indossati particolarmente dalle ragazzine nella convinzione che il corallo potesse preservarle dagli sguardi invidiosi e, quindi, dal cosiddetto “malocchio” o “fattura” che dir si voglia. A Nereto vennero realizzati dall’orafo Raffaele Rubini. In una teca del museo Liverino di Torre del Greco, a perenne testimonianza della considerazione incassata dall’azienda Migliori, è custodita una parure composta da collana ed orecchini “Sardegna”, creata dalle sapienti mani degli incisori giuliesi. Grazie all’abilità di operaie ed operai ed alla qualità del corallo impiegato, per lo più il “Rosso Sardegna” ed il “Rosa Nipponico”, il valore dei monili creati a Giulianova eguaglia in breve tempo quello dei centri più blasonati, come Trapani, Livorno, Genova e Torre del Greco conquistando spazi ragguardevoli del mercato nazionale ed estero. Nei primi anni del 1940, a seguito del conflitto mondiale, il settore del corallo entra in crisi, ma giuliesi veraci come Antonio

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LA DOTATA TORTORETO CHE PIACE TANTO AI VIP Decine di star di ogni tempo almeno una volta hanno raggiunto la perla teramana. Ecco chi sono

E

ssendo una città con particolari caratteristiche- dire di élite ci sembra un po’ troppo - a Tortoreto (e nella vicina Alba Adriatica) d’estate sono venuti, e continuano a venire, personaggi famosi. Tra i principali ricordiamo Mandelli, grande dirigente di associazioni e gruppi industriali; Raule, già esponente di primo piano della Lega Calcio e della Lazio. L’editore Signorelli. Il direttore del Corriere Adriatico (un tempo “La voce Adriatica”) Dario Beni Jr.; l’attore Lovelock; l’ex calciatore-medico Boranga; i fratelli Ossicini, professori universitari e politici di spessore. Inoltre, i coreografi e ballerini Steffen, Galietti, Scarpa. Paul Steffen aveva il suo quartier generale estivo al Marconi di Gigino Marconi, scomparso da poco, uno dei titolari di chalet più umani della costa vibratiana insieme a Mimì Dezi, Vittorio Ferretti e Gigino Vagnozzi. Veniva spesso pure il grande penalista milanese Alberto Dall’Ora, protagonista di processi che hanno fatto storia e titolare, per anni, di una seguitissima rubrica su “Epoca”. E, di tanto in tanto, l’allora esponente socialista (area “lombardiana”) Fabrizio Cicchitto, poi approdato alla corte di Berlusconi e, di recente, in quella di Alfano. E ancora i fratelli Bracardi, Franco (scomparso) e Giorgio, ancora vivente, protagonista delle trasmissioni di Arbore-Boncompagni. Poi ci sono i tortoretani illustri come Alberto “Bibì” Capanna, fratello del medico Renato (anche lui professionalmente irreprensibile e umano in massimo grado). Alberto Capanna è stato alto dirigente di aziende statali come l’Italsider e la Finsider, gruppo Iri (direttore e presidente a più riprese), bravo ed onesto, un dato, quest’ulti-

mo, che vale sottolineare visti i tempi. Altro uomo di spicco, padre Natale Cavatassi, un passionista di elevato spessore culturale cui si deve, tra l’altro, una accurata ricerca su san Gabriele dell’Addolorata, il santo dei giovani. Quanto a Grazia Scuccimarra, la nota e brava attrice di teatro, più e più volte ha ribadito di avere Tortoreto nel cuore. Capitolo a parte merita il Sayonara, che ha ospitato tanti personaggi dello spettacolo famosi, in particolare cantanti. Merito senza alcun dubbio della famiglia Muscella, del compianto Giovannino, di Renato e dei rispettivi genitori. Mina, Cocciante, Califano, Ornella Vanoni e tanti altri big della canzone italiana e non solo. Tanti i ricordi di quel tempo ormai lontano. Uno si riferisce ad un Renato Zero all’inizio della carriera, quando non era nessuno sul piano della popolarità. Ci trovavamo dentro al locale e, alla vista di questo stravagante personaggio, peraltro sempre coerente fino ad oggi, che indossava una tutina attillata scura, piena lustrini e pennacchi, Giovannino Muscella, che ne aveva intuito il talento, disse: “Vedrete, questo Renato Zero diventerà un fenomeno”. Un episodio negativo legato al Sayonara? La sera che un gruppo di romani, fuori dal locale, si mise a canticchiare, con intenti canzonatori: “Lo sai che i papaveri son alti alti alti e Cocciante è piccolino, Cocciante è piccolino...”. L’ottimo cantautore di origini vietnamite, indispettito ed esasperato, ad un certo punto smise di cantare e di suonare il pianoforte. E così la serata finì male. Alla fine, ci sembra doveroso ricordare la figura dell’ingegner Ricci, uno degli artefici principali della realizzazione del nostro bel lungomare (Alba Adriatica- Tortoreto), della passeggiata che costeggia, nella parte lidense, viale Sirena.

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PEOPLE

MICHELE NARCISI


PEOPLE

Quelli del “Nu folk” spopolano e raccontano il successo made in Ascoli MARTINA DI DONATO

GIRA “LA RUA”

“N

on sono positivo alla normalità”, canta La Rua, un gruppo “nu-folk” nato nel 2004 nella provincia di Ascoli Piceno, dove è iniziata l’ascesa. Grazie all’incontro con Dario Fini (autore anche di brani per Francesco Renga, Emma Marrone e altri) La Rua ha rimodellato il suo progetto e così i cinque ragazzi marchigiani sono sbarcati sulle reti nazionali conquistando tutti. La band è formata da Daniele Incicco (voce e chitarra), William D’Angelo (chitarre), Davide Fioravanti (pianoforte, fisarmonica), Nacor Fischietti (batteria) e Alessandro Mariani (banjo e chiatarre) ed è entrata nel panorama musicale italiano. Dopo aver vinto il progetto AreaSanremo nel 2012 la band è stata scelta per aprire il concerto milanese del gruppo Imagine Dragons e successivamente è stata protagonista di Mtv New Generation: il videoclip della band è andato in onda per un mese. Abbiamo incontrato

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quelli de La Rua per scoprirne il talento. Come è iniziato il vostro progetto? L’immaginario del progetto è nato dal sodalizio artistico tra Daniele e il nostro produttore, Dario Faini, sviluppando poi, insieme alla band, il mondo sonoro che caratterizza il gruppo. Dopo aver vinto il progetto AreaSanremo nel 2012 e il premio MEI come miglior band al festival di Castrocaro, avete aperto il concerto degli Imagine Dragons a Milano, cosa si prova ad esibirsi su un palco di rilievo? Dire di essere onorati di aver aperto il concerto di una band di tale spessore - peraltro nella loro prima e unica data italiana - forse è anche riduttivo, rispetto alle emozioni provate su quel palco. D’altra parte, nel momento in cui “entri in scena”, pensi unicamente a dare tutto te stesso e creare quel


bravissimi artisti. Sfortunatamente non è andata, ma sicuramente è stata una grande soddisfazione per noi essere entrati nelle nominations.

Nella scorsa estate siete entrati in lizza per il premio Mtv New Generation con il brano “ Non sono positivo alla normalità” il cui video è stato trasmesso da Mtv. Vi siete divertiti a girare un videoclip che poi è stato visto da tutta la nazione? Come si vede nello stesso videoclip ci siamo spinti a spogliarci integralmente! Dopo un iniziale imbarazzo, ci siamo semplicemente lasciati andare, saltando e divertendoci sulle note del brano. E’ stato un modo per trasmettere la volontà di uscire dagli schemi, in maniera gioiosa, scherzosa e divertente, senza prendersi troppo sul serio. Lo spogliarsi in tutto e per tutto indica il voler negare l’appartenenza alla routine che la società di oggi ci impone e rivendicare uno scambio di emozioni ed esperienze con “l’altro” più genuino e impermeabile a pregiudizi di qualsiasi tipo.

Il vostro genere è definito “Nu folk”, potete spiegarci questa denominazione? Potremmo definirlo come una rivisitazione del folk, secondo gli odierni canoni della canzone popolare. Riguardo ai nostri brani, la matrice rimane sostanzialmente pop, ma poi la caratterizziamo sperimentando e prendendo spunto dal sound di band e artisti nufolk nord-europei, dove questo genere è già molto affermato (Mumford&Sons, Kodaline, Lumineers, Of Monsters And Men). Dunque il nostro genere è più un pop/folk, non un folk nella sua accezione autentica, ma ripensato secondo le caratteristiche della canzone pop italiana.

Come siete approdati ad Mtv? Mtv è stata una fortuna e una sorpresa veramente inaspettata. E’ stato inviato il nostro video ed è piaciuto subito. Prima ci hanno scelto come artisti della settimana, poi come artisti del mese, infine, candidati agli Mtv Awards per la categoria “Best New Generation”. Il 20 giugno ci siamo esibiti a Firenze, al Parco delle Cascine insieme ad altri tre

Progetti? Abbiamo da poco terminato le date estive e raccolto un’energia positiva enorme, grazie a tutte le persone che hanno cantato e saltato con noi sotto il palco. Convoglieremo tutta questa energia nella scrittura e registrazione dei brani, i quali andranno a formare il nostro primo album. Vedrà la luce indicativamente a marzo prossimo. Non vogliamo svelarvi altro, per ora!!

foto di Simone Alessandrini 13

PEOPLE

legame simbiotico e unico con il pubblico, che in quell’occasione - seppur non ci conoscesse – ha risposto veramente alla grande.


TERRITORIO

DALLA RETE DA POSTA A PALAFITTA AL PRIMO MOLO

Anche Giulianova ricorda i suoi trabocchi e il primo braccio a mare ALFONSO ALOISI

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uando alla fine degli anni Trenta si ebbe una vera e propria rivoluzione nel settore della pesca con l’avvento della motorizzazione, si crearono conseguentemente più moderne occasioni favorevoli per il comparto ittico. Ma la cosiddetta modernizzazione non ha indebolito l’entusiasmo per il “trabocco” e per il “saliscendi”. Anzi, durante l’ultimo conflitto mondiale, a causa della requisizione delle barche per motivi militari, i titolari delle “bilance” hanno assicurato alla popolazione la possibilità di procurarsi il pescato di giornata quando l’Adriatico, tra l’altro, era molto più generoso di oggi. Nel giugno del 1940, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, l’attività portuale risentì sensibilmente degli effetti del conflitto. Tutte le barche a motore con stazza lorda superiore alle trenta tonnellate, tra cui il Vittorio Veneto, il San Vincenzo, il Fedel Franco, il Santa Lucia ed il Gildamadre, vennero letteralmente trasformate ed impiegate come posamine. Sulla scorta di tali scelte obbligate, la paranza, la sciabica, la lampara ed il saliscendi hanno vissuto all’epoca una seconda giovinezza diventando di nuovo i protagonisti del mare, ormai unica scelta per rifornire di pesce la provincia teramana. Il

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“saliscendi”, da qualcuno chiamato erroneamente “caliscendi”, con la sua inconfondibile struttura a bilancia protesa verso il mare, appartiene alle tradizioni delle genti che vivevano sulla costa. Questa macchina da pesca da sempre ha portato con sé un fascino molto particolare caratterizzato da stati dell’animo molto particolari e visioni suggestive sprigionando intime atmosfere. Del resto proprio il paesaggio, costituito quasi esclusivamente dal mare fino all’orizzonte, tende comunque alla immediata poesia. Il “trabocco” per certi versi costituisce la memoria del vissuto ed è nel contempo custode di quell’ambiente di cui l’uomo è sempre più alla ricerca affannosa. Il “saliscendi” sopperisce ad un’altra funzione e cioè si trasforma in luogo di aggregazione, di socializzazione e punto irrinunciabile di ritrovo per appassionati pescatori, ma anche per semplici curiosi spettatori. Queste ed altre ragioni hanno indotto il legislatore a prevedere una vera e propria normativa per i “trabocchi da molo” presenti lungo la costa abruzzese a Giulianova, Pescara, San Vito Chietino e Vasto. Infatti, con la leg-


di saliscendi. Successivamente il porto si sviluppò ulteriormente fino a costituire l’attuale ampio bacino. Ovviamente al consolidamento portuale in termini di estensione seguì anche la veloce occupazione da parte dei titolari delle bilance da pesca soprattutto in direzione del mare aperto. Col tempo i saliscendi diventarono delle vere e proprie “dependance” per gli appassionati ed i loro amici.

E dunque, man mano, non solo pesca, ma anche una partita a tresette o a briscola per ammazzare il tempo od anche un succulento pranzetto a base di pesce per addomesticare l’appetito generato dalla brezza marina. Attorno alle macchine da pesca a posto fisso è fiorita una certa letteratura legata a fatti, avvenimenti, storie personali e passioni per il mare e la sua immensa poesia. Una delle tante è legata ad un noto personaggio giuliese che da giovane, per lavoro, ha dovuto girare il mondo per poi, una volta tornato in patria, rifugiarsi nel suo “saliscendi” circondato da pace, tranquillità, amici, curiosi di passaggio e ovviamente dall’azzurro del mare. Parliamo di Emilio Di Carlo detto Gino e conosciuto anche come “il greco”. Esperto di realizzazioni di nuove linee per il trasporto dell’elettricità, è stato in quasi tutti i continenti ad iniziare dalla permanenza in Sud Africa (regione Virginia) per circa undici anni a partire dal 1969. Poi in Tunisia, ad Hammamet e Sfax per altri tre anni ed in Messico per un anno. Ancora in Arabia Saudita (Jedda), poi una breve parentesi in Sicilia e quindi la Grecia (Atene e Salonicco), sempre alle dipendenze della Società Anonima di Elettrificazione come capo cantiere. Proprio nell’ultimo periodo lavorativo, tra un viaggio e l’altro verso l’estero, Gino Di Carlo decide di coronare il suo sogno con l’acquisto del “saliscendi” con annessa struttura di supporto. Ogni giorno, con qualsiasi tempo, Gino Di Carlo è lì. Torna a casa solo per la pausa pranzo ed all’imbrunire. Il Comune di Giulianova, dopo l’approvazione della legge regionale “Ruffini-Rabbuffo” dell’estate 2010, a febbraio scorso ha recepito l’importanza del provvedimento teso al recupero, alla salvaguardia e alla valorizzazione dei trabocchi da molo della costa abruzzese. La Giunta comunale, oltre a tutelare il patrimonio storico-culturale che da sempre ha caratterizzato il porto di Giulianova, ha inteso recuperare anche i “saliscendi” a suo tempo demoliti, conferendo mandato specifico al dirigente competente al fine di effettuare un censimento globale, tra passato e presente, includendo anche i trabocchi realizzati tanti anni or sono sugli scogli del molo nord non più in vita.

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ge regionale numero 38/2010 è stata disciplinata l’equiparazione dei “saliscendi da molo” ai “trabocchi” della costa frentana, questi ultimi già disciplinati da una legge abruzzese precedente (93/1994) che prevedeva un piano di riqualificazione e conservazione degli stessi. Del resto, il loro impiego da tempo immemorabile ha consentito in passato di far affermare un’attività artigianale rilevante per l’economia locale. I “saliscendi” o “caliscendi” furono realizzati quasi immediatamente dopo l’inizio della costruzione del porto che avviene nel 1913, circa cinquanta anni dopo l’unità d’Italia. Fu l’allora sindaco di Giulianova Giuseppe de’ Bartolomei che, grazie all’appoggio dell’onorevole Roberto de Vito, realizzò i primi 180 metri dell’attuale molo sud verso il largo in direzione nord-est. L’opera si rese necessaria per contrastare l’avanzata continua della ghiaia trasportata dal fiume Tordino soprattutto nei periodi di piena. Già con la realizzazione del primo tratto di molo iniziò l’occupazione del versante meridionale, e successivamente anche settentrionale, da parte dei saliscendi. Pescare era diventato molto più facile e tranquillo: tutto avveniva dalla terraferma e senza l’onere di affrontare il mare aperto con i rischi che l’attività di marinaio comportava. Significativa una cartolina del 26 agosto del 1923 inviata a tale Lina Sartori di Vittorio Veneto raffigurante due eleganti signori che passeggiano proprio sul neonato porto tra due ali


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ttesa ormai da oltre 40 anni, da quando cioè iniziarono i primi lavori, il 21 settembre è una data storica per il popolo dei fedeli: la solenne cerimonia di Dedicazione del nuovo Santuario di San Gabriele non passerà come un evento di cristianità qualunque. Un momento molto partecipato e sentito dalla comunità della Diocesi di Teramo-Atri ma anche dal resto d’Italia e del mondo, visto che numerose sono state le persone giunte a Isola del Gran Sasso da luoghi lontani. Il lungo rito, testimoniato a memoria in una targa ricordo della consacrazione scoperta all’interno del Santuario, è stato presieduto dall’inviato speciale di Papa Francesco, il Cardinale Ennio Antonelli, già arcivescovo di Firenze e presidente emerito del pontificio Consiglio per la famiglia, mentre per l’occasione Papa Francesco ha voluto far sentire la sua vicinanza attraverso una lettera speciale che è stata letta all’inizio della Messa. L’intitolazione del nuovo Santuario di San Gabriele dell’Addolorata è stato un momento a lungo atteso da tutta la Diocesi di Teramo-Atri e dalla comunità di passionisti che cura quotidianamente quegli spazi e li ha visti crescere; forse non dal principio, quando già nel 1954 si iniziava a progettare l’ampliamento, certamente però alcuni ricordano quando nel 1969 è stato approvato il progetto che ha permesso l’apertura del primo cantiere il 26 febbraio 1970. Il progetto portava la firma degli architetti milanesi Buttura, Massoni, Pelizza, Casati e Ponzio, dell’ingegner Maggi di Vicenza e la direzione dell’ingegner Rossi di Bologna, ed i lavori vennero affidati prima all’impresa di costruzioni B. Di Pietro & C. di Roma e poi alla ditta Valeri di Montorio al Vomano. Il nuovo Santuario di San Gabriele dell’Addolorata è un’opera ancora oggi guardata con stupore da fedeli e tecnici; infatti conta circa 12mila mq complessivi di costruzione nella quale si evidenziano le travi in acciaio corten, lunghe 32 metri. D’ispirazione ecumenica, la nuova basilica protende le braccia ai quattro punti cardinali e nella sezione richiama la sagoma di una grande nave con la sua stiva (cripta del santo solennemente benedetta da papa Giovanni Paolo II, in visita al santuario, il 30 giugno 1985), che in estate ne ospita l’urna; la tolda (4 navate per la celebrazione) e le 4 vele pandirezionali, come simbolo della Chiesa in cammino nel mondo. Lunga 90 metri e larga 30, la grandiosa struttura in cemento bianco, acciaio corten e vetro, può contenere 10 mila persone, di cui 6/7 mila nelle navate. Gli interventi di completamento della basilica, a partire dal 1981, sono stati progettati dall’architetto romano Eugenio Abruzzini, mentre le opere artistiche (vetrate, mosaici, bronzi) sono state realizzate dall’artista cappuccino Ugolino da Belluno. Scandiscono il tempo le 14 campane (25 tonnellate di bronzo finemente lavorato), fuse dalla ditta Marinelli di Agnone negli anni’62-64; ricordano il Concilio Vaticano II e il primo centenario della morte del Santo. Fra tutte, si distingue la campana ecumenica che pesa 40 quintali che, come architettura, si ispira al duomo di Spoleto mentre intorno alla

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IL GIORNO PIU’ BELLO NELLA CASA DEL SANTO PIU’ AMATO Migliaia di pellegrini da tutto il mondo accolgono l’invito di San Gabriele dell’Addolorata alla “dedicazione” del santuario MARCO CALVARESE

campana sono scolpite sette scene che raccontano i fatti salienti della vita del santo e vi risalta il bassorilievo dello storico abbraccio tra Paolo VI e il patriarca Atenagora I, avvenuto a Gerusalemme il 5 gennaio 1964; sul lato opposto sono raffigurati Giovanni XXIII e J. Kennedy, grandi operatori di pace scomparsi nel 1963. Il santuario di San Gabriele dell’Addolorata, ai piedi del Gran Sasso, in provincia di Teramo, è tra i più conosciuti in Italia e in Europa. Una recente classifica lo colloca tra i primi quindici santuari più frequentati del mondo. Due milioni di pellegrini vi arrivano ogni anno per pregare sulla tomba del giovane studente passionista San Gabriele dell’Addolorata. La sua fama non conosce confini. Sono almeno un migliaio le chiese a lui dedicate nei vari continenti. Un casello autostradale, ponti, viadotti, piazze, parcheggi, strade, scuole, ospedali portano il suo nome. Migliaia di persone nel mondo si chiamano Gabriele o Gabriella in suo onore. Il santuario di San Gabriele si trova al centro di un triangolo sacro che racchiude tre tra i più celebri santuari d’Europa: Loreto, San Gabriele, San Giovanni Rotondo. In questi tre santuari ogni anno arrivano circa tredici milioni di pellegrini. Già da vari anni i pellegrini, spontaneamente, hanno scoperto questo itinerario e lo percorrono dal nord al sud e viceversa.


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Alla Dedicazione di uno dei più grandi santuari moderni d’Europa, hanno partecipato il Vescovo di Teramo-Atri, Michele Seccia, il Vescovo di Sanggau (Indonesia) Monsignor Giulio Mencuccini, il superiore generale dei Passionisti padre Joachim Rego, il consiglio generale dei Passionisti, il superiore provinciale dei Passionisti del settore centro-adriatico padre Piergiorgio Bartoli, oltre a numerosi sacerdoti, religiosi, autorità civili (tra cui il presidente della Regione Abruzzo D’Alfonso, l’assessore della Regione Abruzzo Pepe, il presidente della Provincia di Teramo Catarra, il presidente della Provincia di Chieti Di Giuseppantonio, il prefetto di Teramo Crudo, il questore di Teramo Febo, vari sindaci) e autorità militari. Al rito sono stati presenti alcuni parenti di San Gabriele provenienti da Roma e Jesi. Sono arrivate anche alcune delegazioni di associazioni di emigrati da Philadelphia (Usa), Melbourne e Brisbane (Australia) e Dour (Belgio). Al rito di consacrazione hanno partecipato oltre 5mila fedeli, ma il santuario durante l’intera giornata ne ha accolto non meno di 10mila. “Sua Eminenza, tutta la comunità la ringrazia”, sono state le prime parole del Vescovo Seccia che ha dato il benvenuto al Cardinale Antonelli e anche a tutta la comunità che ha affollato il Santuario attorno ad un altare dove “ci si sente raccolti in un’aura liturgica e il celebrante, pur tra migliaia di persone, si sente vicino e in dialogo con tutti”. Forte il messaggio lanciato dal Vescovo della Diocesi di Teramo-Atri che ha invitato tutti a “diventare pietre vive dell’unico Tempio vivo che è Cristo”. Parole ripercorse anche dal Cardinale Ennio Antonelli che, senza usare mezzi termini, ha sottolineato con forza “Dio vuole l’offerta della vita”. Una vita che può essere una croce da accogliere come ha fatto San Gabriele dell’Addolorata, rappresentante di una Chiesa che parla al popolo di Dio e di una persona diventata “Tempio Vivo di Dio”, “...per farsi uno con gli altri occorre farsi umile, farsi nulla ...solo ...con o per gli altri ...con o per Dio”. Un grande sacrificio più volte ricordato dal Cardinale Antonelli che ha rammentato la gioia che si prova ad essere, per questo, amati da Dio e dai fratelli, “il testimone è San Gabriele che non ha fatto imprese ma è stato eroico nel quotidiano ...San Gabriele, come anche altri Santi, è la testimonianza che Gesù mantiene le promesse”.

foto di Marco Calvarese 18


Il futuro appartiene a chi crede alla bellezza dei propri sogni.


INTORNO A UN CHICCO DI GRANO La paglia, da scarto a risorsa!

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a paglia (dal latino “palea”) è quel prodotto agricolo costituito dai culmi (i fusti dei cereali) alla fine della maturazione della pianta. Se i semi costituiscono la parte nobile del raccolto, spesso la paglia oggi non viene raccolta, in quanto non risulta economicamente conveniente. In questo caso è interrata con le lavorazioni di preparazione del terreno per la successiva

Copertura di un mucchio con paglia lunga. (Collezione Umberto Pompilii)

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FRANCESCO GALIFFA

coltura, contribuendo ad aumentare la sostanza organica dello stesso. Nel passato, invece, il contadino custodiva con molta cura questo “scarto” di lavorazione perché rappresentava una risorsa indispensabile nella gestione delle stalle dei vari animali, (bovini, equini, ovini e suini), dei quali costituivano il giaciglio, in dialetto “lu jacce”, la cui

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derivazione dal latino “iacĕre” (giacere) è più che evidente. Era abitualmente mescolata al fieno, nei mesi invernali, e all’erba, in quelli primaverili ed estivi, fungendo da alimento integrativo. Quella sparsa per terra, poi, assieme agli escrementi delle bestie, finiva nel letamaio, dove si trasformava in concime; riprendeva, sotto questa veste, la via dei campi, ai quali conferiva rinnovate energie, che permettevano la nascita e lo sviluppo di nuove piantine di grano, dalle quali si ricavava ancora paglia. Il ciclo continuava. Oggi la paglia è raccolta in balle o in grandi rotoloni, mentre una volta, come accennato nei precedenti articoli, si serbava in serre e mucchi, all’aperto. Per l’utilità di cui sopra, era una risorsa che andava preservata dalle intemperie e, pertanto, immediatamente dopo la trebbiatura, il contadino se ne prendeva cura con accorgimenti idonei. Copriva i mucchi e le serre adoperando steli di paglia lunghi e canne. Per ricavare i primi ricorreva alla battitura delle spighe contro una tavola posta a novanta gradi, antico metodo di trebbiatura, di cui abbiamo parlato nel numero di febbraio 2014 di questa rivista. Le seconde erano preparate durante l’inverno, periodo dell’anno in cui la campagna richiedeva meno impegni e il contadino aveva il tempo per dedicarsi a lavori più “artigianali”. Ogni campagna era normalmente dotata di un canneto da cui l’agricoltore attingeva la materia prima. Utilizzava le canne più spesse e più lunghe per tessere la tramatura; per fissarle sul mucchio, da quelle più sottili ricavava una specie di forchette, chiamate “li ‘mbrizze”, un termine non traducibile in italiano; esso è il corrispettivo del verbo “‘mbrizzà”, azione che nella nostra lingua è indicata con verbo infilzare. Se li predisponeva nelle giornate di cattivo tempo, quando il terreno era troppo bagnato per poter essere praticato; prendeva le canne dello spessore simile a quello di un ditino e le riduceva


a quello dell’altro fianco. Prima di scendere dava un ultimo sguardo alla sua opera e c’era anche qualcuno che, vedendo fili di paglia fuori posto, li tagliava con le forbici da potatura. La stessa tecnica era seguita per coprire il mucchio: le canne, però, dovevano essere schiacciate con un mazzuolo di legno per poterle piegare

Cappello di paglia. meglio lungo la circonferenza del cono; inoltre, la distribuzione della paglia era a ventaglio e occorreva molta attenzione per distribuirla in modo uniforme. Una copertura realizzata a regola d’arte limitava efficacemente l’infiltrazione dell’acqua piovana, che scivolava lungo gli steli, proteggendo così gli strati interni della serra; inoltre rappresentava un vanto per chi l’aveva curata. Sempre per rimanere nell’abito dell’aia, con qualche tavola, delle canne e la paglia lunga il contadino costruiva piccole rimesse ed anche il gabinetto esterno alla casa, normalmente posto in un angolo del letamaio, il cui nome dialettale, “la pajara”, indicava il genere del materiale usato. Anche al di fuori del mondo agricolo, la paglia trovava, e in parte continua a trovarlo ancora oggi, un ampio impiego. Alcune industrie la usavano per ricavarne la carta di cellulosa, mentre, dopo un procedimento a base di zolfo, la paglia schiarita era intrecciata ed impiegata per la fabbricazione di borse e di cappelli, come quelli famosi di Firenze e di Signa; in quest’ultima città operano ancora industrie che li producono. Una volta i cappelli di paglia erano il simbolo dei braccianti agricoli, che li usavano per proteggere la testa dal sole durante la mietitura; oggi, rivisitati da celebri stilisti (Gucci, Dolce e Gabbana), sono passati dai campi coltivati alle passerelle e poi nelle spiagge e nei locali cool del

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in pezzi della lunghezza di 140-150 cm; le ripuliva dalle foglie e le aguzzava da ambedue le parti, colpendole dall’alto verso il basso con una ronca; piantava poi per terra tre paletti che formavano un triangolo isoscele con la base di una decina di centimetri; accendeva il fuoco, le riscaldava nella parte centrale e poi le piegava intorno al piolo fissato al vertice del triangolo; infine fissava le due parti, le cui dimensioni differivano di circa 25 centimetri, all’interno degli altri due pioli; ripeteva l’operazione per diverse volte e infine sollevava la catasta di questa specie di forchette, le legava a mazzi, ben strette tra loro perché rimassero curve, e le appendeva ad una trave della rimessa, per riprenderle al momento della copertura dei mucchi. Chi non aveva le canne, realizzava questi attrezzi con pezzi di giunco; in tal caso i lati potevano essere più corti perché la presenza di nodi evitava che si sfilassero dalla paglia. A trebbiatura ultimata, recuperato il materiale predisposto, il contadino si apprestava a posarlo in opera, con l’ausilio di una lunga scala, che gli permetteva di raggiungere il culmine della serra; di norma, operavano in due perché si faceva prima e si penava di meno: uno stava sulla scala e realizzava la copertura, l’altro, da terra, svolgeva opera di manovalanza, badando a rifornirlo dell’occorrente. Il primo cominciava a disporre in modo uniforme la paglia, con le punte rivolte verso il basso, lungo il pendio della serra per una larghezza di una settantina di centimetri; la reggeva pressandola con una lunga e robusta canna disposta orizzontalmente e fissata alla serra con alcune ‘mbrizze; saliva di qualche piolo e ripeteva l’operazione facendo sovrapporre parte del manto superiore a quello inferiore, fino a coprire il primo ordine di canne; così fino al colmo; solo l’ultimo strato di paglia era fissato con due o più file di canne per difenderlo meglio dalla forza del vento. Scendeva, spostava la scala e andava su con lo stesso procedimento, facendo avanzare le canne orizzontalmente; quando queste stavano per raggiungere il fine corso ne aggiungeva altre. Ultimata la copertura di un versante, spostava la scala dall’altra parte e ricominciava daccapo, seguendo lo stesso procedimento; solo l’ultimo strato usciva oltre la linea di colmo per andarsi ad accavallare


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Casa in costruzione nell’Ecoparco di Vaiano; dettaglio della muratura in paglia. momento. Nell’arredamento la paglia era adoperata soprattutto per l’impagliatura delle sedie. Nella selleria costituiva l’imbottitura di selle e collari per cavalli. Nell’imbalsamazione degli animali era impiegata per restituire loro la forma originale. A titolo di curiosità segnaliamo che dalla paglia di riso, fino all’avvento della plastica, si ricavavano le cannucce per bere. Parlando di questo prodotto povero del ciclo del grano, di solito s’ignora il suo impiego nella costruzione delle case destinate a ospitare contadini e animali. Impastando accuratamente la terra con paglia sminuzzata, brecciolino e sterco di mucca, si realizzavano i “massulli” o i “massoni” per le case di terra. La paglia secca, senza la parte camosa, aveva una duplice funzione: agiva come ossatura che aumentava la resistenza del materiale e proteggeva molto dalle infiltrazioni d’acqua poiché le fibre vegetali favorivano l’evaporazione dell’umidità in eccesso. La Val Vibrata e le aree collinari abruzzesi erano costellate da queste costruzioni, ampiamente documentate da Pasquale Rasicci in una bellissima pubblicazione. Nella seconda metà dell’Ottocento, l’invenzione della macchina imballatrice ha aperto una nuova frontiera nell’uso della paglia nell’edilizia, con tecniche assolutamente innovative. I colonizzatori dell’America del Nord cominciarono a usare le balle di paglia come mattoni giganti; legandoli l’uno all’altro realizzavano i muri portanti delle case, sopra i quali venivano poi appoggiati direttamente i tetti. Questa tecnica si diffuse in particolare nello Stato del Nebraska ed era è passata alla storia come “stile Nebraska”. I coloni scoprirono ben presto che queste case

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offrivano vantaggi maggiori rispetto a quelle tradizionali. Gli spessi muri in paglia mantenevano il calore interno durante i freddi inverni come anche il fresco durante le estati calde. Oltretutto, l’isolamento acustico era eccezionale e permetteva di non sentire all’interno della casa i forti venti, che soffiavano esternamente. Le prerogative positive di questo materiale andavano anche oltre; esso garantiva una grande traspirabilità, una resistenza quasi assoluta alle azioni sismiche ed anche una buona resistenza al fuoco. Decisero, quindi, di continuare a costruire case stabili con la stessa tecnica; molte di esse sono ancora esistenti ed abitate. Intorno agli anni ‘40 del ventesimo secolo, a causa della forte espansione demografica, del boom economico e dell’utilizzo del cemento, questa tecnica fu abbandonata e, col passare del tempo, dimenticata. Negli anni ‘70 però, Judi Knox e Matts Myhrman, riscoprendone alcune, si convinsero della loro eccezionalità e cercarono di raffinare la tecnica per adeguarla alle esigenze moderne; passarono poi la loro conoscenza acquisita ad alcuni ambientalisti entusiasti. Sotto la spinta di questi ultimi e nel contesto della permacultura furono costruite molte case con questa tecnica. In Europa, le prime case di paglia furono costruite, sotto la guida di Barbara Jones, in Gran Bretagna nel 1994 e in Irlanda nel 1996. In Italia il primo edificio costruito con questa tecnica si trova a Pramaggiore (Venezia) ed è stato realizzato in autocostruzione sotto la guida della Jones, di Bee Rowan e di Stefano Soldati. Nel mondo si costruiscono circa 1000 edifici nuovi all’anno e stanno nascendo sempre più associazioni che studiano, sperimentano, condividono e realizzano case in paglia. Esperienze del genere si stanno vivendo anche in Italia, in particolare sulle alture di Voltri (Genova), per iniziativa dell’associazione ambientalista “Terra! Onlus”, e a Conselice (Ravenna), dove l’“Associazione Rete Italiana Aucocostruttori”, da anni impegnata nella sperimentazione di edilizia con paglia e con legno, ha aiutato due giovani a costruire una casa con muri in paglia. Ci piace, infine, segnalare l’iniziativa dell’Amministrazione Comunale di Vaiano (Prato) che sta costruendo, all’interno dell’Ecoparco dell’Isola, edifici con strutture portanti in legno, tamponature con balle di paglia e intonaci in biocalce e terra cruda.


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foto di Paride Traviglini

MANI DI NEVE M SU MORBIDA ARGILLA

L’arte ceramista di Monteprandone tramandata di padre in figlio PARIDE TRAVAGLINI

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onteprandone - Un’arte che si è tramandata di padre in figlio, espressione dell’ingegno e della capacità di creare con semplici strumenti manufatti di grande pregio artistico. È l’antica arte della ceramica che racchiude in sé i quattro elementi fondamentali ( terra, acqua, aria, fuoco) e che a Monteprandone sopravvive grazie all’estro e la manualità di Gianfranco Neve ed al talento artistico di Aristea Fioravanti uniti nel lavoro e nella vita. Tutto nasce nel 1970 quando il padre di Gianfranco, Gino, bravo torniante, nativo di Montottone, si trasferisce a Faenza patria della ceramica per perfezionare la sua tecnica. Dopo alcuni anni di gavetta, torna a San Benedetto del Tronto, dove apre un laboratorio realizzando il suo sogno. E’ l’inizio di una storia e di un marchio “Ceramiche Neve” conosciuto ed apprezzato in tutta Italia e non solo, anche perché ben presto, oltre alle ceramiche artistiche, dopo il trasferimento a Centobuchi, l’azienda diventa leader nella produzione di accessori per il bagno. Gianfranco fin da piccolo, dimostra una spiccata propensione per il tornio ed affianca il padre nella sua grande passione. Una passione che oggi porta avanti assieme alla moglie Aristea, nel laboratorio artigianale allesti-


la sua colorazione rossa. Lo batto con un cucchiaio per sentirne il suono sempre nuovo e diverso. Da fragile, verdastro e privo di musica, ha preso vita. Segue la smaltatura: il manufatto viene immerso in un mastello dove gira sempre lo smalto. Movimenti omogenei e rotatori, ne permettono un omogeneo assorbimento. Ricordo da bambino che lo vedevo fare da mio padre, ma non ne capivo il motivo. Ora il pezzo bianco, viene pulito sul fondo per impedire che si attacchi nella cottura successiva, quindi cambia stanza e si presenta così “nudo” sopra ad un tornello per farsi ammirare in tutta la sua forma ed eleganza.

Gianfranco, come da un pezzo di creta riesci a dar vita ad una tua opera? Prima dell’argilla, arriva il committente che osserva con attenzione i lavori esposti e le foto di quelli già realizzati. A ciò, si aggiungono la sua idea e la sua esigenza. Cerco di unirle alla mia creatività, facendole passare attraverso l’esperienza e la fattibilità. A questo punto inizia il lavoro vero e proprio. Prendo la giusta quantità di argilla che arriva dall’Umbria sotto forma di pani da 25 kg e la faccio passare attraverso una degassatrice che la rende morbida e priva di impurità. La “palla” viene sbattuta sul tornio. È questa la fase della forgiatura che è costata tanti sacrifici e tante notti per apprenderla. È sicuramente la parte più affascinante, direi magica: vedere nascere un vaso dalle mie mani , sempre bagnate, che con dolce fermezza plasmano quel fango vecchio di milioni di anni, non ha prezzo… Terminata questa fase dove terra ed acqua sono protagoniste, è il momento dell’aria, fondamentale per far asciugare il pezzo. Un’operazione che dura alcuni giorni durante i quali il manufatto va custodito, girato più volte al giorno come fosse una forma di parmigiano. Completamente secco e rimpicciolito del 10 % circa, segue la levigatura con una speciale spugna bagnata d’acqua. Siamo giunti al momento cruciale: la prova del fuoco. Il manufatto viene messo in un forno a piani refrattari. Ci vogliono almeno 14 ore per far salire gradualmente la temperatura al fine di evitare rotture. Stazionamenti stabiliti favoriscono lo spurgo mentre la permanenza a 1020° per circa mezz’ora, garantisce la resistenza del pezzo. L’indomani, il forno viene aperto ed il pezzo è lì con

Quali sono i vostri punti di forza? L’attenzione, l’impegno, l’amore ma soprattutto la curiosità nella sperimentazione affinché la ripetitività e la monotonia, non prendano mai il sopravvento, ma ogni lavoro diventi una creazione unica ed irripetibile.

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to in Via U. Foscolo, 14 a Centobuchi, realizzando pezzi unici modellati su misura e personalizzati nei decori. Bomboniere, vasi, brocche, boccali, piatti, anfore, orci, pannelli, pavimenti, fontane… escono come per incanto dalle abili mani del giovane maestro vasaio.

A questo punto inizia il lavoro di tua moglie Aristea… Si, inizia il suo lavoro fatto di pazienza sensibilità e passione… Con ossidi minerali e pennelli di pelo di bue, comincia abbozzando con tocchi leggeri che man mano diventano contorni, sfumature, superfici piene di colore. Lei sa come sarà l’effetto finale ed una volta terminato il tutto, il pezzo viene messo in forno a 950° per una fusione garantita capace di rendere brillante una superficie prima polverosa. Anche in questo caso, il forno viene aperto il giorno dopo ma questa volta l’ansia, mista a preoccupazione, è maggiore poiché potrebbero essere vanificate ore di lavoro. Se il fuoco dice no, bisogna ricominciare con pazienza, senza mai rassegnazione, tutto da capo. Quando il forno si apre, i colori brillano insieme a parti lasciate bianco-avorio e quando tra le mani senti il calore e vedi tanta bellezza, pensi che nessun mestiere possa regalarti tanto…


SAN BENEDETTO DI MARZAPANE“FA’VOLÁ” L’IMMAGINAZIONE TERRITORIO

Una fiabesca Riviera delle Palme per il Piceno D’Autore Junior

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n festival per ragazzi davvero unico, che riesce a unire il divertimento alla cultura e ad avvicinare il mondo dei bambini a quello degli adulti: è il Piceno d’Autore Junior & FàVolà, che va in scena a San Benedetto del Tronto. Lo fa utilizzando gli stessi pensieri stupendi che consentono ancora a Peter Pan di riuscire a volare e portare bambini e adulti nell’Isola che non c’è. Pensieri stupendi che altro non sono che la fantasia, e il desiderio di stimolare i bambini all’uso dell’immaginazione, attraverso le favole; un desiderio e un obiettivo che sono lo spirito della nove giorni di festival. E’ organizzato dall’Associazione “I Luoghi della Scrittura”, realtà di San Benedetto del Tronto che è presieduta da Mimmo Minuto, frutto di una idea della ex presidente, Cinzia Carboni, che ne è anche il direttore artistico, che condivide il suo impegno con Mimma Tranquilli e Letizia Guidi. Una realtà nata sulla scia del Festival Letterario Piceno d’Autore, che a primavera, a San Benedetto del Tronto, ospita il fior fiore del panorama nazionale nel campo della scrittura e dell’editoria. Piceno d’autore Junior & FàVolà, ogni anno è dedicato a una grande favola internazionale: ha preso il via con Pinocchio, nel 2013, in occasione del 130° anniversario dalla prima edizione del libro ed è proseguito a settembre 2014, con un magnifico volo, che ha fatto tappa tra la Palazzina Azzurra e il Paese di FàVolà. La prima ha offerto la mostra “Peter Pan e la magia delle Fate”, tramite la mostra

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STEFANIA MEZZINA

disegni dell’illustratore Paolo Ghirardi, che disegna storie a fumetti su Collana Eroica, Monello e Corrier Boy, oltre ad illustrare libri di narrativa e didattica per le maggiori case editrici. Ghirardi è autore di libri, l’ultimo proprio su Peter Pan; inoltre, alla Palazzina c’erano un percorso di pannelli descrittivi sull’autore di Peter Pan, James Matthew Barrie, il galeone pirata, sculture, edizioni antiche e recenti di libri, giocattoli d’epoca, collezioni di personaggi, francobolli e tantissime curiosità a tema, e l’allestimento sulle fate, in un ambiente magico e suggestivo. Il secondo, il Villaggio dei Bambini allestito alla Rotonda Giorgini, ha offerto incontri, animazioni, caccia al tesoro, laboratori, musica, cori, danza e letture, il tutto accompagnato dai personaggi della favola, per la gioia dei più piccoli. Tra questi, la presentazione del Peter Pan di Paolo Ghirardi e il concerto originale, simpatico e coinvolgente, dal titolo “Little Pier e le storie ritrovate”, inventato dal giovane musicista, cantautore e produttore artistico, Pier Cortese. Ci sono stati anche incontri serali, che hanno trattato il tema degli eterni bambini che sembrano non voler crescere, con specialisti del settore. Ulteriore evento importante, la presentazione del libro Margaret Ogilvy, che racconta la storia del tenerissimo rapporto tra l’autore di Peter Pan, J.M. Barrie e sua madre; la traduzione è stata edita per la prima volta in Italia dall’Associazione I Luoghi della Scrittura. Il libro contiene anche la traduzione di “To the five”, la dedica ai cinque fratellini Llewelyn Davies, che accesero in James Barrie la scintilla che lo portò a creare Peter Pan. Anche il musical “Peter Pan 3D”, ha offerto uno spettacolo dalle splendide scenografie: recitato, cantato e danzato da oltre 30 attori, capaci di offrire due ore dense di emozioni, per un allestimento che ha rispolverato l’opera teatrale in versione musicale moderna, a 110 anni dalla sua prima messa in scena. Il Festival è organizzato con la collaborazione della Regione Marche, Comune di San Benedetto del Tronto, Assessorato alla Cultura, Provincia di Ascoli Piceno e di numerosi partner, che hanno reso possibile la gratuità a tutti gli eventi allestiti.


ILLUSTRAZIONI DI GIORDANA GALLI


l sole giallo d’ottobre

m’è così dolce! Non scalda quasi: lo cerco tremando. Ferisce obliquo le cave volte dei boschi ingialliti; ardono d’oro, divampano violentemente al tramonto. Mi par che l’aria sia anch’essa più tenue e rara.

(E. Thover)



RITAGLIA E COLORA


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L’ALFIERE CHE DÀ SCACCO MATTO AL RE I prodigiosi successi sulla tavola quadrata di Nicolò Orfini il dodicenne già adulto

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MARTINA DI DONATO

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el gioco degli scacchi di regole ce ne sono molte, è un gioco complesso e richiede un’elevata concentrazione, oltre a molte ore di allenamento. Nicolò Orfini ha da poco compiuto dodici anni ed è già alla sua trentacinquesima coppa. E’al quarto posto tra i giocatori under 12 italiani e tra gli under 16 abruzzesi, è presente nella classifica europea e mondiale e aspira a divenire Grande Maestro, traguardo a cui è molto vicino. Il suo percorso è iniziato due anni fa e da allora ha ottenuto un successo dopo l’atro. Colpisce subito il suo sorriso da bambino attento e curioso. E’ facile entrare subito in sintonia con lui e ci confessa quali sono le sue materie scolastiche preferite e quali no; da buon giocatore di scacchi dice che ama la matematica, ma in generale un po’ tutte le materie. Come ti sei avvicinato al gioco degli scacchi? Mi sono avvicinato al gioco degli scacchi a nove anni grazie a mio padre. Vedevo spesso una scacchiera di marmo che apparteneva a lui e mi sono incuriosito: ho iniziato a chiedergli cosa fosse, come si utilizzasse, così lui mi ha iniziato a spiega-

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re le prime mosse. Ho scoperto che il gioco degli scacchi era interessante, mi piaceva. Poi a scuola tra le varie attività extracurriculari mi sono ritrovato a dover scegliere tra il corso di teatro e quello di scacchi. Mia madre voleva facessi il corso di teatro, ma io ho scelto l’altro e ho iniziato a fare i primi tornei studenteschi. Quante ore al giorno ti alleni? Mi alleno una volta a settimana per quattro ore con il mio maestro Angelo D’Angelo, ma gioco a scacchi ogni volta che posso. Qual è stata la partita più lunga che hai giocato? La partita più lunga che ho giocato è stata di 116 mosse ed è durata 6 ore. Durante questi tornei ci sono delle regole da rispettare, puoi alzarti mentre l’avversario gioca la sua mossa ma non puoi allontanarti dalla sala. Nicolò spiega con molta naturalezza alcune delle regole da seguire mentre si svolgono le partite, come ad esempio non avere con sé il cellulare, oppure stare in silenzio,non poter mangiare e confessa che non c’è una regola la cui osservanza gli pesi: “Il cellulare l’ho perso quindi non è un problema


per me non averlo” dice con molta franchezza.

In torneo ti scontri sempre con ragazzi della tua età? No, spesso accade di giocare anche contro avversari più grandi di me che hanno un punteggio più basso del mio. Parlando con Nicolò viene da dimenticare che non ha ancora 12 anni e questo perché il suo modo di pensare è piacevolmente diverso da quello che ci si aspetta da un ragazzino che frequenta la seconda media. Citando Boniperti secco e deciso dice che “vincere non è importante, è l’unica cosa che conti”.

Cosa provi dopo una sconfitta? Non amo perdere, ma questo può succedere. Al termine del gioco cerco di rivedere tutte le mosse che avrei dovuto evitare e cerco di non ricommettere lo stesso errore. Inizialmente quando perdevo con avversari più grandi, dopo la partite, questi cercavano di farmi capire quale fosse l’errore; adesso sono io che spiego agli altri i loro. Quest’anno nella scuola di Nicolò organizzeranno delle giornate dedicate agli scacchi e il suo compito sarà quello di seguire gli altri ragazzi nelle partite. Assicura che sarà paziente con chi non dovesse recepire Infondo, devo utilizzare la stessa pazienza che hanno utilizzato con me. Alla fine della chiacchierata, si capisce come il gioco degli scacchi aiuta ad acquisire il senso della lealtà e della correttezza, oltre che del rispetto delle regole e degli avversari. Lo lasciamo con una stretta di mano e di nuovo appare quel sorriso curioso che lo rende unico.

Foto gentilmente concesse da Giorgio Orfini, papà di Nicolò

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Qual è stata invece la partita più bella? Sicuramente quella che si è svolta a Civitanova Marche. Quell’occasione è stata bella perché era un memorial dedicato a Gino Serafini, presidente del circolo cittadino degli scacchi “L’Alfiere Nero”. In quella occasione Andrea Rebeggiani, presidente del circolo Scacchi Fisher Chieti ha ricordato l’importanza di una figura come Gino Serafini, soprattutto per la sua volontà di avvicinare i giovani a questo sport e questo è importante.


LA GLOBALIZZAZIONE VIAGGIA SUI BINARI DELL’ INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE PMI IMPRENDITORIA

ALESSANDRA DI GIUSEPPE

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’internazionalizzazione d’impresa rappresenta una strategia aziendale fondamentale per le imprese: rafforza la crescita e aumenta la competitività, consente di accedere ad una più ampia base di clienti. L’estero rappresenta ancora un passo difficile per le piccole imprese che spesso non dispongono delle risorse e dei contatti adeguati per conoscere le opportunità di affari. Internazionalizzazione non significa soltanto esportazione, ma è necessario un sostegno individualizzato alle Pmi. Il processo di globalizzazione è stato lento, progressivo e negli anni si sono formate figure altamente professionali strettamente connesse al commercio internazionale, che fanno da suppor-

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to alle imprese che iniziano ad allacciare legami affaristici con Paesi esteri. Molti imprenditori hanno pensato di adeguarsi inserendo nel proprio organico una risorsa selezionata sulla base del mero requisito linguistico, ma non è sufficiente per competere nel mondo globale del’economia. Altri elementi vanno affiancati alla mera conoscenza della lingua straniera: project management, marketing internazionale, studi di fattibilità e business planning, customer relationship, innovazione (vendite online etc.), fisco e finanza (iva intracomunitaria, procedure doganali, pagamenti internazionali, pax planning, controllo di gestione e rischio cambio, logistica ( trasporti internazionali), legale (marchi, brevetti e trasferimento know- how, normativa per gli appal-


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IMPRENDITORIA

ti internazionali, contrattualistica internazionale e legislazione europea). I contratti esteri sono una materia molto delicata; un contratto internazionale redatto da un giurista competente che sappia affrontare qualsiasi tipo di mercato, che abbia la conoscenza delle clausole internazionali adatte a qualsiasi tipo di affare, semplificherebbe e renderebbe più sicuro il percorso verso i mercati globali di una impresa. La redazione del contratto necessita di grande accortezza e competenza poiché le clausole in esso inserite regolamenteranno ogni aspetto del rapporto, in primis la legge applicabile e la giurisdizione competente in caso di controversie. Le problematiche connesse al processo di internazionalizzazione impongono il ricorso a figure pro-

fessionali competenti e qualificate, come il giurista d’impresa, in grado di supportare l’imprenditore in qualsiasi scelta; figure non necessariamente strutturate all’interno dell’impresa; spesso sono le Camere di Commercio più lungimiranti ad occuparsi di formazione professionale e supporto alle imprese in questo settore. Gli incentivi economici all’internazionalizzazione d’impresa sono piuttosto frammentari, dipende dalla politica economica regionale che ovviamente varia da Regione a regione, così può accadere che due imprenditori italiani si incontrino ad una fiera internazionale in un Paese estero e uno abbia il voucher regionale che gli copre tutte le spese e l’altro no. Un altro aspetto fondamentale del processo di internazionalizzazione è rappresentato dagli investimenti che l’azienda deve realizzare per il suo sviluppo e dalle garanzie e assicurazioni del credito volte a tutelare l’impresa dai rischi legati alla scarsa conoscenza della clientela dei mercati internazionali. L’operatore principale che si occupa della gestione delle assicurazioni sui rischi commerciali è la Sace, l’ente pubblico economico sottoposto alla vigilanza del Ministero dell’Economia e delle Finanze. L’ente si rivolge a tutti gli operatori nazionali, agli esportatori ed investitori italiani all’estero e alle banche italiane e estere ed alle finanziarie non nazionali. Recentemente la Sace ha creato un nuovo fondo per l’internazionalizzazione delle Pmi: “Fondo sviluppoexport” che oltre alla garanzia in favore di intermediari creditizi, anche attraverso formule finanziarie innovative: sottoscriverà, titoli obbligazionari emessi da imprese non quotate ma con vocazione all’export e allo sviluppo internazionale. Il fondo ha una dote di 350 milioni di euro che potranno essere stanziati anche dal Fondo stesso come investitore diretto.


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UNA CASA PER SPONGEBOB ANCHE IN ADRIATICO

L’ oasi marina di Cologna è una riserva biologica vitale dove abiterebbe volentieri anche il personaggio dei cartoons

TERRITORIO

ALFONSO ALOISI

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a buona intesa fra Comuni, Provincia di Teramo e Istituto Zooprofilattico ha consentito di realizzare dieci anni or sono, tra il mare di Giulianova e di Roseto degli Abruzzi, l’oasi marina di Cologna. La terza in ordine di tempo messa a punto lungo la costa teramana dopo quelle di Martinsicuro e Silvi. L’oasi sommersa, posizionata a tre miglia dalla costa ad una profondità media di tredici metri ed estesa per circa due miglia di lunghezza e mezzo miglio di larghezza, ha tracciato una nuova cultura della pesca, soprattutto per ciò che riguarda il settore relativo alla cosiddetta “piccola pesca”. In pratica è stata lanciata, attraverso l’operazione “oasi marine”, una nuova filosofia sulla gestione delle risorse del mare anche come patrimonio ambientale e biglietto di presentazione in ambito turistico. Si è avviato

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anche un rapporto nuovo con le marinerie locali, coinvolte direttamente nei progetti di ripopolamento anche attraverso la realizzazione futura di allevamenti di acquacoltura. Così poco distante dal porto di Giulianova è nata l’oasi per il ripopolamento della fauna marina. Come accennato, le prime due sono ubicate tra Martinsicuro e Villa Rosa e l’altra fra Pineto e Silvi. Esperienze multiple che pongono il territorio costiero teramano all’avanguardia nell’ambito mare Adriatico. La vita nelle oasi viene costantemente monitorata dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise, grazie al suo Centro biologico delle acque sotto la direzione di Carla Giansante responsabile del progetto. Le strutture sottomarine - costate circa 500 mila euro, finanziate in buona parte dalla Regione con fondi Docup - nascono per proteg-


nell’oasi trovano le condizioni ideali per riprodursi, protette dalle barriere di questo ampio rifugio sottomarino. I tecnici dell’Istituto hanno registrato anche la presenza diffusa di pesci tipici e pregiati dei fondali rocciosi: ombrine, mormore, saraghi e scorfani. All’interno di questa immensa casa subacquea si forma una naturale catena alimentare: la flora e la microfauna delle rocce e dei massi sistemati nel fondale diventano cibo per i pesci che hanno nei pressi il loro habitat. Blocchi di calcestruzzo e massi naturali costituiscono la struttura delle oasi marine ed il loro posizionamento in forma piramidale impediscono la pesca a strascico che, pur essendo vietata nella zona dell’oasi marina, in realtà viene normalmente praticata. Dal monitoraggio effettuato sembrerebbe che almeno 24 persone che praticano la piccola pesca possono

trarre un buon reddito dalla vita e dallo sviluppo di ciascuna oasi. Nella relazione a suo tempo predisposta dalla dottoressa Carla Giansante si pone l’accento sui vantaggi prodotti dalle barriere artificiali: protezione dalla pesca a strascico, protezione e sviluppo delle risorse acquatiche, compreso il ripopolamento, l’effettivo incremento della quantità di pesce disponibile anche nella zona esterna intorno alle barriere, protezione della biodiversità e della genetica delle popolazioni anche a garanzia delle future generazioni soprattutto in zone depauperate per l’eccessivo sforzo di pesca, possibilità di concessione della zona di mare ad associazioni di pescatori dediti alla piccola pesca differenziata per la raccolta o l’allevamento di specie ittiche, di molluschi bivalvi e di molluschi gasteropodi, possibilità di utilizzo della zona di mare a scopo ricreativo per i pescatori sportivi e per i subacquei. Chi frequenta spesso l’oasi marina posta tra Giulianova e Cologna è sicuramente l’Associazione “Up and Down” che ha seguito da vicino la nascita e lo sviluppo del progetto. Giuseppe Di Filippo, presidente dei subacquei giuliesi, afferma che flora e fauna si sono impossessate alla grande delle strutture sommerse arricchendosi così di varietà tipiche del mare Adriatico con presenze insperate anche di aragoste. Lo stesso Di Filippo sottolinea anche i vari controlli effettuati: subacquei e di superficie, questi ultimi attraverso l’utilizzo di reti per la cattura di esemplari da catalogare secondo le dimensioni. La zona non è presidiata e quindi sono consentite attività varie come la pesca sportiva ed attività subacquea con studio dell’habitat, riprese fotografiche e filmati. Proprio l’Associazione “Up and Down” svolge attività didattica subacquea grazie alla presenza di tali barriere. Dice Di Filippo: “Ovviamente siamo alla mercé del moto ondoso e della visibilità, ma è per noi l’unico sito utile tenuto conto del fondale notoriamente sabbioso dell’Adriatico”. Ma lo stesso Di Filippo pone l’accento su un altro aspetto molto importante: “L’Abruzzo sul versante “ambiente” offre tantissimo al turismo. Il mare, in particolare, rappresenta un grande volano per l’economia offrendo notevoli opportunità di lavoro con la nota accoglienza sulle spiagge sabbiose e ben attrezzate, producendo in allevamenti pesce pregiato e mitili, oltre alla raccolta delle vongole. In questo scenario l’unico vuoto è l’assoluta mancanza di luoghi idonei per svolgere attività sportiva subacquea. Non va dimenticato che nel 2012 la Regione Abruzzo ha emanato un bando per il rafforzamento della barriera di Cologna tramite affondamento di relitti preventivamente bonificati. Purtroppo la gara è andata deserta più volte ed il relativo finanziamento perduto. Nonostante ciò –conclude Di Filippo- numerose associazioni subacquee sono sorte nella nostra regione sopperendo all’assenza di idonee infrastrutture, con nuove idee ed adattamenti, dettati da sola passione e voglia di fare”.

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gere e sviluppare le risorse del mare, migliorare l’ecosistema, stimolare la biodiversità e proteggere la fauna stanziale dalla pesca a strascico. “Incrementando varietà e quantità di specie nelle zone dove vengono realizzate – ha spiegato Carla Giansante che è biologa del Centro delle acque dell’Istituto Zooprofilattico – le oasi finiscono per rappresentare un valido supporto per l’economia di settore. In prossimità delle barriere artificiali le catture delle specie aumentano da 10 a 42 volte; si registra, quindi, un concreto incremento della quantità di pesce disponibile nella zona esterna a quella protetta”. Dunque, le oasi sono un vero e proprio rifugio per sogliole, capponi, triglie, cicale di mare, naselli che sono le specie autoctone che


FISA E CORNO DEL MAESTRO CHE MUOVE L’ARIA STEFANIA MEZZINA

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S Sergio Capoferri e il suo amore per i due strumenti del folck

ergio Capoferri, 45 anni e 41 di musica: il suo sogno da bambino era di impossessarsi della musica, di farla sua, principalmente suonando la fisarmonica; poi è arrivato il corno, ma le sue mani e la sua anima sono padroni di qualunque strumento e quel bambino ha trasformato passione e sogno nella sua professione. Oggi realizza progetti e concerti nel nome della melodia popolare e della grande tradizione classica, nelle Marche, in tutta Italia e in Europa, affinché il suo suono, la sua musica, l’espressione della sua arte, possano raggiungere il pubblico. Una passione nata a 4 anni, sui campi di proprietà del Conte Saladini Pilastri, a San Benedetto del Tronto, coltivati dal padre Francesco proseguita nell’impegno come autodidatta, tra i concorsi di paese, sino ai Corsi di Perfezionamento con il M° Fisarmonicista Frederic Gerueot, e con il M° Salvatore Accardi. Da cosa prende spunto la tua passione per strumenti così inusuali tra i giovani, come la fisarmonica e il corno? “Nella mia famiglia erano patiti di musica popolare; mia nonna e mio zio suonavano il cembalo e quest’ultimo era anche appassionato di organetto. Loro suonavano nei momenti di aggregazione contadina, alla vendemmia e ai raccolti in genere: io avevo 3 anni, quando chiesi a mio padre di suonare alla festa dell’uva di Spinetoli. Ricordo sempre con piacere, ma all’epoca per me si trattò di uno scherzo che mi fece disperare, quando i miei zii, convinti che il mio fosse

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un capriccio di bimbo, mi illusero di aver commissionato per me un organetto alla ditta Armando Ianni di Giulianova. Fu proprio la mia disperazione che convinse mio padre ad assecondare la mia reale volontà di suonare. Una passione che hai coltivato con un lungo impegno negli studi? “Il mio primo insegnante è stato un autista innamorato dell’organetto e della fisarmonica. A 4 anni mi esibii in piazza a Fermo: suonavo l’organetto e siccome il pubblico non mi vedeva, mi fecero salire sopra un tavolo. A 7 anni ho iniziato gli studi classici, sempre con la fisarmonica, con la professoressa Anna Maria Pirozzi, all’Istituto Bozzoni di San Benedetto del Tronto, l’attuale Vivaldi, e suonavo con i gruppi, tra gli adulti, alle gare di organetto. A 8 anni ho iniziato a partecipare con successo ai concorsi di fisarmonica. A quei tempi lo studio della fisarmonica non era riconosciuto e così mi consigliarono di frequentare un corso di strumenti antichi, cioè il corno; nel frattempo avevo imparato a suonare da solo la tromba. Con il suono del corno è culminato il mio amore per la musica”. L’amore per il corso ti fece sceglier di non andare in Francia a suonare la fisarmonica? “A 13 anni e per 3 anni ho frequentato corsi di perfezionamento organizzati dal Conservatorio “Santa Cecilia” presso l’istituto della Scuola di Norcia, con il M° Fisarmonicista Gerueot: fu lui a chiedermi di andare a suonare in Francia, ma io lo feci sporadicamente, in quanto mi ero già appassionato al corno.


Uno strumento studiato a Roma, con il M° Accardi (1° Corno Solista dell’ Orchestra del Accademia Nazionale Santa Cecilia).

per solista: voglio trasmettere ai più piccoli la stessa passione suscitata in me dalla musica”. Il tuo sogno nel cassetto? “Organizzare una orchestra sinfonica provinciale, che coinvolga anche gli archi, e mettere in scena nuovamente, con l’Orchestra Riviera delle Palme, il concertone già allestito a San Benedetto in occasione dei 150 anni dell’Unità di Italia”. Il maestro Capoferri svolge anche attività didattica, presso l’Istituto Materno “Divino Amore” a San Benedetto, collabora con la Corale “Riviera delle Palme ed è Direttore di esecuzione e responsabile del progetto con la Tekne Junior Orchestra di Ascoli Piceno, oltre a scrivere brani per i bambini.

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Cosa vedi nel tuo presente e nel tuo futuro? “Il presente è un passato recentissimo, il mio impegno in Germania, per quattro concerti nel territorio di Colonia, con il quartetto “Mantice”, fiati e chitarra, dove abbiamo proposto un originale mio arrangiamento del Concerto per corno e orchestra di Mozart, e dove abbiamo suonato anche musica barocca con le fisarmoniche. In passato ho suonato anche in Danimarca, Francia, Austria e Cecoslovacchia. Il mio futuro è il progetto che ho in animo di sviluppare con l’Orchestra Riviera delle Palme fondata a San Benedetto del Tronto e con questo obiettivo ho avuto un primo approccio al Ministero dei Beni culturali, a Roma. Se andrà in porto, l’orchestra composta da 34 elementi, secondo i fondi disponibili, con formazioni tipo Decimino, Ottetti, farà parte di un progetto che coinvolgerà 22 comuni. Un progetto che si svilupperà con un ulteriore concerto dell’Orchestra Riviera delle Palme nel 2015, a San Benedetto: il primo, come solista, mi ha visto in scena con Edda Dell’Orso, cantante scelta da Ennio Morricone, e con il marito Giacomo, pianista e compositore dell’Orchestra Kramer. Inoltre, per accrescere la sensibilità verso lo studio di questi strumenti eccezionali intendo organizzare una serie di concerti


L’ARTISTA MULTIFORME PROTESO ALL’INFINITO Mauro Crocetta rivive nella casa museo di Martinsicuro che ospita le sue migliori produzioni

CINZIA ROSATI

TERRITORIO

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igure scarne, esili, allungate, in continua tensione verso un infinito tanto desiderato quanto irraggiungibile. Le sculture di Mauro Crocetta sono la rappresentazione visiva di un mondo i cui tratti sofferti e controversi l’artista ha descritto anche attraverso i versi poetici e i testi teatrali, in una vastissima produzione sottoposta alla più autorevole critica nazionale (da Giorgio Barberi Squarotti a Carlo Bo, da Vittorio Sgarbi ad Armando Ginesi, sono numerosi gli autori che si sono interessati all’artista pugliese). A Martinsicuro, Crocetta ha vissuto l’ultima parte della sua vita, ed è proprio qui che, dopo la sua scomparsa nel 2004, ha lasciato gran parte del suo vasto patrimonio artistico, umano, ideologico, conservato in quella che fu la sua casa, il suo laboratorio, il suo studio e che oggi è un museo per volere della moglie, Maria Rosaria Sarcina. Conoscere Mauro Crocetta è compiere un percorso intellettuale nell’abitazione in località “case Feriozzi”, uno degli insediamenti urbani più antichi di Martinsicuro, dove l’artista, a fine anni 80, inizio ’90, scelse di vivere con la sua famiglia: un antico palazzo in cui secoli di storia locale si intrecciano con l’arte e la cultura di Crocetta, raccontandosi reciprocamente in un’atmosfera carica di pathos. L’amore per la poesia è elemento caratterizzante della sua intera produzione artistica: i primi componimenti risalgono all’età di 16 anni, e i versi saranno poi presenti anche nei romanzi e nei testi teatrali, fino ad assumere forma plastica nelle sculture, secondo quella che è stata definita dallo stesso artista la “Poesia della forma” e la “Forma poetica”: «La necessità di toccare con mano i miei pensieri – afferma lo stesso artista in uno dei suoi scritti - di rendere tangibili le emozioni, di esprimere compiutamente ciò che la parola a volte, dimostrandosi inadeguata non può, è stata la ragione primaria della mia passione per la scultura». E l’essenzialità dei suoi versi, scarni, netti, essenziali, puri, viaggia di pari passo con le sculture, che assumono nello spazio forme allungate e filiformi, in una continua tensione verso l’assoluto, in un tentativo (vano) di allontanarsi o estraniarsi da una realtà spesso dolorosa, ingiusta, opprimente. Quelle stesse forme, apparentemente così fragili, sono eppure solide nello spazio e nel tempo, con le nodosità delle giunture e l’aspetto rugoso dei corpi, a ricordare gli alberi di ulivo tanto cari all’artista pugliese. Nella produzione artistica di Crocetta sono pre-

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1-2 foto di Cinzia Rosati

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senti riferimenti classici che si fanno estremamente attuali: nei Miti, ad esempio, la scultura e la poesia si fondono in maniera indissolubile e i vari personaggi della mitologia classica raccontano storie di estrema attualità: l’incoscienza giovanile e ardimentosa di Icaro, l’amore struggente di Cadmio ed Armonia, il sentimento tormentato ed incestuoso di Mirra, la drammatica ambiguità del corpo di Ermafrodito. Pubblicazioni in versi e rappresentazioni scultoree che si completano vicendevolmente. La sensibilità dell’artista e il dolore che avverte verso una realtà cruda e spietata, fatta di violenze e soprusi, viene esternata anche attraverso opere di denuncia sociale, quali “Desolazione”, “Lager”, “1991 Guerra del Golfo”, “Fuga dal nucleare”, “Diaspora”. L’autore però lascia sempre intravedere uno squarcio di speranza proiettata verso un’esistenza migliore, di riscatto dagli errori ed orrori terreni. Una produzione artistica dunque vasta e complessa, quella di Mauro Crocetta, che spazia dalla poesia ai romanzi, dai saggi ai testi teatrali, passando dalla scultura e che la Fondazione Mauro Crocetta, istituita qualche anno fa a Martinsicuro per volere della moglie dell’artista, si prefigge di promuovere e divulgare grazie a numerose iniziative culturali organizzate sul territorio. La casa museo è visitabile su prenotazione contattando il numero 0861796921 o l’indirizzo mail fondazionemaurocrocetta@gmail.com


“Un pessimista vede la difficoltà in ogni opportunità; un ottimista vede l'opportunità in ogni difficoltà.” Winston Churchill

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LA SATIRA DI PERILLI


IL QUARTETTO BIANCO CHE FA MUSICA NERA

I Pepper and the Jellies ripercorrono il jazz degli anni Venti

Quando è nato il progetto e perché avete deciso di dedicarvi alla musica jazz? Il progetto è nato nel 2013, inizialmente eravamo in tre, poi si è aggiunto un nuovo elemento come il contrabbasso. Il nostro progetto è mirato alla musica blues, jazz, soul dei primi del Novecento, perché è da lì che arrivano tutte le influenze musicali che poi convergono in qualsiasi genere, anche in quello più moderno. C’è stato un percorso di ricerca dei canoni estetici della musica jazz.

Da quanti elementi è composta la band? Siamo in quattro: Ilenia Appicciafuoco alla voce e al washboard, Marco Galiffa alla chitarra e al benjo, Andrea Galiffa alle percussioni e Emiliano Macrini al contrabbasso. Ognuno di noi ha una formazione musicale diversa e all’inizio di questo progetto abbiamo dovuto trovare un punto d’incontro, ma siamo riusciti nell’intento e il tutto funziona perché ognuno ha un suo ruolo ben definito. Abbiamo deciso di aggiungere alcuni strumenti particolari che riportino le sonorità tipiche dell’epoca, come il washboard, ad esempio, tenendo sempre presente che al centro di tutto c’è il ritmo, lo swing. In Italia oltre voi ci sono pochi altri gruppi di musica jazz anni ’20. Avete partecipato a festival internazionali come il “ Birmingham Jazz Festival”. Come ha risposto il pubblico inglese alla vostra presenza? Il pubblico è stato straordinario, erano tutti entusiasti e siamo rimasti molto colpiti. Abbiamo suonato per più date e abbiamo visto che c’erano persone che tornavano tutti i giorni ad ascoltarci. Poi in Inghilterra, come un po’ in tutta l’Europa, il jazz è uno stile di musica molto seguito e amato da tutti. Progetti futuri? Iniziare a scrivere dei nostri pezzi basati sui temi nodali della musica Jazz e poterli presentare al nostro pubblico. Qualcosa è già uscito, come ad esempio il brano blues “Bouble River Blues”. E per chi volesse ascoltarli può vistare la loro pagina fb Pepper and The Jellies e sul sito internet: http//pepperandthejellies.weebly.com/

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PEOPLE

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ll’inizio era il Jazz. Come la storia insegna, la musica - anche la più moderna - affonda le sue radici nel jazz. Siamo negli anni Venti, negli stati del Sud degli Stati Uniti. La popolazione è mista, frammentata: ci sono i bianchi e ci sono le minoranze nere afroamericane che si sentono ai margini della società, senza valori, criminali e portatori del peccato, che si muovo di notte in quell’ambiente periferico e suburbano che tanto spaventa gli statunitensi bianchi. Proprio in quei locali malfamati e di poco conto nasce una dei movimenti musicali più importanti di tutti i secoli: il jazz. Nomi importanti come Sidney Bechet, Duke Ellington e Louis Armstrong saranno complici dell’esplosione del jazz, che nel corso del ventesimo secolo ha visto assumere una valenza sempre più di rilevo. Dalla voglia di revocare gli anni ‘20 parte il progetto di quattro ragazzi che insieme formano i “Pepper and The Jellies”. In loro c’è la voglia di riportare le espressioni tipiche del movimento e farle conoscere al pubblico, attraverso l’utilizzo di strumenti tipici della musica jazz, come il kazoo o il washboard che regalano così quelle sonorità inconfondibili che accompagnano la straordinaria voce della cantata Ilenia.

MARTINA DI DONATO




BELLEZZA

SHIATSU, SALUTE!

Dal Giappone la tecnica curativa che passa dalle dita NOEMI DI EMIDIO*

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l massaggio, qualsiasi esso sia, ha effetti benefici polisensoriali e fisiologici importanti, una lunga carica di energia per il corpo e la mente, una vera e propria terapia dei sensi che fa riscoprire corpo e mente come un’entità unica. Il massaggio shiatsu fa parte della categoria dei massaggi orientali, ha origini giapponesi nei primi decenni del Novecento. Il termine shiatsu è composto da due vocaboli “shi” che in giapponese significa “dita” e “atsu” che invece vuol dire “pressione”. E’ una forma di terapia manuale che sfrutta la pressione benefica delle dita in specifici punti del corpo, caratterizzato da una tecnica di massaggio tradizionale giapponese, che prevede una pressione statica, da una parte di tecnica occidentale che prevede una mobilizzazione articolare e alcune tecniche utilizzate in terapia riabilitativa e chiropratica. Grazie alla sua potente azione benefica, lo shiatsu offre un efficace contributo per la cura, la prevenzione e il mantenimento della salute. Il massaggio shiatsu sfrutta alcuni principi base dell’agopuntura. La sua teoria prevede che il nostro corpo è attraversato da meridiani che trasportano l’energia; dodici meridiani ognuno dei quali è collegato alle funzioni di un organo o gruppi di organi. Quando a causa di uno squilibrio fisico o mentale, di una malattia o un trauma, l’equilibrio energetico del

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corpo si altera, nel massaggio vengono esercitate diverse pressioni su specifici meridiani in modo di riequilibrare l’energia che scorre su di essi. In ogni trattamento si effettua un riequilibrio completo di tutto il sistema di meridiani, indipendentemente dalla zona del corpo in cui si verifica il problema. Il trattamento shiatsu dona un benessere psicofisico generale, stimolando positivamente le persone, rafforzando la mente e il corpo. Ha effetti rilassanti: combatte lo stress, migliora il metabolismo, ha effetti positivi sul nostro sistema immunitario, migliora la capacità degli individui sul lavoro e lo sport, favorendo l’apprendimento e la concentrazione. E’adatto a tutti: giovani e anziani. Per potenziare le azioni benefiche dello shiatsu possono essere d’aiuto lo stretching e lo yoga, due discipline che agiscono positivamente sui canali energetici. Il massaggio shiatsu è particolarmente indicato in caso di mal di testa, mal di schiena, problemi digestivi o intestinali, ma anche per contratture, distorsioni, stiramenti. Inoltre allevia il dolore in caso di reumatismi o gambe pesanti. Per questi trattamenti bisogna affidarsi sempre a professionisti altamente qualificati. *(estetista)


QUELLI CHE IL MURETTO E’ UN FOGLIO A3

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uando si parla di ”Arte di strada” ci si riferisce a tutte quelle forme di comunicazione artistica che si rendono note nei luoghi pubblici, il più delle volte illecitamente, attraverso vari strumenti e tecniche: adesivi murali, lattine spray, maschere normografiche, proiezioni video, sculture ecc. Ogni artista di strada ha le proprie motivazioni personali, che possono essere molto varie. Alcuni la eseguono come forma di ribellione, di disapprovazione; altri lo fanno unicamente per esprimere se stessi ed esporre il proprio modo di vivere nella città e nel proprio territorio ed essere cosi riconosciuti da un vasto numero di persone. Ma da dove proviene tale pratica? Le sue origini sono spesso legate al degrado urbano ed alla scelta di utilizzare grandi spazi vuoti da parte di molti artisti. Il graffitismo sboccia negli Stati Uniti alla fine degli anni 60, per poi espandersi nei quartieri più degradati di New York e arrivare in Europa negli anni 70 diventando espressione di un mondo giovanile all’insegna del tribalismo moderno, della ritualità legata a stili di vita specifici e ai movimenti giovanili, ma dagli anni 90 assume diverse declinazioni, diventando sempre più un fenomeno di contestazione politica. Questo fenomeno segnala oggi un desiderio di identità? E’ una riflessione rispetto all’enorme sviluppo che tale manifestazione sta avendo in questo periodo storico, in cui spesso non riusciamo a definirci in un’identità ben circoscritta e soprattutto i giovani la vedono sempre più sfumata, con un bisogno importante di ri-marcarla. Infatti, gli obiettivi dei cosi chiamati writers sono di raggiungere una certa considerazione non solo all’interno del proprio ambiente ma far conoscere le proprie opere e la loro firma (tag) a chiunque. Tra gli artisti di strada vigono anche delle regole, infatti, è fondamentale il rispetto e il non sovrastare il lavoro di un altro writer. Quando ciò avviene, possono esserci degli scontri tra di loro. L’arte su strada è soprattutto espressione di se stessi, della propria interiorità. Un’interiorità che non sempre corrisponde ad intenzioni armoniose per cui ci sono delle differenze in ciò che si vuole esprimere, poiché c’è chi lo fa per sfregio e quindi come atto di vandalismo e chi invece lo fa con il proposito di migliorare un paesaggio che si ama e che non si vuole vedere degradato, inserendo dei colori, anche se questo poi provoca effettivamente invasioni di edifici pubblici e privati. Il soggetto, le cui intenzioni sono poco armoniose, agisce in maniera impulsiva ed è dipendente, in altre parole pur sapendo il rischio a cui va incontro macchiando i beni della comunità, non può astenersi dall’agire. Le cause che portano tali soggetti ad intraprendere questi tipi di comportamenti sono da ricercarsi nella solitudine, noia, senso di vuoto. I dati evidenziano la presenza in tali giovani di uno spiccato tratto eccitatorio-compulsivo e modalita’ legate al bisogno urgente di gratificazione immediata in opposizione al senso di vuoto, di noia, alla

La Street Art come estensione del sè Psicoterapeuta * Bibliografia BORGNA E., Come se finisse il mondo. Boringhieri. Torino, 1995. ECO U., I limiti dell’interpretazione. Bompiani, Milano, 1990. FORNARI B., FORNARI F. Psicoanalisi e ricerca letteraria, Principato, Milano 1997

solitudine, alla mancanza di riferimenti interiori. Alcuni esempi di sculture sui muri, le cui intenzioni di chi le ha generate ha migliorato l’ambiente e la sua percezione, sono invece quei graffiti che hanno riqualificato aree degradate come il quartiere Isola di Milano, dove un intero tunnel ospita favolosi esempi di Street Art e Street Poetry. Secondo una visione psicoanalitica, nell’azione creativa dell’artista è coinvolta tutta la sua personalità, in un processo in cui campo cognitivo e campo affettivo si fondono dando vita ad una unicità di linguaggio personale che diventa sociale e condiviso da molti a vari livelli. Secondo molti i writers imbrattano e non creano niente di positivo, ma in alcune città, come Torino, esiste la possibilità di iscriversi ad un progetto molto particolare, ossia avere a disposizione un muro assegnato dove dare sfogo e libertà alla propria portata artistica, a patto che si rispetti la correttezza e non si disegnino soggetti volgari o si facciano scritte offensive. Come ogni forma d’arte credo che la vera essenza delle Street Art, debba essere lontana da atti vandalici o dall’intenzione di sporcare edifici pubblici a scopo denigratorio, quanto invece di abbellire zone rendendole colorate ed originali soprattutto se questo parte da una richiesta di un progetto o di proprietari privati o pubblici. La cultura delle Street Art non riguarda sporcare in giro le pareti ma colorare artisticamente e dare simbolismo comunicativo a strutture che altrimenti rappresenterebbero un degrado sociale e che invece acquistano un significato particolare.

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DIALOGO

VIRGINIA MALONI*


EVENTI IN VAL VIBRATA MARTINA DI DONATO

ASCOLI PICENO Lo stadio De Luca è lieto di ospitare l’incontro di rugby Italia- Samoa che si terrà sabato 8 novembre, alle ore 15.

CONTROGUERRA Domenica 9 novembre si terrà la 18esima corsa di San Martino, divenuta un evento di rilievo per appassionati e professionisti. Il numero dei partecipanti, infatti, aumenta di anno in anno. Quest’anno saranno introdotte delle interessanti novità come la presenza dei pacemaker, la collaborazione con la maratona di Firenze e la presenza di Franco Bragagna come ospite d’onore. Il ritrovo è previsto per le ore 8.30 presso la piazza del Commercio (Controguerra)

CIVITELLA DEL TRONTO Continuano le viste guidate Wild con il falconiere Giovanni Granati e i suoi lupi, falchi e gufi. L’incontro di novembre si terrà domenica 16 novembre, alle ore 10.30. Ingresso a pagamento. Venerdi 31 ottobre presso la Fortezza di Civitella del Tronto si svolgerà l’annuale festa di Halloween. Si inizia alle ore 17 con l’animazione per bambini e so prosegue alle ore 21 con la musica del dj Maga fino alle ore 3. Saranno presenti stands enogastronomici . Entrata con consumazione 5 euro. Largo Vinciguerra,ingresso dalle scale mobili.

SANT’EGIDIO ALLA VAL VIBRATA Il 31 ottobre presso il Dejavu drinkandfood si svolgerà una serata all’insegna della buona musica. Si esibiranno, infatti, tre gruppi di rilievo nel panorama musicale come: i Kutso, La Rua e i Rainska. La serata è organizzata all’interno dell’edizione invernale del progetto Onirico Festival. Inizio ore 22. Ingresso gartuito Il 7 novembre, invece, sarà la volta del gruppo pugliese La Fame di Camilla.

SANT’OMERO Il 26 ottobre si terrà l’annuale passeggiata “Itinerari di…vino”. L’incontro è previsto per le ore 8.30 presso la piazza XXV Aprile di Garrufo di Sant’Omero e da lì si proseguirà per le cantine garrufesi e toranesi. Il 31 ottobre alle ore 18 presso la Sala Marchesa di Sant’Omero, si svolgerà la serata conclusiva del progetto culturale “Mondo d’autore”. Ospite di questa conferenza sarà il filosofo ed economista Serge Latouche, sostenitore della teoria della decrescita felice.


BUONI A NULLA

COMING SOON

DATA USCITA: 23 ottobre 2014 GENERE: Commedia ANNO: 2014 REGIA: Gianni Di Gregorio SCENEGGIATURA: Giovanni Di Gregorio ATTORI: Gianni Di Gregorio, Marco Marzocca, Valentina Lodovini, Daniela Giordano, Gianfelice Imparato, Marco Messeri, Camilla Filippi, Anna Bonaiuto Quante ingiustizie deve ancora subire il povero Gianni? Dai colleghi d’ufficio, alla vicina di casa pestilenziale, fino alle pretese impossibili della ex moglie, le angherie quotidiane sono infinite. Marco invece é un uomo buono, gentile, indifeso. Innamorato di Cinzia la giovane collega che lo schiavizza e lo illude. Bisognerebbe arrabbiarsi e imparare a farsi rispettare, ma come si fa? Da soli è difficile ma forse unendo le forze...

THE JUDGE

Hank Palmer è un affermato avvocato difensore di criminali. Quando torna nella piccola città d’origine per i funerali della madre, ad attenderlo trova il padre Joseph, stimato e onesto giudice, e i suoi due fratelli. Il rapporto con il padre è freddo e conflittuale, ma quando l’uomo viene accusato di omicidio, Hank decide di restare e aiutarlo difendendolo in tribunale. Il criminine di cui è accusato riguarda un omicida che lui stesso aveva condannato vent’anni prima. Il giudice non ricorda nulla e Hank è l’unico che crede nella sua innocenza.

GUARDIANI DELLA GALASSIA DATA USCITA: 22 ottobre 2014 GENERE: Azione, Fantascienza ANNO: 2014 REGIA: James Gunn SCENEGGIATURA: James Gunn ATTORI: Chris Pratt, Zoe Saldana, Bradley Cooper, Vin Diesel, Lee Pace, Dave Bautista, Benicio Del Toro, John C. Reilly, Djimon Hounsou, Glenn Close, Michael Rooker, Ophelia Lovibond, Peter Serafinowicz, Gregg Henry, Ralph Ineson, Sean Gunn, Lloyd Kaufman L’audace esploratore Peter Quill è inseguito dai cacciatori di taglie per aver rubato una misteriosa sfera ambita da Ronan, un essere malvagio la cui sfrenata ambizione minaccia l’intero universo. Per sfuggire all’ostinato Ronan, Quill è costretto a una scomoda alleanza con quattro improbabili personaggi: Rocket, un procione armato; Groot, un umanoide dalle sembianze di un albero; la letale ed enigmatica Gamora e il vendicativo Drax il Distruttore. Ma quando Quill scopre il vero potere della sfera e la minaccia che costituisce per il cosmo, farà di tutto per guidare questa squadra improvvisata in un’ultima, disperata battaglia per salvare il destino della galassia.

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CINEMA

DATA USCITA: 23 ottobre 2014 GENERE: Drammatico ANNO: 2014 REGIA: David Dobkin SCENEGGIATURA: Nick Schenk, David Seidler, Bill Dubuque ATTORI: Robert Downey Jr., Robert Duvall, Leighton Meester, Billy Bob Thornton, David Krumholtz, Vera Farmiga, Melissa Leo, Vincent D’Onofrio, Sarah Lancaster, Dax Shepard, Balthazar Getty, Emma Tremblay, Jeremy Strong, Grace Zabriskie, Ian Nelson,Ken Howard


LI LIPÌ E LI NECELLE RICETTE DELLA MEMORIA

FRANCESCO GALIFFA

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ei precedenti articoli mi sono interessato della storia dei sei legumi che più comunemente compaiono sulle nostre tavole; non posso esaurire l’argomento senza un cenno sugli altri tre membri della famiglia delle Fabaceae, il lupino, l’arachide e la soia, i quali, per molti versi, narrano storie interessanti e intriganti. Il lupino (Lupinus albus) è una leguminosa da granella nota e diffusa fin dalla più remota antichità nel Bacino del Mediterraneo e nel Medio Oriente per la sua notevole adattabilità agli ambienti più ingrati, acidi e magri, dove ogni altra leguminosa fallisce. Esso era seminato, anche nelle nostre regioni, per il suo potere di ingrassare i campi, migliorando, così, la fertilità del terreno, come rimarcavano i nostri “amici” Berardo Quartapelle e Vincenzo Tanara, il quale nel XVII secolo, scriveva: «Ingrassa meglio, che qual si voglia cosa, e massime, le Vigne, perché non porge morbidezza, né calore, ma l’odore alle viti. Ingrassa ancora mirabilmente posto alle radici de gli arbori, & i frutti difende da infermità, e con la sua amarezza da animali nocivi, oltre che spegne ogni trist’herba, che vicina ci naschi». Questo legume era altresì coltivato per la sua capacità di produrre una granella ricchissima di proteine (fin al 35%), anche se non priva di vari inconvenienti. Infatti, i semi di lupino contengono alcaloidi amari e/o velenosi. Per eliminare il problema, Tanara consigliava di far bollire i semi nell’acqua e Quartapelle di tenerli a mollo per lungo tempo, affinché diventassero dolci, metodo valido ancora oggi. Sottoposti al trattamento, essi rappresentavano una sana e buona «nutritura ai buoi, ai cavalli, alle pecore, ed ai porci»; Quartapelle consigliava anche di disseccarli al forno, di macinarli e di somministrarne a questi animali una certa quantità mattina e sera. Sempre secondo il Nostro, questo cibo rendeva sode le loro carni e li

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ingrassava «prontamente». Meno comune era l’uso dei lupini nell’alimentazione umana, ma «In caso di gran penuria sono di gran sollevamento alla povertà», come scrive Vincenzo Tanara, il quale specifica anche che «Si mangiano, ancorché dolci, aspersi di Sale, per renderli più gustosi». Sono passati secoli, ma il modo migliore di gustare i lupini rimane sempre quello appena riportato! La farmacopea popolare del suo tempo, poi, riteneva che la farina di lupino rendesse «la pelle, e la carne morbidissima» e che il suo decotto debellasse la rogna. In Italia la coltura del lupino è crollata a seguito dello spopolamento delle aree svantaggiate e oggi “resiste” solo in poche regioni: Calabria, Lazio, Puglia e Campania. I lupini sono stati da sempre il passatempo gastronomico delle feste di paese, un cibo di strada per eccellenza al pari delle arachidi, la cui storia inizia in tutt’altra parte del Mondo. L’arachide (Arachis hypogaea), meglio conosciuta come nocciolina americana, è una pianta oleaginosa di importanza mondiale, originaria del Brasile, da cui si è diffusa negli altri continenti, in particolare in Asia e in Africa, dove si registrano le produzioni maggiori. In Italia la sua coltivazione, introdotta per la prima volta nel 1870 nei dintorni di Valenza (AL), ha avuto alterna fortuna, senza


mai assumere vaste proporzioni; oggi è seminata in alcune zone del Veneto e della Campania. La pianta delle arachidi presenta una curiosa particolarità perché i suoi fiori, dopo essere stati fecondati, si allungano fino ad introdursi nel terreno, dove crescono e maturano. Ne viene fuori un frutto dal colore giallo paglia, contenente generalmente due o tre semi, di forma ovale irregolare, ricoperti da una sottile pellicina rossiccia. Dopo la raccolta, le arachidi vengono fatte seccare al sole e poi sottoposte a una tostatura, che può essere più o meno forte, generando un gusto più o meno intenso. Le arachidi sono vendute con guscio, oppure sgusciate, e possono essere più o meno salate in superficie. Le arachidi salate sono più facilmente reperibili e più pratiche da consumare, ma vanno assunte con moderazione in quanto, essendo molto appetibili, è facile abusarne, eccedendo in calorie e sodio. Le arachidi in guscio sono molto più vantaggiose per la salute per l’assenza del sale e, soprattutto, perché, dovendole sgusciare, si rallenta la velocità di assunzione, prolungando il piacere con una quantità più limitata. In quest’ultima versione, sono le regine indiscusse delle feste paesane, dalle più grandi alle più piccole. Si acquistano ancora calde, richiamati dagli slogan di esperti tostatori, come i famosi Giorgini di Giulianova, e sono condivise con gli amici, passeggiando tra le bancarelle, sostando davanti al palco dove è in atto lo spettacolo o stando più comodamente seduti intorno ad un tavolo, stimo-

lati dalla voglia di accompagnare il loro consumo con un buon bicchiere di birra fresca. Esse, infine, entrano nel circuito delle industrie di trasformazione, le quali, dalla loro lavorazione ricavano interessanti prodotti come il burro di arachidi, e soprattutto l’olio di arachidi, tra i più apprezzati della categoria. Per dovere d’informazione, infine, è necessario fornire delle sintetiche informazioni sulla soia (Glycine hispida), la produzione agricola più antica della Cina, considerata, negli scritti di migliaia di anni fa, una delle cinque divinità vegetali, insieme a frumento, miglio, papavero e riso. La sua coltivazione è in costante crescita per la grande duttilità del prodotto; per questo motivo i semi di questo legume sono diventati monopolio delle grandi multinazionali del settore, come la Monsanto, la quale recentemente ha ottenuto dalle competenti autorità europee il via libera per la vendita, anche nel nostro continente, di varietà ogm. Nel mondo oggi si coltivano diverse varietà, dalle quali si ottengono svariati prodotti alimentari e derivati industriali. Nell’alimentazione umana della soia si usano i germogli come insalata, i semi come contorno o in varie preparazioni, la farina, ricavata dai semi sgrassati, nella confezione di pani e dolci e di alimenti dietetici. In Cina si prepara anche il latte di soia, dal quale si può ricavare un formaggio particolare.

COZZE FRITTE *

RICETTE DELLA MEMORIA

ALFONSO ALOISI

Con un coltellino a lama sottile aprire le cozze, togliere i molluschi dalle valve, lavare in acqua corrente e asciugare su un telo da cucina. Infarinare i molluschi, setacciarli al fine di eliminare la farina eccedente, passarli nelle uova sbattute e poi nel pangrattato. Friggere il tutto in una padella colma d’olio bollente. Ritirare con la paletta bucata, asciugare su carta assorbente da cucina, insaporire con un po’ di sale e servire all’istante per non perdere l’aroma. * ricetta di Emidio Carusi

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