Val Vibrata Life edizione Giugno 2014

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ValVIBRATA life

photo credit: Nicola Cericola

www.valvibratalife.com

GIUGNO 2014 MENSILE A DISTRIBUZIONE GRATUITA

TERRITORIO CULTURA ECCELLENZE AMBIENTE SOCIETA’

"IL MIO NOME È LEOPOLDO E SONO UNO ZEBPO"




GLI F35 SPICCANO IL VOLO E GLI F24 CI LASCIANO A TERRA

editoriale

SOVRAPPENSIERO

ALEX DE PALO

Ci sono una lettera e due numeri che dicono due cose opposte. Ma entrambe evocano denari. Dici F35 e pensi alle spese pazze della Difesa per i velivoli pronti a difenderci semmai spiccheranno il volo. Al costo di 9 miliardi di soldi nostri. Ma i Padri Costituenti non scrissero che L’Italia ripudia la guerra? Che ci facciamo allora dei cacciabombardieri? Ci sono poi gli F24, i modelli del Fisco per le tasse. Quelle che abbiamo pagato a giugno per Tari, Tasi, Imu e mini Imu e quelle che ritroveremo a luglio per l’Irpef. Questi “F” sì che ci lasciano col sedere a terra, che non faranno mai decollare l’Italia zavorrata da mille pesi fiscali: ci costano 57 miliardi. Lo Stato vuole difenderci dal cielo spendendo 9 miliardi, poi ci bombarda da terra chiedendocene 57. E’ la salassoterapia, brucia più del sole.

VAL VIBRATA LIFE Anno III Numero 22 DIRETTORE RESPONSABILE Alex De Palo HANNO COLLABORATO Alfonso Aloisi, Federica Bernardini, Anna Di Donato, Martina Di Donato, Noemi Di Emidio, Alessandra Di Giuseppe, Roberto Di Nicola,Francesco Galiffa, Giordana Galli, Virginia Maloni, Stefania Mezzina, Michele Narcisi, Nando Perilli, Cinzia Rosati, Andrea Spada, Paride Travaglini EDITORE Diamond Media Group s.r.l. Via Carlo Levi, 1- Garrufo di Sant’Omero (TE) Tel. 0861 887405 - redazione@diamondgroup.it VAL VIBRATA LIFE Reg. Trib. di Teramo n° 670\2013 GRAFICA Diamond Media Group s.r.l. STAMPA Arti Grafiche Picene s.r.l. PUBBLICITA’ info@diamondgroup.it RESPONSABILE TRATTAMENTO DATI Dlgs 196/03 Alex De Palo Riservato ogni diritto e uso. Vietata la riproduzione anche parziale


SOMMARIO

Giugno 2014

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I ROMAGNOLI I PRIMI ALBERGATORI IN VIBRATA

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LE OPERE DI MAURIZIO LINDNER

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GLI SCAVI DI RIPOLI

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INTORNO A UN CHICCO DI GRANO

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UN VIBRATIANO VINCE IL “CALVINO”

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VAL VIBRATA BABY

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ITALIAN FARMERS

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FONDO EUROPEO

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RE PAPAVERO FRA LE BIONDE SPIGHE

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GABRIELE BRANCATELLI E LA SUA MEDIATECA

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LA SATIRA DI PERILLI

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CINEMA

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DIALOGO

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BELLEZZA

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MODA

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RICETTE DELLA MEMORIA

RISPUNTA IL FASCIO LITTORIO

ZEBRA PONY

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08 16

ARRIVA L’ESTATE SULLA COSTA

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IL ROLLER DERBY DI ROMINA BOSICA

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EVENTI

IL MARATONETA MARIO BOLLINI

35 TRE VESCOVI, UNA VALLATA

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SUSHIMANIA


QUANDO I ROMAGNOLI GIOCAVANO A MONOPOLY Hanno comprato terreni paludosi da noi e costruito alberghi sulla costa vibratiana Ecco chi sono

TERRITORIO

STEFANIA MEZZINA

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li albergatori dell’Emilia Romagna negli anni ‘60 scelsero di investire sulla costa abruzzese. Alcuni per via dell’opportunità che dava loro la Cassa del Mezzogiorno, altri, in quanto innamorati del territorio. Tra le realtà ricettive storiche, a partire da Martinsicuro verso sud, c’è l’Hotel Olimpic, situato sul lungomare Italia, a Villa Rosa di Martinsicuro. E’ l’attuale proprietario, in prima linea nell’attività, Riccardo Silenzi, a raccontarci la storia dell’albergo. “L’Olimpic è nato negli anni ’60, era di proprietà dell’avvocato Dondi e negli anni ‘80 venne acquistato dalla famiglia Ricci, anche loro romagnoli come me e già attivi all’Hotel Eden di Alba Adriatica. I nuovi proprietari demolirono l’Olimpic nel 1985 e nel 1986 fu rifatto ex novo. Io lo acquistai ad aprile del ’90”, forte della mia esperienza nel settore, avviata nel 1952”. L’investimento di Riccardo Silenzi non è collegato alle opportunità della Cassa del Mezzogiorno, quindi a fondi perduti o mutui ad interessi favorevoli; “fu nel 1989, per la presenza della alghe, a Rimini, che mi scattò la molla e il desiderio di cambiare zona – spiega l’albergatore - un territorio che conoscevo e apprezzavo, essendo venuto negli anni ’70 ad Alba Adriatica in quanto ero amico del proprietario dell’hotel Excelsior, Marocchi. Una volta presa la decisione, nel 1989 venni a

Villa Rosa, appoggiandomi ai signori Baiocchi, che avevano un albergo, il Boston di Alba Adriatica, e cominciai a cercare la struttura ideale e la mia scelta cadde sull’Olimpic”. Ha qualche anno in meno, l’Hotel Maxim’s, situato sullo stesso lungomare di Villa Rosa. Nasce negli anni ’69, per la forte volontà dell’emiliana Franca Solieri, e il taglio del nastro avvenne il 28 maggio 1971. A raccontarci cosa portò la madre a compiere questo investimento è la figlia Manuela Malavasi, attuale proprietaria con il fratello Claudio: “mia madre non aveva assolutamente esperienza nel campo turistico, in quanto la sua attività era centrata nel campo della maglieria, a Carpi”. Ed è proprio il lavoro di maglieria della signora Franca il filo conduttore che porterà alla nascita del Maxim’s, in questo caso grazie all’opportunità fornita dalla Cassa del Mezzogiorno. “Tutto nacque perché mia madre veniva nel territorio a portare lavoro ai façonisti della Val Vibrata- spiega Manuela Malavasi - la zona le piaceva e ogni estate vi trascorrevamo le vacanze. Fino a quando volle acquistare il terreno per costruirci una casa. Ma l’area si rivelò molto grande rispetto al necessario, e così optò per la realizzazione di un albergo e per costruirlo ha usufruito della Cassa del Mezzogiorno, anche se si è sempre lamentata di aver ricevuto il finanziamento solo Giugno 1970


dopo l’ultimazione dei lavori, portati avanti grazie al lavoro della maglieria. In ogni caso, mia madre non si è mai pentita della sua scelta e ha considerato l’albergo come un terzo figlio. Per 10 anni a fine stagione siamo tornati a Carpi, per poi tornare all’avvio dell’estate ma ad un certo punto ci siamo stabiliti qui. Successivamente abbiamo acquistato il lotto a fianco, utilizzato come parcheggio auto e campo da tennis e piscina. Quando abbiamo aperto esisteva il lungomare e le strade limitrofe non erano asfaltate; la spiaggia era ricca di canneti e per arrivare al mare bisognava camminare a lungo”. Manuela Malavasi ricorda bene l’Hotel Olimpic, e pure lo Chalet Maria, altra realtà storica di Villa Rosa, di proprietà di Maurizio, cioè Maurizio di Romagna, che ancora lo guida, e ricorda anche gli hotel Corallo e Haway. “Anche queste realtà erano di proprietà di romagnoli - ricorda – il Corallo lo è tuttora, mentre l’Haway è stato venduto”. Ad Alba Adriatica, è l’hotel Excelsior a risalire agli anni ’60,

anche in quel caso il proprietario era un romagnolo, Marocchi, l’hotel Riccione è nato grazie ad una famiglia di emiliani, mentre l’hotel Boston ha visto la luce per volontà di Cesare Baiocchi di Rimini. La storia, seppur diversa in quanto Luigino Marconi non era romagnolo, può essere raccontata anche attraverso lo Chalet Gigino, stabilimento balneare ai confini tra Alba Adriatica e Tortoreto; a cavallo tra gli anni ’50- ’60, fu fondato da Luigino Marconi, detto Gigino, scomparso nel 2012, a 84 anni. Con il fratello, Gigino gestiva chalet e una pensione. Poi divisero le due realtà ricettive, e Gigino tenne solo lo stabilimento balneare, che negli anni ‘60/’70 era frequentato dal ballerino e coreografo americano Paul Steffen, con un nugolo di artisti al seguito e che successivamente fu venduto. All’epoca c’era il Punto G, che allora si chiamava la Lucciola, e ancora, Maristella, Garden e Conchiglia. Tutto ciò quando molte strade erano ancora imbrecciate e i lampioni issati su pali di legno.

“VENERE” IL PRIMO STABILIMENTO BALNEARE GIULIESE

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uando si parla di spiaggia ed ombrelloni a Giulianova, non si può fare a meno di pensare immediatamente allo stabilimento balneare Venere, autentico punto di riferimento per il turismo balneare da ormai 139 anni, 104 dei quali interessati dalla gestione della famiglia Flagnani che ha iniziato a gestirlo dal 17 luglio 1910, in tempo per vederne pubblicata una riproduzione nell’edizione del 1922 ed in quella del 1932 del Vocabolario della lingua Italiana Nicola Zanichelli, come illustrazione della parola “spiaggia”. La storia dello stabilimento balneare più antico di Giulianova, e certamente in buona posizione anche nella classifica di quelli più antichi d’Italia, inizia il 3 ottobre 1873 con lo stanziamento di fondi (500 lire) da parte dell’allora amministrazione comunale per la realizzazione del progetto dello stabilimento dell’architetto Vincenzo Cantalemessa di Ascoli Piceno, concluso nel 1875. Il primo slancio turistico e, quindi, anche dello stabilimento fino a quel momento guardato forse con un po’ di distacco dai giuliesi che non ne com-

prendevano ancora il valore sociale, si ha nel 1884, quando la realizzazione della tratta ferroviaria Teramo-Giulianova, trasforma la cittadina rivierasca in punto di riferimento di un turismo balneare che vedeva ancora le spiagge divise per sesso e forti limiti imposti da pudore e legge. Nel 1901 la gestione del Venere passa nelle mani di Andrea Bucci che, 3 anni più tardi, la cede a Sante Cicchetti e Antonio Lattanzi; il 17 luglio 1910 è la volta di Flaviano Flagnani che ne rileva la gestione assieme ad un suo predecessore, Andrea Bucci, e Giulio Federici. Durante la Seconda Guerra Mondiale la struttura, a quei tempi ancora costituita come palafitta, viene smontata e requisita quasi completamente per essere utilizzata come materiale bellico, infine nel 1947 una violenta tromba d’aria compromette completamente lo stabilimento e la famiglia Flagnani decide quindi di realizzare una costruzione in muratura che resiste ancora oggi al tempo ed è gestita dall’ultima generazione dei Flagnani, Bianca e Domenico.

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TERRITORIO

MARCO CALVARESE


È NATA UNA STELLA...

Si chiama Leopoldo, figlio di papà zebra e mamma del parco a Colonnella

TERRITORIO

STEFANIA MEZZINA

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eopoldo è un incrocio raro, tra una zebra maschio e un pony femmina, e due mesi fa, a Colonnella, ha visto la luce grazie all’accoppiamento tra la zebra Moggi, nome dettato non dalla fede calcistica del proprietario, bensì dal colore a strisce bianco e nere di Moggi, con Pallina, quindi mamma pony. Si è trattato di un evento raro, dunque, del quale abbiamo parlato con il proprietario, l’imprenditore Gianni Bernardini di Colonnella, grande appassionato di animali e di natura. Come è nata l’idea di promuovere questo accoppiamento particolarissimo? “Da diversi anni sperimentavamo un incrocio tra una zebra ed un’asina, ma purtroppo senza giungere ad un esito favorevole. Generalmente si può incrociare la razza, tra zebra femmina e asino o cavallo maschio, e avendo a disposizione, al contrario, una zebra maschio ed un pony femmina abbiamo scelto di far provare l’ accoppiamento. Purtroppo un tentativo è andato male, nel senso che il puledro è nato morto per una serie di circostanze legate alla nascita. Però è andata meglio successivamente, e questa nascita ha destato moltissimo interesse”. Come si comporta Leopoldo? “E’ molto selvaggio, quasi indomabile, un animale di molto sopra al cavallo, ma non disperiamo di addolcire il suo carattere”. Proseguirete ulteriormente questo percorso? “Già lo abbiamo fatto, con gli stessi animali che recentemente si sono accoppiati, e speriamo presto di avere altri esemplari”. Leopoldo, questo ibrido equino che non potendo chiamare zebrallo possiamo nominare sicuramente come zony, cioè zebra-pony, ora dove si trova? “Attualmente si trova con la mamma pony Pallina ospiti alla fattoria sociale della cooperativa sociale Clematis, a Martinsicuro, con sede presso il Parco La Pineta, localizzato a sud-ovest di Martinsicuro a circa 60 metri di altitudine, che si occupa di riabilitazione per bimbi ed anziani, attraverso la pet therapy, mentre Moggi, la zebra, si trova presso la mia fattoria”.

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Già, perché Gianni Bernardini è un grande appassionato di animali e presso la sua fattoria agricola, in contrada Pianaccio di Colonnella, che offre un ampio parco naturale, se ne contano numerosissimi: dalla zebra ai daini, cerbiatti, mufloni, cammelli, maiali, vitelli, oltre, naturalmente agli animali da cortile. Un’oasi della natura. Dove Gianni Bernardini aveva in animo di realizzare anche un agriturismo, e qualche passo in tal senso lo aveva fatto, per poi bloccarsi, a causa della mancanza di fondi regionali. Un progetto che ha messo nel cassetto dei sogni? “Solo per il momento, in quanto ora, sembra che sarà riaperto il bando regionale e allora il mio desiderio spero che presto possa realizzarsi”.


A STRISCE

TERRITORIO

a pony. E’ l’attrazione

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RISPUNTA IL FASCIO LITTORIO FRA I ROVI DEL SALINELLO

“Firmava” le opere di bonifica contro la malaria Le alluvioni lo hanno riportato alla luce TERRITORIO

ALFONSO ALOISI

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ella prima metà del ‘900 molte zone dell’Italia erano interessate dal fenomeno dei terreni acquitrinosi e malsani che generavano malattie come la malaria ed altre meno aggressive, ma ugualmente pericolose come la leishmaniosi che una volta veniva chiamata “censo”. Quando si presentava nella forma cutanea, i contadini usavano bruciare le ulcere della pelle con l’incenso, procurando in tal modo cicatrici indelebili. Chiamata anche “Bottone d’Oriente” o “Bottone di Damasco” perché sulla parte della pelle colpita forma una papula che poi si ulcera. L’Italia era percorsa in lungo ed in largo da zone insalubri fonti di morte e di gravi situazioni sanitarie. Così nel 1923 fu avviata la cosiddetta ‘bonifica integrale’ sostenuta dalla Legge Serpieri (n. 3256 del 30 dicembre dello stesso anno). Furono fondati consorzi di bonifica gestiti e finanziati dallo Stato, attivi sia per la bonifica di aree paludose e malariche che per la gestione del patrimonio silvo-pastorale. Nel progetto rientrò anche la zona della Val Vibrata con la costituzione nel 1931 (regio decreto 9 aprile) del Consorzio di Bonifica Vibrata, Salinello e Tronto con sede in Nereto con potestà su un’area vasta pari a 35.581 ettari. Facevano parte del comprensorio i comuni di Tortoreto, Alba Adriatica, Sant’Omero, Mosciano Sant’Angelo, Bellante, Corropoli, Giulianova, Nereto e Torano Nuovo. Durante lo svolgimento della propria attività il consorzio si occupò della realizzazione, l’assestamento e la manutenzione di strade di bonifica, conservazione di ponti e lavori di sistemazione idraulica. L’Ente

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fu soppresso con delibera di giunta della Regione Abruzzo n. 799 del 7 aprile 1997 e le sue funzioni e competenze passarono al Consorzio di Bonifica Nord - Bacino del Tronto, Tordino e Vomano. Una delle prime intenzioni dal neo costituito Consorzio fu proprio quella di bonificare i territori percorsi dal fiume Salinello. Corso d’acqua a regime torrentizio posto a confine tra i comuni di Giulianova e Tortoreto e, se vogliamo, la linea di demarcazione sud della Val Vibrata. L’opera idraulica, grandiosa per il periodo, fu posta in essere proprio per evitare alluvioni derivanti dai probabili ricongiungimenti dei fiumi Tordino e Salinello. In tal modo fu debellata la malaria ed anche la zanzara del censo fu sconfitta per sempre. Qualche tempo fa le proteste dei residenti nella parte giuliese, impauriti dell’atteggiamento minaccioso del fiume, hanno fatto si che il letto del Salinello fosse riportato all’interno del suo alveo naturale. Nel corso dei lavori di ripristino dei luoghi (protezione dell’argine e riattivazione della parallela strada sterrata del lungofiume), dai cespugli di rovi è spuntato il bassorilievo di un ‘fascio littorio’ con data 1924. Lo stesso è parte integrante di un più ampio intervento teso appunto a bonificare la zona a sud del corso d’acqua. Così il regime fascista firmava le opere di pubblico interesse. Dopo novanta anni il manufatto è ancora lì, ottimamente preservato e conservato. In tanti lo avevano dimenticato, ma i lavori di manutenzioni hanno riportato alla luce un pezzo del passato non proprio recente servito soprattutto a rinverdire ricordi, storie ed aneddoti d’altri tempi.


“Un pessimista vede la difficoltà in ogni opportunità; un ottimista vede l'opportunità in ogni difficoltà.” Winston Churchill

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E LA NATURA SI MISE IN Maurizio Lindner fa con l’obiettivo quello che il pittore fa col pennello MARTINA DI DONATO

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a semplicità di una foto può suscitare emozioni fortissime. Ed è proprio la semplicità l’elemento che contraddistingue le opere di Maurizio Lindner. Di professione rappresentante di impianti oleodinamici, ma da sempre innamorato della fotografia, sin da piccolo suo nonno, pittore, lo ha educato all’arte regalandogli la sua Kodak a soffietto che oramai è un pezzo di storia. Da questo momento il suo amore non si è mai fermato; dopo varie macchine fotografiche ha

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scelto quella che lo accompagna nei suoi viaggi e nei suoi tragitti (la tiene accanto a sé anche mentre parliamo). Le sue origini non sono abruzzesi, ma si è trasferito qui da un po’ di anni con sua moglie per dedicarsi al volontariato e alla fotografia. Maurizio, qual è il segreto per realizzare delle immagini fotografiche così belle? “Utilizzo un programma che si chiama Sistema di elaborazione hdr: è un sistema che sovrappone


più volte la stessa immagine in modo tale da far risaltare la luce ed i colori. Questo è un procedimento che utilizzo da qualche anno “. Cosa ti colpisce in un paesaggio o in un oggetto? “Amo fotografare animali, persone, paesaggi e poi anche i fiori. Sono sempre molto attento ai particolari, sono le piccole cose che mi colpiscono. Spesso attendo per ore il momento che ritengo adatto per scattare una fotografia. Attendo la giusta luce o magari il passaggio di una persona in un paesaggio spoglio. Cerco di far trasparire le emozioni più che la tecnica, una fotografia deve far sognare”.

PEOPLE

POSA

La macchina fotografica la tieni sempre con te? “Faccio foto da cinquant’anni. Non ricordo neanche più quale sia stata la mia prima fotografia. Per motivi di lavoro ho sempre viaggiato e la mia Nikon è sempre stata al mio fianco. Sono un autodidatta, ho imparato tutto con l’esperienza e grazie alla mia dedizione sono riuscito a fare delle mostre fotografiche”. I mondi di Maurizio Lindner sembrano essere realizzati più con il pennello che con l’obiettivo. Nei suoi scatti ritroviamo tutto l’amore che questo artista dall’animo sensibile ha per la natura ed il mondo che lo circonda.

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LA NOSTRA STORIA Gli scavi di Ripoli riconducono la Val Vibrata al Neolitico

TERRITORIO

CINZIA ROSATI

I

l sito archeologico di Ripoli, la cui importanza è riconosciuta a livello internazionale, è un’eccellenza culturale da custodire e valorizzare. Molto è stato fatto negli ultimi anni, ma il percorso è ancora lungo ed accidentato. La civiltà neolitica, attiva dal 5200 al 4000 a.C. nella zona che attualmente ricade nel comune di Corropoli, torna a rivivere grazie ad un percorso di valorizzazione avviato negli ultimi anni e che ha portato l’intera Val Vibrata, dopo decenni di torpore, a riscoprire, apprezzare ed amare uno dei suoi patrimoni culturali più importanti. Una storia, quella del ritrovamento e della valorizzazione del sito di Ripoli, che ha lontane origini e che si inerpica fin quasi ai giorni nostri, tra accelerazioni e brusche frenate, dubbi e certezze, politiche fatte di genuini entusiasmi ed ostinate indifferenze. Molti passi avanti sono stati compiuti, ma molto ancora resta da fare in un percorso che si preannuncia ancora lungo e non privo di difficoltà. Il villaggio neolitico ritrovato a Corropoli è espressione di una cultura diffusa non solo in Abruzzo ma anche nelle Marche e nell’area medio-adriatica, e che ha dato il nome alla cosiddetta “Cultura di Ripoli”. Il sito fu individuato nel 1865 da Concezio Rosa, studioso di archeologia e medico condotto di Corropoli. Dopo i primi scavi che riportarono alla luce moltissimi reperti, ne seguirono altri tra il 1910 e il 1915. Risale al 1913 il ritrovamento della famosa tomba della donna con il cane, oggi esposta al museo civico di Teramo. Dovranno poi passare 45 anni prima che i riflettori tornino ad accendersi su Ripoli. E’ il 1960 quando le attività riprendono e proseguono, in maniera più o meno cadenzata, fino al 1970. Poi, da allora, più nulla. Il vuoto temporale è di 41 anni. Nel 2011 sono ripresi gli scavi, proseguiti anche nel 2012, che hanno portato a nuove ed importantissime scoperte. Sono state individuate infatti numerose strutture neolitiche, riportati alla luce resti di faune cacciate ed allevate, ceramiche e frammenti di macine, manufatti in selce ed ossidiana. Sono stati raccolti inoltre campioni paleobotanici utili per la ricostruzione dell’economia delle popolazioni neolitiche. Ma c’è di più. Perché nel 2011 Ripoli ha saputo ulteriormente stupire. Gli archeologi hanno infatti rinvenuto nella zona un accampamento di cacciatori-raccoglitori della fase antica del Mesolitico

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(circa 8.000-7.000 a.C.) conservato sotto il livello di occupazione neolitica. La successiva campagna di scavo del 2012 ha indagato ulteriormente sui bivacchi dei cacciatori mesolitici, riuscendo a riscostruire istantanee di vita risalenti a 10mila anni fa (rarissime sul territorio nazionale), prima dell’arrivo degli agricoltori neolitici. Il sito, la cui importanza è affermata a livello internazionale, ha finora faticato ad emergere a livello

locale. Su questo molto ha influito il vuoto progettuale che si è protratto per decenni e che l’associazione “Italico – Centro Ricerca per Fare, Conservare e Valorizzare l’Arte,” sta cercando di colmare con la ripresa di varie attività negli ultimi anni. «L’associazione è nata nel 2006 – spiega il presidente Maurilio Migliorati – con l’intento di coinvolgere tutte le istituzioni preposte al recupero e alla valorizzazione del sito di Ripoli. Si tratta di un grande lavoro di squadra che si sta portando avan-


foto di Giovanni Lattanzi aperto”: un successo inaspettato, con centinaia di persone, tra cui moltissimi turisti, che si sono riversati in cantiere ad osservare gli archeologi al lavoro, affascinati dalle meraviglie che riaffioravano dal terreno. Parallelamente agli scavi, sono state avviate attività di archeologia sperimentale, grazie al contributo di esperti in materia, e numerose iniziative inerenti la didattica. Anche su questo fronte il territorio ha risposto con grande interesse, con

le scuole della Val Vibrata che hanno aderito in maniera massiccia (sono circa 1200 gli alunni che hanno partecipato ai laboratori di modellazione dell’argilla, di scheggiatura della selce, di scavo archeologico simulato). E’ di recente pubblicazione inoltre, il quaderno di studio “Ripoli, cultura, arte e tradizione di una civiltà” (che è possibile richiedere gratuitamente, in versione pdf, all’indirizzo mail info@italico.org). A questo primo documento divulgativo seguiranno prossimamente anche pubblicazioni scientifiche. Ai progetti di valorizzazione e promozione, che hanno centrato l’obiettivo di risvegliare l’interesse della collettività sul sito, se ne dovranno aggiungere altri ben più complessi e non privi di difficoltà. «Alla luce dei risultati emersi nelle ultime due campagne di scavo infatti – afferma Migliorati – e che hanno ribadito ed ampliato l’importanza di Ripoli, è necessario programmare campagne di scavo a lungo termine, da 3 a 5 anni». Operazioni che però necessitano di una sinergia tra istituzioni a più livelli, sia in ambito decisionale ed organizzativo, che per lo stanziamento dei fondi. Resta poi la questione dell’allestimento del museo: attualmente i reperti di Ripoli sono dislocati in vari musei italiani ed esteri. Riportarli al luogo d’origine sembra assai improbabile (anche se non impossibile), ma è chiaro che la Val Vibrata, forte dei suoi 80mila abitanti e della realtà storica ed economica importante che rappresenta, rivendica un luogo dove poter custodire la propria storia e cultura. E l’edificio presente all’interno del Parco Archeologico costituirebbe la sede più idonea per conservare i tesori del territorio, villaggio neolitico in primis. Quando questo potrà avvenire non è possibile indicarlo con certezza, però un seme è stato nel frattempo piantato. Alcuni locali sono stati adibiti dall’associazione Italico (la cui direzione artistica è affidata a Dino Di Berardino) a laboratorio artistico. La Ripoli di oggi legata a quella di 7000 anni fa da un invisibile filo conduttore: la bellezza. Che si esprimeva allora nella produzione di ceramiche finemente decorate, e rivive oggi, nello stesso posto, grazie all’estro di artisti talentuosi. Un invito esplicito dell’associazione all’attivismo culturale e creativo che, traendo ispirazione dal passato, porti a progettare insieme il futuro.

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TERRITORIO

ti con il Comune di Corropoli, la Soprintendenza per i Beni Archeologici d’Abruzzo, il Ministero dei Beni Culturali, le Università, e con il contributo di ricercatori, studiosi, appassionati che si sono messi a disposizione per il progetto». E così da qualche anno Ripoli ha ricominciato a vivere, a destare interesse, ad essere spesso sotto i riflettori. Le due campagne di scavo del 2011 e 2012, effettuate sotto la direzione del Sovrintendente, Andrea Pessina, sono state effettuate a “cantiere


ESTATE ALLE PORTE,

Martinsicuro, Alba Adriatica,Tortoreto, Giulianova e San recuperando i ritardi dovuti alle ondate di maltempo I giornalisti di Val Vibrata Life i primi di giugno hanno fatto visita al nostro litorale

TERRITORIO

CINZIA ROSATI

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’estate è arrivata e la costa è in fermento. Si lavora celermente sulle spiagge di Martinsicuro, Alba Adriatica e Tortoreto per accogliere turisti e residenti desiderosi di godersi il sole e il mare. Le condizioni meteo avverse nelle ultime settimane hanno ritardato le attività, e non è raro vedere ancora cumuli di detriti sull’arenile in attesa di rimozione, o stabilimenti balneari ancora senza sdraio ed ombrelloni in spiaggia a causa delle ripetute ondate di maltempo. Sotto il profilo dell’accoglienza turistica, parte in svantaggio Martinsicuro. La cittadina truentina deve fare i conti con ruspe, camion, escavatori che scorrazzano nella zona nord, dal molo fino alla Casabianca, per via dei lavori antierosione. Interventi importanti e attesi da anni (e che dovrebbero concludersi entro giugno) ma che, dato il periodo, mal si prestano alle esigenze dei turisti in cerca di pace e relax. Il litorale truentino, al di là di mezzi meccanici, cumuli di sabbia da sistemare, scogli da posizionare e detriti sulle spiagge ancora da rimuovere, offre però anche scorci suggestivi: le barche dei pesca-

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tori al porticciolo, dove è possibile intrattenersi anche con qualche anziano pescatore depositario di innumerevoli conoscenze e ricordi marinari; il biotopo costiero, un unicum dell’intera costa nord, dove la sabbia della spiaggia si perde a poco a poco tra il verde di una fitta vegetazione; relax e tranquillità, infine, nei chilometri di spiagge non interessate dai lavori. Più vivaci si mostrano invece Alba Adriatica e Tortoreto, dove tra stabilimenti balneari tirati a lucido e file di ombrelloni allineate sull’arenile, i turisti si godono i primi sprazzi d’estate. Unica pecca il ponte ciclopedonale sul Vibrata chiuso alle biciclette per problemi di sicurezza. Un pessimo biglietto da visita per gli amanti delle due ruote che in questo periodo affollano il lungomare e che, una volta arrivati a confine tra Martinsicuro ed Alba Adriatica, trovano la brutta sorpresa del percorso interrotto. I due Comuni stanno programmando interventi per la riapertura provvisoria del ponte, in attesa di lavori strutturali che saranno avviati al termine della stagione turistica.


SPIAGGE D’AMARE

Benedetto si preparano ad accogliere turisti e residenti

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on ci sono più le spiagge di una volta, quelle dove ogni domenica o festivo, la famiglia andava a fare bagni di sole. Mamma in testa con borsone di tela stracarico di asciugamani vari, crema e Grandhotel e papà a chiudere zavorrato di ombrellone, sdraio e frigo portatile con ogni ben di dio. Sembra impensabile oggi credere che esistevano spiagge prive di tutti i servizi. Oggi è praticamente tutto a portata di mano e gli stabilimenti balneari dove il bagnino era un omone panciuto che apriva gli ombrelloni, puliva la spiaggia, sistemava sdraio e lettino, puliva i bagni, passava il retino, chiacchierava con tutti e ci provava con tutte, sapeva se il tempo sarebbe stato buono o cattivo, chiudeva gli ombrelloni e ti faceva anche il caffè al bar, oggi ti danno tutto. Pagando, s’intende. In questo nuovo scenario a Giulianova, i problemi interessano in gran parte gli spazi liberi demaniali di competenza del Comune. Infatti la zona nord, passaggio obbligato per chi a piedi o in bici vuole andare o venire da Tortoreto, non appare molto curata con mucchi di spiaggiato

in attesa di essere setacciati per dividere immondizia da sabbia. Anche le spiagge libere non sembrano essere molto pulite e risulta difficoltoso riuscire a trovare un “posto sicuro” dove poter stendere il proprio telo da mare, lontano da legnetti vari, vetri e canali che, forse in attesa delle ultime piogge, sono ancora aperti componendo uno scenario non proprio gradevole. E’ lo scenario di fine maggio. In compenso, mentre la sicurezza è già garantita dal 1 giugno grazie ai bagnini in servizio quasi tutte le concessioni hanno ombrelloni, sdraio e lettini pronti per essere adoperati per la tintarella. Come ogni anno, Giulianova offre servizi per ogni gusto: dal semplice ombrellone, salendo di prezzo, si va fino alle pagode in primissima fila con i piedi praticamente in ammollo o ai gazebo con lettini matrimoniali e cameriere sempre pronto a ricevere un ordine. Ai nastri di partenza tutti gli animatori sono già pronti sul bagnasciuga per risvegli muscolari, giochi aperitivo, tornei di bocce.

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MARCO CALVARESE


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STEFANIA MEZZINA

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na camminata sul lungomare, centro pulsante della San Benedetto del Tronto turistica e luogo che identifica la cittadina, all’avvio della stagione estiva. E’ una calda mattina di giugno che invoglia turisti e cittadini del territorio piceno ad affollare la spiaggia, dove finalmente spiccano ombrelloni aperti. Il sole bacia e scalda il corpo ed i cuori. In spiaggia, qualcuno gioca a pallone, altri leggono o chiacchierano, altri si crogiolano al sole. Il lungomare è affollato: sembrano tante lucertole uscite dalla tana al primo raggio. La mia camminata prende il via dal ponte sul torrente Albula direzione Porto d’Ascoli; i miei occhi sono deliziati dal mare, la spiaggia, il verde delle palme risparmiate dal punteruolo rosso. Insomma, un contesto piacevolissimo, nel quale perdersi. Peccato per quei residui di mareggiata che giacciono sulla spiaggia, nelle vicinanze dei bagnanti e che stonano con il raggiante paesaggio. Ignorarli non è facile. La pulizia della spiaggia era terminata, è stato detto; certamente, ma sarebbe stato più giusto completarla togliendo anche i cumuli di rifiuti. Qualcosa che stona attira la mia attenzione: al termine della scalinata che dal lungomare porta alla spiaggia, tra le palme spicca un mucchietto di lastre di cemento rotte. Riprendo la mia passeggiata e lungo il percorso, mio malgrado, ogni tanto nelle aree riservate alle spiagge libere noto dune di sabbia. Capisco che dietro c’è la mano dell’uomo. Arrivo all’area ex camping, dove spicca la beach arena. A pochi metri, dentro una recinzione, vedo altro: si tratta di mucchi di sabbia e di residui di mareggiate, che sono stati tutti ammassati, ma anche rifiuti di vario genere. Una desolante immagine della prima domenica di giugno. Tutto questo mentre nella beach arena sono in corso già da alcuni giorni gli incontri per la Coppa Italia di Beach Soccer, che ha radunato a San Benedetto del Tronto 16 squadre, tra le quali alcune di note località balneari. Uno spettacolo indecoroso che stride con il lungomare di Porto d’Ascoli. Gli occhi gioiscono. Merito dei famosi giardini tematici, vere oasi, spazi sul mare dove sostare per ammirare il panorama e per accedere alla spiaggia.

foto di Paride Travaglini

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INTORNO A UN CHICCO DI GRANO Lo spettacolo della trebbiatura: si gira, azione! (parte seconda)

TERRITORIO

FRANCESCO GALIFFA

Polli cotti nel forno a legna. (Immagine fornita da Fausto Camaioni)

A

l controllo del peso era addetto il padrone in persona. I grandi proprietari, però, si facevano rappresentare dal fattore, il loro uomo di fiducia, il quale, in verità, era spesso impegnato, più che a sovrintendere al suo compito, ad ascoltare “lu lallò”, il patriarca della famiglia contadina, che gli dava maliziosamente chiacchiera. Il grano era sistemato in un sacco, la cui parte superiore era arrotolata in modo da ricavarne due orecchie, che gli operai, disposti ai suoi lati, impugnavano con la mano esterna; con quella interna reggevano un bastone su cui appoggiavano il sacco, per poi sollevarlo: così era trasportato più comodamente e senza faticare molto. Dopo la pesa, il sacco era chiuso con una cordicella; la parte spettante al padrone era ammassata in un posto comodo per ricaricarla; quella del contadino era depositata in un magazzino situato a piano terra o, a volte, nella parte superiore della casa. Era una fatica che solo i giovani, con la forza dei loro anni, potevano affrontare; lo facevano anche volentieri perché non prendevano polvere ed usu-

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fruivano di pause di riposo. Il sacco era sistemato per bene sulla schiena del trasportatore, che lo afferrava all’attaccatura con ambedue le mani. A volte doveva salire 13-14 scale, anche molto ripide, e attraversare la cucina e altre 2-3 stanze prima di depositarlo nel locale che fungeva da magazzino; ripassando per la cucina egli si concedeva una piccola sosta, soprattutto se era presente una bella “fandella”, e si rifocillava con un “bicchieretto” di vino e un pezzetto di salsiccia. Negli anni 70 questo tormento finì, perché il frumento era letteralmente spruzzato, come già detto nel precedente articolo, da un accessorio ad aria compressa, nel locale desiderato, anche in soffitta. Una persona particolarmente interessata a rilevare la quantità di grano uscita dalla bocchetta era il proprietario della trebbiatrice. Lo faceva con un sistema antico: si procurava una canna o una stecca di legno, abitualmente di tamerice; a ogni recipiente portato via, “tummele” o sacco, incideva con un coltellino una tacca, marcando le decine in modo diverso. Alla fine conteggiava il raccolto per


fossero esclusivamente gli uomini. Le donne compaiono solo marginalmente in scena, ma ciò non vuol dire che se ne stessero a braccia conserte a gustarsi lo spettacolo. Loro agivano dietro le quinte, intende a preparare i vari pasti e spuntini da servire agli operai. Per assolvere al meglio il loro compito si dovevano organizzare adeguatamente e lavorare sin dal giorno prima dell’evento e, spesso, per tutta la notte. La loro prima fatica consisteva nell’ammazzare 10/11 “paparù” (le oche bianche), che andavano puliti immediatamente, quando erano ancora caldi; l’operazione risultava particolarmente faticosa perché le piume erano molto forti e per staccarle servivano quasi le pinze. Dopo averli privati delle interiora, dovevano lavarli accuratamente e l’operazione richiedeva molto tempo perché i capi erano tanti. Durante la notte, poi, confezionavano i biscotti da servire, come si è detto in precedenza, all’inizio della trebbiatura; erano cotti nel forno a legna, infocato dalle donne stesse perché gli uomini, abitualmente addetti all’operazione, in quei giorni erano super impegnati e non potevano essere disturbati: “Coma l’accimentive lli juorne!”, ci ha detto, con un sospiro, una nostra informatrice. Nelle prime ore del mattino, quando la trebbiatura era in atto da un bel po’, mettevano a fare il sugo, utilizzando oltre venti litri di polpa di pomodoro. Con del lardo battuto, un po’ d’olio d’oliva, una cipolla steccata con chiodi di garofano e “lu sellare” (il sedano) preparavano un soffritto, che poi distribuivano in due tegami: in uno mettevano a rosolare un gallo tagliato a pezzi, preferibilmente vecchio perché la sua carne “stagionata” rendeva il sugo più buono; nell’altro rosolavano tocchi di carne di manzo, le corate e i duroni dei pennuti ridotti a pezzetti. Versavano quindi il pomodoro in ambedue i recipien-

Il pranzo della trebbiatura. (Immagine fornita da Giuseppe Muscella)

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presentare il conto della sua prestazione. La trebbiatura di 170 ql di grano richiedeva, come abbiamo descritto dettagliatamente, l’impiego di circa 35 addetti, che lavoravano per 10-11 ore: in pratica se si iniziava all’una, si terminava verso mezzogiorno. Era un impegno duro e gli operai dovevano essere sostenuti con un’alimentazione adeguata; al dolce iniziale, di cui si è parlato in precedenza, seguiva, dopo un paio d’ore, una colazione a base di pane e lonza; in alternativa si offriva un taralluccio con “la marsala”; a metà lavoro era servita una colazione sostanziosa: peperoni ripieni con carne e patate, oppure stufato di agnello o di castrato; poi di nuovo biscotti, verso le 10,30. Soprattutto nelle ore calde, due donne o due bambine, che per l’occasione sfoggiavano un abitino senza maniche appena ritirato dalla sarta, giravano in continuazione tra gli operai con un bicchiere, la bottiglia di vino o la pignatta d’acqua fresca; ricorda un’anziana signora che, per quanta polvere circolava nell’aria in quei momenti, il bicchiere, dopo pochi istanti, era diventato opaco. I giovanotti erano felici quando a offrir da bere erano giovani e belle ragazze in età da fidanzamento; a volte sceglievano la famiglia presso cui andare a lavorare per conoscerne meglio le doti e le qualità e per tentare magari un approccio. Ma non tutte le famiglie erano così solerti nell’alleviare la sete dei malcapitati operai, che, a volte, invano reclamavano un bicchiere d’acqua fresca per spegnere l’arsura; solo quando montava la protesta, qualcuno si degnava di prestare loro ascolto. Queste famiglie erano segnate sul libro nero degli operai, tra quelle da evitare assolutamente negli anni successivi. Quanto sinora riferito sulla trebbiatura, indurrebbe a pensare che i protagonisti di questo lavoro


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ti e lasciavano andare a fuoco lento per un paio d’ore. All’atto di condire gli spaghetti, prelevavano un mestolo di ragù per parte: ne guadagnava il sapore e, forse, era proprio questo il segreto che rendeva appetibili e unici “li maccarù de lu machenà”. Mentre il sugo andava, lavavano “li paparù”, prima col vino bianco e poi con l’acqua; li insaporivano con aglio, rosmarino e sale; li disponevano, l’uno vicino all’altro, sopra uno “schifo” di ferro, sul cui fondo avevano versato vino, acqua e olio. Quando la temperatura del forno, già in funzione per la cottura dei biscotti, aveva raggiunto la giusta gradazione, identica a quella del pane, infornavano “li paparù” e pure i più teneri “pollastri”, destinati al padrone e ai macchinisti. Chiudevano la bocca del forno e lasciavano cuocere per un’ora abbondante. Poco prima di servirli, li riducevano a pezzi. Un pranzo del genere creava irresistibili aspettative per il palato di molti, abituati a pietanze molto meno accattivanti e così, verso la fine della trebbiatura, l’aia si andava affollando a vista d’occhio di spettatori, speranzosi di essere invitati a pranzo: oltre ai bambini dei vicini, già presenti fin dalle prime ore dell’alba, arrivavano i famigliari del padrone o del fattore, i paesani coi quali il contadino intratteneva rapporti di lavoro o di amicizia (come il sarto, il fabbro, l’impiegato comunale), spesso accompagnati anche loro dai bambini. Finita la trebbiatura, mentre gli uomini si davano una spolverata e si asciugavano il sudore, alcune donne cominciavano a stendere per terra un lungo “mantile” e ad apparecchiare, possibilmente, all’ombra di una pianta; altre “abboccavano” i maccheroni acquistati nei pastifici della zona o ammassati in casa: per soddisfare la fame di tutti quelli che si erano raggruppati per l’occasione, se ne cucinavano dai quindici ai venti chili. Disposti in tegami di coccio e conditi abbondantemente, erano pronti per essere serviti. I primi piatti a essere riempiti, però, erano quelli dei bambini, ai quali spettavano anche i pezzi più pregiati della carne: ai più piccini era destinata la coscia perché la potevano reggere meglio in mano. I bambini aspettavano per un anno intero quel momento, che per loro rappresentava una festa proprio perché finalmente potevano mangiare qualcosa di diverso e di più buono del solito; quando, nelle campagne piccole, dove la trebbiatura durava poco tempo, la macchina arrivava nelle ore notturne, per loro era un lutto, perché non sarebbero stati cucinati i maccheroni ed il pollo. Allora si precipitavano da qualche vicino, con la scusa di aiutare a distribuire le bevande, ma in realtà con la speranza di assaporare i fatidici piatti “de lu machenà”. I secondi a essere serviti erano i macchinisti e il padrone, con gli eventuali famigliari, che pranzavano in casa o sotto un albero, comodamente seduti intorno ad una tavola apparecchiata di tutto punto; per secondo era stato preparato per loro, come abbiamo già detto, un tenero e saporito “pollastro”. Finalmente la pasta arrivava sulla tovaglia, intorno alla quale erano accovacciati e finanche sdraiati gli affamati operai, che di maccheroni ne mangiavano

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tanti, ma proprio tanti; quando se ne predisponeva la cottura, era bene calcolarne, minimo, 250 g a testa. Non si limitavano a divorare diversi piatti di spaghetti, ma si buttavano a capo fitto anche sulla carne: degli undici “paparù” rimaneva ben poco. C’erano alcuni che, per accaparrarsi una coscia posta sul lato opposto della tovaglia, contravvenivano anche alla tradizione che vietava di “scompassarla”. Qualche volta, però, succedeva che gli operai abbandonassero l’aia con la fame perché la carne era cotta poco e male oppure perché nel condimento dei maccheroni comparivano mosche in gran quantità. Nel bere, poi, si lasciavano andare un po’, perché non dovevano risalire in posti alti e quindi non correvano più pericoli; quando era ora di cominciare a mettere mano alla serra successiva i fumi dell’alcool erano stati già smaltiti! Il buon esito del raccolto aveva compiuto la magia di trasformare una “faticata” in una festa, alla quale erano ammessi tutti: il padrone con la sua famiglia, tutti quelli che avevano aiutato, quelli che avevano assistito e anche quelli che, facendo finta di passare di lì per caso, si erano presentati al momento del pranzo per farsi offrire un piatto di maccheroni, che, secondo la filosofia contadina, non si negava mai a nessuno. Il pranzo di fine trebbiatura assumeva allora un significato rituale e il contadino era contento di poter condividere la sua soddisfazione per il successo dell’annata; lo farà anche nei mesi successivi riservando parte del raccolto a offerte ed elemosine.

Il pranzo degli ospiti


DA TORANO A TORINO, PIER FRANCO TRIONFA AL PREMIO “CALVINO” Ha 28 anni ed è vibratiano il vincitore del prestigioso riconoscimento letterario MARTINA DI DONATO

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Come nasce la tua passione per la scrittura? “Quando vivevo in condominio c’erano delle serate in cui eravamo soli all’aperto e inventavamo delle storie assurde per divertirci, costruivamo enormi castelli in aria. Poi c’erano i soldatini affilati lungo i battiscopa e c’era il sapone da barba di mio nonno; sì il sapone da barba, credo che sia cominciata da lì la passione e da un libro che era una specie di enciclopedia illustrata (i disegni erano di Richard Scarry)”. A fine maggio ti è stato assegnato il premio letterario “Calvino”. Cosa si prova a trionfare in un contesto così di prestigio? “E’ una conferma incoraggiante, serve a sentirsi meno soli, a lavorare meglio”. Sei giovane, ma hai alle spalle già tanta esperienza. Raccontaci un po’ di te. Ci sono dei modelli che hanno segnato il tuo stile? “Non so se ho tanta esperienza, di sicuro ci sono dei modelli, un impasto fatto di letture, di luoghi e persone, si fondono insieme, non saprei sciogliere precisamente la matassa, potrei fare degli elenchi, ci sono stati incontri che mi hanno cambiato profondamente, consigli decisivi, amici che mi hanno iniziato a certi piaceri e che non finirò mai di ringraziare; e una curiosità infine, una curiosità radicale. Ad esempio quando avevo dodici anni, mi sembra, ho cominciato a scrivere per L’Istrione, il giornale del mio paese, Torano Nuovo, ed è stato importante perché mi permetteva di entrare nelle case, di conoscere persone e luoghi vicini ma in realtà sconosciuti, avere licenza di esplorare: anche essere un navigatore da bicchiere può essere entusiasmante (gli infiniti sono in ogni direzione),

e quel paesaggio, le mie contrade, le colline, immancabilmente ritornano. Tutto questo ha determinato una forma interiore, dei confini che sto cercando di rintracciare”. Qual è il primo racconto che hai scritto? “Si intitolava La casa in collina, originale eh? Lo scrissi insieme al mio amico Silvio scopiazzando i racconti di Lovecraft. Il protagonista era un tipo solitario che a un certo punto impazziva, correva via sulle colline e finiva per attraversare una sorta di inferno con fiumi di sangue e figure grottesche; ci divertimmo molto e lo stampammo al computer, forse era la prima volta che scrivevamo al computer, lo stampammo in caratteri gotici, in rosso, e ce lo leggevamo a voce alta, era il ’97 o il ’98, non so bene. Prima di quello può esserci stata una saga infantilissima che parlava di uomini serpente e serviva da accompagnamento ai disegnini che facevo”. E’ un percorso difficile quello che stai percorrendo? Cosa consiglieresti a chi, come te, vorrebbe fare della scrittura un mestiere? “Che consigli posso dare io? A me dissero che era raccomandabile essere ricchi di famiglia, o in alternativa impiegarsi, magari in ente pubblico, parastatale; altra opzione è quella di scrivere bestsellers. Ma queste sarebbero raccomandazioni troppo ciniche, per cui direi di avere fede, ecco sì, e lavorare sullo stile, e appassionarsi. E leggere e saper leggere. Rileggere. E anche laurearsi in mineralogia, come diceva qualcuno”. Dopo questo premio cosa hai in mente di realizzare? “Vorrei lavorare ad un altro libro e poi, in estate, dedicarmi a due spettacoli teatrali a cui tengo molto”

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a scrittore per diletto a scrittore premiato. Pierfranco Brandimarte è un giovane vibratiano, trasferitosi a Torino, che ha trovato la sua ricompensa a livello nazionale. Dopo aver scritto vari racconti e spettacoli teatrali, lo scorso maggio ha vinto il premio letterario “Calvino” che assegna un riconoscimento ai giovani scrittori emergenti. Tra i vari partecipanti alla 27^ edizione Pierfranco ha vinto con il suo racconto, dal titolo “La malassunta”, basato sulla storia del pittore marchigiano Licini.


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LE BUONE MANIERE SI PERDONO ROTOLANDO Impazza il Roller Derby, la star dei pattini Romina Bosica ci spiega cos’è PARIDE TRAVAGLINI

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Quali sono le particolarità di questa disciplina e come si svolge un incontro? “Il Roller Derby si gioca su pattini tradizionali e su una pista circolare di circa 60 m.Questo sport apparentemente violento in realtà è regolamentato. Ci sono due squadre di cinque giocatrici l’una : quattro blockers e una jammer che cercherà di fare più giri possibile intorno alla pista superando il gruppo. Impresa non facile visto che le avversarie fanno di tutto per bloccarla. Il gioco dura un’ora e mezza circa a seconda delle penalità e i time out. Ogni pattinatore ha un nome d’arte. Il mio è Stella Italiana”. Come hai scoperto il Roller Derby? Quali le tue esperienze più significative? “Io e mio marito gestiamo un palazzetto di pattinaggio a Des Moines Iowa negli Stati Uniti e quando una squadra di Roller Derby ha iniziato ad allenarsi lì, mi sono incuriosita ed ho iniziato a giocare. Le cose si sono evolute molto velocemente e nel 2011 sono stata ingaggiata da una squadra di Washington, tra le più forti squadre negli Usa. Ho viaggiato molto quell’anno e siamo arrivate 2° al campionato nazionale. Un’emozione incredibile. Quell’anno mi sono anche qualificata per la prima coppa del mondo in Canada con la nazionale ed ho anche formato la squadra Junior, dai 10 ai 17

anni, le Des Moines Derby Brats che attualmente sono 2° nella classifica nazionale. In squadra ho 55 atleti tra maschi e femmine”. Uno sport solo per donne? “Ultimamente si sta sviluppando anche tra gli uomini anche se non velocemente come le squadre delle donne. Mio marito, Dante Muse, attualmente fa parte della squadra Usa che ha partecipato alla coppa del mondo in Inghilterra, a metà marzo. A dicembre ci sarà la Coppa del mondo femminile a Dallas”. Uno sport in espansione… “Attualmente è lo sport più in crescita nel mondo. Il Roller Derby si sta evolvendo in Europa e anche in Italia, anche se ad un passo un pochino più lento delle altre nazioni. Ci sono circa 20 squadre in Italia tra cui una a Pescara, le Badas Sirens. Stanno facendo il possibile per far conoscere questo sport anche in Abruzzo, una regione che ha dato tanto al pattinaggio corsa ed artistico italiano”. Per giocare occorrono particolari doti e a che età si inizia? “Il bello del Roller Derby e’ che e’ frequentato da chiunque. Non importa né l’età, né la struttura fisica, né se hai mai pattinato in vita tua. Non solo chi gioca si diverte, ma si formano anche le squadre di tifosi tipo il calcio in Italia. che arrivano fino a 10.000 nelle gare nazionali. Sugli spalti vedi poi genitori e nonni che non si perdono una partita. L’ età minima diciamo è 10 anni. Si può iniziare anche prima, ma non c’è contatto fisico”.

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no sport “femminile” che supera gli stereotipi estetici e formali della donna. Armonia e delicatezza lasciano il posto a top aderenti, “hot pants”, minigonne, tatuaggi, trucco e acconciature fuori dal comune in abbinamento a casco, protezioni, paradenti e pattini a rotelle rigorosamente “vintage”. Sono ammessi spintoni e le cadute sono all’ordine del giorno. Anche in Italia esplode la mania del Roller Derby, disciplina nata in America più di 80 anni fa e che si sta conquistando sempre più persone. La martinsicurese Romina Bosica, campionessa di pattinaggio-corsa emigrata in America diversi anni fa, lo ha conosciuto e sperimentato in anteprima e dopo aver partecipato alla Coppa del Mondo nel 2011 attualmente è il coach di una squadra che conta 55 atleti



ILLUSTRAZIONI DI GIORDANA GALLI

LA CANZONE DELLE CILIEGIE


I

l buon giugno ha maturato

con i suoi raggi d’oro puro, tutte rosse le ciliegie tra il fogliame verde scuro. Ora occhieggiano invitanti ragazzini e ragazzine. Rosse, nere, e morettine ciliegione e ciliegine con un paio di bei frutti


io vi faccio gli orecchini, scintillanti, rosse e belli come fossero rubini. Bimbi belli, bimbe care, dai capelli bruni o biondi: tutti ornati di ciliegie siete ancora pi첫 giocondi. Rosse, nere, morettine ciliegione, ciliegine

(R.Paccarie)


RITAGLIA E COLORA


NELLA VALIGIA CIBO ITALIANO Due abruzzesi volano nella City promuovendo il food nostrano ANNA DI DONATO

Com’è nata l’ idea? “L’idea è nata durante un pranzo con il mio socio Marcello Falcinelli di fronte ad una mozzarella di bufala. Entrambi riflettevamo sull’idea di poter condividere tanta prelibatezza con chi, più sfortunato di noi, viveva all’estero ed ignorava, o era stato costretto a dimenticare tanta bontà”. Il primo step? “Il primo passo fu quello di fare le valigie e partire per Londra. Dapprima mi recai all’Italian Chamber of Commerce situata nella capitale britannica chiedendo quali fossero le mosse necessarie per diventare importatore ed il loro consiglio fu quello di aprire un’attività e basarne lo scambio all’interno. Fu così che iniziai una ricerca di mercato “on the road”, osservando le vetrine, quali cibi fossero più apprezzati da inglesi e non, e, dopo circa un mese e mezzo selezionai la ricca Finsbury Park come zona in cui intraprendere l’avventura”. Perché Italian Farmers? “Il nome è giustificato dal fatto che tutti i prodotti derivano da agricoltori diretti; il nostro contratto con la Coldiretti ci impone di importarne il 70% da aziende agricole da loro selezionate e provenienti da tutte le regioni e per il restante 30% ci rivolgiamo ad agricoltori selezionati dalla regione Lazio”. Che tipo di aiuti fornisce la Coldiretti? “In realtà fa solo un lavoro di mediazione; è chiaro che agricoltori e coltivatori non sono una categoria semplice da trattare così com’è vero che molte delle leggi italiane non permettono o non permet-

tevano loro di avere libero accesso al mercato. In questo caso la Coldiretti eroga un servizio di ricerca e sponsorizzazione che si conclude con la selezione di una vasta gamma di probabili esportatori che porta il loro marchio. Per il resto io gestisco qui il negozio insieme al mio staff ed il mio socio si occupa di logistica e spedizione da Roma, punto dove convogliano tutti i prodotti”. In che modo l’Abruzzo partecipa allo scambio? “Sfortunatamente dall’Abruzzo importiamo solo il vino Pasetti; non so se per una questione di poca pubblicità o carenza di prodotti ma sembra non ci siano molti agricoltori attivi interessati all’estero”. Per quanto concerne i prodotti non ne siamo affatto carenti, probabilmente è solo una questione di assopimento delle menti. Ad ogni modo, come giungono le merci al negozio? “Dunque, il fresco arriva una volta a settimana in aereo: mozzarella di bufala, le ricottine, formaggi, la porchetta di Ariccia, secco e conserve sono spedite in camion e giungono in tre giorni”. Immagino che abbiate avuto un gran successo. Come va il business? “Siamo davvero soddisfatti, a 7 mesi dall’apertura possiamo sentirci davvero orgogliosi, siamo stati intervistati dal Gambero Rosso e dal Londonist e sui social media non facciamo altro che ricevere followers e likes ed ora, dal giovedì al sabato abbiamo iniziato l’aperitivo all’italiana, così poco comune all’estero ma così tanto apprezzato”. Progetti per il futuro? “Stiamo già cercando altri locali per espanderci in tutta Londra. Il nostro prossimo passo è diventare una catena e far crescere gli Italian Farmers”. Opportunità nel settore certo non mancano, è necessario avere forza, coraggio ed un pizzico di lungimiranza unita a voglia di sponsorizzare il proprio territorio e chissà che un giorno, a Londra non possa trovarsi un’Italian Farmers in ogni vicolo, magari ciascuno di loro con prodotti provenienti da una sola regione ed un’Italian Farmers sottotitolato: Abruzzo e Val Vibrata.

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IMPRENDITORIA

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on è affatto un segreto che il popolo italiano abbia un acuto ed impeccabile gusto per il cibo nonché una serie di risorse territoriali che gli permettono di unire le opportunità di marketing connesse al settore ad incontri conviviali che sfociano in grandiose idee. Sotto questa luce potremmo considerare la passione italiana per la tavola e la cucina come una delle tante dee che anticamente infondeva ispirazione nei poeti. Questo è ciò che è accaduto a Massimo Santoro, giovanissimo romano proprietario del primo shop italiano a Londra commercialmente contrattualizzato dalla Coldiretti.


416 MILIONI DI EURO L’ ABRUZZO IN

IMPRENDITORIA

La nostra regione potrà contare su finanziamenti per sviluppo e produzione ALESSANDRA DI GIUSEPPE

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’Europa, sotto l’aspetto legislativo e politico-economico, ci appare distante, difficile da comprendere. La conoscenza dei Fondi Europei, diretti ed indiretti, è fondamentale per chi, imprenditori ed enti locali, abbia interesse ad accedere ai sostegni previsti. I Fondi Europei si distinguono essenzialmente in due tipologie: • diretti, ovvero i fondi gestiti dalla Commissione Europea tramite le Direzioni competenti ed assegnati direttamente ai singoli. Sono caratterizzati da una maggiore competizione, mentre i progetti sono meno complessi rispetto ai fondi strutturali. • indiretti o strutturali, vengono erogati dalla Commissione Europea non ai singoli, ma a istituzioni nazionali e regionali degli Stati membri che gestiscono i fondi e ridistribuiscono i finanziamenti sul territorio ai beneficiari. I finanziamenti diretti previsti per la programma-

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zione 2014 – 2020 sono consultabili sul sito http:// www.finanziamentidiretti.eu/?p=1777 . I finanziamenti strutturali sono gestiti dalla Regione e su di essi vale la pena soffermarsi maggiormente. Il 16 aprile 2014 è stata siglata l’intesa sulla proposta di accordo di partenariato per il periodo 2014-2020 che porterà nelle casse regionali 416,8 milioni di euro. La regione Abruzzo (insieme alla Sardegna ed al Molise) rientra nella categoria delle Regioni in transizione (con PIL pro capite compreso tra il 75% ed il 90% della media UE), una nuova categoria che necessita di una specifica politica di coesione per incrementare sviluppo e produzione, che si colloca a metà tra le Regioni più sviluppate (con PIL pro capite inferiore al 75% della media UE) e le Regioni meno sviluppate. Per il 2014-2020 la Proposta del Quadro Strategico Comune prevede l’applicazione di un’unica serie


DALL’EUROPA PER TRANSIZIONE Di seguito un breve elenco dei principi di base da applicare alla gestione dei progetti sostenuti dai fondi strutturali: - redigere per tempo proposte di progetti ben studiate - chiedere consiglio alla autorità di gestione nella fase iniziale della stesura del progetto - programmare le azioni in maniera dettagliata - utilizzare strumenti adeguati per avere tutte le informazioni necessarie ed una panoramica aggiornata dell’avanzamento del progetto - rispettare le scadenze La procedura di domanda per un progetto per accedere ai fondi europei varia da regione a regione. Il sito della Commissione pubblica esempi reali di domande di finanziamento da utilizzare come modello (http://ec.europa.eu/enerprise/policies/sme/regional-sme-policies/applicationexamples)

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IMPRENDITORIA

di norme armonizzate nei cinque Fondi strutturali: 1. FONDO EUROPEO DI SVILUPPO REGIONALE (FESR) 2. FONDO SOCIALE EUROPEO (FSE) 3. FONDO DI COESIONE 4. FONDO EUROPEO AGRICOLO PER LO SVILUPPO RURALE (FEASR) 5. FONDO EUROPEO PER GLI AFFARI MARITTIMI E LA PESCA (FEAMP) Una scelta innovativa rispetto alle esperienze precedenti è la specializzazione del Fondo Sviluppo e Coesione nel finanziamento delle grandi opere infrastrutturali, in particolare nei settori dei trasporti e dell’ambiente, mentre i Fondi strutturali investiranno esclusivamente sulle imprese e sulle aree territoriali, sulle persone e sulle infrastrutture leggere. Come accedere ai fondi strutturali: Il primo passo è individuare la modalità di accesso che un fondo prevede. La proposta progettuale deve coincidere con gli obiettivi previsti dal bando nonché con i costi ed i benefici collegati al progetto stesso. I bandi sono indetti dalla Regione in base ai Tavoli di Parternariato, ai quali partecipano le parti sociali per esprimere le proprie esigenze. I bandi sono reperibili sui siti delle singole Regioni. Di fondamentale importanza è lo studio del documento programmatico del fondo, che definisce gli obiettivi che l’Ente intende perseguire e permette di conoscere ex ante i principi della fase di selezione.


IL “BRUCO” DELLA GRANDE MELA

Il giuliese Mario Bollini dal 1985 corre alla Maratona di New York

PEOPLE

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n giuliese a New York. Così si potrebbe sintetizzare la pluriennale avventura di Mario Bollini che ha battuto tutti i record di partecipazione con ben ventotto presenze all’interno della più grande corsa podistica del mondo. Nel suo destino, quando partì da Giulianova per arruolarsi come volontario nell’Aeronautica Militare, non era scritto che avrebbe calcato per tantissime volte il ponte di Verrazzano-Narrows divenuto presto simbolo ed emblema della manifestazione sportiva più affollata dei cinque continenti. Mario Bollini è nato il 29 marzo del 1950 nel centro storico giuliese da una famiglia di lavoratori: il padre, a bordo di una Gilera, era alle dipendenze del forno Tentarelli e lo si vedeva spesso in sella assieme a due o tre figli. Da ragazzino Mario iniziò a frequentare il mitico Rubens Fadini ed in età utile si arruolò in Aviazione dove partecipò ai campionati militari di calcio senza disdegnare le di fondo in atletica. La svolta nel 1984 quando Mario Bollini si iscrisse e partecipò nella Capitale alla RoMaratona (distanza classica di km. 42,195) dove incassò un discreto piazzamento su 1.500 partecipanti. Non poteva esserci miglior inizio per inaugurare una lunga serie di prestigiosi appuntamenti nella metropoli statunitense. Così il 27 ottobre 1985 Mario Bollini si iscrive per la prima volta alla Maratona di New York correndola assieme ad altri 17.000 concorrenti conquistando il 2.897° posto con il tempo di 3.27.59. Proprio questa esperienza ha fatto si che Mario Bollini prendesse in seria considerazione la possibilità di andare avanti nella specialità della maratona. Il suo comandante , colonnello Riccardo Giangrande, cominciò a chiamarlo simpaticamente “Il mio soldato che corre”. Le cronache sportive di Mario Bollini trovano ampio spazio nella rivista ufficiale dell’Aeronautica e così si consolida la fama di atleta e di podista. Nel 1986 Bollini, per motivi di servizio, partecipa alla Maratona di Firenze con i colori dell’Arma. Nel 1987 di nuovo a New York con un buon piazzamento nonostante la non proprio eccezionale preparazione.

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ALFONSO ALOISI L’anno successivo (1988) Mario Bollini si congeda dal servizio militare dedicandosi appieno all’attività atletica. Ancora a New York e nel mezzo di oltre 20.000 partecipanti si piazza tra i primi 1.000. Nel 1989, sempre nella maratona di New York, Bollini giunge 946° tra i 30.000 che tagliano il traguardo. Lo scorso anno, nel novembre del 2013, Mario Bollini colleziona la XXVIII partecipazione alla Maratona di New York battendo tutti i record di presenze che già gli era stato riconosciuto ufficialmente dagli organizzatori dell’evento mondiale. Bollini ha già ha provveduto ad iscriversi alla competizione del 2014 ed a novembre prossimo sarà nella metropoli americana per correre la sua XXIX esperienza di maratoneta. Nel corso degli anni Mario Bollini si è incontrato a New York con tanti personaggi dello spettacolo e dello sport tra cui Gianni Morandi, Riccardo Fogli, Teo Teocoli, Beppe Bergomi, Orlando Pizzolato, Laura Fogli ed altri condividendo con loro ansie, speranze e passione. Mario Bollini ricorda chiaramente l’edizione del 2001 quando ci fu l’attentato alle Torri Gemelle: “La gara si disputò il mese dopo rispetto all’11 settembre. Ci furono circa 30.000 iscrizioni, ma solo 24.000 arrivarono sino alla conclusione della gara. I tanti ritiri furono attribuiti proprio all’infausto evento. L’allora sindaco di New York Rudolph Giuliani venne a trovarci e ci intrattenne con un bel discorso di incoraggiamento”. Da sottolineare che Mario Bollini, annoverato nell’albo dei soci fondatori della società sportiva giuliese ‘Ecologica G’, detiene anche il record mondiale di “partecipazioni consecutive” alla Maratona di New York: 27 ‘timbrature’ dal 1987 al 2013. Un aspetto particolare dell’atleta giuliese è quello di essere sprovvisto di cellulare. Anche questo è un altro primato: probabilmente non ama essere disturbato troppo. Va ricordato che Mario Bollini, in uno slancio di grande generosità verso la sua città, ha rifiutato più volte ricche sponsorizzazioni per indossare a New York la maglia con la scritta “Città di Giulianova”.


SPEZZATINO DIOCESIANO La Val Vibrata ha tre vescovi, quando l’unificazione?

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ono decisamente troppe tre diocesi per la Val Vibrata. I parroci interpellati sono tutti d’accordo: Se non c’è unità pastorale è difficile arrivare compiutamente al bene comune. In Val Vibrata ci sono 21 parrocchie e 5 foranie, suddivise, appunto, in tre diocesi: Teramo-Atri; San Benedetto-Ripatransone ed Ascoli Piceno. E, per retaggi del passato, anche geograficamente la ripartizione appare poco razionale. Agli interessati, parroci e fedeli in primissimo luogo, non rimane

MICHELE NARCISI punto di riferimento, e gli interventi potrebbero essere finalizzati meglio. Ma quando si potrà arrivare ad una unica diocesi, ad un solo vescovo per i centri della vallata vibratiana? “Per arrivare all’unità pastorale e ad una diocesi unica- rispondono ad una voce alcuni dei preti interessati- dobbiamo batterci insieme con convinzione, ma una soluzione, in ultima analisi, la devono trovare i vertici ecclesiastici”. Il tempo però passa, e di risultati positivi niente. Va ricordato che di questo importante

che esternare il proprio (cauto) disappunto, nella speranza che il quadro della situazione muti. Anni fa fu persa pure la ghiotta occasione del Giubileo, e così ancora oggi in pochi chilometri si passa da Torano Nuovo, che appartiene a Teramo-Atri, a Colonnella, che dipende da San Benedetto del Tronto-Ripatransone, fino ad Ancarano nella diocesi di Ascoli Piceno. Lavorare per l’unità in queste condizioni è obiettivamente problematico, anche se la volontà da parte di alcuni sacerdoti della valle per cercare di risolvere i problemi più importanti non manca. Lo spezzettamento “politico” penalizza tutti; ora come ora è impossibile pensare ad una riunificazione generale. Appare però evidente che procedendo uniti, ossia raggruppati in una unica diocesi, il lavoro comune (dei sacerdoti, dei religiosi in generale) risulterebbe più efficace. Con una unica gestione condivisa, le cose andrebbero sicuramente meglio: Chi potrebbe contestarlo? La Provincia e la stessa Regione avrebbero un unico

problema se ne parlava già ai tempi in cui era vescovo a Teramo monsignor Antonio Nuzzi. A sollevarlo con forza furono, tra gli altri, don Ennio Di Giovanni, all’epoca parroco a Torano Nuovo e docente di primo piano al Liceo Peano di Nereto (ora di stanza a Mosciano Sant’Angelo), e il mai troppo compianto don Antonio Vallorani, parroco prima a Villa Rosa e successivamente in quel di Colonnella. Il primo, don Ennio, appartenente alla diocesi di Teramo-Atri; il secondo, don Antonio, di San Benedetto del Tronto-Ripatransone. Se ne parlò per alcuni giorni, si infiammò il dibattito, ma presto tutto passò nel dimenticatoio, proprio come dice il detto, per rimanere in tema, “passata la festa, gabbato il santo”. Il problema è comunque sempre di attualità per la semplice ragione che anche l’unità religiosa a livello territoriale rafforzerebbe la Città territorio Val Vibrata, costretta a segnare il passo in ogni ambito.

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TERRITORIO

Mons. Michele Seccia


“Certe cose, si fanno insieme.�


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MAGNAMOLO STRANO! Gli italiani a tavola cambiano religione Alla pizza preferiscono sushi, sushimi, wasabi

CURIOSITÁ

VALERIA CONOCCHIOLI

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a cucina giapponese è già da qualche tempo arrivata nel Paese della pizza. Sarà soltanto una moda passeggera o gli italiani amano veramente questi nuovi sapori? Come in tutta Italia, anche nella nostra vallata sono ormai diversi i ristoranti che propongono la cucina orientale nei loro menù, in particolare sushi e sashimi. Abbiamo cercato di comprendere la natura del fenomeno chiedendo l’opinione dei principali ristoratori locali e nazionali. Grazie alla loro disponibilità, sappiamo che in Italia il sushi è il primo dei cibi etnici ad arrivare e, a differenza degli altri, come il cinese e il thai, non solo è l’unico che ancora resiste ma è addirittura in espansione. Ha attecchito soprattutto per la genuinità dei prodotti e per la ridotta presenza di forti spezie, a cui il nostro palato non è molto abituato. Inoltre, piace perché non è un prodotto particolarmente lavorato o, per così dire, pasticciato. L’ingrediente base di questo piatto, il pesce, è esclusivamente italiano, se non addirittura locale (basti pensare che uno dei più grandi esportatori di tonno in Giappone è proprio l’Italia) e, grazie ad apposite leggi per il consumo di pesce crudo, rispetta i canoni di genuinità e sicurezza ed è molto facile rendersi conto se il prodotto è buono e fresco. Il pesce crudo ha un sapore molto delicato che viene esaltato attraverso la salsa di soia (sostituto del nostro sale, da usare con moderazione per non coprire troppo i sapori), la salsa wasabi e il rafano (alternative al peperoncino, da cui si differenziano per il fortissimo impatto iniziale e la velocità con cui il bruciore scompare dalla bocca). Sono questi infatti, insieme al riso e alle alghe, gli unici prodotti di importazione, anche se oramai accessibili a chiunque in qualsiasi supermercato. A differenza del sushi tradizionale, i sapori vengono spesso adattati ai gusti italiani attraverso l’utilizzo di vari ingredienti, come philadelphia e maionese, combinati con i tradizionali pesci del nostro mare: tonno, salmone, orata, spigola, ricciola, polpo… Nascono così piatti sempre nuovi e originali che, grazie a versioni cotte o scottate, risultano piacevoli anche a chi non ama le cruditè di

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pesce. Ciò è dovuto alla tendenza, tutta occidentale, a rendere alcuni piatti internazionali e quindi accessibili alla maggior parte dei consumatori. Per la presenza di riso e pesce, prodotti tradizionalmente leggeri e ipocalorici, il sushi è inoltre un piatto molto apprezzato soprattutto dalle donne che amano mantenersi in forma senza troppe rinunce. Non stupisce quindi che la clientela di questi locali sia per un buon 70% femminile. Il Giappone, infatti, oltre ad essere in molti settori simbolo di qualità e benessere, è un Paese che vanta una media di vita molto alta, dovuta forse in parte a uno stile di vita salutare e a una dieta equilibrata. In questi anni la tv e internet hanno contribuito molto alla diffusione di questo prodotto attraverso film e telefilm in cui il sushi assurge a ruolo di vero e proprio status symbol. Non dimentichiamo infatti che la scelta di determinati alimenti riflette spesso la propria percezione di sé e il modo in cui l’individuo viene visto dagli altri. Il consumo di un piatto particolare come il sushi potrebbe riflettere (o essere percepito esternamente come) un gusto personale, l’apertura verso nuove culture o addirittura un emblema di distinzione sociale dovuta al costo del piatto e all’eleganza della location. Sicuramente, spesso chi si avvicina per la prima volta a questi piatti lo fa per moda ma, per la gran parte dei consumatori abituali, si tratta di un prodotto che ormai piace, alternativo proprio alla solita pizza. È importante inoltre ricordare che il sushi non è solo cibo, ma soprattutto cultura; una cultura per certi versi lontana anni luce dalla nostra, con proprie tradizioni e usanze, ma con piatti paradossalmente molto più vicini alla dieta mediterranea di un chili o di un involtino primavera.


VERMIGLIO ROSSO TRA BIONDE DORATE

Il papavero abita i campi di grano. Conosciamolo

AMBIENTE

U

no dei protagonisti indiscussi del panorama naturale tardo primaverile è sicuramente il papavero. Da qualche tempo, il massiccio impiego di erbicidi in agricoltura ha tuttavia limitato consistentemente la presenza di questa pianta infestante che, da sempre, tinge di rosso i campi di grano. La rosa di campo o rosolaccio (Papaver rhoeas), questo il nome della specie spontanea più comune, si trova in tutta Italia nelle colture di cereali e spesso anche su ruderi e macerie. Il colore vivace dei suoi fiori lo rende facilmente riconoscibile anche per un occhio inesperto. Sono molteplici gli usi di questa pianta, nota fin dall’antichità. I teneri germogli sono, ad esempio, un gustoso ingrediente per insalate condite con olio e limone, magari in aggiunta ad altre erbe di campo come i crespigni, la cicoria e l’ortica; i petali freschi vengono invece utilizzati per colorare sciroppi e bevande. Il Rosolaccio è, inoltre, sedativo e antispasmodico: se ne usano i petali e le capsule svuotate dei fiori per infusi e sciroppi utili a calmare la tosse, l’insonnia e l’eccitazione nervosa (con risultati più blandi rispetto al ‘cugino oppiaceo’ Papaver somniferum). A questo proposito occorre sottolineare che etimologicamente il termine papavero deriva dal latino pappa o papa, in riferimento all’antica consuetudine di unire i semi al cibo dei bambini allo scopo di facilitarne il sonno; tale infuso prendeva il nome di “papagna”, termine usato ancora oggi per indicare lo stato di sonnolenza. Quante volte, da ragazzini, avete temuto di ricevere ‘nu papagne da mamma e papà quando non riuscivano più a tollerare le vostre marachelle? E quanto restavate storditi per il colpo ricevuto? Questo strano modo di denominare ‘lo schiaffo di correzione’ fa riferimento proprio all’effetto soporifero generato dall’esposizione o dal consumo del fiore. La proprietà sedativa è probabilmente la più nota della rosa di campo: perfino Dorothy, la piccola protagonista del Mago di Oz, rischia di non raggiungere la Città dello Smeraldo, quando, attraversando un folto campo di papaveri, si addormenta profondamente, soggiogata dal profumo pungente di quei fiori purpurei. In Abruzzo, e più precisamente in dialetto teramano, il papavero viene chiamato papaule, papav’r, papambre ed è comune definire ‘ndà nù papaule’ (lett. “come un papavero”) una persona gracile o imbambolata. Chissà che non capiti anche a voi di restare imbambolati fissando un campo di papaveri!

ROBERTO DI NICOLA 39


GROTTAMMARE MOTION PICTURES Nella sua mediateca Gabriele Brancatelli custodisce oltre 15mila titoli

PEOPLE

PARIDE TRAVAGLINI

P

arlare di mediateca nell’era di internet e dei social network, potrebbe sembrare anacronistico. Chiunque, infatti, da casa può collegarsi ed accedere ai contenuti della rete, trovare ciò che serve. La mediateca è qualcosa che va oltre la semplice navigazione: è un progetto in continua evoluzione, con lo scopo di ricercare, raccogliere, produrre e rendere accessibili informazioni e risorse per i propri utenti. Un centro di orientamento, informazione e consulenza per tutti i cittadini dove oltre ad avere la possibilità di navigare in internet è possibile consultare banche dati, ascoltare cd musicali, realizzare le proprie ricerche, vedere film o documentari in VHS e DVD e tanto altro ancora. Il grande archivio cinematografico è il fiore all’occhiello della mediateca di Grottammare tra le più importanti d’Italia. Film d’essai, filmografie complete di autori importanti, documentari, teatro, produzioni televisive, svariate riviste di cinema. Oltre 15.000 titoli disponibili messi a disposizione da Gabriele Brancatelli, collezionista ed appassionato di cinema e titolare per 15 anni della storica videoteca Night And Day di San Benedetto del Tronto Una grande opportunità per tutti gli appassionati di cinema, per le scuole, ma soprattutto per i cinefili in cerca di titoli introvabili. Il più antico risale al 1890. Questa è la mediateca di Grottammare all’interno della biblioteca comunale, inaugurata nel 2009 alla presenza del regista Giuseppe Piccioni e realizzata grazie alla collaborazione pubblico/privato. Senza il coinvolgimento e la disponibilità di Gabriele Brancatelli e la lungimiranza del giovane assessore alla Cultura Enrico Piergallini, attuale

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sindaco della città rivierasca, la mediateca infatti non esisterebbe. A causa di uno scorretto comportamento nell’ambito video home (film in edicola con o senza riviste a prezzi molto inferiori a quelli obbligatori delle videoteche e l’avvento di internet non controllato da chi di dovere), che ha obbligatoriamente portato la stragrande maggioranza delle videoteche alla chiusura “per mancanza clienti”, prende vita il progetto di mediateca che Brancatelli offrirà ai vari comuni con esiti negativi. Tra il 2006 ed il 2007 nasce l’associazione culturale “The last movie” che farà un contratto di comodato d’uso a Brancatelli e che successivamente diventerà operativo con il Comune di Grottammare che creerà la mediateca comunale. Dopo un lungo ed intenso lavoro di catalogazione, ad aprile 2009 la mediateca diventa realtà. I film sono ospitati in un moderno archivio al pianoterra. A distanza di cinque anni, sono sempre di più coloro che per motivi di studio o per semplice passione si rivolgono a Gabriele, vista la sua grande cultura cinematografica che indubbiamente rappresenta un’opportunità ed un fiore all’occhiello per il territorio. Ufficialmente, ad oggi, sono stati catalogati 17.500 film suddivisi in vari generi di cui 50% VHS e 50% DVD. In magazzino ci sono ancora 5000 titoli da inserire in catalogo. Per salvaguardare ulteriormente il grande patrimonio cinematografico, è stato deciso, inoltre, di trasportare molti titoli in dvd (soprattutto film non presenti ancora sul mercato in supporto digitale) . Brancatelli sta inoltre preparando cataloghi cartacei con le copertine originali dei vari film. Una vera “chicca” per gli appassionati di questo settore.


Raccontiamo emozioni.

Il futuro appartiene a chi crede alla bellezza dei propri sogni.


LA SATIRA DI PERILLI


ANDREA SPADA

CAPE FEAR

Martin Scorsese, Usa 1991

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ax Cady un assassino psicopatico esce dal carcere dopo una severa condanna e decide di perseguitare il suo avvocato difensore attuando una vendetta sadica e persecutoria. Un plot scarno ed essenziale per un gran bel thriller d’autore che ricalca non troppo fedelmente il suo originale da cui prende spunto ( il Promontorio della Paura, appunto, del 1962), rifacendosi per il suo terrificante Villain ( Robert De Niro ) piuttosto al mefistotelico predicatore di ”La morte corre sul fiume” (Robert Mitchum)...Un film che ha nei suoi grandi protagonisti (Jessica Lange, Nick Nolte, Juliette Lewis e De Niro naturalmente) personaggi ricchi di umanità e sfumature che, alla Hitchcock maniera, tendono inesorabilmente a scontrarsi contro qualcosa di più grande di loro a cui spesso si associano i famosi complessi e frustrazioni mistiche tipiche del regista americano (Scorsese)... Fotografato dal maestro del cinema Hammer F. Francis e musicato da E. Bernstein che ha adattato l’originale pentagramma di B.Hermann, il film consacra il suo autore come grande tecnico del cinema ma non spicca da un punto di vista soggettivo emozionale (sfiorando l’esercizio di stile, la maniera ). Le scene mozzafiato non mancano e si alternano ad altre dall’ estetica quasi sovrannaturale, con un De Niro sardonico e indistruttibile che sfida persino Dio citando Nietzsche e le leggi della fisica ,nella concitata scena finale sulla barca in balia del fiume. Dal film cito imperdibile: “Io non sono un povero pezzo di merda, io sono meglio di tutti voi! Leggo meglio di voi. Imparo meglio di voi. Ragiono meglio di voi. E filosofeggio pure meglio di voi! E durerò più di voi! Ti credi che un po’ di botte mettano fuori combattimento questo vecchio montanaro? Dovrai fare uno sforzo molto più serio, avvocato, per dimostrare che vali più di me! “(Max Cady)

GODZILLA

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elle misteriose scosse sismiche distruggono una centrale nucleare in Giappone ...Nella tragedia perde la vita anche la moglie del supervisore Joe Brody ( Bryan Cranston) anch’essa sua collega di lavoro ...Nessuno tuttavia immagina che la fonte del male sia qualcosa, una verità scomoda, rimasta sepolta nell’omertà, di un gruppo di nazioni detta M.O.N.A.R.C.H che hanno nascosto al mondo ,alla comune popolazione, l’esistenza di creature mostruose che nella preistoria si nutrivano di radiazioni... Tra di esse ci sono le M.U.T.O(Massive Unidentified Terrestrial Organism) ancora in stato larvale e viventi all’interno di due crisalidi. In seguito ad un crollo minerario, una di esse rompe la crisalide e fugge via libera ,verso la centrale nucleare giapponese provocando il violento sisma...Ad occuparsi della questione segreta sarà Ford Brody, il figlio di Joe, che insieme al padre torneranno ad occuparsi dell’accertamento della verità...Film cosiddetto reboot dell’originale Godzilla del ‘54 che aggiorna ancora una volta la paura delle radiazioni del nucleare, dell’autodistruzione ricordando la tragedia della bomba atomica e in questo caso la pura sfiducia nell’uomo nel suo tentativo di controllare la natura e le sue devastanti espressioni ...Ad erigersi ad ago della bilancia darwiniana sarà in realtà il mostruoso lucertole anfibio, piuttosto che l’uomo e che, in strabilianti scontri fotografati in maniera apocalittica contro altrettanti mostri che si nutrono di energia nucleare ed emettono onde elettromagnetiche, ristabilirà l’ordine naturale delle cose prima di ritornare nelle profondità dell’ oceano...Il merito della buona riuscita visiva del film va senza dubbio anche all’ottima computer grafica e alla 3 D che rinverdisce come non mai i fasti in versione vintage della creatura ,celebre kaiju del cinema giapponese... Quel che colpisce è la complessità della storia da cui si trae una buona sceneggiatura ,meno puerile rispetto ai suoi predecessori (vedi il Godzilla di Emmerich) restituendovi a tratti la sua carica naturale eversiva, tipica dell’ originale del ‘54 e in parte, grazie anche alla dilatazione temporale che relega l’azione vera e propria nella seconda metà della pellicola , spingendo saggiamente le attese del pubblico al massimo consentito.

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CINEMA

Gareth Edwards USA 2014


ROSOLATO TI FA BELLO Cos’è la tanoressia e perché ci si ostina a sembrare di bronzo

VIRGINIA MALONI *

DIALOGO

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on l’arrivo dell’estate il nostro corpo si prepara ad accogliere il tanto atteso sole, ci piace andare in spiaggia o in montagna e abbronzarci, vedere la nostra pelle che cambia, guardarci allo specchio con un po’ di colore e, ci soddisfa, indossare abiti che danno risalto alla nostra tintarella. Fin qui tutto nella norma, in quanto, con l’arrivo della bella stagione, la pelle e i nostri ormoni hanno bisogno di rigenerarsi. In effetti, secondo recenti studi, l’esposizione al sole sarebbe strettamente collegata alla produzione della serotonina, il cosiddetto ormone del buonumore. Oggi però, l’abbronzatura può divenire una vera e propria patologia, soprannominata “Tanoressia”. Pare essere questa l’ossessione dell’estate e riguarda principalmente le donne tra i diciassette ed i quarantacinque anni, secondo le quali una pelle abbronzata regala un aspetto più sano e seducente. Cos’è la Tanoressia? La Tanoressia consiste nell’avere una necessità sproporzionata di sentirsi e vedersi abbronzati, per cui parliamo di una vera e propria compulsione ad esporsi in maniera eccessiva al sole, o alla luce artificiale delle lampade solari, anche senza le dovute protezioni, ignorando le conseguenze nocive dell’esporsi in maniera ossessiva. La persona vuole essere scura di carnagione a tutti i costi, e non accetta la propria immagine allo specchio se non ritrova la stessa abbronzatura. Il non essere bronzei induce poi la persona a sentirsi irrequieta, sfiduciata, a disagio con se stessa. La tanoressia, quindi, al pari di una dipendenza porta a non vedersi mai abbronzati

“quanto basta”, ad esporsi in maniera ossessiva alla luce solare senza l’uso di creme protettive, e ad sperimentare un disagio interiore nel caso in cui non ci si è esposti abbastanza al sole. La Tanoressia mostra “l’appetito per l’abbronzatura”, un modo di agire che presenta delle somiglianze con l’anoressia: così come l’anoressico non si vede mai abbastanza magro, il tanoressico non perviene mai al livello di abbronzatura ambito. Il problema è che chi si vuole abbronzare in maniera ossessiva e non sana, dimentica le buone norme da seguire per avere un’abbronzatura bella, duratura, ma soprattutto in salute. Il tanoressico prova una sensazione di freschezza e benessere subito dopo l’esposizione al sole o subito dopo aver fatto una lampada e il confine patologico sta proprio in questa fase e cioè che tali soggetti non riescono più a farne a meno di questa sensazione e della loro immagine con la pelle scura. Quello della tanoressia è un circolo vizioso dal quale è difficile uscire: se il livello del buon umore e dell’autostima sono strettamente legati all’abbronzatura, appare chiaro che la persona affetta dalla dipendenza ha bisogno, per uscirne, di un costante supporto psicologico capace di indirizzare verso una maggiore cura della pelle e della percezione della propria immagine psicofisica. * (Psicoterapueta)

Bibliografia di riferimento American Psychiatric Association (2001). Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorders (4a ed.-revised). Washington, DC: APA. American Psychiatric Association. DSM-IV-TR. Manuale diagnostico e statistico dei Disturbi Mentali, 4th edizione, text revision, a cura di Andreoli V, Cassano GB, Rossi R, Masson, Milano 2001. Fairburn, C.G. (2008). Cognitive Behaviour Therapy and Eating Disorders. New York: Guilford Press.

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COME PREVENIRE E TRATTARE LA PELLE SECCA

NOEMI DI EMIDIO

BELLEZZA

Estetista

L

a pelle secca è un’esperienza frequente e comune a tutti. La pelle è un organo importante per il nostro organismo, è costituita da diversi tessuti, la cui funzione è quella di rivestire il corpo umano, assicurare protezione al nostro corpo e permettere i rapporti con il mondo esterno, per questo è importante averne cura mantenendola sempre idratata. Nella pelle secca il normale equilibrio idrolipidico è alterato. Come conseguenza, la pelle appare ruvida, arrossata, screpolata, meno resistente agli agenti esterni e facilmente irritabile. Manifestazioni infiammatorie e prurito sono disturbi spesso presenti. Esistono due differenti tipologie di pelle secca: pelle secca” alipica” è una pelle a basso contenuto di grassi, con carente film idrolipidico e con ridotta secrezione sebacea; e la pelle secca “disidratata” che oltre ad un basso contenuto lipidico presenta uno scarso contenuto di acqua. Per cercare di prevenire e alleviare questo disturbo è importante capire le cause che portano alla secchezza cutanea. Essa diventa secca quando diminuisce il suo contenuto di acqua intraepidermico o si riduce la capacità di mantenere la naturale idratazione cutanea. Le sue cause sono riconducibili a diverse categorie fondamentali: fattori costituzionali, dove al di là di eventuali caratteri geneticamente trasmessi, sono più esposti alla pelle secca gli individui alle fasce di età più estreme (infanzia e senilità) in cui l’attività delle ghiandole sebacee è ridotta o assente; la secchezza cutanea è inoltre più frequente in gambe e avambracci, che sono le regioni più povere di ghiandole sebacee. Fattori ambientali e climatici,

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come esposizioni solari, al vento, al caldo o freddo, irritazioni di natura meccanica(sfregamento) portano ad una disidratazione cutanea. Fattori alimentari, dove una scarsa assunzione di acqua nel nostro organismo o un carente consumo di frutta e verdura, apporta nella cute un minore contenuto idrico. Disidratano la pelle anche trattamenti scorretti come le eccessive detersioni con saponi o detergenti aggressivi; anche l’assunzione di farmaci locali come il cortisone portano ad una alterazione del film idrolipidico con conseguente assottigliamento della cute. Purtroppo l’uomo non può vivere in un ambiente costantemente favorevole all’idratazione della sua pelle. Al contrario si stanno diffondendo comportamenti e ambienti in contrasto con la naturale fisiologia cutanea ( basti pensare al largo uso dell’aria condizionata). Perciò si impone il ricorso a prodotti cosmetici. Lo strato corneo (quello più superficiale), nella cute secca, va incontro, a fenomeni di disidratazione, depidilizzazione, e ispessimento. Un approccio per ripristinare la barriera cutanea è di includere nei cosmetici lipidi compatibili alla cute; non è però sufficiente aggiungere grassi alla superficie cutanea, ma è anche necessario utilizzare cosmetici contenenti ingredienti capaci di stimolare le cellule epidermiche; la pelle ha bisogno di prodotti specifici in grado di ripristinare l’equilibrio idrolipidico alterato, con ingredienti attivi fisiologici in modo da essere ben tollerati. Nella scelta del cosmetico adatto è importante utilizzare prodotti che contengano ingredienti naturali come l’urea che aumenta la capacità di mantenere il giusto grado di idratazione cutanea e ridurre eventuale prurito; collagene ed elastina, oli vegetali, bisabololo, aloe, cera d’ api, ecc. La detersione quotidiana nella pelle secca deve avvenire con detergenti delicati e poco schiumogeni, che non asportino il film idrolipidico già parzialmente alterato, possono inoltre contenere agenti lenitivi e preferibilmente senza profumo. Una volta a settimana si può fare un peeling delicato seguito dall’applicazione di una maschera di bellezza nutriente, in quanto contribuisce al relax della pelle idratandola in profondità. In fine completare il trattamento utilizzando una crema idratante da giorno, importante per la protezione cutanea, per la prevenzione, il mantenimento, la salute e l’igiene della pelle.


AD OGNUNO IL SUO COSTUME

FEDERICA BERNARDINI

Impazzano ora i mens brief bikini: il micro speedo che copre solo “lui”

MODA

Con i primi caldi, in giro per negozi, è facile udire dai camerini urla di dolore. Bianche come mozzarelle ecco a destreggiarci tra bikini, trikini, costumi interi, triangoli, balconcini, brasiliani e chi ne ha più ne metta. Piccoli consigli: avete fianchi larghi? Evitate i laccetti e spostate l’attenzione sul seno con un bel balconcino. Spalle strette? Scegliete un reggiseno legato dietro al collo. Non esagerate seguendo la moda del momento e scegliete il costume che vi fa sentire a vostro agio e in libertà senza rinunciare alla vostra femminilità. Questo vale anche per gli uomini: è uscito in America e in Asia un nuovo modello di costume maschile, il Mens Brief Bikini, che sfida ogni legge sulla gravità con pochissimi centimetri quadrati di stoffa solo su un fianco. Se l’intento era quello di solleticare il gentil sesso il risultato ottenuto è proprio l’opposto. Uomini ritornate in voi e lasciate a noi donne la frivolezza dell’apparenza e del sano esibizionismo!

UNO STILE REGALE L’uscita del film interpretato da Nicole Kidman al Festival di Cannes ha riportato i riflettori su Grace Kelly, principessa di Monaco e musa per eccellenza di Alfred Hitchcock, da quest’ultimo soprannominata “ghiaccio bollente”. Una donna raffinata, altera e da una eleganza senza tempo il cui stile, seppur mutato dal periodo di Hollywood a quello del principato di Monaco, è stato sempre preso in considerazione ed imitato ( l’abito da sposa di Kate Middleton non vi ricorda nulla?). Il ritorno alla moda degli anni ‘50 preannunciato dalle sfilate e l’uscita del film hanno contribuito ad una vera e propria Grace mania: è il momento quindi di pantaloni stile Capri, cappelli a falda larga, camicie dal taglio maschile, foulard e , per sentirsi principesse e sognare un po’, gonne a ruota, colletti rotondi, cerchietti, cinture sottili e gli immancabili guanti lunghi in raso.

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EVENTI IN VA CIVITELLA DEL TRONTO

Dal 5 al 28 luglio si terranno due eventi : la mostra dedicata alla prestigiosa ceramica di castelli, dal titolo “ Visioni Territoriali” e la mostra curata da Gianluigi Colin, art director Il Corriere della sera. Il 6 luglio ed il 26 luglio, presso la Fortezza, si terranno le visite guidate “Wild”. Con il falconiere Giovanni Granati sarà possibile ammirare animali di rara bellezza come falchi, aquile, lupi e gufi. Inizio ore 18.00. A pagamento.

COLONNELLA

Dal 12 al 23 luglio, presso il Palazzo Pardi di Colonnella , si terrà la seconda edizione di Vibrarte, la mostra collettiva di pittura aperta a tutti gli amanti dell’arte e della cultura della Val Vibrata.

CONTROGUERRA

Dal 3 al 6 luglio torna la 16^ edizione di Calici sotto le stelle. La rassegna di piatti tipi e buon vino fa tappa a Controguerra per 3 serate dove sarà possibile partecipare a delle degustazioni guidate.

GIULIANOVA

Arriva la seconda edizione del “Attenti al luppolo”. Ogni mercoledi dal 25 giugno al 3 settembre si terranno vari appuntamenti in cui sarà possibile degustare vari tipi di birre artigianali. Saranno presenti anche mercatini dell’artigianato, oltre alla musica live. Saranno attivi anche gli stand gastronomici che prepareranno piatti della tradizione locale. Centro storico, Giulianova Paese. Inizio ore 20.00

MONTEPULCIANO BLUES FESTIVAL

Il 6 luglio, inizierà a Controguerra la VII edizione del Montepulciano Blues Festival. Ad esibirsi saranno Miss Eliana e Jhonny Mars e Mama’s Pit. L’11 luglio sarà la volta di Corropoli con The Reverend & The Lady e Jerry Portnoy Band Il 12 luglio a Nereto si esibiranno Rico Blues Combo e Rudy Rotta. Saranno presenti stand gastronomici e sarà possibile degustare vini.


AL VIBRATA

MARTINA DI DONATO

SANT’ EGIDIO ALLA VIBRATA

Il 20 giugno, all’Onirico Festival di Sant’Egidio si esibirà il duo siciliano Il pan del Diavolo, a seguire dj set. Il 27 giugno, a chiusura del festival, si esibirà il gruppo pisano The Zen Circus. I concerti, le mostre ed i mercatini dell’artigianato si terranno presso il Parco della Musica. Inizio ore 22.00. Ingresso libero.

APPENNINO FESTIVAL

Il 22 giungo a Villa Egidi di Folignano (AP) farà tappa l’Appennino Festival con l’appuntamento “Borghi collinari, ieri ed oggi”. Durante la giornata si terrà un’escursione ed uno spettacolo teatrale. Il 28 giugno sarà la volta di Quintodecimo, frazione di Acquasanta Terme con “Ritmi e suoni nel cuore della Laga”. Il programma prevede un’escursione presso la cascata Noce Andrana e a seguire uno spettacolo di musica etnica. Il 3 luglio presso Tallacano di Acquasanta Terme,”La nera signora” escursione e rito spettacolo a cura della Compagnia dei Folli Produzione Festival Il 6 luglio a Forcella di Roccafluvione per il “Forcella Rock Fest”. Escursione e spettacolo di musica tradizionale. 10 luglio a Meschia di Roccafluvione (AP) si terrà un’escursione guidata e lo spettacolo dal titolo “La Principessa delle rocce”. Il 13 luglio a Porchiano di Ascoli Piceno “Tra i Calanchi con gli antichi romani”, escursione e rievocazione dei riti romani. Il 15 luglio a Rocchetta di Acquasanta Terme(AP) si terrà il “Rocchetta Film Festival”. Il 17 luglio, in conclusione dell’Appennino Festival, a Force di Ascoli Piceno si terrà la festa di chiusura


I “SIGNORI” IN VERDE RICETTE DELLA MEMORIA

I piselli, appetiti dal popolo e dai sovrani

FRANCESCO GALIFFA

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n Primavera, contemporaneamente alle fave, l’orto offre i piselli e le contadine di una volta univano spesso i due legumi in “matrimonio”, arruolando come testimoni cipolla e pancetta. La varietà attuale di piselli (Pisum sativum) deriva dal Pisum Elatius, molto diverso dall’attuale pianta per i semi nerastri, la cui storia ha avuto origine, quasi sicuramente, fra il bacino orientale del Mediterraneo e la Mesopotamia intorno al 5000 a. C., in pieno Neolitico. I piselli erano apprezzati già dai Greci e dai Romani, i quali, secondo quanto scrive Apicio, usavano cucinarli in diversi modi, con una dovizia di spezie, abbinandoli a uccelletti, pezzi di pollo, cervella, calamari e altri ingredienti ancora. Nel Medioevo, durante il quale le risorse alimentari a disposizione delle popolazioni scarseggiavano, erano proposti in una versione più povera come si riscontra nei

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ricettari riconducibili all’imperatore Federico II, di cui è nota la grande passione per la cucina: «Togli i pesi ben bolliti e gittata via l’acqua mettili a cocere con cascio di briga e ova sperdute et puoi metervi dentro del petrosello». Per rimarcare la considerazione di cui godevano in questo periodo storico, giova ricordare che ai piselli era attribuito il ruolo di moneta ed erano usati come salario per i contadini e come elemosina per i poveri. Pochi secoli dopo, il Maestro Martino (XV sec.) nel “Libro de Arte Coquinaria”, considerato un caposaldo della letteratura gastronomica italiana, che testimonia il passaggio dalla cucina medievale a quella rinascimentale, propone “piselli fricti in carne salata”: «Piglia i piselli con le scorze como stanno, et fagli dare un boglio. Et togli carne salata vergellata (grassa e magra, probabilmente pancetta, ndr.) et tagliata in fette sottili et longhe mezo dito


COME CONSERVARE I PISELLI Oggi i piselli si conservano tramite il congelamento; una volta, invece, si ricorreva ad altre tecniche. Vincenzo Tanara scrive che «Quelli che non s’adoprano nello stato tenero, si lasciano indurire a perfezione poi battuti, & cavati da baccelli, si seccano al sole ò in forno, acciò non si buchino, se ne fa poi la quaresima minestra assai buona». Berardo Quartapelle detta precise indicazioni per il suo corretto essiccamento: «Nelle vicinanze delle grandi città si usano ancora altre industrie per avere più volte dentro d’un anno i piselli e poterli vendere verdi. [omissis] Tutta la diligenza dunque si restringe per la raccolta dei piselli secchi [omissis]. Quando il disseccamento del fusto è tale che indichi la maturità de’ frutti, allora si svelgano le piante, e si trasportino in un aja bel asciutta ed ariosa, affinchè possan finir di seccare; e dopo quest’epoca esse si battano come si pratica col frumento. Si richiede molta cura per conservare i piselli, e per difenderli specialmente dal bruco, che suole roderli internamente. Alcuni consigliano di gettarli nell’acqua bollente, e poscia subitamente farli passare in acqua fredda tosto che sono stati raccolti: e poscia farli seccare immediatamente, e quanto più presto si può all’ombra. Altri pensano che per maggiore sicurezza si debban mettere subitamente che sono stati raccolti in un forno alquanto tiepido: in questa guisa egli è vero che niente contraggon di disgustoso, ma perdon alcun poco della loro bontà. Oltre di che posson patire nel germe quelli, che si debbon conservare per la semenza. A questo fine dunque sarà meglio di tener i piselli, che si voglion conservare per la semenza, a molle per dieci ore circa in acqua, la quale sia il più che si può fredda. Quindi seccati all’ombra il più presto che sia possibile si ripongano in un sito, che non sia umido, ma molto fresco, affinchè l’uovo dell’insetto depositato nell’interno del grano non trovi il grado necessario di calorico che lo faccia sviluppare». (Berardo Quartapelle, “I principi della vegetazione, Tomo Secondo”, Berardo Carlucci e Sebastiano Polidori ed. Teramo 1802, pp. 73-74.)

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RICETTE DELLA MEMORIA

et frigele un pocho. Et dapoi mitti li ditti peselli accocere con la ditta carne. Et ponevi un pocho de agresto, un pocha de sapa, overo zuccharo, et un pocha di canella». Come si è visto da questo breve excursus sul loro uso in cucina, i piselli sono stati da sempre legumi “poligami” e dalla loro unione con una lunga serie di altri ingredienti sono stati concepiti piatti oltremodo interessanti, come riferisce con dovizia di particolari l’agronomo bolognese Vincenzo Tanara nella sua monumentale opera “L’economia del cittadino in villa”, pubblicata nel 1644: «Di questi teneri se ne fan minestre, sì di magro come di grasso, assai buone, quelle con petrosello, uva spina, ò agreste, e tarantello (parte del tonno vicina alla spina, ndr.) dissalato dentro, queste con brodo, e prosciutto, ò ventresca (interiora del tonno, ndr.), ò panzetta, ò salame bollito, si ligano con ovo, overo se li pone straccia; In uno de’ suddeti modi cotti se ne cuopre ancora rispettivamente ogni pollo, massimamente il Piccione: & ogni pesce, massime la Raina (carpa, ndr.); questi tenerissimi i giorni di magro in un tegame con oglio, e petrosello, aglio, ò cipoletta , agreste, pepe, e sale suffritti, sono assai nobile, e gustosa vivanda quali in luogo d’oglio d’oliva non abboriscono il butiro, ò l’oglio d’amandole dolci, perlessati ancora, e tenerissimi si fanno in frittata, overo in torta, quali si tramezzano ancora di fette di provatura, ò ravagliolo in suo luogo cascio tenero; quelli che non s’adoprano nello stato tenero, si lasciano indurire a perfezione poi battuti, & cavati da baccelli, si seccano al sole ò in forno, acciò non si buchino, se ne fa poi la quaresima minestra assai buona». I piatti a base di piselli servivano per soddisfare le esigenze alimentari del popolo ma erano apprezzati persino dai sovrani, come scrive Jean Bruyérin-Champier, medico di Francesco I e di Enrico II, nel “De re cibaria”, pubblicato a Lione nel 1560: «I re e i cortigiani ne fanno la loro delizia, soprattutto quando sono cotti con del maiale; ed è quello che si chiama i piselli con il lardo. Non vi è niente di più saporito di una fetta di maiale salato preparato con dei piselli». Si racconta che ne fosse ghiotto lo stesso Re Sole e, come lui, la sua corte. Sempre nel Settecento un’altra testa coronata, Sua Maestà il Re delle Due Sicilie, lo gustava volentieri nelle versioni preparate dal capo dei “Servizi di bocca”, Vincenzo Corrado, il primo cuoco a tener d’occhio la “Cucina mediterranea” nel libro intitolato “Del cibo pitagorico”. Dalla sua fortunatissima opera, “Il cuoco galante”, di cui si contano numerose edizioni e ristampe giunte fino alla metà dell’Ottocento, sono tratte queste due interessanti ricette. “Piselli alla panna”: «Bianchiti i Piselli nell’acqua si cuocono con butiro, erbette, e spezie, e si servono stagionati con panna di latte, polvere di cannella, e coriandri in polvere, dentro Cassettine di pane bagnate nel latte, e fritte con butirro. Si possono anche servire con Crema di latte e gialli d’uova». “Piselli in Ignocchi”: «Si cuocono i Piselli in brodo, si pestano con parmigiano grattato, ricotta, uova, e


RICETTE DELLA MEMORIA

cannella, e se ne formerà una pasta, dalla quale se ne faranno Gnocchi. Infarinati si fanno bollire per poco nel brodo di Piccioni, e si servono stagionati con butirro e parmigiano grattato». Nei ricettari di ogni epoca i piselli sono utilizzati quasi esclusivamente freschi e a quest’abitudine alimentare non si sottraeva nemmeno la popolazione della provincia di Teramo, come scrive Berardo Quartapelle, una fonte alla quale facciamo spesso riferimento per la sua attendibilità: «Noi coltiviamo piselli alti, ed i piselli bassi, e sono o bigii, o bianchi, o rossi, e ce ne serviamo di frutto nelle tavole mangiandoli freschi». Tuttavia, come succedeva per altri legumi, la gente di campagna ne seccava una parte da conservare come provvista per l’inverno e da utilizzare per preparare zuppe e torte. Nella cucina dei nostri giorni, i piselli, quando sono piccoli e freschissimi, vengono consumati anche crudi; appena scottati sono ottimi aggiunti alle insalate; oppure possono essere semplicemente

cotti in padella con cipolla, prosciutto (crudo o cotto) tagliato a dadini e un filo d’olio di frantoio. Sono ottimi con la panna per condire ravioli, timballi e vari tipi di pasta. Li ritroviamo nella celebre ricetta veneta dei “risi e bisi” e, inoltre, nella preparazione di zuppe, minestre, frittate, contorni. Si sposano bene anche con vari tipi di pesce; di seguito riportiamo la ricetta delle “seppie coi piselli”, romanesca d’origine ma ormai patrimonio culinario nazionale. Oltre che per le sue qualità organolettiche, i piselli e i loro derivati sono consigliati per una serie di proprietà che aiutano a vivere in modo più sano: sono ricchi di proteine, calcio, potassio, ferro, fosforo, fibre e vitamine; sono tonici e diuretici (grazie alla presenza di potassio); rafforzano le difese naturali dell’organismo agendo sul riequilibrio dell’intestino. Nell’Ospedale Maggiore di Parigi, durante il Medioevo, la minestra di piselli era il nutrimento di base nei giorni di magro.

Seppie e piselli* Nella calendarizzazione della pesca i mesi di aprile e maggio sono quelli che offrono le migliori seppie e la concomitanza con la maturazione dei piselli, sin da tempi remoti, ha suggerito alle donne di casa di abbinare i due prodotti. L’uso contemporaneo dei frutti della terra con le risorse alimentari del mare si era consolidato nel tempo soprattutto per l’abitudine dei contadini della costa di dedicarsi alla pesca durante i tempi morti dei lavori in campagna. Ingredienti • • • • • • • •

500 g di seppie Cipolla, sedano e carota Olio extra vergine d’oliva 200 g di piselli novelli Vino bianco Sale q.b. Pepe q.b. Peperoncino a piacere

Procedimento Preparare le seppie, privandole degli occhi e della bocca, togliendo l’osso e lavandole per bene. Tagliarle a listarelle lunghe 3-4 cm. In una casseruola far scaldare olio e rosolare il trito di cipolla, sedano e carota; unire le seppie, rigirarle spesso utilizzando un mestolo di legno e, dopo qualche minuto, sfumare con il vino bianco; lasciar cuocere a fiamma bassa. Preparare in un altro tegame un soffritto di cipolla; versare i piselli, farli rosolare e aggiungere del brodo vegetale; lasciarli cuocere per metà e poi unirli alle seppie, aggiungendo dei pomodorini per dare una nota di colore. Far completare la cottura e servire la pietanza calda, guarnita con una foglia di prezzemolo. * La ricetta è stata dettata dallo chef Albano del ristorante “Il Faro” di Tortoreto Lido, il quale ha curato anche la realizzazione del piatto.

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Ristorante Zenobi Buon sangue non mente

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atrizia Corradetti, mamma, chef e imprenditrice. E’ cresciuta in una famiglia numerosa dove il pranzo della domenica era un rito a cui erano invitati tutti i familiari e rinunciare era quasi un sacrilegio e ha così imparato dalla mamma l’abile arte della cucina abruzzese. Un’arte messa da parte per diversi anni, che risboccia però nei primi anni ’90, epoca in cui il precariato fa da padrone e le aziende si ritrovano a chiudere i battenti e Patrizia si trova a dover fare i conti con una serie di disavventure che la segnano indelebilmente.

E proprio mentre tutto sembrava essere perduto, ecco qui che la vita le offre un’altra possibilità o meglio un incontro fortuito con l’avvocato Masi , all’epoca governatore di Slow Food Abruzzo e Molise, che nell’occasione le cosnigliò di aprire un ristorante coinvolgendola in maniera attiva nella sua associazione. Promuovere nel mondo il cibo buono, pulito e giusto ha permesso a Patrizia di frequentare manifestazioni e a farsi conoscere e a far conoscere l’Abruzzo e le specialità tipiche di questa terra. Nasce così l’agriturismo Zenobi, ora diventato ristorante, che fin da subito ha riscosso e continua a riscuotere grande successo. Una gestione familiare di Patrizia e dei suoi figli che punta particolare attenzione sulla qualità e sulla genuinità del cibo. Il 24 luglio di quest’anno ricorrerà il ventesimo anniversario del ristorante Zenobi, che nel corso di questo ventennio si è reso celebre per la cucina tradizionale rivisitata come l’agnello “cace e ova”, il baccalà, la capra alla neretese e Le Virtù. Mangiare da Zenobi è coccolarsi con gusto tra i sapori antichi.





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