La Cameriera di Artaud

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Ver贸nica Nieto

LA CAMERIERA DI ARTAUD NARRATIVA



GLI ASTEROIDI collana diretta da Tiziano Camacci

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Sebbene alcuni dei personaggi e delle ambientazioni geografiche siano reali, gli avvenimenti qui narrati corrispondono esclusivamente al capriccio della fantasia.

© Verónica Nieto © Valigie Rosse, 2015 Immagine di copertina: «Senza titolo» di Alessandra Michelangelo / Atelier Blu Cammello Elaborazione grafica immagine di copertina: Riccardo Bargellini Progetto grafico e impaginazione: Lisa Cigolini Editing: Bernardo Pacini Produzione: Il Cane di Zorro via della Fontanella, 145 - 57128 Livorno valigierosse.net


Ver贸nica Nieto

LA CAMERIERA DI ARTAUD traduzione di

Alessio Casalini con una nota di

Tommaso Novi

Opera vincitrice del I Premio de Novela Villa del Libro de Urue帽a (Valladolid)



Tommaso Novi Le nuvole di zucchero

Passiamo molto tempo a interrogarci sulla propria follia, nel tentativo di distinguere i sogni dalla realtà e nella ricerca di qualcuno da amare. Quando avremo mollato ogni ormeggio che ci tiene composti e immobili in questa melma di normalità, nessuno ci priverà della dignità, niente ci impedirà di consumare la vita con gioia e coraggio, se porteremo dentro di noi la storia di Amélie Levier. La terremo dentro al nostro orecchio, Amélie, comoda, serena. Lei potrà sussurrarci che i veri folli sono là fuori, lontani dai nostri sensi. I veri folli si ammazzano a vicenda al gioco stolto della guerra ignorando la poesia e le nuvole di zucchero.



LA CAMERIERA DI ARTAUD



A Ramiro Rosa



PRIMA PARTE



Qui suis-je? D’où je viens? Je suis Antonin Artaud et que je le dise comme je sais le dire immédiatement vous verrez mon corps actuel voler en éclats et se ramasser sous dix mille aspects notoires un corps neuf où vous ne pourrez plus jamais m’oublier.*

* Antonin Artaud, Pour en finir avec le jugement de dieu, in Oeuvres, Paris, Gallimard, 2004, p. 1663. [Chi sono? / Da dove vengo? / Sono Antonin Artaud / e che io lo dica / come so dirlo / immediatamente / vedrete il mio corpo attuale / andare in frantumi / e ricomporsi / sotto diecimila aspetti / notori / un corpo nuovo / e non potrete / dimenticarmi / mai più (trad. it.: Per farla finita col giudizio di dio, a cura e traduzione di Marco Dotti, Roma, Stampa alternativa, 2001, p. 76)].



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Qualcuno disse che il dottor Ferdière si stava avvicinando al cortile dove noi stavamo prendendo il sole e poco dopo lo vedemmo attraversare il porticato accompagnato da un nuovo paziente al quale, a quanto pareva, stava mostrando le strutture dell’istituto. Era evidente che venivano dalla visita alla cappella, e dunque dal giro intorno all’edificio della direzione, e chissà se il signor direttore aveva avuto l’ardire di mostrargli i reparti all’entrata, dove erano rinchiusi i malati terminali che sfinivano le infermiere. Nei reparti dei catatonici o di quelli pericolosi c’era una stanza di sorveglianza continua di cui noi, i pazienti lavoratori, non avevamo bisogno, sapevamo benissimo badare a noi stessi ed erano poche le volte che ci capitava di dare in escandescenze; ma tutto questo il nuovo arrivato non poteva saperlo se qualcuno non glielo spiegava, perché, dall’esterno, quei reparti erano identici ai nostri. Il sole scivolava sui tetti scuri per poi spargersi sulle pareti dei padiglioni, tutti dipinti dello stesso rosa pallido, e poco dopo si posava sui giardini dell’ospedale, sulle valli e sulle colline che ci circondavano, sugli alberi scheletrici dell’inverno, su


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alcuni di noi, che non lo disdegnavamo, o sugli occhiali di Ferdière, come in quella mattina di febbraio. La luce rifletteva sugli occhiali e ci impediva di guardarlo dritto negli occhi, così non potemmo far altro che osservare i suoi gesti e ascoltare le sue risatine, mentre indicava il campanile della cattedrale che si scorgeva in lontananza nascosto tra gli alberi del parco pubblico e gli edifici di Rodez, e il campo di patate che noi stessi coltivavamo; finché non arrivò il momento in cui, a forza di indicare, indicò pure noi e prese sottobraccio il nuovo arrivato per presentarcelo. Fred si tolse le dita dal naso e si pulì le mani ai pantaloni per poi guardarlo dall’alto in basso. Ciuffo di fuoco si stropicciò gli occhi, usò la mano come parasole e smise di cantare. Alcuni pazienti fecero finta di niente e si allontanarono, preferendo seguire il corso delle nuvole passeggere; chi stava giocando a bocce, laggiù, continuò imperterrito a giocare; uno di quelli che stava con noi si era piazzato in un angolo e alzava e abbassava i gomiti come una chioccia. Il nuovo arrivato indossava un soprabito pesante, di colore grigio, pantaloni scuri pieni di bruciature di sigarette, e una sciarpa di lana con la quale si nascondeva le orecchie. Il suo volto era sottile, incavato all’altezza della mandibola, dove la pelle formava flaccide pieghe che ispezionava con dita tremanti. Sembrava un fantasma e puzzava. Quando il dottore iniziò le presentazioni, Natasha, la russa, prese ad accarezzare una delle colonne del porticato, rivolgendo sguardi lascivi a quel signore così brutto a vedersi.


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Poco dopo andò a sbattere contro Philippe, che era seduto per terra. Questi si alzò di scatto, aggrottò le sopracciglia e, trattenendo la sua furia per non mollarle un cazzotto, si limitò a lanciare un improperio. Io, invece, rimasi seduta sulla panchina di legno che dava le spalle al porticato, e non potevo smettere di guardare il signor Artaud che, come diceva il dottor Ferdière, era poeta e attore, e che sarebbe rimasto con noi per un po’ di tempo. Il signor Artaud non ci guardò nemmeno quando lo salutammo con un «buongiorno» all’unisono. Fred cominciò con uno dei suoi attacchi di risate, che includevano anche sfregamenti delle sue parti intime. L’infermiera Marie lo portò a fare una passeggiata nel giardino centrale e Ciuffo di fuoco li seguì. Philippe si rimise a sedere per terra e continuò a leggere il giornale. Natasha si appoggiò alla colonna, con le gambe aperte, e cominciò a strusciarsi con la schiena e ad agitare la lingua, spargendo saliva fino a terra. Io mi alzai in piedi, attraversai il porticato e il giardino centrale, entrai nell’edificio della direzione, dove mi avevano assegnato una stanza accanto alle cucine, e rimasi seduta sul letto pensando che quel signorino ci avrebbe costretto a ridurre le quantità giornaliere di cibo e di carbone. Era evidente che il dottor Ferdière, un appassionato scrittorucolo di poesie languide, lo avrebbe trattato con molto rispetto. Cosa poteva chiedere di più se non ritrovarsi una celebrità nel suo manicomio di turno? Sempre che


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fosse vero che questo secco e sudicio attore a Parigi fosse così conosciuto come ci aveva spiegato. Domandai alla signora Lamartine se ne avesse mai sentito parlare, era stata un’avida lettrice in gioventù e magari poteva aver visto il suo nome su qualche rivista letteraria, ma lei mi rispose che non le piacevano quelle nuove tendenze deformanti di Parigi e che erano almeno sei anni che non riceveva nuove riviste; per come stavano le cose, non aveva senso sprecare dei soldi per comprare quel genere di oggetti di lusso, avrebbe preferito piuttosto un petto di pollo della fattoria che suo figlio gestiva a Millau, un po’ di crema idratante per le mani o un vestito nuovo, di quelli che andavano di moda e che nessuno sapeva indossare bene come sua nuora. Quella parola fece crescere una piccolissima lacrima nella pupilla sinistra della signora Lamartine. Quello era il segnale che bisognava annuire e assecondarla, altrimenti la lacrima si sarebbe trasformata in piagnucolio, non appena si fosse ricordata che suo figlio era morto al fronte e che di sua nuora non si avevano più notizie. Per fortuna entrò Natasha e interruppe la conversazione; la signora Lamartine chiuse la bocca, non prima però di avere mosso i riccioli grigi con il palmo della mano, e continuò a tessere la sciarpa che voleva regalare a Simone, la moglie di Ferdière, a cui dava aiuto nel reparto dei bambini. Era una giornata troppo bella perché quel poeta venisse a rovinarla. Fissai per un bel po’ le sbarre della finestra, prima di continuare con la mia lettura dell’An-


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tico Testamento. Dovevo approfittare delle due o tre ore che restavano prima di andare in cucina, perché poi Natasha o la signora Lamartine avrebbero voluto fare un sonnellino e avremmo dovuto oscurare la stanza. Lessi di nuovo quel frammento: «Io sono colui che sono». Mosè gli aveva chiesto il suo nome e Lui aveva detto «io sono». Che razza di risposta era? I miei occhi si posarono sul crocifisso appeso sulla testata del letto; nell’angolo in alto, dove la testata quasi toccava il soffitto, la vernice cadeva a brandelli per l’umidità. Natasha era rimasta seduta sul suo letto, avvolta in una pesante coperta marrone, dondolandosi avanti e indietro in maniera ripetitiva. La signora Lamartine era andata in bagno (o così aveva detto) e la foto di mia madre sul mio comodino continuava a sorridere. Io, però, non potevo dare quella risposta. Io ero Amélie Levier. Ricordai quel sacerdote che veniva a farmi visita alcuni anni prima, quando noi donne occupavamo l’ala destra dell’ospedale e passavamo il tempo a cucire e ad ascoltare il notiziario delle due del pomeriggio nella sala ricreativa; e in particolare quella mattina in cui, seduti in un angolo, appartati dal resto delle donne, gli domandai se il mio nome mi definiva così come le parole designavano le cose con il nome di Adamo o se io appartenevo al genere imperfetto di linguaggio venuto dopo la caduta di Babele. Il sacerdote si limitò a guardarmi annuendo con la testa e storcendo la bocca in quel modo che tanto lo imbruttiva, ma non disse nulla. Né ci fu il minimo movimento sotto la sua


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tunica nera. Poi si alzò in piedi, mi benedisse e mi assegnò due padrenostri prima di andare via. Io volevo solo sapere se ero Amélie Lévy. Perché ci fu un tempo in cui io mi chiamavo Amélie Lévy. Credo che alzai lo sguardo dalla pagina perché la figura della signora Lamartine appariva sulla soglia della porta. Sorvegliai anche Natasha, che ora scaldava l’acqua nel suo samovar. Ma qualche istante dopo (quando la signora Lamartine riprese a lavorare a maglia e io ricordai l’enigma di Mosè), le parole iniziarono a fuggire dalla pagina bianca, come infinite formiche nere. Cominciarono muovendosi a onde, smontando la simmetria delle righe; in poco tempo si accalcarono sul bordo inferiore, trascinate dalla forza di gravità, e poi, come se non bastasse, si riversarono sul mio avambraccio e si posarono sul materasso fino a quando, straripate, una sopra l’altra, si decisero a lasciarsi cadere fino al pavimento, inondandomi le gambe, scivolando fino ai piedi, e conficcandomi i loro piccoli dentini nella pelle attraverso i vestiti. Mi alzai dal letto per scrollarmele via di dosso, perché la smettessero di disobbedire a Dio. Agitai braccia e gambe, volevo togliermele dalle mani e dal collo con movimenti rapidi. E ora come facevano a riprendere l’ordine in cui le avevano disposte i profeti? Mentre le raccoglievo da quella pozza nera che gorgogliava per terra e le posavo di nuovo a caso all’interno delle pagine, pensai che avrei avuto bisogno di un’altra Bibbia per ordinare le frasi che, con ogni probabilità,


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si sarebbero disseminate in maniera aleatoria e blasfema. Non so quanto tempo stetti a raccoglierle da terra, cercandole tra le mie calze di lana, strappandomele dalle braccia per posarle nel libro prima che qualcuno scoprisse quel disastro. Ma presto mi vidi costretta a sdraiarmi. Il dolore di ogni singola puntura pulsava in maniera insistente e si espandeva per tutto il corpo con acuti ronzii. Chiusi gli occhi e rimasi in quella posizione fino a quando sentii che una porta si chiudeva e che l’eco dei passi di Ferdière si stava perdendo nel brusio dell’edificio. Mi alzai da letto, trascinai i piedi fino al muro e ci poggiai l’orecchio. Le vibrazioni ondulatorie del cemento, il fragore di sedie trascinate, i passi delle cuoche, la voce rassicurante delle infermiere nel porticato, il sussurrio incessante degli internati, un grido, una risata isterica, una goccia di saliva che cade per terra, una radio o il russare di qualcuno, mi impedirono di capire cosa stesse facendo in quel momento il signor Artaud. Fu così che Odette ci avvisò che era il momento di dirigerci in cucina.


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La terremo dentro al nostro orecchio, Amélie, comoda, serena. Lei potrà sussurrarci che i veri folli sono là fuori, lontani dai nostri sensi. Tommaso Novi

ISBN 978-88-98518-04-3

9 788898 518043


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