Urlo numero 1

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L’urlo Liceo Vi orio Emanuele II Napoli, via San Sebas ano, 51

Editoriale (Vincenzo Fusco IIB ) — Si è chiusa la prima fase della trattativa tra il governo Tsipras e la troika (ora chiamata “le istituzioni”) per la ristrutturazione del debito greco e il possibile superamento delle politiche di austerity. Non sappiamo ancora come il processo avviato nel mese di febbraio si concluderà e quindi è prematuro tracciare un bilancio definitivo. Si è chiusa la prima fase della trattativa tra il governo Tsipras e la troika (ora chiamata “le istituzioni”) per la ristrutturazione del debito greco e il possibile superamento delle politiche di austerity. Non sappiamo ancora come il processo avviato nel mese di febbraio si concluderà e quindi è prematuro tracciare un bilancio definitivo. Ma alcune considerazioni possono essere avanzate già da ora. La successione degli eventi Cominciamo con i fatti. Perché un minimo di informazione è necessaria, per capire di che stiamo parlando. Il 4 febbraio 2015 la Bce decide di non accettare più come garanzia “collaterale” i titoli di stato greci per fornire la liquidità necessaria al sistema creditizio greco al fine di far fronte alle normali operazioni bancarie. Di fatto, un drastico taglio alla liquidità greca che

Art.21 “Tu hanno diri o di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scri o e ogni altro mezzo di diffusione.”

Poli ca Norma va CLIL—A.Buonaiuto Raid al Galiani: democrazia? - L.Pica Ciamarra Austerità in Portogallo: cause ed effe" - N.Dieng Odio mosso da amore - A.Capasso A ualità Pales na, terra nullius - V.Papaleo A"viste siriane - R.Granata Il virtuale che distrugge il sociale -A.Capasso L’insulso fe cismo del manuale - R.Marrone Napoli ci,à aperta? - M.Cavallo O um et nego um L’arte della felicità - S.Gemma La solitudine dei numeri primi - S.Napolitano Dire ori: Eleonora Ba"nelli Vincenzo Fusco

Grafica: Alessandra Centore Lorenzo Pica Ciamarra Claudia Sarracino

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incentiva la fuga di capitali all’estero. Di fatto, un atto di terrorismo economico per condizionare la trattativa che si sarebbe aperta da lì a poco. Il governo greco inizia così la trattativa con una pistola puntata alla tempia. L’11 febbraio si svolge la riunione straordinaria dell’Eurogruppo sulla Grecia. Il governo Tsipras presenta la proposta di rinegoziazione del debito greco. Le proposte del ministro delle Finanze greco Veroufakis si basano principalmente su due punti: a. riesame delle scadenze delle rate del debito, allungandole e chiedendo per i primi anni (si parla sino al 2020) una moratoria al pagamento degli interessi per consentire che i soldi risparmiati possano essere finalizzati alla crescita economica, intervenendo così sul denominatore del rapporto debito/pil. b. scambiare gli attuali titoli di stato con due tipi di nuovi bond (di fatto degli swap): il primo indicizzato alla effettiva crescita economica greca, da scambiare con i crediti erogati dai paesi e dalle istituzioni europee. In questo caso il pagamento delle cedole o del capitale viene subordinato alla crescita del Pil o al calo della disoccupazione. Il secondo è invece costituito da titoli di stato di durata perpetua che servirebbero a sostituire quelli detenuti dalla Bce, con il passato piano anticrisi SMP (Securities Markets Programme). Si tratta di titoli che pagano una cedola all’anno e non vengono mai rimborsati avendo scadenza infinita. Il 16 febbraio, nuova riunione dell’Eurogruppo. I ministri europei chiedono ad Atene di estendere il programma di salvataggio, ponendo di fatto un ultimatum in linea con i diktat precedenti. La Grecia non solo rifiuta ma rilancia, chiedendo una “proroga di 4 mesi per discutere un nuovo accordo”.

Il livello di scontro si alza e i paesi europei, nessuno escluso (compresi Italia e Francia), ripropongono la validità della politica di austerità. La possibilità che la Grecia possa essere indotta a uscire dall’Euro si fa concreta. 19-20 febbraio: i ministri delle finanze dell’Eurogruppo raggiungono un accordo di fondo su un testo di compromesso per l’estensione del programma di aiuti alla Grecia per quattro mesi, chiedendo in cambio che la Grecia proponga una serie di misure concrete che la troika dovrà approvare. 23 febbraio: rispettando i tempi concessi, poco prima di mezzanotte il governo greco presenta alla Commissione Europea e al Fmi le misure che intende adottare nei prossimi 4 mesi. La reazione sembra essere positiva, con parere positivo dell’Eurogruppo ma qualche perplessità della Bce e del FMI. Qualcosa di nuovo sotto il sole europeo? Questa la mera cronaca. Si ridiscuterà tra quattro mesi. Ciò significa che nulla è cambiato? Niente affatto: 1. Per la prima volta da quando le politiche di austerity sono diventate insindacabili in Europa (“there is no alternative”), un paese si conquista il diritto a trattare. Non è una questione solo formale, a prescindere poi dal risultato che potrà ottenere. Si è messo in discussione il “principio di autorità” dell’oligarchia finanziaria di commissariare un paese ed imporgli una politica economica neoliberista: principio fino ad oggi indiscutibile. Non è certo autodeterminazione, come la trattativa ha ben evidenziato, ma viene rotto un tabù. Sul piano simbolico, è un risultato importante e non è un

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caso che, per evitare questa eventualità, nel corso della trattativa, l’Eurogruppo abbia cercato di impedire che tale primo obiettivo venisse raggiunto, mettendo la Grecia di fronte all’aut-aut di uscire o rimanere nell’Euro. In questo caso chi ha bleffato è stato proprio l’Eurogruppo, che non poteva permettersi il default della Grecia, pena notevoli perdite non solo per le banche tedesche e francesi (che detengono buona parte del debito greco) ma anche per la BCE, che avrebbe visto ridursi le proprie riserve di liquidità. 2. Al riguardo non stupisce affatto la reazione negativa e stizzita di Spagna, Portogallo e Irlanda, i cui governi negli ultimi anni hanno accettato, senza colpo ferire, le misure draconiane imposte dalla troika con tutti gli effetti di miseria sociale che hanno comportato. Come poter giustificare oggi quella subalternità e passività ai diktat europei che, oltre ogni ragionevole dubbio, hanno evidenziato la complicità e la collusione che tali governi hanno intrapreso con gli interessi delle oligarchie finanziarie europee? 3. Il rischio di un “effetto domino” diventa così uno spettro che si aggira negli uffici di Bruxelles e Francoforte. Un effetto domino che non è quello orchestrato dalla speculazione finanziaria ma, all’inverso, dalla possibilità che sia possibile mettere una zeppa agli ingranaggi della governance neoliberista dell’Europa. A patto, tuttavia, che l’esempio greco, venga seguito daaltri paesi europei. Sappiamo tutti che a ottobre si svolgeranno le elezioni politiche in Spagna, precedute dal test delle elezioni amministrative. Abbiamo già sottolineato che il peso specifico della Spagna è ben superiore di quello della Grecia e per questo da qui a ottobre ne vedremo delle belle.

E’ facile prevedere che si svilupperà una canea mediatica e un gioco di ricatti per impedire a tutti i costi che la Spagna possa seguire l’esempio della Grecia. 4. In questo gioco simbolico, in Italia, senza che nessuno se ne sia accorto, tale canea ha già cominciato ad attivarsi. Nell’ultimo mese, con un ritmo alquanto sospetto, sono stati dati in pasto all’opinione pubblica una serie di dati economici che portano ad un’unica conclusione: grazie all’operato del governo Renzi e alle sue “riforme” (sarebbe meglio chiamarle “controriforme”), la recessione economica è improvvisamente terminata. Il Centro Studi Confindustria (maggior sponsor del governo) ha solennemente predetto che nel 2015 il PIl crescerà del 2,1% nel 2015 e del 2,5% nel 2016! Una stima tre volte superiore a quella del Fmi! La Confcommercio afferma che, dopo 5 anni, gli occupati (non i posti di lavoro) sono aumentati nell’ultimo trimestre di 59.000 unità (di cui due terzi nel settore della vendita ambulante!). La stessa Banca Centrale Italiana, pur in modo più moderato, corregge al rialzo le stime di crescita, un misero + 0,5% nel 2015 rispetto al + 0,4% di novembre 2014, ma un più rassicurante + 1,1% nel 2016. Viene spiegato che è la conseguenza degli effetti benefici del Job Act e del decreto sulla liberalizzazione dell’energia. Sulla

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base di queste previsioni euforiche (del tutto in contrasto con quelle dell’Eurostat e del Fmi – ma nessuno ne parla), proprio pochi giorni fa, l’Ocse ha affermato, per bocca del suo segretario generale Angel Gurrìa, che la riduzione della rigidità del lavoro, grazie al Job Act, può “determinare un incremento del Pil pari al 6% nei prossimi 10 anni”. Insomma, la situazione economica volge al bello, senza dover mettere in discussione le politiche d’austerity, anzi confermandone le validità. Le riforme attuate in questi mesi dal governo Renzi – occorre ricordarlo – ricalcano perfettamente quelle auspicate dalla famosa lettera segreta del 5 agosto 2011 di Trichet e Draghi al fu governo Berlusconi come condizione per la riduzione del debito pubblico. In altre parole: a parole, Renzi e Padoan si dicono solidali con la Grecia ma nei fatti sono i più fedeli alleati della Merkel e di Schauble. L’importanza del tempo Sul piano sostanziale, possiamo aggiungere altre osservazioni: a. Le misure che la Grecia, in piena autonomia e non sotto dettatura del memorandum, intende adottare nei prossimi 4 mesi per poter usufruire dell’allungamento dei tempi per ridiscutere il piano di risanamento del debito dovrebbero recuperare circa 7 miliardi di euro, così suddivisi : 2,5 miliardi dall’introduzione di una tassa patrimoniale per i ricchi; 2,3 miliardi dalla lotta all’evasione fiscale e alla corruzione, 2,2 miliardi dalla riduzione della burocrazia statale, dal contrabbando di benzina e sigarette e dal recupero

crediti da parte dell’amministrazione pubblica. Le principali richieste dell’Eurogruppo, già precedentemente inserite nel memorandum, vengono rigettate: aumento dell’Iva, licenziamenti pubblici, riduzione delle pensioni. Seppur in modo limitato, alcuni punti del programma di Salonicco (il programma su cui Syriza aveva imbastito la vincente campagna elettorale) vengono confermati: tredicesima sulle pensione sotto i 700 euro, graduale introduzione di un salario minimo (invece che immediata), blocco dei licenziamenti, accesso gratuito per e famiglie povere a servizi di pubblica utilità, come luce e gas, l’introduzione di un voucher alimentare per chi è nullatenente. Riguardo il tema delle privatizzazioni – forse il più spinoso per gli interessi della troika -, ci si avvia a un compromesso: i piani di privatizzazione, già avviati (tramite bandi di vendita e di acquisizioni) non vengono toccati, quelli annunciati dal precedente governo ma non ancora avviati sono soggetti a ridiscussione. b. Considerando gli stretti margini di manovra e il poco tempo a disposizione, si tratta di un compromesso che possiamo realisticamente definire ragionevole. E’ comprensibile che esso abbia lasciato l’amaro in bozza ad alcuni componenti della dirigenza di Syriza, a partire dalla presa di posizione di Manolis Glezos, icona della resistenza greca nonché, appunto, membro del comitato centrale del partito di Tsipras. Ma sappiamo anche che la politica è la scienza del possibile, non dei desiderata. Tuttavia, riteniamo che discutere esclusivamente il merito di questo compromesso sia fuorviante. Per due motivi. Il primo è che le misure proposte sono assai aleatorie.

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Occorrerà effettivamente verificare se il gettito ipotizzato si realizzerà effettivamente. Ma ciò conta poco. Ciò che conta – e questo è il secondo motivo – è che, come giustamente sottolineato da Sandro Mezzadra da un punto di vista politico, si guadagna “tempo”. Ed è proprio il “tempo” che finora è mancato alla Grecia. Si tratta di un aspetto nevralgico e allo stesso tempo sostanziale. Nel capitalismo biocognitivo, l’unità temporale che viene imposta dalla logica della valorizzazione finanziaria, anche quando ha a che fare con decisioni di politica economica, è quella del brevissimo termine: sono i tempi dettati della speculazione finanziaria e del divenire rendita del profitto. Riuscire a scardinare questa logica è condizione necessaria (anche se può non essere sufficiente) per imporre un’altra logica di azione economica, non supina alle esigenze delle oligarchie finanziarie. E’ un passaggio assai fastidioso, come implicitamente conferma l’infame titolo di La Repubblica del 23 febbraio scorso, non a caso fotocopia di quello de Il Giornale. Si vuole confermare, a tutti i costi, che non c’è alternativa all’austerity, come viene ribadito anche il 25 febbraio dal quotidiano “renziano” . Le difficoltà geopolitiche dell’Europa Ma c’è dell’altro, a dimostrazione di come la situazione sia allo stesso tempo complessa, delicata e in movimento, al punto da sconsigliare di prendere posizioni drastiche. Ci riferiamo, soprattutto, a due aspetti. Il primo ha che fare con i contatti che il nuovo ministro degli esteri greco ha avviato con la Russia e con la Cina. I viaggi fatti a Mosca e a Pechino– anche se poco sottolineati dalla servizievole stampa nostrana – hanno avuto a che fare con la possibilità di accedere

a fonti di finanziamento extra-europei e extraFmi per evitare il default greco: una sorta di possibile piano B nel caso la trattativa con l’Eurogruppo fosse naufragata o possa fallire in futuro. Non sappiamo quale sia la possibile contropartita. Ma considerando le problematiche che sta vivendola Russia in seguito al calo del prezzo dei prodotti energetici, alle sanzioni europee per la questione ucraina e alla fuga di capitali verso gli Usa in seguito alla svalutazione del rublo e sapendo degli interessi cinesi per garantirsi una supremazia della logistica del trasporto marittimo nel Mediterraneo (la via meridionale della seta), possiamo ben immaginare quale sia la posta in gioco. E’ quindi sicuro che l’oligarchia europea (e men che meno quella Usa) non veda di buon occhio una possibile ingerenza di tal fatta nei propri affari interni. Il secondo aspetto, correlato al primo, riguarda la definizione degli assetti geopolitici dell’Europa: da un lato, impegnata nelle trattive per definire l’accordo Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), agognato dagli Usa per ricostituire un’area di egemonia economica “occidentale” in grado di sottrarre l’Europa (ed in primis la Germania) alle chimere orientali (Russia, ma soprattutto Cina) , dall’altro, la necessità di ribadire , tramite il ruolo della Nato, una coesione interna in funzione di controllo dell’espansionismo del fondamentalismo islamico, non tanto dal punto religioso ma piuttosto come elemento di destabilizzazione nel medio-oriente, già fortemente minato dalle primavere arabe (seppur con gli esiti che conosciamo). Non è un caso che nella prima fase della trattativa dell’Eurogruppo con la Grecia (l’ultimatum posto nella riunione del 16 febbraio) si sanciva come punto centrale il divieto per la Grecia di intraprendere “iniziative unilaterali”, avvertimento rientrato -

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almeno fin ora - in seguito alle assicurazioni della Grecia di non uscire dalla Nato, ma in futuro non del tutto scongiurato. E allora? Stiamo vivendo – lo ripetiamo – un momento molto delicato per i futuri assetti europei. L’oligarchia europea conferma ancora una volta di avere il fiato corto. La decisione della Bce di “istituzionalizzare” il Quantitive Easing rischia di essere il classico “pannicello caldo”, incapace di risolvere le questioni aperte. E’ doveroso quindi porsi la domanda se le oligarchie europee oggi dominanti siano più un elemento di destabilizzazione che di equilibrio, seppur di stampo neoliberista. E’ evidente che una simile situazione non può continuare. Le politiche di austerity hanno mostrato tutta la loro inefficacia nel ridurre “ufficialmente” i debiti pubblici. Hanno avuto, invece, pieno successo, nel favorire un enorme trasferimento di reddito e di ricchezza dalle fasce più povere a un élite di poco più dell’1% della popolazione. Paradossalmente, è la stessa speculazione finanziaria a indicarlo. Nelle ultime settimane, nonostante la fuga di capitali dalla Grecia ma grazie all’incremento dei tassi d’interesse a valori oltre il 20%, gli hedge fund hanno compiuto massicci investimenti sui titoli greci e non a caso gli indici di borsa principali sono saliti dopo l’accordo con l’Eurogruppo. A nessuno conviene il default greco, perché non ha senso strozzare la gallina dalla uova d’oro. Varoufakis lo sa. Oltre a ciò occorre considerare la possibilità concreta di sperimentare una moneta complementare in Grecia, in grado di attutire la possibile crisi di liquidità, anche se la Bce, dopo aver aumentato le risorse del fondo di

ultima istanza: Emergency Liquidity Assistance (ELA), ha anche dichiarato che se le trattative con l’Eurogruppo vanno in porto, è disposta a ritornare sui suoi passi e a accettare come garanzia “collaterale” i titoli di stato greci per fornire la liquidità necessaria al sistema creditizio greco. E sono proprio queste considerazione che stimolano l’idea di immaginare l’istituzione di un circuito finanziario alternativo, in grado di essere autonomo dai diktat dell’oligarchia finanziaria: una sorta di istituzione finanziaria del comune. Ma questa è un’altra storia, su cui ritorneremo a partire dalla prossima pubblicazione degli atti del convegno sulla “Moneta del comune”, che si è svolto nello scorso giugno a Milano. Finito il primo round, vi è ora il tempo per provare ad attuare la “rottamazione” dell’attuale governance europea e la destrutturazione dei governi nazionali neoliberisti (a partire da quello italiano). Compito sicuramente arduo ma non emendabile ma soprattutto ineludibile se vogliamo ancora sperare in un futuro umano, a partire dal prossimo appuntamento del 18 marzo a Francoforte sotto le finestre della nuova Eurotower. Un primo punto di partenza a cui ne devono seguire altri. Abbiamo tempo, stavolta! Vincenzo Fusco IIB

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POLITICA Normativa CLIL: nasce una nuova professione Un'altra pioggia acida si abbatte sulla scuola italiana: preannunciata dall’ ex ministro Gelmini per divulgare e “potenziare” l’uso della lingua inglese, si diffonde in Italia la normativa CLIL ( Content and Language Integrated Learning) che prevede all’ultimo anno dei licei e degli istituti l’insegnamento di una materia didattica in lingua inglese. Il professore di Storia e Filosofia o di Matematica e Fisica si immedesima professore di Inglese traducendo almeno il 50% del programma previsto in Consiglio di Classe. Presentata la proposta nel 2012, è stata attuata a partire dal 2014. Al principio la certificazione richiesta per l’abilitazione all’insegnamento in Inglese era il C1 e la formazione specifica in CLIL ottenuta con la partecipazione ai “promessi corsi di formazione” del MIUR. Ma ritardo dopo ritardo il MIUR si è visto obbligato a ridimensionare i livelli di competenza: da C1 a B2 e per coloro che frequentano i corsi attivati dal MIUR è necessario anche solo il B1, una certificazione che si ottiene facilmente alla fine del biennio di un qualsivoglia liceo. - Diventano operative le norme inserite nei Regolamenti di riordino (DPR 88 e 89/2010) che prevedono l'obbligo, nel quinto anno, di insegnare una disciplina non linguistica (DNL) in lingua straniera secondo la metodologia CLILqueste le indicazioni fornite dal MIUR per l’anno 2014/2015. Ma le sorprese non finiscono qui: il metodo CLIL verrà applicato anche all’esame di stato, in particolare:

a) SECONDA PROVA SCRITTA: qualora la DNL veicolata in lingua straniera costituisca materia oggetto della seconda prova scritta, essa non potrà essere svolta in lingua straniera tenuto conto che si tratta di prova nazionale b) TERZA PROVA SCRITTA: la tipologia della prova e i contenuti dovranno essere coerenti per la parte relativa alla DNL in lingua straniera con il documento del Consiglio di classe redatto ai sensi dell'art. 5 comma 2 del DPR 323/98 c) PROVA ORALE: la DNL in lingua straniera potrà essere oggetto del colloquio solo nel caso in cui il docente che ha impartito l'insegnamento sia membro interno della commissione. Ebbene se l’obiettivo del CLIL è mettere alla pari gli alunni italiani con i compagni europei, perché far sì che un professore che per tutta la vita si è dedicato alla Filosofia o alla Fisica possa insegnare Inglese di punto in bianco? Non ci sarà da meravigliarsi se poi durante la spiegazione del pensiero di Nietzsche scappa la risatina dall’alunno che fin da piccolo ha studiato inglese privatamente e mette in ridicolo il povero professore che per forza maggiore e per non farsi sostituire da un altro professore decide di buttarsi nell’avventura CLIL. Una buona scuola la fanno gli studenti interessati e i professori che insegnano con passione e dedizione, la fanno il dialogo e il ragionamento, il confronto e il dibattito, la serietà di uno studente e la dignità di un professore. Una buona scuola non ha bisogno di inventarsi professioni. Alessandra Buonaiuto IE

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Raid al Galiani: democrazia? “Raid al Galiani, pugno duro sugli studenti”, intitola La Repubblica del 17 gennaio riferendosi alle sanzioni disciplinari imposte dalla Dirigente Scolastica Armida Filippelli, in seguito alla vandalizzazione dell’istituto tecnico-economico Ferdinando Galiani durante l’occupazione studentesca. La preside ha deciso di sospendere 70 studenti per cinque giorni, obbligare i rappresentanti di classe alle dimissioni e, oltre ad aver sospeso per 15 giorni e ad aver messo 5 in condotta ai rappresentanti d’istituto, ha imposto loro anche di dimettersi e di non ricandidarsi, il tutto poiché gli alunni “sono stati irresponsabili, vanno educati al rispetto dei beni comuni”. La Dirigente Scolastica sostiene comunque di essere “profondamente democratica” e di non aver infatti denunciato nessuno studente. Di democrazia, però, c’è n’è ben poca. Quando il Galiani è stato distrutto, si sono subito accusati gli studenti, come se l’occupazione fosse una condizione necessaria e sufficiente alla vandalizzazione e alla razzia. La cosa non è affatto scontata. Nei primi mesi dell’anno scolastico molte scuole di Napoli e provincia sono state distrutte o saccheggiate senza alcuna occupazione: il liceo Morante, il liceo Sbordone, l’Istituto Comprensivo Errico - Pascoli, l’Istituto Kant, il liceo polispecialistico Alfonso Maria de’ Liguori, il liceo Labriola e il liceo Galileo Galilei, per citarne solo alcuni. Come si può quindi sostenere che il saccheggio c’è stato solo a causa dell’occupazione? Oltretutto è la stessa preside ad ammettere che i danni sono stati provocati da esterni, e che gli alunni hanno una mera “responsabilità morale”. La preside sostiene di essere stata democratica poiché non ha denunciato nessuno studente per aver impedito lo studio agli altri.

Tuttavia non denunciare un reato è un altro reato, detto “omessa denuncia da parte di pubblico ufficiale”. Se il reato c’è stato, la preside sarebbe dovuta andare a denunciare gli studenti che hanno occupato (in quanto studenti, e non rappresentanti) per “interruzione di pubblico servizio” (art. 340 c.p) e avrebbe dovuto attendere la decisione del giudice. Ma se la preside non ha denunciato, bisogna supporre che il reato non ci sia stato: cosa giustifica allora parole e sanzioni così violente? Secondo la Filippelli, si legge nell’intervista, i rappresentanti “non rappresentano nessuno”. Direi che, però, questa considerazione dovrebbe spettare non al preside, ma a coloro che hanno scelto di essere rappresentati da quei compagni, e che li hanno democraticamente eletti. La democratica Filippelli ha imposto però ai rappresentanti di dimettersi. Ma il dirigente di istituto ha facoltà di destituire la componente studentesca? Forse no, se la preside ha deciso non di destituirli ma di obbligarli a dimettersi e a non ricandidarsi. A questo punto, portando all’estremo la questione, sorge una domanda: siamo sicuri che la professoressa Armida Filippelli non sia a rischio per due reati, ossia “omessa denuncia da parte di pubblico ufficiale” (art. 361 c.p) e “minaccia” (art.612 c.p.), in quanto in un primo momento non ha denunciato coloro che era convinta stessero commettendo un reato, e in un secondo momento li ha “minacciati di un ingiusto danno” (ingiusto, poiché né nel regolamento di istituto, né in nessun documento è sancito che il preside

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possa destituire, o obbligare alle dimissioni, i rappresentanti degli studenti)? Tutto questo è forse un paradosso, che però fa di certo intendere quanto sia al limite del giusto – oltre che della responsabile funzione democratica - la posizione della dirigente del Galiani. Il fatto che l’accaduto sia passato sotto silenzio fa capire che questo non è un evento a sé, ma è espressione di una diffusa volontà che mira a eliminare l’attività critica degli studenti e dei professori. Non bisogna infatti dimenticare la violenta campagna stampa contro le occupazioni che abbiamo letto su quasi tutti i giornali e il fatto ad esempio che l’assemblea dei presidi durante la quale si è deciso di “colpire i collettivi” è stata svolta a Napoli nella sede del maggior partito di governo, governo autore del progetto “La buona scuola” già discusso su queste pagine (vedi l’intervista alla prof. Raiola nel numero precedente) e impegnato ora in una riforma della pubblica amministrazione dove all’ordine del giorno è l ‘estensione anche al comparto pubblico delle norme che rendono possibili i licenziamenti. Questo significa che anche i professori che manifestano pareri e opinioni diversi da quelli che il sistema chiede potranno essere facilmente intimiditi grazie all’arma del licenziamento? Lorenzo Pica Ciamarra IVA

Austerità in Portogallo: cause ed effetti Dopo la vittoria di “Syriza” in Grecia, e in attesa delle elezioni in Spagna per le quali si prevede una forte affermazione di “Podemos”, nel resto d’Europa la sinistra radicale tenta di sperimentare nuove forme di lotta e di opposizione alle politiche di austerità imposte dalla Troika. L’intervista che segue offre un panorama della situazione portoghese. Qual è la situazione politica attuale in Portogallo? Il Portogallo attraversa una profondissima crisi economica senza precedenti. La crisi economica che flagella il Portogallo è la crisi del modello politico. La crisi dell’economia è anche la crisi della politica, la crisi politica è anche la crisi della democrazia. Il dibattito su questa crisi e le risposte che sono necessarie per affrontarlo sono egemonicamente situate in un campo ideologico abbastanza attaccato dalla produzione di un inevitabile discorso relativo all’austerità, il quale alcune volte tende a dimenticare e/o a relegare in un secondo piano gli altri possibili strumenti di analisi, capaci di influenzare il dibattito politico relativo alle varie facce e alle varie conseguenze di questa crisi. Tenta di fare questo la sinistra portoghese, dalla socialdemocrazia alla sinistra radicale, passando per i sindacati e per i movimenti sociali. Essa però si trova in difficoltà, non è abbastanza forte per imporre un contro-movimento pronto ad aprire un nuovo discorso sulla situazione di crisi e sulle risposte politiche necessarie. Il tacito lascito della social-democrazia alle politiche di austerità, l’incapacità della sinistra radicale nel porre alternative credibili, la liturgia dei movimenti sociali tradizionali, portano ad una difficile riconfigurazione dello spazio politico di sinistra.

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Per questo la sinistra in Portogallo è frammentata. Cos’è e come nasce il “Bloco De Esquerda”? Il “Bloco De Esquerda” nasce nel 1999, portando in parlamento la prima volta che partecipò alle elezioni due deputati. Nel 2009, arriva ad essere la terza forza politica del Portogallo con il 16% dei voti. Nel 2011 dopo aver perso metà dei suoi parlamentari, ha avuto un crollo improvviso. Attualmente, il “Bloco” ha 8 deputati nel parlamento nazionale e centinaia nelle municipalità. Quale rapporto ha il “Bloco De Esquerda” con partiti europei come “Syriza” e “Podemos”? Il “Bloco” mantiene una stretta relazione con “Syriza”. Dal 2009 le relazioni tra il “Bloco” e “Syriza” avvengono attraverso scambi istituzionali e rispettivi scambi di esperienze e collaborazioni. Il “Bloco” è stesso gruppo parlamentare europeo di “Syriza” e organizza varie iniziative con la partecipazione delle rispettive dirigenze. Il “Bloco” partecipa in varie iniziative organizzate da “Syriza” e viceversa. La relazione con “Podemos” è simile a quella con “Syriza”, con lo stesso orientamento strategico nella costruzione di convergenze programmate a livello europeo, come facciamo con i “Rosso-Verdi” danesi, Il “Die Link” tedesco, e con il “Front Gaùche” francese. Intervista a Mamadou Ba – Bloco De Esquerda Lisbona. Nicola Dieng IVE

Odio mosso da amore “ma tu fai la cosa giusta te l'ha detto quel calore che ti brucia in petto è odio mosso da amore da amore guagliò” Dalla canzone “Curre curre guagliò” dei 99 Posse ho avuto l’idea per il mio secondo articolo su questo giornalino d’istituto. Non sono un frequentatore assiduo di centri sociali e manifestazioni di protesta organizzate periodicamente (in maniera più frequente nell’autunno caldo) né credo di avere una coscienza politica alquanto affermata, ma l’idea di cambiamento, in qualsiasi modo questo possa essere attuato, a partire dal dialogo, mi riguarda e mi coinvolge in particolare se riferito al sistema scolastico e all’istruzione che negli ultimi anni è bersaglio prediletto degli organi di potere decisionale. Sono sempre più convinto, perché a poco a poco sempre più vicino alla realtà dei collettivi, dell’importanza dello scendere in piazza in primis, del creare aggregazione e scambio di idee e nell’interrogarsi individualmente nell’intento di prendere una posizione nella realtà concreta che ci circonda. Manifestare, esclusivamente in maniera pacifica, è un modo non solo per far sentire la propria voce, come tutti ormai sappiamo, ma anche per opporsi, tentare di contrastare, intraprendere una lotta nei confronti di chi sta in alto e che fa i propri comodi senza tener conto della nostra esistenza. Questa è una lotta dettata da odio, che è però un odio costruttivo, perché mosso da amore verso se stessi e verso l’altro, per il meglio per se stessi e per l’altro. Gli studenti che prendono parte ai cortei fanno leva sulla propria individualità per spalleggiare

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quella degli altri e creare un gruppo attivo e consapevole, ben diverso dalla massa che si spoglia dell’individualità dei singoli lasciandosi governare dall’odio che a quel punto diviene irrazionale. Non mancano però episodi in cui a prendere il sopravvento è la foga, l’euforia che spinge a compiere gesti che vanno al di là delle ragioni e degli ideali alla base dei movimenti. Si verificano drammi dettati da un’incomprensione di fondo tra manifestanti e forze dell’ordine, tra giustizia e potere, tra violenza e, appunto, odio mosso da amore. Drammi che non sono ignorati affatto, anzi acquistano un valore esemplare non indifferente e di cui viene fata memoria per arricchire e riempire il pozzo di collettività e intraprendenza di noi giovani socialmente impegnati. Non a caso l’auletta autogestita del Vittorio Emanuele II, chiaro strumento di coesione e coordinamento interno per gli studenti, è stata chiamata “Carlo Giuliani” in riferimento agli avvenimenti di Genova 2001 in occasione del G8, quando durante una delle manifestazioni di dissenso dei movimenti no-global e di associazioni pacifiste seguita da scontri con le forze dell’ordine perse la vita questo ragazzo. Alessandro Capasso IIIF

ATTUALITA’ Palestina, terra nullius Ultimamente si sta sentendo molto parlare di Palestina, della guerra in Palestina, dei “terroristi” in Palestina. Capire esattamente cosa stia accadendo non è facile, soprattutto perché i mezzi di comunicazione più diffusi, come i telegiornali, non forniscono informazioni sulle origini del conflitto ma si limitano a riportare notizie parziali che danno una visione distorta della realtà. Il conflitto israelo-palestinese infatti non si limita all’offensiva Margine Protettivo del luglio 2014, ma ha radici ben più profonde. Il 1948 è l’anno della proclamazione dello Stato d’Israele, stato frutto dell’ideologia sionista. Il sionismo è un movimento politico nato agli inizi del millenovecento il cui scopo è l’istituzione di uno stato di soli ebrei.

Un ramo del sionismo, detto “territorialismo”, voleva anche un luogo fisico per raccogliere tutti gli ebrei del mondo, una patria. E quale luogo migliore della Palestina, la “Terra promessa”, la regione che, secondo la Bibbia, fu promessa da Dio ai discendenti di Abramo, gli ebrei? D’altronde i sionisti sostenevano che la Palestina fosse “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, una terra nullius. In realtà, la Palestina non era un deserto: il popolo c’era. Era formato per la maggior parte da arabi musulmani, ma anche ebrei e cristiani. L’idea di base per la fondazione del nuovo stato, quindi, era la negazione dell’esistenza del popolo palestinese. Il 1948 è allora anche l’anno della Nakba, “la catastrofe”: la cacciata di oltre settecentomila palestinesi dalla loro terra, con annessa distruzione delle

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loro case; chi riusciva a fuggire diventava profugo, chi non riusciva o chi si ribellava veniva ucciso. Sulle rovine dei villaggi furono costruiti insediamenti coloniali per gli ebrei che sarebbero dovuti andare ad abitare quelle terre. Gli accordi internazionali prevedevano la creazione dello Stato d’Israele sul 55 per cento del territorio palestinese, eppure Israele occupò ben più del 55 per cento. Ma la comunità internazionale, pur a conoscenza di questa pulizia etnica, non si oppose minimamente al volere di Israele a causa dell’ancora caldo tema dell’antisemitismo e dell’Olocausto. Il peccato originale dello Stato d’Israele è dunque quello di essersi insediato in un territorio già abitato cacciando i nativi, con un atteggiamento fin troppo simile a quello delle colonizzazioni passate che oggi tanto condanniamo, senza contare la sua ideologia nazista di pretendere uno stato di un’unica etnia. Ma ancora oggi sono molti gli stati che finanziano le guerre d’Israele e nascondono i suoi crimini, soffermandosi solo sulle reazioni del popolo palestinese. Reazioni violente - d’altra parte è abbastanza difficile rispondere con fiorellini e gesti di affetto a chi ti distrugge casa - che troppo spesso non vengono contestualizzate dai media e appaiono insensate, ma che non sono assolutamente paragonabili alla violenza con cui Israele continua ad occupare e colonizzare territori con armi di una potenza ben superiore a quelle palestinesi. Famosa la prima Intifada, in cui i palestinesi hanno combattuto con semplici pietre lo sproporzionato esercito israeliano. Attualmente i territori rimasti palestinesi sono solo Gerusalemme est, la striscia di Gaza e la Cisgiordania, ma anch’essi sono soggetti alle repressioni di Israele. Da dopo l’ultima offensiva, Margine Protettivo, in

cui hanno perso la vita oltre duemila palestinesi fra cui almeno cinquecento bambini e settantadue israeliani, sembra si stia muovendo qualcosa nella comunità internazionale: alcuni paesi hanno riconosciuto l’esistenza dello stato palestinese e hanno condannato le azioni di Israele. Ma sono comunque ancora pochi gli stati che appoggiano la causa palestinese. Il 31 dicembre la risoluzione proposta all’ONU dal presidente della Giordania, che prevedeva il ritiro dell’esercito israeliano dai territori occupati entro il 2017 e un accordo di pace entro dodici mesi, è stata bocciata con i due voti contrari di Stati Uniti e Australia e cinque astensioni. Mentre la comunità internazionale si prende tempo e cerca di non infastidire troppo gli interessi di Israele, la vita nei territori palestinesi continua, e non è facile. In occasione della sua mostra fotografica presso il laboratorio occupato SKA, ho potuto fare alcune domande a Rosa Schiano, attivista dell’International Solidarity Movement, per comprendere meglio le condizioni di vita del popolo palestinese. Qual è la situazione attuale nei territori palestinesi? Dopo la fine dell’operazione Margine Protettivo sono comunque tanti gli abusi israeliani nei territori occupati, e tante iniziano a essere anche le ribellioni palestinesi. Potrebbe essere l’inizio della terza Intifada? La situazione è molto peggiorata dopo l’ultima offensiva, Margine Protettivo. Interi quartieri di Gaza sono stati sventrati, alcuni villaggi non esistono più. A causa dell’assedio il materiale da costruzione non può entrare, quindi la ricostruzione non riesce a partire e ci sono ancora almeno ventimila sfollati raccolti nelle diverse scuole della striscia o nelle case delle famiglie che li accolgono. Per la prima volta si sta verificando il fenomeno dell’immigrazione: centinaia di palestinesi sono scappati attraverso i pochi tunnel che ancora esistono tra Gaza e Israele oppure imbarcandosi. Un barcone con

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cinquecento palestinesi a bordo che cercavano di raggiungere la Sicilia è affondato,e in quell’occasione ho perso anche delle persone che conoscevo. Il popolo palestinese è da sempre un popolo resistente e determinato, il fatto che abbiano preso la decisione di affrontare un pericolo per fuggire mostra il livello di esasperazione a cui sono giunti. La parte orientale di Gerusalemme, che è quella riconosciuta internazionalmente come palestinese, è costantemente sotto attacco da parte dei coloni israeliani; questa è una chiara violazione del diritto internazionale. Ultimamente si stanno verificando aggressioni su cittadini o soldati israeliani da parte di singoli palestinesi; sono gesti estremi che mostrano la sofferenza in cui vivono queste persone e che vi è una situazione che sta per esplodere. Si parla di terza Intifada, ma è difficile che si realizzi nel momento che continua a esserci cooperazione fra la polizia palestinese e i militari israeliani. C’è una repressione anche da parte della polizia palestinese che vuole evitare lo scoppio di un’Intifada. Tutti identificano questi gesti di singoli come Hamas. In realtà qual è il ruolo di Hamas in questo momento? E quali sono i rapporti con il governo della Cisgiordania? Hamas è un movimento islamico, un partito, così come esistono le altre organizzazione come Fatah e il fronte popolare della liberazione della Palestina. I media fanno questo gioco qui: attribuiscono le aggressioni ad Hamas, ma forniscono una situazione distorta di quella che è la reale situazione. Ad esempio l’attentato nella sinagoga a Gerusalemme è stato realizzato non da Hamas ma da due ragazzi del fronte. Prima dello scoppio dell’ultima offensiva si era raggiunto un accordo di unità nazionale con il governo della Cisgiordania,

Fatah. Da dopo il rapimento dei due israeliani, poi ritrovati morti, tutto è crollato. Ci sarebbero dovute essere anche le elezioni palestinesi ma pare che tutto avvenga affinché non ci siano né queste né nessun processo democratico che porti a un nuovo governo palestinese. Perché la maggior parte dei paesi del mondo rimane indifferente alle azioni criminose di Israele? Perché ci sono degli interessi economici troppo forti. Ci sono accordi di cooperazione militare, culturale, scientifica tra Israele e molti paesi occidentali tra cui anche l’Italia. Gli interessi economici sono più importanti delle vite umane. Secondo il tuo punto di vista, quale può essere la soluzione del conflitto? Si parla tanto della soluzione dei due stati ma attualmente questa soluzione non è possibile. Io penso che l’unica soluzione di uno stato democratico in cui convivano tutti, arabi, ebrei, cristiani come era all’inizio. Un unico stato democratico in cui vivere tutti in pace. Virginia Papaleo VB

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Attiviste siriane Sembrava che questo 2015 fosse iniziato nel peggiore dei modi per il nostro Paese, che ha dovuto affrontare le terribili perdite subite in seguito al naufragio del Norman Atlantic ed assistere inerte alla richiesta d’aiuto delle giovanissime Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, studentesse lombarde che avevano deciso di prender parte al progetto “Horryaty”, al fine di portare aiuto, insieme ad altri organi di volontariato, in Siria, terra martoriata dalla guerra. Ma quella che avrebbe dovuto rappresentare una “missione di pace” si è trasformata in un incubo per le due ragazze, le quali sono state rapite e tenute prigioniere per circa cinque mesi, usate come merce di scambio dal fronte Al Nusra, alleato di Al Quaida, uno dei maggiori esponenti terroristici del Medio-oriente. Ricordiamo ancora i loro volti distrutti dal terrore e dalla paura, avvolti da uno chador nero, che imploravano aiuto al proprio Paese nell’ultimo atto di un 2014 da dimenticare, dichiarando di essere in pericolo e suscitando l’apprensione delle famiglie e di tutti gli italiani. E chi avrebbe mai pensato che, a distanza di così poco tempo, mentre la Farnesina, ancora impegnata sul fronte Marò in India, era occupata a risolvere “l’ennesimo problema causato dai musulmani”, la Francia avrebbe dovuto affrontare quel nemico che porta il nome di TERRORISMO, un tornado devastante che in poche ore ha spazzato via secoli di lotte per i diritti inalienabili dell’uomo ed ha letteralmente lacerato i principi fondamentali su cui è fondata la maggior parte delle Costituzioni europee. Le prime pagine delle testate giornalistiche occidentali si è dedicata, mostrando tutto il suo patriottismo, allo scempio che si è consumato in quel

terribile 7 gennaio a Parigi e che ha riversato i suoi effetti malefici su tutto il mondo, e nel frattempo Al Nusra, in virtù della sua massima riservatezza, ha concesso alle giovani attiviste la libertà, con tanto di tweet su Al Jazeera. Non è mancata la telefonata del Presidente del Consiglio, il quale, dopo aver-erroneamenteelogiato l’Italia per lo STRAORDINARIO lavoro compiuto nel Mediterraneo-e aggiungerei soprattutto tempestivo, dato che, effettivamente, sarebbe potuta andar peggio, ma coi tempi che corrono meglio vedere il bicchiere mezzo pieno, anche se l’acqua è salata-ha voluto comunicare alle famiglie Marzullo e Ramelli che le loro figlie sarebbero tornate a casa sane e salve, sottolineando il fatto che il nostro Paese avrebbe superato l’accaduto con l’integrità che lo caratterizza, senza sborsare neanche un soldo. Ma le convinzioni del nostro Premier e della maggior parte del popolo italiano sono state sgretolate da un articolo pubblicato sul giornale “Il Fatto Quotidiano”, in cui sono state rese pubbliche alcune intercettazioni che testimoniano l’esistenza di profondi legami tra le due crocerossine italiane e alcuni gruppi molto vicini ai jihadisti siriani. Dalle stesse intercettazioni risulta che il nostro Paese, ormai abituato a sotterrare i soldi dei contribuenti in un esteso “orto dei miracoli”, abbia versato circa 10 milioni di euro per liberare le ragazze, le quali sono state elogiate come eroine nazionali e dopo poche ore, in seguito alle indagini del ROS, accusate senza pudore. Alcuni hanno avanzato anche l’ipotesi truffa, ritenendo una sceneggiata i cinque mesi di prigionia affrontati dalle lombarde, una scusa per spillare altri quattrini ad un Paese che già naviga nell’oro. Insomma, i motivi che hanno spinto due studentesse poco più che ventenni ad intraprendere una tale missione ci saranno per sempre

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oscuri, come del resto le cause che spingono-nonostante tutto-alcuni ragazzi italiani ad entrare a far parte dell’ISIS et simila, tuttavia risulta evidente dagli ultimi accadimenti l’incommensurabile debolezza del nostro Stato, un’insignificante pedina nelle mani del fato, disposta a versare “mazzette” sottobanco pur di salvare l’onore, o almeno quel poco che ne resta. E ora inizia a diffondersi il terrore di un nuovo attacco, in seguito anche alle dichiarazioni dell’ISIS, che afferma “Conquisteremo la vostra Roma, faremo a pezzi le vostre croci, ridurremo in schiavitù le vostre donne” riferendosi-secondo alcuni- all’intero Occidente cristiano. Non sono mancate polemiche sull’attentato del 7 gennaio né tantomeno sulla liberazione delle attiviste italiane, polemiche non del tutto infondate, che hanno fatto luce sul possibile trionfo dei partiti di estrema destra in seguito ad un evento simile. Purtroppo non possiamo stabilire se si verificheranno altri attentati o meno, altri rapimentipseudo missioni di volontariato, ma non c’è di che preoccuparsi: l’Italia sarà sempre pronta a fronteggiare qualsiasi tipo di situazione…..COI NOSTRI SOLDI! Raffaella Granata IF

Il virtuale che distrugge il sociale “Questi media che chiamiamo social sono tutto fuorché sociali, quando accendiamo il computer e chiudiamo la porta. Comunità, solidarietà, spirito di gruppo... Ma quando ti allontani da questa illusione, ti svegli e vedi un mondo di confusione. Un mondo in cui siamo schiavi della tecnologia che abbiamo creato. Un mondo di interessi personali, selfie, autocelebrazione, di parole sistemate per far brillare le nostre vite, in cui tutti condividiamo le nostre parti migliori, lasciando fuori l’emozione. Editiamo, esageriamo, ricerchiamo adulazione, fingiamo di non notare l’isolamento sociale. Stare soli non è un problema, leggiamo un libro, dipingiamo, facciamo esercizi, così saremo produttivi, presenti, non riservati e reclusi. Siate svegli e attenti, spendendo bene il vostro tempo. Quando siete in pubblico e vi sentite soli, mani dietro la testa e lontani dal telefono! Non fissate il menù o la lista dei contatti, apritevi all’altro, imparate a coesistere! Non sopporto il silenzio dei treni di pendolari, nessuno parla per paura di sembrare matto. Esplorate i dintorni, approfittate della giornata, basta solo un incontro per fare la differenza e creare il vostro futuro! Questo però non può accadere, se siete troppo impegnati a guardare in basso, non vedrete le opportunità che perdete. Abbiamo una vita limitata, un certo numero di giorni. Non passate la vita intrappolati nella rete, i risultati saranno solo rimpianti. In questo mondo digitale, in cui ci vedono ma non ci sentono, parliamo digitando, leggiamo chattando, passiamo ore insieme senza guardarci negli occhi. Non arrendetevi a questa vita, date amore alla gente, non i vostri “mi piace”, disconnettetevi dal bisogno di essere ascoltati e definiti, uscite nel mondo, lasciate a casa le distrazioni. Non guardate il telefono, spegnete il display. Vivete la vita vera…“ Siamo circondati da bambini che fin dalla

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nascita ci vedono vivere come robot e pensano sia normale. Non sarai il miglior padre del mondo se non sai intrattenere un bambino senza un iPad. Smartphone e tablet determinano l’isolamento sociale a partire già dall’infanzia; ora i parchi sono silenziosi, è impressionante, non ci sono bambini, le altalene non dondolano, non si salta la corda, non si gioca a campana, non si costruiscono case sugli alberi. Nove ragazzi su dieci sono connessi gran parte della giornata e chattano con amici e conoscenti coltivando le proprie relazioni sociali dietro lo schermo di un computer o di un contatto whatsapp. La tecnologia che avanza permette ormai di guardarsi negli occhi anche a chilometri e chilometri di distanza, anche se di mezzo vi è l’oceano, tramite videochiamate con l’uso di una webcam, ma io sono del parere che il tramonto visto insieme dalla spiaggia abbia un altro sapore e che le parole sussurrate all’orecchio facciano più rumore di quelle urlate attraverso un microfono o digitate sulla qwerty che ormai tutti abbiamo stampata in testa. Al di là dei danni alla memoria e alla vista che l’uso spregiudicato di strumenti tecnologici può causare, vi sono problemi presi poco in considerazione e che riguardano la quotidianità di noi ragazzi che quasi ossessionati dal virtuale trasportiamo esperienze e sentimenti in un mondo che è tutt’altro che reale. La sola idea di dover rendere pubblici su blog o pagine Facebook le vicende vissute in quei pochi momenti che siamo immersi (a forza) nel piano della realtà in un certo senso sminuisce quanto di produttivo nasce da tale momenti e che dovrebbe riguardare interamente i giorni, le settimane, gli anni di vita. Di certo non va sottovalutato quanto la

tecnologia e la rete, consequenziale a questa, hanno portato di buono, i vantaggi che derivano indubbiamente dal poter restare in contatto con persone dall’altra parte del mondo, ma è importante distinguere chiaramente tale tipo di relazioni dalle relazioni “in carne ed ossa” a pochi centimetri di distanza, in uno stesso ambiente, che può davvero evidenziare la propria capacità di rapportarsi col mondo, con gli altri, capacità indispensabili ai fini di una vita sociale sana, concreta e attiva. Il nostro futuro dipende dalla voglia di uscire e liberarsi dal virtuale, dalla voglia di rimboccarsi le maniche e darsi da fare per superare le proprie paure e i propri limiti, spesso inconsapevoli, nell’incontrare l’altro. Alessandro Capasso, IIIF

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L’insulso feticismo del manuale Lo studio ha oramai perso ogni carattere critico; è divenuto un pappagalleggiare pedissequamente il “verbo” del libro di testo, un mero nozionismo privo di cognizione di causa. Un approccio allo studio, questo, che non solo è scevro di effettivo valore formativo ma che sta anche portando alla “santificazione” del manuale, ossia a una sterile quanto anticritica e quasi religiosa subordinazione di chi studia all’autorità di chi degli Autori è soltanto interprete. Il “feticismo del manuale” e l’attaccamento morboso alla “paginetta” assegnata rispondono a una precisa volontà di controllo e standardizzazione della conoscenza: concorrono a sopire l’intuitività, la capacità di analisi e di critica; a spegnere quella curiositas ulissiaca che ci spingerebbe a varcare le Colonne d’Ercole del sapere precostituito — a superare, cioè, i limiti conoscitivi che il “paragrafo” ci impone — nel tentativo di andare al di là del superficiale eruditismo. A fronte della caleidoscopica polisemicità dello scibile, il manuale propone un modello di conoscenza limitato e univoco, una visione interpretativa chiaramente unilaterale che spesso viene intesa come indiscutibile dogma da assimilare: “studiare” dal manuale senza criticità significa compiere un vuoto esercizio mnemonico, alienante e infecondo, privo di alcuna valenza nello sviluppo individuale (se non addirittura controproducente). E’ dunque necessario, parafrasando un giudizio di Paolo Rossi, “mettere da parte il manuale” per “cominciare a lavorare direttamente sulle fonti”, a riflettere sui testi senza la mediazione dei “fiumi d’inchiostro” versati dalla critica; solo in questo modo, ossia sviluppando uno spirito

critico, unito alle facoltà di comprendere, analizzare e interpretare autonomamente, possiamo portare a termine il nostro “folle volo” verso la “canoscenza” e la maturazione individuale. Ma oramai — ed è questo il paradosso — la lettura dei (pochi) riferimenti testuali antologizzati nei manuali scolastici appare sempre più spesso cosa collaterale e secondaria rispetto allo “studio” dei paragrafi dedicati all’interpretazione critica; qual è il senso? Sarebbe come pretendere di giudicare la bontà di una frittura mai assaggiata, di cui si conosce soltanto la descrizione altrui … sarebbe come parlare di aria fritta. Io, dal canto mio, la frittura l’ho mangiata. E vi posso assicurare che è buonissima. Raffaele Marrone III E

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Napoli città aperta? Napoli. Città di sole,mare,pizza,mandolino e “ammore”. Napoli. Città cosmopolita, multiculturale ,antirazzista. Napoli. Napoli. Napoli. Già il suo nome ti riempie la bocca. Ti riempie la bocca e l’animo di fierezza e contentezza. Ma può capitare,spesso, che ti faccia “piglià collera”. E uno dice “perché?”. Perché, purtroppo,Napoli non è solo questo. Si nasconde dietro la bella facciata dell’Erasmusland, della mostra di Andy Warhol,dei ristoranti cinesi. Si nasconde per scappare allo spettro dell’omofobia e alla sempre più presente xenofobia. Antirazzismo e xenofobia: due parole totalmente in antitesi. Come è possibile accostarle? E’ possibile purtroppo nella società attuale:si è divisi tra tolleranti e chiusi,due fazioni (come guelfi e ghibellini) che sono sempre pronte a farsi guerra,a menare ‘mazzate’. L’emblema della “lotta” è la sentenza emessa dalla magistratura napoletana: 10 anni di reclusione per i 3 uomini che, nel giugno del 2009 a piazza Bellini,circondarono e picchiarono un ragazzo, incolpato soltanto di essere gay. I capi d’accusa sono “motivi futili e abietti” per sopperire ad una inesistente legge contro l’omofobia. “Ma fa nulla,c’arrangiamme l’importante è che quelli se ne vanno a Poggioreale,poi alla legge Renzi provvede”-sempre prima o poi. Ottobre 2014,un concentramento di poche decine di persone si riunisce a via Scarlatti per protestare contro le unioni civili. Il concentramento si dichiara apolitico

e aconfessionale. Il concentramento si identifica nel nome Sentinelle in Piedi (dal web poi ribattezzato Femmenielli in piedi). Il concentramento è difeso da uomini in divisa ma è attaccato da gente del quartiere e dai “delinquenti” dei centri sociali. I “dissidenti” attaccano a “male parole” e con il lancio di palloncini -non propriamente palloncini- e con qualche uovo. Numerose testate di informazione virtuale hanno intervistato le sentinelle che dichiarano molto limpidamente: “Adamo ed Eva erano un uomo e una donna”.Beh,viva l’aconfessionalismo. Le stesse testate poi intervistano la controparte, l’altro schieramento ideologico,quelli vestiti di rosso, quelli che sono stati accusati di non lasciare libertà di espressione e pensiero a quei poveri venti o trenta bigotti che lottano per il futuro di tutti i bambini del mondo civile. Perché se un bambino non avesse una mamma e un papà, un maschio e femmina che gli insegnano come campare, poi crescerebbe malato, avrebbe una visione distorta della vita e della società in cui si trova. Perché giustamente loro si fanno promotori dei diritti dei bambini: tanto basta mandare 1 euro al mese ai bimbi in Africa o fare il 5X1000 alla chiesa cattolica affinché ci si possa sentire tutti buoni benefattori. I ragazzi dei collettivi,la comunità gay della città,gli uomini e le donne dei comitati sociali

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si sono dichiarati a toni estremamente forti per esprimere il proprio dissenso a questa protesta e hanno riconosciuto dietro le Sentinelle una nuova forza di estrema destra,per l’appunto Forza Nuova (e senza voler trascendere in amenità e offese gratuite,questi si sono poi dimostrati propriamente fascisti). Novembre 2014, piazza Dante. Domenica sera. Aggressione fisica a due ragazzi,colpevoli di un bacio. Due punti di sutura al Pellegrini, denuncia in caserma Pastregno e poi a casa. Dopo poco più di una settimana il centro storico si mobilità “pecché mò bbasta”: flashmob per i due ragazzi. Lo battezzano “kiss me day”: etero e omosessuali sono liberi di baciarsi davanti a telecamere e macchine fotografiche perché siamo in un mondo libero e tutti esigiamo di vivere LIBERI. Mara Cavallo IC

Otium et negotium L’arte della felicità “Venite qui a confidarmi le cose che sono importanti per voi, a raccontarmi le vostre storie, i vostri drammi e poi ve ne andate. E allora io dico: ma chi cazzo siete, anime dannate, fantasmi? Mi avete preso per il vostro specchio? Vi siete chiesti chi cazzo sono io? Ditemi, che me ne frega a me delle vostre storie se poi ognuno se ne va per i cazzi suoi? Vaffanculo. Vaffanculo a quelli che si sfogano con me e poi di me non gliene frega un cazzo […] e poi mi venite a fare discorsi sull’umanità malata … voi siete l’umanità malata!”. Doveva sfogarsi, Sergio. Da troppo tempo porta a spasso nel suo taxi storie che non sono le sue. Ascolta, dà consigli, ma soprattutto: ascolt a. Storie singolari, storie poco conosciute, ma storie di persone che, alla fine, questa felicità o perlomeno un barlume di questa felicità l’hanno trovato. Hanno saputo fare di questa felicità un’arte, la propria arte. E Sergio? Che ne ha fatto della sua felicità? E’ sfumata nei clacson assordanti di una Napoli chiassosa , sporca, sommersa da musica e immondizia, oppure c’è ancora? La risposta è nei suoi occhi blu come il mare, occhi profondi, occhi che non mentono, occhi che nascondono. Felicità era chiacchierare con zio Luciano, ascoltare le sue storie, imparare da lui ad addomesticare i ricordi, fantasticare sul segreto per ottenerla quella felicità e poi sentirsi ripetere da troppi anni: “… ma se te lo dicessi non sarebbe un segreto”, quando invece zio Luciano ne

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sapeva quanto lui. Felicità era suonare con il fratello Alfredo, era far scivolare quelle dita lungo i tasti del pianoforte e lasciare i clacson , le parole, tutto il resto del mondo semplicemente “fuori”. Era litigare con lui, crescere insieme a lui, sbatterci la testa perché in fondo erano uguali, erano (come si definiranno da soli) “vasi comunicanti”, legati sia nel bene che nel male. E poi la malattia, la scelta di Alfredo di partire e di passare gli anni che gli restavano da vivere lontano, in Tibet, da monaco buddista, di lasciare la musica e di lasciare Sergio, per cercare di vivere quel presente che gli restava. Non temeva la morte, erano gli altri che la temevano per lui. Alfredo non pensava “sto per morire”, ma si ripeteva “sono stato vivo” e questo faceva la differenza. Ma Sergio era troppo arrabbiato. Come un Danny Boodman T.D. Lemon Novecento si ostinava a non voler affrontare il mondo e ad essere “se stesso” solo sulla sua nave, così Sergio era ancorato a quella gabbia dorata che era diventato il suo taxi: si era convinto di non voler camminare più con i suoi piedi. Era diventato un “involucro”; conservava gioie, dolori, aspettative e lacrime altrui, mentre sotterrava le sue sotto i sedili, altrove. Ormai era pieno zeppo della “realtà che non si scostava neanche di un centimetro dai discorsi della gente, ma soprattutto di questi discorsi che non spostavano neanche di un centimetro la realtà” e che sarebbero stati soltanto altra immondizia da aggiungere ad una città alla deriva. Era questa l’umanità malata. Film d’animazione, capolavoro ed esordio di Alessandro Rak e vincitore degli European Film Awards , “l’arte della felicità” è una poesia fatta “cartone”, una poesia che

si rispecchia nelle canzoni, nello scenario, nei personaggi. Da una cantante tormentata che non trova la sua strada, ad un “collezionista incallito” di cose vecchie e buttate che, stanco del consumismo, ha fatto del riciclo un’arte, ad un’anziana donna un po’ sboccata e con il grande fardello di essere cresciuta senza affetti fraterni, alla grande personalità di uno speaker radiofonico enigmatico e tristemente realista … Tutti si sono rifugiati in quel taxi un po’ sgangherato. Ma la musica, l’arte, l’amore, la passione erano” fuori” e questo Sergio, dopo tante frenate brusche,l’ha capito perché, citando lo speaker: “.. finché i musicisti non scendono dal taxi, finché i poeti servono ai tavoli, finché gli uomini migliori lavorano al soldo di quelli peggiori... la strada corre dritta verso l'Apocalisse!". E lui quell’Apocalisse l’aveva sfiorata, il taxi era stato la prigione della sua anima, ma l’anima non può essere rinchiusa. L’infelicità, la morte, colgono all’improvviso. Doveva smetterla di vivere bloccato nel passato con il rimorso di quello che sarebbe potuto essere e non voler affrontare il futuro per l’ansia di quello che sarà: Sergio, come l’umanità, aveva soltanto bisogno di parcheggiare, di smettere di girare e di ritrovare la musica più bella, quella che aveva dentro. “Un pensiero felice vale come un pensiero triste. La tristezza te la danno per poco, ma pure la felicità non costa nulla. Allora, tu che scegli?”.

Sara Gemma IIA

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La solitudine dei numeri primi E' prevalentemente attraverso il romanzo che il lettore si sente coinvolto e partecipe di una realtà che spesso coincide con la propria, o che, quantomeno, si avvicina molto ad essa; dunque, è attribuibile a questa caratteristica il notevole successo che tale genere letterario ha riscosso negli anni e continua a riscuotere: il lettore si immedesima nei personaggi e ne vive le vicissitudini, riflettendo su temi ed aspetti di tipo sociale o psicologico. Ed è sul tema dell'incomunicabiltà che si sofferma Paolo Giordano ne "La solitudine dei numeri primi", partendo dal piano dell'intimità e quindi attraverso l'introspezione psicologica, per poi arrivare ad analizzarne, seppur implicitamente, le cause e le conseguenze a livello sociale. I due protagonisti, un uomo e una donna, ripercorrono le varie tappe della loro vita, dall'infanzia all'età adulta, passando per un'adolescenza travagliata che li plasma e segna fortemente e ne condiziona le scelte di vita. Lui, un matematico prigioniero di un dogmatismo "rischioso", che lo porta, addirittura, ad attribuire alle proprie vicende personali proprietà e fenomeni matematici - basti pensare al titolo del romanzo - e lei, ancora in cerca di se stessa e delle proprie capacità; dunque, da una parte la certezza scientifica ed un'apparente irremovibilità d'animo, dall'altra l'evidente insicurezza di una giovane donna che ancora non ha trovato il proprio posto nella società. Seppure tanto diversi, i due, conosciutisi in giovanissima età, paiono legati da un sentimento forte che, tuttavia, non riesce mai ad unirli veramente. Proprio come numeri primi, non riescono mai a toccarsi, sempre vicini eppure intervallati da altri numeri: le circostanze mosse dal fato, le esigenze lavorative e le scelte

personali li vedono avvicinarsi ed allontanarsi in continuazione, originando un gioco di passioni e tormenti che pare non concludersi nemmeno alla fine del romanzo, creando nel lettore un senso di indeterminatezza ed incompiutezza. L'impossibile, o quantomeno ostacolata, comunicazione fra i due protagonisti è stata percepita dalla critica come lo specchio di una società che va sempre troppo di fretta e non si preoccupa più della vera comunicazione fatta di rapporti genuini: dunque, in una realtà, quella contemporanea, in cui gli sviluppati mezzi di comunicazione continuano a migliorare la vita di ogni giorno, ci si chiede se tale condizione di giovamento non sia, in realtà, un'arma a doppio taglio che vede l'emergere di una comunicazione sempre più frammentaria, scordinata ed incompleta, deleteria nei confronti di un sistema di rapporti più concreto e tradizionale. Il romanzo, che ha determinato il successo del giovane scrittore Paolo Giordano, si pone, dunque, come l'interpretazione e l'analisi di un aspetto caratterizzante della realtà odierna, visto attraverso le sensazioni, le emozioni ed i sentimenti di due giovani in cui è facile immedesimarsi e con cui il lettore crea subito un forte legame; romanzo, quindi, che senz'altro spiega il crescente consenso da parte del pubblico nei confronti di tale genere letterario, un pubblico che ha voglia di scoprire e di scoprirsi, che esige situazioni ed immagini reali, corrispondenti alla realtà che ci circonda e che fa di noi proprio ciò che siamo. Sara Rosa Napolitano III B

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Le perle di Guttalax Durante una spiegazione di matematica: Prof: “non so più in che lingua devo spiegarvi queste cose… in Turchese per caso?!” Un prof. parlando con un alunno: Prof: “ecco: ti riporto l’esempio di un altro mio alunno che, non per fare nomi, ma si chiama Simone come te.” Una prof. rimprovera l’alunno: Prof: “tu crei campi di ignorantità!” Un prof. si rivolge alla classe: Prof: “ragazzi in questa classe mi sento impotente…” Durante un rimprovero alla classe: Prof: “io qui non sto ad insegnarvi la leggenda di Romolo e Remolo!” Durante l’ora di educazione fisica: Prof: “sollevate la coscia, che si chiama davvero coscia e non è un termine napoletano!”

NOTA DELLA GRAFICA: Il numero è stato preparato dai grafici della redazione dell’Urlo in un tempo record di quattro ore. Ci scusiamo pertanto per l’eventuale presenza di errori di impaginazione o per una non gradevolezza all’occhio. Faremo di certo di meglio per il prossimo numero Alessandra Centore Lorenzo Pica Ciamarra Claudia Sarracino

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