urlo 2018

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N.1

25\10\2018

141° anno DALLA FONDAZIONE DEL GIORNALE STUDENTESCO

Periodico autogestito del liceo Vittorio Emanuele II di Napoli

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Care lettrici e cari lettori, Nuovo anno, nuovi progetti, nuove idee e soprattutto una nuova redazione, quest’anno più che mai costituita da una gran numero di ragazzi del primo e del secondo anno. Primo nuovo giornale, frutto dell’organizzazione, della determinazione e soprattutto della passione di alcuni studenti del nostro Liceo, che in questo mese si sono prodigati con generosità al progetto del giornale autogestito. Quest’anno L’Urlo ritorna a farsi sentire a gran voce, con qualche novità. Tra queste, la più importante da comunicare sicuramente è la decisione della nostra redazione, a seguito della fusione del nostro Liceo con il Liceo Garibaldi, di distribuire le copie del nostro giornale assieme a quelle del giornale del Garibaldi, in entrambi gli istituti (invece di fondere i due giornali), al fine di tutelare l’autogestione e l’autonomia ideologica e organizzativa dell’Urlo, che da sempre presenta tali caratteristiche.

Numerosi gli argomenti e le tematiche affrontate in questo numero, attraverso un’attenta analisi dei casi di cronaca nazionale ed internazionale, quali quelli del Caso Cucchi, con una reppresentazione artistica illustrata dalla nostra vignettista Sara Marseglia, degli ultimi decreti ministeriali nazionali, a quelli internazionali, quali il Caso Kavanaugh, alle rubriche d’arte, musica e di genere. Non ci resta che augurarvi una piacevole ed attenta lettura del nostro lavoro.

Romualdo Marrone, II C (quarto anno) per la redazione dellʼurlo tutta

COPERTINA DI: GIULIA SANTAMARIA AMATO, IIIC (QUINTO ANNO) SEGUI L’URLO ANCHE ONLINE E SULLA NOSTRA PAGINA FACEBOOK! sito: WWW.URLONAPOLI.ALTERVISTA.ORG

IMPAGINATO DA MICHELA FEDERICO, IIIA (QUINTO ANNO)


POLITICA E ATTUALITA’

LA CHIAMAVANO SICUREZZA Il giornale tra le mani fermo a mezz'aria, sfoglio distrattamente, troppe notizie, poche su cui vale la pena fermarsi, indugiare, informarsi. Dopo scuola gli occhi stanchi, confondono le righe, dondolano tra i caratteri troppo piccoli di una parola e l'altra. Barcollano, inciampano su lettere e carta stampata. Un secondo e gli occhi scivolano lì, in fondo, su quell'articolo scritto a destra, su quel titolo scritto in grassetto. Cattura, catalizza, calamita l'attenzione come un catarifrangente e lo sguardo, inevitabilmente, frena. Leggo, leggo di fretta e poi rileggo. Le labbra si increspano in un sorriso amaro. Stupore che lascia il posto all'indignazione. 5 settembre 2018: è stato chiamato "Scuole sicure" il piano contro lo spaccio negli istituti scolastici messo a punto dal Viminale. Stanziati 2,5 milioni di euro per installare impianti di videosorveglianza, assumere agenti di polizia locale ed incrementare i controlli davanti ai cancelli delle scuole, al fine di deviare il consumo di sostanze stupefacenti tra gli studenti. Solo il 10%, gli avanzi, è destinato a campagne educative. Sgrano gli occhi e rifletto. Potrei parlare di quanto suoni grottesco e paradossale, di come il provvedimento di cui ho appena letto faccia a pugni con ogni forma di ragionevolezza. Ma prima, un passo indietro. La scuola che conosco io, o almeno quella che mi piace immaginare, è un ambiente protetto per definizione. Quello in cui ognuno di noi prende forma, impara a crescere attraverso la mediazione dei professori ed il continuo relazionarsi e confrontarsi con i propri coetanei: la persona che diventeremo o saremo al termine del nostro percorso prende forma fra queste mura. Cresciamo tra questi banchi, davanti la cattedra durante un'interrogazione, tra questi corridoi. A scuola, volendo omaggiare tra le righe un grande scrittore, impariamo il "mestiere di vivere". Mi piace pensare alla scuola come a uno spazio bianco, un punto fermo, luogo che è e nasce protetto, nessun intervento atto a garantire ciò che è sicuro di per sé. Se tutto questo è così, un provvedimento che svilisce il ruolo e l'entità della scuola offendendo le persone, prima ancora degli studenti, non ha nulla a che vedere con le istituzioni. Essere sorvegliati, controllati, vigilati di continuo da una telecamera calpesta la dignità di ciascuno di noi, fa a pezzi il decoro e l'orgoglio. Essere annusati da un cane umilia, ci macchia con la mortificazione. Lasciamo che unità cinofile ed addetti ai controlli facciano il proprio lavoro negli aeroporti, dove operano per una sicurezza effettiva. Si parla di squadre di perquisizione per combattere meccanismi di spaccio nazionale o internazionale. Noi siamo in scuola, tra adolescenti che hanno diritto a sbagliare prima di poter fare la scelta giusta, e parlare di telecamere qui, dove siamo adesso, ha un che di ridicolo. Parlare di cani che annusano studenti sminuisce il ruolo degli educatori ed imbratta l'immagine della scuola. Scuole storiche ,come la nostra, che hanno un passato alle spalle ed un'immagine, non potrà che uscirne compromessa. Nel discorso di enunciazione del progetto si parla spesso di "prevenzione", più volte ripetuta, ricordata, sdoganata senza consapevolezza. Si parla di precauzioni da adottare contro le droghe e la criminalità. Si parla di prevenzione per camuffare un provvedimento che ha il sapore della repressione. Praeventio –onis: venir prima, agire prima.

Il principio che è alle fondamenta del progetto prende a schiaffi qualsiasi forma di prevenzione. Non esiste prevenzione se le telecamere riprendono fatti già accaduti. Esiste solo oppressione e violenta soppressione. Si soffoca il problema, lo si insabbia, lo si occulta, senza estirparlo alla radice. Se davvero si tentasse di arginare il rischio della dipendenza da droghe leggere da parte di noi ragazzi, i mezzi sarebbero altri. Se davvero stesse a cuore l'interesse di tutti noi studenti ed i rischi che possono derivare dall’utilizzo di sostanze stupefacenti, le misure da adottare sarebbero diverse. Non c'è prevenzione se non c'è informazione. Tutti noi ci aspettiamo, nei nostri istituti e nelle nostre classi, operatori di settore, esperti sul campo in grado di dare una testimonianza, di saper informare ciascuno di noi sugli eventuali rischi: ci aspettiamo vera prevenzione. Non sono cani antidroga, telecamere e agenti di polizia a dover varcare la soglia dei nostri cancelli. 2,5 milioni di euro stanziati per un progetto di repressione umiliante. 2,5 milioni di euro per rendere le scuole cosiddette "sicure". Se sicurezza nelle scuole è sinonimo di cani antidroga, squadre di polizia, agenti specializzati e videosorveglianza continua, allora guardiamo la cronaca e ricordiamo tutti cosa provoca l'assenza di vera sicurezza nelle scuole di provincia. Caserta, 3 ottobre 2018: "Cade soffitto nell'aula appena liberata, sfiorata la tragedia". Eboli, 11 maggio 2018:"Crolla intonaco in una scuola, alunni in ospedale". Aversa, 7 novembre 2017: "Maltempo in Campania, crolla tetto della scuola". La lista è lunga. Studenti senza aule, scuole fatiscenti prive di norme di sicurezza. Finanziamenti concessi in base al numero di iscritti improntano la scuola su una logica aziendale che mina il criterio della formazione, fa a pezzi il principio di crescita e confronto su cui la scuola pone le proprie fondamenta, distorce il concetto dell'educazione. Studenti e docenti di scuole di provincia sotto tetti pericolanti. Dov'è la loro sicurezza? Dov’è il loro progetto da 2,5 milioni di euro? Mentre unità cinofile e squadre di polizia varcano i cancelli delle scuole di grandi città, i ragazzi di Caserta aspettano che il tetto sia ricostruito e la classe di nuovo agibile. Chiedono a gran voce quello che spetta loro di diritto e che non viene assicurato per via di un deficit di sicurezza. Gli investimenti devono essere diretti prima di tutto verso la salvaguardia dell'incolumità fisica di ogni studente, questo sarebbe il primo passo verso una scuola così come la vogliamo. Nessuno spazio bianco finché i ragazzi di Aversa non saranno certi che il tetto sopra le loro teste regga. Non c'è logica di prevenzione in un provvedimento che sceglie di tagliare anziché sradicare, di potare anziché estirpare il problema alla radice, che sceglie di reprimere anziché prevenire. Non c'è soluzione in un progetto d'apparenza, un intervento demagogico, atto e diretto a riscuotere consensi, in un'operazione di maquillage che mortifica la dignità di ogni studente, che calpesta le necessità reali di scuole di provincia, un provvedimento rispetto al quale la nostra protesta è legittima.

Sveva Russo, IVD (primo anno)


VIGNETTA A CURA DI SARA MARSEGLIA, IIIC


VERITA’ E GIUSTIZIA La notte del 15 Ottobre 2009, a Roma, un giovane 31enne, Stefano Cucchi, assieme al suo amico Emanuele Mancini venne fermato da una pattuglia di carabinieri nei pressi del parco degli Acquedotti per possesso di sostanze stupefacenti, nella fattispecie 21 grammi di hashish, qualche pasticca e anche un medicinale, poichè soffriva gravemente d'epilessia. Per il ragazzo fu subito stabilita la custodia cautelare presso la stazione Appia, dove, secondo i fatti riportati dall'amico, Stefano avrebbe subito i primi insulti e violenze da parte dei carabinieri quando chiese del suo legale di famiglia. Loro gli dissero: "guarda, come minimo hai L'Aids, non ti fai schifo!?". Il giorno dopo, durante l'udienza, sul volto di Cucchi erano presenti già evidenti ematomi sugli occhi e inoltre mostrava difficoltà nell'esporre i fatti accaduti, tuttavia non raccontò nulla del pestaggio. Subito dopo il processo Stefano venne portato all'ospedale Fatebenefratelli di Roma, ove gli furono diagnosticati gravi contusioni al torace e all'addome, incluse lesioni in varie parti del corpo. In data 22 Ottobre 2009, verso le 3 del mattino, Stefano Cucchi morì presso l'ospedale Sandro Pertini, pesando poco più di 30 kg. La famiglia fu poi avvisata, dopo molti giorni di ansia e preoccupazione, da un ufficiale per firmare l'autorizzazione all'autopsia. La sorella Ilaria ha poi dichiarato: “Una scena pietosa, non mi sembrava lui. Era dietro a questa teca di vetro. Guardavo l'espressione del suo volto per capire cosa fosse successo. Aveva il volto tumefatto, un occhio fuori dall'orbita, una mascella visibilmente rotta. E poi l'espressione del volto. Rappresentava la sofferenza, la solitudine di come è morto". Ancora oggi, dopo 9 anni dall'accaduto, sono ancora incerte le reali cause di morte del giovane. Molte sono le ipotesi sollevate a riguardo, come nel caso del sottosegretario Carlo Giovanardi, il quale si è espresso affermando che il ragazzo fosse morto per tossicodipendenza ed anoressia (si è poi scusato con i familiari per le sue illazioni), nonostante alcuni testimoni provenienti dal penitenziario avessero confermato il pestaggio. Il 14 Novembre la procura contestò il reato di omicidio colposo (art. 589 codice penale) a carico dei medici dell'ospedale, i quali avevano asserito durante le indagini che vi era stato un rifiuto di cure da parte del ragazzo, ed invece il reato di omicidio preterintenzionale (art. 584 codice penale) per i tre agenti penitenziari. Durante le sentenze giudiziarie, inizialmente con la Corte D'Assise, il 13 giugno del 2013 furono condannati in primo grado soltanto i medici per abbandono di incapace (art. 591 Codice Penale), assolvendo gli infermieri e le guardie penitenziarie. In seguito si è espressa la Corte d'appello di Roma, il 31 Ottobre del 2014, la quale assolse tutti gli imputati per mancanza di prove, come ha poi sottolineato successivamente il presidente della corte, Luciano Panzani: "non c’erano elementi sufficienti per ritenere gli imputati colpevoli di un reato, che però c’è stato". Nel dicembre del 2015 la Cassazione ha invece annullato l'assoluzione dei medici Aldo Fierro, Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo, confermando però quella dei restanti imputati. L'anno successivo, nonostante le sentenze, la Procura,

sollecitata dalle richieste della famiglia Cucchi, avviò nuove indagini, affidate al procuratore Giovanni Musarò. Inoltre in quello stesso anno (2016) Ilaria Cucchi ha anche lanciato una petizione per far approvare il reato di tortura raggiungendo più di 200.000 firme, aiutata dall'avvocato Fabio Anselmo, il quale si è pronunciato così riguardo all'iniziativa: “L’Italia ha prima di tutto bisogno di una crescita culturale oltre che di una legge sulla tortura. Una legge di questo tipo lascia freddi gli italiani, la consapevolezza necessaria riguarda il rispetto fondamentale dell’essere umano. In Italia il sistema di comunicazione è fallimentare, definisce la famiglia Cucchi e noi legali il partito dell’antipolizia, quando chi rispetta le istituzioni e la polizia sono proprio queste famiglie. Vi è un sistema di scarsissima sensibilizzazione popolare per quello che è il tema delle condizioni di vita dei detenuti nelle nostre carceri. C’è bisogno di crescita e di conoscere, perché i casi Cucchi e Aldrovandi ci hanno dimostrato che può succedere a chiunque”. L'inchiesta-bis questa volta ha avuto avvio con il rinvio a giudizio da parte della procura contro tre militari dell'arma: Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Francesco Tedesco, accusati di omicidio preterintenzionale accompagnato da abuso di autorità (604 codice penale) e falso ideologico in atto pubblico (art. 479 codice penale). La svolta è arrivata soltanto qualche settimana fa, quando l'11 Ottobre del 2018, uno dei tre carabinieri chiamati in udienza, Francesco Tedesco, ha confermato il pestaggio avvenuto nei confronti di Stefano Cucchi, accusando i suoi colleghi e sostenendo la scomparsa, che aveva denunciato il 20 Giugno di quest'anno, di un atto nel quale aveva annotato gli eventi accaduti quella famosa notte del 2009. Il caso di cronaca nera di Stefano Cucchi ha suscitato grande interesse ed attenzione da parte dei media e delle persone ed è divenuto, man mano nel corso degli anni e dei diversi processi, emblema della lotta contro l'abuso di potere delle forze dell'ordine verso i cittadini più deboli, contro la violenza, le torture, le bugie e l'omertà. La gente sa qual è la verità, ora manca la Giustizia. Simone Grieco, IIIC (quinto anno)


RASSEGNA POLITICA DEL BEL PAESE Da più di 4 mesi, il nuovo esecutivo italiano fa dichiarazioni e le ritratta, promulga leggi solo oralmente o sui media per correggersi subito dopo, inventa di sana pianta tratti di strade che non esistono e si dimentica di altri, che cadono letteralmente a pezzi. In questo clima di confusione generale, risulta quanto mai difficile distinguere una fake news da una legge o da una proposta di legge. Per capire però l’aria che tira, faremo un tour dell’Italia, tra rievocazioni storiche e curiosità scientifiche. Prima tappa, Lodi La sindaca di Lodi richiede ai genitori dei bambini stranieri che desiderano avvalersi delle facilitazioni sugli asili nidi, mensa scolastica e scuolabus, di presentare un quadro delle loro proprietà nei paesi d’origine. La legge è uguale per tutti – tuona trionfante Salvini – e fin qui siamo d’accordo. D’altronde è noto che i migranti arrivino nel nostro paese, lasciandosi alle spalle ville suntuose, per usufruire delle rinomate mense scolastiche italiane. Risultato: 30 bambini stranieri a Lodi mangiano panini, separati dai bambini italiani, che bell’integrazione. Ma cosa dovrebbero fare i genitori per impedire questa situazione? basterebbe semplicemente richiedere all’ambasciata del proprio paese di farsi inviare i documenti del catasto, a questo punto l’ambasciata dovrebbe chiedere all’ufficio del catasto del paese d’origine di farsi inviare i documenti, tradurli in Italiano e consegnarli ai richiedenti che a loro volta li consegneranno in comune, il tutto in 30 giorni. Senza contare che in tutti i casi di paesi di provenienza tranne due (Russia e Turchia), non esistono affatto registri catastali. A sentire coloro che hanno provato a seguire l’iter burocratico, i maggiori ritardi si avrebbero non appena la documentazione entra in mano al personale italiano. Seconda tappa, Verona Il comune approva una mozione, del consigliere Zelger, secondo la quale la città si dichiara “pro vita” e approva nel bilancio finanziamenti a gruppi di sensibilizzazione cattolici anti-aborto, vicini allo stesso Zelger. Tutto normale, siamo a Verona. Originario della città è lo stesso ministro della famiglia, Fontana, che oltre ad essere contro l’aborto, le unioni civili, l’apologia di fascismo e qualunque cosa introdotta dopo 1944, è famoso per far parte di un gruppo di Ultras dell’Hellas Verona. Gruppo famoso per il coro “siamo una squadra fantastica, fatta a forma di svastica”. La vicenda politica che ha portato all’approvazione in consiglio non è priva di colpi di scena: non sono mancati bracci tesi (come non se ne vedevano da un po’) e il sostegno dello stesso capogruppo comunale del PD. Unica opposizione? Una trentina di donne vestite con cappuccio di carta, mantello rosso e tunica scura ha fatto irruzione in consiglio comunale per protestare. In comune dovranno mettersi d’accordo su se fare una rievocazione storica delle camicie nere o del klu klux klan. Terza tappa, Riace Dopo il caso politico scoppiato attorno alla figura di Mimmo Lucano, viene chiuso per irregolarità lo SPRAR (sistema di protezione per richiedenti asilo e

rifugiati) di Riace. Ergo 600 migranti, residenti da anni nella città calabrese, dovranno essere ricollocati per forza (l’alternativa è astenersi dal sistema di protezione) in altre città Italiane. Contemporaneamente Salvini annuncia di voler proporre che i negozi gestiti da extracomunitari chiudano alle 21:00, per motivi di sicurezza. Intanto il 16 ottobre ricorrono i 75 anni dalla deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma, di tutta risposta il tweet del premier Conte “serbare la memoria del passato è un dovere morale e ci predispone a contrastare, anche in prospettiva futura, ogni forma di discriminazione e odio”. Ben fatto presidente. Quarta tappa, Napoli A catturare l’attenzione negli ultimi giorni è Potere al Popolo, giovanissimo movimento nato attorno all’ex OPG e ad altri centri sociali, che ha partecipato alle elezioni e in cui è confluito anche Rifondazione Comunista. Il movimento, che ha superato Liberi e Uguali nei sondaggi, ha di recente votato tramite piattaforma online il suo statuto. Gli iscritti hanno dovuto scegliere tra due statuti contrapposti, uno proposto dall’ex OPG, e un altro da Rifondazione. Nel primo, votato dalla maggior parte degli iscritti, si immaginava un movimento unico e compatto diviso in assemblee territoriali, il secondo invece favoriva un coordinamento di associazioni, partiti ed altre entità. Tale votazione ha stuzzicato gli istinti profondamente “sinistroidi” di Rifondazione, che a pochi giorni dal voto ha deciso di ritirarsi dalla votazione, facendo immaginare una possibile rottura del partito. A soli undici mesi dalla nascita, PaP è andato vicino ad espletare tutto il suo potenziale, raggiungendo il punto d’arrivo di ogni partito di sinistra: la scissione. Quinta tappa, Laboratori Nazionali del Gran Sasso Nei celebri laboratori del INFN (istituto nazionale di fisica nucleare), dove da anni si studiano particelle sempre più piccole della materia e il loro funzionamento, sono in corso nuovi studi alla ricerca dell’opposizione al governo. Il dibattito è molto acceso e autorevoli voci della comunità scientifica sono convinte che non esista affatto. Dati a favore dell’esistenza di un’opposizione al governo si sarebbero visti a Milano, nei giorni dell’arresto di Mimmo Lucano, e anche in altre città italiane, mentre rilevamenti analoghi presso Montecitorio e Palazzo Madama sembrerebbero affermare il contrario. La notizia dell’inesistenza di un’opposizione ha sconvolto alcuni italiani, i quali affermano di non aver votato né per la Lega né per i 5Stelle, e c’è chi afferma di conoscere di vista funzionari di un certo Partito Democratico. In merito il portavoce di un gruppo di studiosi della Sapienza di Roma afferma che la totale scomparsa del PD sia dovuta ad un eccesso di entropia, la tendenza insita nell’universo al disordine e alla separazione. Ancora da studiare le motivazioni per cui tale tendenza sia così elevata all’interno del PD. Antonio Girardi, IIIA (quinto anno)


CASO KAVANAUGH,RIFLESSIONI SU UN CASO GIUDIZIARIO Christine Ford, docente di psicologia dell’Università di Palo Alto, California, è in procinto di giurare la verità, nient’altro che la verità, dinanzi la commissione senatoriale di inchiesta riguardante l’accusa di molestie sessuali perpetrate dal suo accusato, Brett Kavanaugh. Politicamente e personalmente vicino al Presidente Donald Trump, Kavanaugh è il candidato più papabile per l’elezione del nono giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, che rappresenta il gradino più alto della carriera giudiziaria di un qualsiasi magistrato americano. È una carica alla quale, come facilmente intendibile, non si accede soltanto per distinzione di merito, ma un certo savoir faire nella cura delle relazioni politico-istituzionali sembra apparire indispensabile. Padre e marito di famiglia, giudice stimato, il Kavanaugh sembrerebbe un candidato eccellente, se non fosse per alcuni chiacchiericci che ultimamente girano sul suo conto.

Ma il potenziale distruttivo di queste voci di corridoio si manifesta quando a farsi avanti è una donna sulla cinquantina, sguardo magnetico, si percepisce subito la sua dedizione nell’ambito paideutico, per il modo in cui si pone, decisamente magistrale ed il suo appeal serioso. La Ford è spaventata ed intimorita, si comprende con un colpo d’occhio che non è stata lei a prendere iniziativa per palesarsi dinanzi la commissione di inchiesta, ma forse la sua coscienza di cittadina unita alla pressione della fazione politica avversa. “Buongiorno, il mio nome è Christine Ford e sono una docente di psicologia presso l’Università di Palo Alto a Stanford. Mi trovo oggi qui presente per informare la commissione riguardo una vicenda che ha visto interessate la mia persona e quella di Brett Kavanaugh durante gli anni di liceo.” Il racconto che segue è struggente. È il racconto della descrizione spaventosamente lucida del tentativo di stupro sulla sua persona da parte di Brett Kavanaugh ed un suo compagno di classe. L’emozione si fa sentire, Christine Ford non riesce correttamente ad articolare ciò che vorrebbe dire, il pensiero traumatico della vicenda vissuta, nonostante i tanti anni passati,

inequivocabilmente si riaffaccia dolorosamente. È evidente che stia dicendo la verità e che il suo intento di condividere la sua storia nasce da un grande istinto patriottico e di salvaguardia della Patria stessa. L’esito di questa grande attenzione mediatica, tuttavia, è negativo. Kavanaugh viene eletto nono giudice della corte suprema e nell’arco di una settimana l’enorme polverone sollevato sul suo conto pare dissolversi improvvisamente nel nulla. C’è chi ha parlato riguardo l’esposizione personale della Ford come una manovra politica dei democratici per assicurarsi la maggioranza presso il seggio giudiziario della Suprema Corte di giustizia americana, c’è chi ha parlato di forze complottiste, chi addirittura di un mero tentativo della docente di attirare su di sé un po’ di fugace attenzione mediatica. L’intento non è quello di individuare accusatore ed imputato. Altre due denunce sono pervenute allo stesso Kavanaugh e, per puro caso, non si tratta di denunce d’abuso d’ufficio, per quanto comunque gravi possano essere, bensì di altre due accuse di molestie sessuali da parte di altre due donne. Segnalazioni sfuggite all’attenzione mediatica, cadute nel vuoto. Ma infondo, qualora la magistratura americana rivelasse fondate le accuse, questi avvenimenti rientrerebbero normalmente nel clima politico instabile trumpiano, comuni atti d’ufficio. Poco importa se uno dei nove rappresentanti di uno dei tre poteri governativi di uno dei più importanti stati del mondo si sia macchiato di delitti, perché tali vanno definiti, perpetrati nei confronti di individui di sesso opposto. Aldilà delle speculazioni di pensiero, è opportuno comunque rimanere cauti su vicende di questa tipologia e soprattutto essere perfettamente consapevoli che, in caso di ammissione di colpevolezza volente o nolente, ci ritroveremmo dinanzi ad uno degli scandali di genere più eclatanti di quest’epoca. Romualdo Marrone, IIC (quarto anno)


L’AUTOGOL DI RONALDO Credo sia nota a tutti la notizia del presunto stupro subito dall’insegnante 34enne Kathryn Mayorga (all’epoca aspirante modella di 25 anni) dal famoso calciatore Cristiano Ronaldo, il quale avrebbe stuprato la donna il 12 giugno del 2009, nella sua camera d’hotel. Come prove a sostegno dell’accusa mossa dalla donna, ci sono degli esami effettuati la sera dello stupro che confermerebbero il fatto, ed una denuncia fatta immediatamente dopo l’accaduto, che pare sia stata successivamente ritirata. Un’ulteriore cosa che lascia tutti abbastanza perplessi, è un accordo di riservatezza con cui Ronaldo avrebbe “pagato” il silenzio della donna con ben 375.000 dollari. Inoltre, il calciatore, ha ammesso che tra i due ci sia stato un rapporto sessuale, a parer suo consenziente poiché la ragazza si era solo debolmente rifiutata senza urlare con fermezza i “suoi no”; inoltre Ronaldo ribadisce di essersi immediatamente scusato per l’accaduto, ritendendolo poco grave, e perciò di non aver minimamente ferito, né emotivamente né psicologicamente, la ragazza. C’è da dire, però, che i dubbi sono tanti e significativi. Perché denunciare uno stupro ben 9 anni dopo, ad esempio? Oppure, se fosse tutta una messa in scena al solo scopo di avere un risarcimento? La Mayorga afferma di essere rimasta troppo traumatizzata per trovare il coraggio di affrontare un processo contro una persona tanto famosa. Un processo, che perciò, sarebbe stato reso di dominio pubblico. La donna avrebbe trovato ultimamente il coraggio per denunciare, spinta dal movimento “Me too”(movimento contro molestie e violenze sessuali), e dal dubbio che dice averla tormentata per anni, ossia: “e se lo avesse fatto a qualcun altro?” Una cosa è certa: ciò che è accaduto non è un avvenimento di poco conto. Ronaldo, infatti, rischia da 15 anni di galera all’ergastolo, nel caso venisse dichiarato colpevole. Ma sarà sul serio colpevole? La verità è sempre difficile da capire, e noi non possiamo far altro che formulare ipotesi, puramente soggettive, ed aspettare un verdetto da chi di competenza. Ciò che lascia però molto perplessi, non solo in questo caso, ma anche come dopo la denuncia di molestie da parte di Jimmy Bennet contro Asia Argento (una delle colonne portanti del movimento “Me too”), e che spesso avviene dopo ogni denuncia di molestie o stupri, è la quantità di insulti e di accuse che ricevono coloro che denunciano, più che chi viene denunciato, in particolare su social come Twitter ed Instagram, o sotto gli articoli pubblicati su internet che denunciano i fatti. Basta un veloce sguardo sul web, infatti, per ritrovarsi immersi in una marea di messaggi chilometrici, in cui si accusano le presunte vittime di aver denunciato solo per soldi, di essere “persone dai facili costumi’’, di essersela cercata, o addirittura, c’è chi accusa le vittime di essersi vestite in modo troppo provocante, c’è chi dice di “invidiarle’’…perché ovviamente chi non avrebbe voluto “ farlo’’ con un tal bell’uomo/una tal bella donna? Tutto ciò, è veramente triste. Siamo nel 2018, e la società tende ancora a normalizzare stupri, molestie,

cat-calling, e a colpevolizzare le vittime. Possibile che ci sia una tale indifferenza nei confronti della sofferenza altrui, una tale banalizzazione di traumi che segnano a vita? Le ricerche dimostrano che circa 1/3 delle vittime di stupro vivono almeno un periodo di depressione grave, che il 17% delle vittime si suicida, e che chi subisce uno stupro ha 3-4 volte maggiori possibilità di fumare marijuana, 6 volte di far uso di cocaina, e 10 volte di far uso di droghe più pesanti. Vi sembra poco? Si cerca sempre un pretesto per insulare, ridicolizzare, deridere, sminuire le persone. Le stesse persone che perdono poi fiducia in loro stesse, nelle persone che le circondano, e nelle autorità, che dovrebbero aiutarle. Che poi, vi sembra tanto strano che gli stupri non vengano denunciati, o che spesso vengano denunciati con anni di ritardo, se la sofferenza maggiore arriva proprio dopo la denuncia? Una sofferenza, questa, causata dalla società stessa. Secondo recenti dati riportati dall’ Istat, in Italia, la percentuale di chi denuncia è molto bassa, e solo per la metà degli iscritti in procura si avvia un’azione legale. E, se poi ci finiscono in prigione, la pena è molto leggera. Nonostante ci sia stata dal 2006 al 2014 una leggera riduzione della violenza nel suo complesso, restano stabili le quote di donne vittime di stupri e tentati stupri, e soprattutto è aumentata la gravità delle violenze sessuali e fisiche. Secondo dati Istat del 2014, quasi una donna su tre, ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 3% ha subito stupro e il 3,5% tentato stupro. Più dell’80% degli stupri sulle donne italiane è stato commesso da un italiano, mentre gli stupratori stranieri sono solo il 15,1%. Sono tristemente in crescita anche le violenze sessuali e le molestie subite da uomini, che spesso vengono di molto sottovalutate. Credo che sia chiaro che quello degli stupri è un problema enorme in Italia, ma credo che sia altrettanto importante dire che questo problema riguarda tutti noi, in prima persona. Magari non possiamo evitare che uno stupro avvenga, ma possiamo impegnarci a prevenire ciò, e per farlo bisogna parlarne, bisogna educare gli altri, che siano parenti, amici, o anche estranei, al rispetto. Al rispetto in ogni sua forma, e verso chiunque. Perché di base, ciò che ci manca, è proprio questo. In una società basata sul rispetto del volere, dei sentimenti, e delle idee altrui, non esisterebbero stupri, molestie, violenze di alcun tipo, omicidi, femminicidi, razzismo, omofobia, bullismo, o cyber-bullismo. Se abbiamo la possibilità di cambiare qualcosa anche solo parlandone, di costruire una società diversa, più sicura, e migliore, perché non lo facciamo? Anna Cocciardo, IIIC (quinto anno)


MUSICA

“LO SAI CHE VENGO DAI PROBLEMI ECONOMICI E DA QUELLI ESISTENZIALI DEI TOSSICI” A rappresentare una realtà ormai ben consolidata nell’attuale scenario Hip-Hop italiano c’è sicuramente Mario Molinari, in arte Tedua, rapper classe ’94. Mario nasce a Genova, ma a soli tre anni si trasferisce con la madre a Milano per andare a vivere poco tempo dopo con una famiglia affidataria. La sua è un’infanzia molto travagliata poiché spesso ha a che fare con assistenti sociali e passa da una casa famiglia all’altra. Si avvicina alla musica durante le scuole medie, quando la madre gli regala “The Eminem Show” di Eminem, “Get Rich or Die Tryin’” di 50 cent e “Fuego” dei Gemelli Diversi, ed è così che comincia ad affacciarsi all’ambiente delle battle milanesi (dove diventa amico di Ghali ed Ernia) con lo pseudonimo di “Incubo”. Quest’esperienza, però, si interrompe sul nascere quando a tredici anni si trasferisce nuovamente con la madre, questa volta a Cogoleto, un comune in provincia di Genova, luogo fondamentale per la sua crescita artistica e individuale perché è proprio qui che Mario fonda la crew “Wild Bandana”, di cui fanno parte artisti come Izi, Bresh, Ill Rave e Vaz tè. Ed è proprio con quest’utlimo che nel 2014 fa uscire il suo primo progetto: un EP intitolato “Medaglia D’Oro” e pubblicato con il nome di Duate. La sua carriera artistica ha però una svolta nel gennaio 2017, quando pubblica il suo primo album ufficiale, dal nome “Orange County California”, grazie al quale comincia ad essere giudicato come una delle promesse della scena. Uno spaccato di vita adolescenziale, fatto da amici, dallo stadio e dal pugilato; ma anche da sofferenze, problemi e difficoltà che ha dovuto fronteggiare un ragazzo a cui poco è stato regalato. La sua fama cresce pian piano, toccando l’apice nel 2018 quando pubblica il suo secondo album, prodotto dalla Sony, intitolato “Mowgli”, sfruttando il personaggio del celebre cartone animato “Il libro della giungla” come allegoria di un ragazzo abbandonato che deve però farsi strada con forza nella “giungla urbana”, con tutte le complicazioni che ne conseguono. Un lavoro in cui è evidente uno studio ed una particolare attenzione formale, che rendono “Mowgli” un album maturo e poco adatto ad un ascolto superficiale. “Il Flow è Knockout sul colpo” La critica che più spesso viene mossa al rapper genovese è quella di non saper andare a tempo. Un’idea che, dopo un primo ascolto, potrebbe essere facilmente condivisa, se solo non si considerassero le grandi influenze prese dalla drill music, un sottogenere della Trap nato a Chicago. Infatti Tedua non può che rappresentare un’unicità nel panorama musicale italiano (e non solo) per le sue caratteristiche drill, con liriche cupe e crude, non escludendo mai il lato conscious. L’aspetto che più lo distingue dai suoi “colleghi” –anche questo peculiare nella drill music- è, però, sicuramente quello metrico. Mario infatti, con una cadenza ritmica che può essere definita sincopata (nella quale ci sono sincopi, ovvero spostamenti d’accento che interrompono il flusso regolare del suono) distrugge completamente tutti i canoni del “classic rap”, abituato invece ad accentare sempre il quarto movimento dei quattro della battuta musicale (con ovvie eccezioni). Una decisione stilistica che, da un lato, rende l’ascolto più complesso e meno “musicale”, ma che, dall’altro, permette, anche grazie all’ampio uso di figure retoriche di posizione, una completezza, chiarezza ed immediatezza espressiva che pochi altri artisti posseggono. Il connubio dato da una metrica “irregolare” e da una grande attenzione formale, sia nell’esposizione dei concetti che nelle narrazioni degli eventi, offre un risultato sicuramente fuori dal comune. “Il Mio Pensiero è Sempre Stato Scomodo Nel Blocco” Non si può dire che l’adolescenza del giovane rapper genovese sia stata facile. Infatti erano frequenti i problemi con gli assistenti sociali soprattutto per le scarse disponibilità economiche della famiglia. Proprio a causa di queste ristrettezze economiche Mario, nel periodo in cui abitava a Cogoleto, si è ritrovato a compiere piccoli crimini e a relazionarsi con gli abitanti più poveri della periferia. Da ciò derivano le tematiche “street”, presenti in tutta la sua produzione. Ciò che però, ancora una volta, fa sì che Tedua si distacchi completamente dal resto della scena è il fatto che la dimensione che egli ci mostra non è quella di una vita criminosa fatta di sfarzo, ostentazione o lusso, bensì di una necessità; un bisogno spinto da un istinto di sopravvivenza. Nei racconti di vita quotidiana egli descrive con precisione i piccoli atti criminali che ha dovuto compiere, scontrandosi spesso con i valori e i principi con cui è stato cresciuto e ritrovando nella speranza di una vita migliore la forza di andare avanti. È così che la classica retorica "street" della ricchezza, della fama e del potere viene capovolta, assumendo invece un valore politico, che permette ad un artista eclettico come Tedua di poter parlare dell'abbandono delle periferie da parte dello stato e dei disagi che comporta vivere in questi luoghi. Tedua, grazie alla sua attitudine drill, ad un’estrema attenzione formale e a dei contenuti che propongono una scala di valori morali, rappresenta un’unicità nel panorama musicale italiano ed europeo, che va oltre i cliché del Rap e della Trap e che fin’ora è sempre riuscita a stupire il suo pubblico. “Il Futuro è Dei Deboli Che Si Sono Fatti Coraggio”. Riccardo Cascino, IIIE (quinto anno)


INTERVISTE

IL MONDO DELLA PUBBLICITA’ SI TRASFORMA In un mondo che ormai cerca di fare della parità un pilastro fondamentale della società e che prova a combattere qualsiasi tipo di discriminazione, il mondo della pubblicità resta decisamente arretrato ritrovandosi ad essere ancora basato su molti stereotipi. Dalla necessità, non solo di liberarsi di tutti questi cliché legati a qualunque categoria, ma anche di dar voce a categorie rese marginali dalla pubblicità nasce il Marketing genderless che lotta perché chiunque possa riconoscersi nei modelli pubblicitari. Dal settore della moda a quello del make-up, numerosi sono i campi che vengono sponsorizzati parlando solo a una determinata categoria, basti pensare al modo in cui è pubblicizzata la maggior parte dei brand di make-up: parlando principalmente al femminile senza considerare che al giorno d’oggi la percentuale di uomini che comprano cosmetici è in continua crescita; gli ultimi tentativi delle grandi aziende di essere inclusive, creando intere linee di trucco dedicate agli uomini, si sono rivelati dei completi flop, dal momento che i prodotti proposti erano prevalentemente di colori neutri, riuscendo in tal modo a lanciare soltanto il messaggio che “se un uomo vuole truccarsi deve restare sobrio, senza usare toni eccessivamente eccentrici perché quelli sono per le donne”. Per costruire una società diversa da quella odierna è naturale pensare di partire dai bambini, rappresentando la società futura ed essendo particolarmente influenzabili; purtroppo l’industria infantile è ancora ferma ad una fortissima divisione fra i generi e ci ripete in continuazione che: il rosa è per le bambine e il blu per i bambini, le bambine sono più affettuose e materne quindi giocano con le bambole, mentre i bambini sono più portati per giochi intellettuali quindi scelgono i puzzle e le costruzioni; statisticamente pubblicizzare costruzioni rosa alle bambine le rende più propense a giocarci: questo potrebbe sembrare una conferma delle differenze nel modo di giocare dei bambini, ma in realtà è soltanto il frutto di un processo psicologico molto semplice: se si da a una bambina di due anni, che non è ancora in grado di scegliere autonomamente i propri giocattoli, soltanto prodotti pensati e pubblicizzati principalmente per le “femminucce” e se le si mostra solo una realtà in cui le bambine come lei giocano con le “cose da femmine” con cui gioca lei stessa, non c’è da stupirsi se a sette anni quella bambina sceglierà giocattoli che rispettano lo stereotipo secondo il quale è stata allevata. Proprio per questo il marketing genderless si batte perché non si insegni più ai bambini la presenza di oggetti per femmine e oggetti per maschi. Considerando la situazione attuale, non sorprende che in Italia tutto ciò che riguarda il marketing genderless venga completamente ignorato; nonostante ciò stanno nascendo molti progetti web che si occupano di questi temi, uno di questi è Whatevertilda un progetto marketing nato su Instagram la cui fondatrice, Erika Leserri, mi ha aiutata rispondendo ad alcune mie domande: Ciao Erika, comincio subito chiedendoti cosa hai studiato. Io ho studiato marketing, esattamente quello per cui lavoro. La facoltà era un ibrido fra economia, comunicazione e scienze politiche. Come ti sei spostata dal marketing al marketing genderless? Proprio tramite il mio lavoro, allora io lavoro da circa sette anni e mi sono sempre chiesta come mai non venissero valutati certi prodotti in base ad alcuni target che si allontanassero da un target standard: secondo me mancava un tassello, quello dell’identificazione. Non tutti ad esempio si possono identificare in una tipica modella che sponsorizza un reggiseno, per dire: un uomo che non si indentifica come donna ma ne ha comunque il corpo non può mai sentirsi a proprio agio comprando un reggiseno sponsorizzato da una modella standard. Io mi sono accorta che c’era qualcosa che mancava e che forse la comunicazione era concepita per fare soldi senza considerare che si possa guadagnare anche in maniera più inclusiva senza “offendere” intere fette di mercato. Cercando informazioni sul web mi sono accorta che gli articoli sono prevalentemente inglesi o americani, perché secondo te è un tema così poco trattato in Italia? Sì guarda, è un tema davvero poco trattato in Italia, basti pensare al numero di famiglie che parlano ai propri figli di sesso, è considerato un tabù, tutto questo discorso è considerato veramente un grande tabù. In Italia non si parla per niente di tutto questo e per questo la nazione non è pronta, mi è capitato di fare uno shooting sui profilattici in cui c’è una ragazza che mangia profilattici e un’azienda mi ha contattato riconoscendo la mia originalità e il mio valore ma allo stesso tempo mi ha detto che comunque i profilattici sono una cosa solamente maschile (quando in realtà esistono anche quelli femminili) che viene acquistata prevalentemente dagli uomini ( e anche qui sbagliavano perché le statistiche ci dicono che più del 70% delle donne italiane acquista profilattici), questo ci dimostra quanto non siano pronte proprio le aziende. A livello lavorativo questa tua scelta di occuparti di marketing genderless ti limita? Allora, a dire la verità, il posto per cui lavoro ha apprezzato moltissimo il mio progetto però, non essendo inerente al tipo di comunicazione di cui mi occupo, capisci che magari può non adattarsi a quello che faccio. Comunque l’ambiente lavorativo ha apprezzato molto la mia iniziativa. Dando un’occhiata agli shooting in pagina ho notato che sono principalmente campagne di sensibilizzazione generale, il vostro intento è quello di lasciarle così o volete arrivare a sponsorizzare prodotti specifici? Sicuramente la seconda, nel senso che sulla pagina trovi sia alcuni contenuti a cui mi ispiro sia degli shooting realizzati da noi che non sono finalizzati alla pubblicizzazione di un dato prodotto, ma più che altro utilizziamo determinati prodotti per lanciare un messaggio su come vengono pubblicizzati adesso alcuni prodotti. Quindi Whatevertilda vuole diventare un’agenzia a tutti gli effetti ma per adesso si limita a lanciare messaggi molto


provocatori, se un giorno riuscissi ad avere la mia attività sicuramente pubblicizzerei i prodotti delle aziende che me lo chiedessero in modo inclusivo. Secondo te la teoria genderless può essere applicata a qualunque prodotto? Qualunque non lo so, nel senso, ti faccio un esempio: tu hai mai visto un dentifricio sponsorizzato da una persona in carrozzina? Presumo di no, eppure sono sicura che anche i disabili si lavino i denti. Io questo intendo per pubblicità genderless, ti ho fatto un esempio molto banale ma comunque possiamo applicare questo concetto a molti prodotti anche se comunque ci sono prodotti che si prestano di più, sta a chi fa pubblicità essere un bravo creativo. Passando all’industria infantile, quanto è importante partire educando i bambini a un mondo privo di stereotipi? Molto, è esattamente questo quello che vorrei venisse fatto: dare un valore paiedeutico alla pubblicità. La pubblicità ha un potere enorme che viene spesso usato in modo negativo, quindi perché non usarlo per fare del bene alla società. Io non penso di avere figli, ma se mai ne avessi uno di certo non lo porterei di fronte allo scaffale dei giochi destinati al suo sesso ma gli direi di scegliere quello che preferisce lasciandosi guidare dal cuore. Dalla chiacchierata emerge che la tanto demonizzata pubblicità è molto più legata alla psicologia di quanto si pensi, il marketing inoltre ha delle chiavi di lettura affascinanti e positive che lo potrebbero rendere un pilastro fondamentale dell’evoluzione continua della nostra società. Mariateresa Cesare VA (secondo anno)


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