Albero della vita n°1 2018

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L'albero della vita


L'albero della vita L'Albero della vita Anno 3 numero 1 Febbraio ­ Marzo 2018

COORDINATRICE EDITORIALE Gabriella Madeyski REDATTORE CAPO Giuseppe Ragusa

L'albero della vita Febbraio ­ Marzo 2018

REDAZIONE Cecilia Barbato Gabriella Bontà Albachiara Gasparella Donatella Grespi Dino Santarossa

GRAFICA e versione on line Dino Santarossa HANNO COLLABORATO: Rita Ambrosio Paolo Baldan Corrado Balistreri Trincanato Angelo Barbato Antonio Bortoletto Luisa Bassetto Renzo De Zottis Gian Paolo Franz Bruno La Rocca Maria Caterina Ragusa Mirella Poretto Adriana Tersano Nicolò Tron

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In copertina 1A Peschi in fiore, “Souvenir de Mauve” – Vincent Van Gogh 4A

Disappearance (2015, acrilico su tela), di Antonella Mason

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SOMMARIO

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Editoriale Pola – La strage dimenticata di Vergarolla Vergarola, di Bepi Nider Una mostra originale e interessante La Pre­Primavera Musica sacra del XX secolo di Krzysztof Penderecki Marianne North Gruppo di fotografia Medicina: Allergia ai pollini Il dramma di Medea ieri e oggi "Disappearance" di Antonella Mason Poesia di Cecilia Barbato I nostri lettori raccontano Visita al Colorificio San Marco La Tisana Il piacere della lettura Rambaldo Jacchia, pioniere dell'aviazione Pablo Picasso: Guernica

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Editoriale Gabriella Madeyski

Meditate che questo è stato: Vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore Stando in casa andando per via, Coricandovi alzandovi; Ripetetele ai vostri figli.

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UNITRE Mogliano Veneto

Fine ottobre, Stadio Olimpico di Roma, partita Lazio – Cagliari. Alcuni tifosi hanno tappezzato scale, varchi di ingresso e vetrate con adesivi che ritraggono con la maglia della Roma Anna Frank, la giovane ragazza ebrea olandese, vittima dell’Olocausto. Novembre, in una scuola di Pistoia intitolata ad Anna Frank è stata imbrattata con simboli antisemiti l’insegna. Questi fatti, e soprattutto la vergogna dell'Olimpico che ha fatto il giro del mondo trovando ampio spazio su tanti giornali e siti internazionali, mi hanno indotto ad una riflessione che vorrei condividere con voi. Molto spesso ci si chiede che senso abbia ricordare avvenimenti tragici ormai lontani, perché si teme che, parlandone e inevitabilmente ripetendosi, diventino luogo comune, stereotipo. Ma allora, mi chiedo, per evitare il rischio di assuefazione e la caduta del senso tragico degli eventi, potremmo scegliere la meditazione e il silenzio? Scegliere il silenzio potrebbe nel profondo del nostro animo avere delle validissime ragioni, però, in pubblico, finirebbe con il coincidere con l’oblio, e non è proprio contro l’oblio che la memoria e l’organizzazione della memoria si muovono? Ma perché è necessario ricordare? Al giorno d’oggi, secondo me, bisogna abbandonare quel ricordo che prende la via più facile, quella della “vittimizzazione”. E’ naturale che una strage così gigantesca come quella degli Ebrei ci inviti a leggere tutto in chiave innanzitutto di pietà umana, ma bisogna anche pensare che, se quel gigantesco male è potuto accadere, è perché anche uomini e donne “normali” l’hanno voluto e, in numero ancora maggiore, l’hanno tollerato e osservato come spettatori negligenti e nullafacenti. In un periodo come quello che stiamo vivendo, in cui “il sud del mondo” progetta di trasferirsi in larghe masse nel “nord del mondo”, tutto “il nord”, in altri termini “noi”, non può non riflettere, non può non porsi il problema dei rapporti fra maggioranza e minoranze, tra identità diverse che i fenomeni migratori di massa portano ad avvicinarsi. L’immane problema di come rapportarsi con quello che si può, o meno, avvertire come occupazione è la sfida dei nostri tempi ma, per vincerla, c’è sicuramente bisogno di conoscenza storica. In questi anni troppo spesso ci siamo voluti convincere che l’uomo, dopo l’atroce esperienza dei lager, stesse percorrendo la strada della libertà e dei diritti umani e molti ancora pensano che il solo ricordare quanto è accaduto ad Auschwitz possa impedire il riprodursi di fatti analoghi. Personalmente resto scettica di fronte a simili proclami, dubito che i racconti storici che fanno leva solo sull’emozione siano destinati ad ottenere un effetto duraturo, soprattutto in una società come la nostra in cui le emozioni scorrono velocemente e, mai contenti, si è sempre alla ricerca di emozioni forti. E allora? direte voi, cosa si può fare? Ritengo che si debba ritornare ad insegnare veramente la Storia perché almeno le nuove generazioni si preparino a diventare dei cittadini con una coscienza civile, consapevoli del mondo in cui è capitato loro di vivere, responsabili del loro ruolo di essere umani. Per noi quelle tragedie costituiscono innanzitutto un impegno morale. Siamo cresciuti con le parole che Primo Levi ha premesso al suo Se questo è un uomo:


Pola – La strage dimenticata di Vergarolla (domenica 18 agosto 1946)

Gan Paolo Franz

L'albero della vita Febbraio ­ Marzo 2018

“Dighe ai morti, dighe luna, te prego, che no dimentichemo”: è un solo verso di una poesia dell’istriano Giuseppe “Bepi” Nider, ma racchiude lo stato d’animo con il quale gli esuli della Venezia Giulia e della Dalmazia, insieme ai loro discendenti, vivono il ricordo di quelle tragiche vicende.

Quando, in occasione della “Giornata del Ricordo”, incontravo l’amico Nevio profugo istriano e capitano di mare, egli mi ripeteva: “Anche quest’anno si sono dimenticati di Vergarolla”. Quest’anno sarebbe stato finalmente soddisfatto, grazie al film documentario del regista Alessandro Quadretti con la partecipazione di Simone Cristicchi, e alle inchieste del giornalista Toni Capuozzo, che dopo settant’anni hanno portato alla ribalta nazionale la strage dimenticata del 18 agosto 1946, salvandone la memoria. Il contesto storico: nell’estate del 1946, a guerra finita, il territorio di Pola, enclave italiana della Zona A, era amministrato da un governo militare angloamericano, costituito da truppe britanniche, in attesa dell’esito della Conferenza della Pace di Parigi che ne avrebbe stabilito il destino e i nuovi confini adriatici. I Polesi si erano espressi chiaramente in merito alla loro italianità: su circa 31.000 abitanti, 28.000 avevano manifestato l’intenzione di abbandonare la città nel caso in cui essa fosse stata assegnata alla Jugoslavia. Il ricordo dei fatti: in quella calda domenica di agosto sulla spiaggia di Vergarolla, una baia alla periferia occidentale di Pola nei pressi di una base navale, si sarebbero dovute svolgere le tradizionali gare natatorie. Sul litorale erano state accatastate una trentina di mine antisbarco, ricavate dalla bonifica del porto, contenenti un totale di nove tonnellate di esplosivo. Le mine erano state da tempo disinnescate da artificieri italiani e inglesi, mediante l’asportazione dei detonatori, e venivano continuamente controllate: per esplodere avrebbero dovuto essere nuovamente riattivate. Erano pertanto considerate innocue al punto che i bagnanti stendevano sopra i vestiti ad asciugare e i ragazzi giocavano nelle vicinanze. La bella giornata e la manifestazione sportiva avevano attratto sul lungomare circa 2.000 persone, tra cui molte famiglie con bambini, ignare di quello che stava per accadere. Alle 14.15 un’enorme improvvisa esplosione sconvolse la spiaggia, disintegrando decine di corpi, provocando oltre 100 vittime (65 quelle identificate, di cui 15 non arrivavano a 10 anni di età) e numerosi feriti, molti dei quali rimasero mutilati e invalidi: erano scoppiate le mine, ammassate sull’arenile, riattivate da ignoti per farle esplodere e provocare una strage. I soccorritori recupereranno resti anche a grande distanza e sui rami della vicina pineta. Nonostante le inchieste istituite dalla polizia militare inglese e dalla polizia civile di Pola, pur accertando che non poteva essersi trattato di un incidente, non si riuscì a stabilire chi fossero gli esecutori e i mandanti. Non si approfondirono le indagini e non si denunciò la strage alla comunità internazionale che a Parigi stava decidendo le sorti dei confini orientali, lasciando che Vergarolla venisse dimenticata a causa di una complessa situazione di politica internazionale. Questo fatto di sangue creò paura e rassegnazione contribuendo alle decisioni che portarono nei mesi successivi all’esodo in massa dalla città di Pola (la canzone “1947” di Sergio Endrigo ricorda “Da quella volta non l’ho rivista più … Come vorrei essere un albero che sa dove nasce e dove morirà”). A settant’anni di distanza Vergarolla non si dimentica, come non si scorda l’eroica figura del medico Giuseppe Micheletti che, essendo l’unico chirurgo presente, rimase ad operare in ospedale per oltre 48 ore, salvando molte persone, pur essendo informato che i suoi due bambini di 9 e 6 anni e alcuni parenti erano scomparsi nell’esplosione. Continuerà a lavorare all’ospedale di Pola sino al mese di marzo 1947, al servizio della Croce Rossa, e coordinerà l’evacuazione di tutti i malati ricoverati. Lo Stato italiano lo ha insignito di Medaglia d’Argento al Valor Civile e Trieste gli ha dedicato un monumento. Inoltre un cippo nel parco accanto al Duomo di Pola ricorda tutte le vittime della tragedia. Per rispetto di queste innocenti vittime è auspicabile che nuove indagini vengano compiute, che gli archivi italiani e internazionali siano resi accessibili, per far emergere una lettura serena e veritiera della storia, altrimenti questa rimarrebbe una delle tante stragi impunite, senza una verità condivisa da tutti, certamente la più sanguinosa del dopoguerra. La struggente poesia “Vergarola” del poeta istriano Bepi Nider ricorda il doloroso evento. Anche Poste Italiane ha emesso negli ultimi anni francobolli commemorativi dell’esodo degli istriani.

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Vèrgarola (La poesia, in dialetto triestino, rievoca la tragica vicenda e ricorda l'eroico operato del dottor Micheletti)

Bepi Nider

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UNITRE Mogliano Veneto

El sol brusa le piere, sòfiga l’aria e vien su da l’asfalto de catrame vampade. A Vèrgarola xe festa. Su le barche, bandiere, soni, canti, ridade. El mar, lucido e fermo, par de smalto. Disdoto agosto, giorno de festa. E tuti quanti va là, a Vèrgarola. Circa le due e venti, quando tremar se senti la tera, el ciel, le case, tuta Pola. Tremendo un scopio, ‘na grande fiamada e poi, da Vèrgarola, ‘na fumada nera se alsa in alto de sora ‘l mar de smalto. Vetri roti. Rolè sbregadi via, che disastro! Che strage, mama mia! Un brazo qua… là do mani… ‘na testa… sfalsadi come fiori i fioi co i genitori. A Vèrgarola iera grande festa. Done palide. Oci sgionfi de pianto. Zighi… urli… svenimenti… Dio santo! Dove xe ‘l picio mio?… Mia sorela?… I mî cognai?… I mî parenti tuti?… Assassini!… Vigliachi!… Farabuti!… Maria!… Tonin!… disé!… La mia putela?!… El giorno se fa scuro. Campane a morto co l’Ave Maria. In ceseta, stivadi per tera, fianco a fianco la testa verso ‘l muro, xe in mostra i massacradi. I feridi vanegia su in corsia. Vea, piansendo, un dotor tanto stanco. Per i nostri morti un pensier… un adio Pei assasini… tuto vedi Idio…


Una mostra originale e interessante

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Donatella Grespi A fine Settembre la Sala Espositiva Pastorale di via De Gasperi, ha ospitato la mostra "LA VIA DEI TIGLI. IMPRONTE D'ANIMA" dell'artista Chiara Lorenzetto. Si tratta di una raccolta di disegni ricavati dai ceppi degli alberi abbattuti in via Barbiero nel 2014, ceppi che sono rimasti a lungo ai bordi della strada , prima di essere rimossi definitivamente. Erano dei tigli profumati che caratterizzavano il lungo viale denominato dai moglianesi "Via dei tigli", i primi erano stati piantati addirittura negli anni '30 e '40 quando ancora la via era una strada di campagna. Per più di ottant'anni essi hanno rappresentato per tutti i cittadini di Mogliano un punto di riferimento, un luogo in cui passeggiare lontano dal traffico caotico e assordante, all'ombra delle larghe fronde in primavera e in estate, calpestando le foglie secche e accartocciate in autunno. Io stessa scelgo questa strada per andare in centro, molto spesso di corsa per arrivare in orario alla stazione, un tempo, invece, vi camminavo lentamente, spingendo la carrozzina dei miei nipotini. Anni fa, reduce da un grave lutto, stavo percorrendo il viale per tornare a casa. Il mio cuore era pesante e mi chiedevo che senso avesse tanto dolore. Mentre ero immersa nei miei pensieri ho sentito un alito di vento e poi, intenso, il profumo dei tigli che mi riportava alla vita... L 'artista, con lo scopo di mantenere nel tempo la memoria degli alberi abbattuti e di rappresentare nel modo più fedele possibile il loro vissuto, con una tecnica particolare chiamata "frottage" (termine francese che significa strofinare) ha strofinato, su una velina scelta per la sua sottigliezza e adattabilità al sistema del ricalco, appoggiata orizzontalmente su ogni sezione di tronco reciso, della grafite, ricavando per ogni albero abbattuto la sua impronta unica e identificativa come avviene con le nostre impronte digitali. Dopo questo lungo e paziente lavoro ha attaccato ogni velina ad un supporto di cotone, più resistente ma altrettanto leggero. Per portare a termine l'intera opera ci sono voluti più di due anni! Ho visitato la mostra e devo dire che l'ho trovata interessante e originale. Anche il modo in cui erano esposti i 106 disegni , fatti pendere dal soffitto e posti uno di fianco all'altro e di fronte, come se si passeggiasse in un viale. Sono diversi uno dall'altro come lo sono le storie dei tigli. Alcuni sono particolarmente interessanti , attraverso le impronte è possibile ricostruire le fasi della loro crescita, le eventuali malattie, addirittura il modo in cui sono stati abbattuti. Significativa è, in molti , la fessura che indica il taglio della scure. Sembra una ferita, un grido. Bravissima Chiara Lorenzetto che con maestria, tecnica, ma anche molta sensibilità ha saputo cogliere l'anima di ogni albero e ce l'ha fatta conoscere. Alcuni pezzi di questa opera sono stati esposti alla Accademia di Belle Arti di Venezia, a Ca' dei Carraresi a Treviso e a Brescia ricevendo consensi di critica e di pubblico.

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La Pre­Primavera Cor ado Balist eri Trincanato

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UNITRE Mogliano Veneto

Sono le 9.15 del 26 febbraio, mi dirigo nella terrazza posta a Sud e guardo l'igrometro termico, agganciato alla parete in mattoni, investita dal sole. Le lancette segnano 10°C ed una percentuale di 55% di umidità, mentre l'orologio termometro multi funzioni, posto su uno scaffale di una libreria del soggiorno, l'Oregon Scientific americano, segna 20,4°C e 36% di umidità. Sul vetusto pioppo, due taccole s'inseguono e gracidano minacciose per allontanare le gazze ladre. Quattro rampichini, indifferenti, percorrono il tronco ed i rami a caccia d'insetti e di parassiti. In lontananza, il battere ritmato del picchio che sonda i fusti degli alberi alla ricerca del legno morbido per scavare il proprio nido annuale. Uno stormo di colombi passa via poiché sopra di loro volteggiano alcuni famelici gabbiani. L'intreccio dei rami dei pioppi si drizza verso l'alto affinché i collosi germogli si dischiudano liberando al sole le loro gemme che distendendosi, diverranno amenti maschili, più allungati, e amenti femminili. Poi giungerà la lanugine che il vento spargerà per ogni dove. Osservo quel felice intreccio dei rami dei pioppi, simile ad una rete che cattura grandi porzioni dell'azzurro del cielo. Sono gli ultimi sei sopravvissuti pioppi di un secolare percorso agreste inglobato nella città. Questi sei non sovrastano più il popolo umano che si radunava sotto di essi, mentre continuano ad ospitare le moltitudini di popoli alati. Ora è giunto il nero merlo e sulla cuspide lancia il proprio canto amoroso nel tentativo di delimitare il territorio dove nidificherà, ma è costretto a spostarsi sul bordo di un canale di gronda poiché, partite le taccole, sono sopraggiunte le lunghe codate gazze ladre, corvidi dalla livrea nera bianca azzurra che alla luce vira verso il verde metallico. Inizia una lotta negli spazi aerei, mentre lo scricciolo osa spuntare dalla fitta siepe del sempreverde bosso. Attendo, ma il pettirosso si nega. All'improvviso una macchia arancione plana sul prato e rigira le foglie morte a caccia di vermi ed insetti esposti alla luce. È lui, il pettirosso, spavaldo, forte della propria aggressività nel marcare il territorio nei confronti dei propri consimili e di altre varietà di piccoli uccelli. Le quote aeree sono fasce dove si muovono le diverse specie. In lontananza giunge il richiamo dello zigolo giallo dal ripetitivo ritmo: "ci ­ ci ­ ci ­ ci ­ ci ­ ci ... ciuii", confondibile con quello del passero domestico. Si apre una finestra del condominio ed una mano lancia delle molliche di pane. Un gesto abitudinario ad orario fisso. Si calano alcuni piccioni, ma è già appostato sul tetto lo stormo dei passeri. Rapidi scendono e, planando a pochi centimetri dal prato, spazzolano via i bocconi più ghiotti. Compiono piccole acrobazie mentre i piccioni, stupiti e stupidi, zampettano di qua e di là nella speranza di raccogliere le briciole dimenticate. Quel trambusto attira una coppia di tortore che guardinga si apposta su di un ramo basso. Ruotano il capo, e ripetono il monotono: "turrr, turrr". Sfreccia una multicolore ghiandaia e lo stridulo: "dchää, dchää, piüü", fa volar via le tortore. Guardo l'ora. Si avvicina il tocco delle dodici. Ancora due giorni e l'aria di marzo solleciterà la flora. Lo svilupparsi delle tremule foglie dei pioppi, mimetizzeranno nell'areale più basso gli uccelli di piccola taglia, mentre, nelle sommità, i picchi, le gazze ladre e le taccole, entrambe della famiglia dei corvidi, si daranno battaglia.


Musica sacra del XX secolo La Passio et mors Domini nostri Jesu Christi secundum Lucam di Krzysztof Penderecki

Luisa Basse o

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La musica è capace di aprire le menti e i cuori alla dimensione dello spirito e conduce le persone ad alzare lo sguardo verso l’Alto, ad aprirsi al Bene e al Bello assoluti, che hanno la sorgente ultima in Dio Benedetto XVI La musica del XX secolo, il nostro recentissimo passato, è ancora in grado di raccontare il sacro? La Passione secondo Luca di Penderecki è l’opera scelta per tentare di dare una risposta a questa domanda. Krzysztof Penderecki è un compositore cattolico dichiarato, (1) con tutto il fervore e la schiettezza del cattolicesimo polacco, fortificato nei secoli da varie persecuzioni, non ultime le difficoltà del periodo comunista. Nato nel 1933 a Dębica, in Polonia, ha studiato alla Scuola Superiore di Cracovia, diplomandosi nel 1958. Nello stesso anno ha inizio la sua attività di docente di composizione presso il medesimo istituto di cui è stato rettore dal 1972 al 1987. Dal 1966 al 1968 insegna composizione e contrappunto alla Volkwang Hochschule di Essen, in Germania e nel 1968 soggiorna a Berlino con una borsa di studio del Deutscher Akademischer Austauschdienst. Oltre a vari premi è stato insignito della Laurea honoris causa da molte Università ed è inoltre membro onorario della Royal Academy of Music di Londra, dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma, dell’Akademie der Künste di Berlino e dell’Accademia de Bellas Artes di Buenos Aires. Nell’evoluzione dei suoi lavori è possibile seguire un succedersi e un rinnovarsi di interessi che confluiscono nella creazione di opere per la grande maggioranza di ispirazione sacra, di origine biblica, evangelica o liturgica. Nel 1962 il compositore inizia la stesura della Passio, un’opera fortemente emozionale che sfrutta ogni effetto musicale per far risaltare al massimo ogni singolo momento drammatico. Tutto in quel lavoro è proclamato ad alta voce, con chiarezza di colori, tanto per l’angoscia e il terrore, quanto per la luce della fede. Commissionata dal Westdeutscher Rundfunk, per la celebrazione dei 700 anni della Cattedrale di Münster, la Passio ha decretato il successo di Penderecki e sancito la sua notorietà a livello mondiale. Formalmente modellata sulle Passioni bachiane, l’opera presenta tutte le caratteristiche sperimentate nei lavori precedenti del compositore, frammiste ad elementi

(1)“Sono nato e cresciuto in un piccolo paese del sud­est della Polonia. – ha raccontato il compositore in

un’intervista – Allora, quando ero bambino io, il centro della cultura in un paese di 2000 abitanti era la Chiesa. Mi sono formato in questo ambiente, educato da una famiglia severamente cattolica. Più tardi, da studente, ho terminato i miei studi musicali a Cracovia, altro centro di influenza cattolica. In quel momento il regime comunista vietava la religione e la musica in Chiesa non era permessa. È per protesta che ho cominciato a comporre musica religiosa, per presa di posizione”, R. IOVINO, Il fenomeno Penderecki. L’elettronica abbraccia il sacro, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/01/30/il­ fenomeno­penderecki­elettronica­abbraccia­il.html?ref=search, 30 gennaio 2008 (11 ottobre 2017).

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(2) RATZINGER, Gli spettatori del male che non vedono Dio,

http://www.corriere.it/cultura/15_aprile_02/gli­spettatori­male­che­non­vedono­dio­ca7d9884­ d8f4­11e4­938a­fa7ea509cbb1.shtml?refresh_ce­cp, 2 aprile 2015 (7 ottobre 2017).

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derivati dalla tradizione musicale: frequenti richiami tonali e modali, oltre a forme come l’aria e la passacaglia. Lo scopo del compositore è quello di offrire al pubblico un’esperienza musicale universale esprimendo le sofferenze per la morte di Cristo e allo stesso tempo le tragiche esperienze dell’umanità verso la metà del XX secolo. Ciò a cui mira quest’opera è una catarsi collettiva. Joseph Ratzinger ne ha parlato in questi termini: "Nella Passione di Penderecki è scomparsa la serenità quieta di una comunità di fedeli che quotidianamente vive della Pasqua. Al suo posto risuona il grido straziante dei perseguitati di Auschwitz, il cinismo, il brutale tono di comando dei signori di quell’inferno, le urla zelanti dei gregari che vogliono salvarsi così dall’orrore, il sibilo dei colpi di frusta dell’onnipresente e anonimo potere delle tenebre, il gemito disperato dei moribondi. È il Venerdì Santo del XX secolo. Il volto dell’uomo è schernito, ricoperto di sputi, percosso dall’uomo stesso. “Il capo coperto di sangue e di ferite, pieno di dolore e di scherno” ci guarda dalle camere a gas di Auschwitz. Ci guarda dai villaggi devastati dalla guerra e dai volti dei bambini stremati nel Vietnam; dalle baraccopoli in India, in Africa e in America Latina; dai campi di concentramento del mondo comunista che Alexandr Solzhenitsyn ci ha messo davanti agli occhi con impressionante vivezza. E ci guarda con un realismo che sbeffeggia qualsiasi trasfigurazione estetica. Se avessero avuto ragione Kant e Hegel, l’Illuminismo che avanzava avrebbe dovuto rendere l’uomo sempre più libero, sempre più ragionevole, sempre più giusto. Dalle profondità del suo essere salgono invece sempre più quei demoni che con tanto zelo avevamo giudicato morti, e insegnano all’uomo ad avere paura del suo potere e insieme della sua impotenza: del suo potere di distruzione, della sua impotenza a trovare se stesso e a dominare la sua disumanità. (2)" Quest’opera riesce a fissare i simboli retorici del sentimento collettivo di un’epoca, quella del dopoguerra, che ha vissuto gli eventi cruciali della bomba atomica e di Auschwitz; di questi eventi porta il segno nel suo vigore primordiale e nell’immediatezza espressiva, spesso estrema. La musica è sempre stata considerata dai teologi come elemento essenziale per la comprensione del mistero, intuendo in essa una sorta di apertura, di elevazione che va oltre e aiuta ad avvicinarsi all’intelligenza del mistero stesso. E il messaggio di un compositore come Penderecki, che adotta un linguaggio moderno, complesso, impegnato, ma accessibile all’ascolto, non lascia affatto indifferenti, ma anzi provoca le coscienze e si impone attraverso il suo eccesso di espressività, le sue tensioni e contraddizioni. È un messaggio che dunque risulta efficace proprio perché pare scaturire da un’esigenza irrefrenabile di comunicare il sentimento sacro che lo pervade, entrando in totale empatia con l’ascoltatore.


Marianne North Hastings 1830 – Londra 1890 Pittrice floreale dell’era vittoriana

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Br no la Rocca

“Marianne cresce libera, selvaggia, bella e ineducata. Nel senso che, malgrado l’apparenza così garbata, non ama lasciarsi irretire dalle rigide regole del tempo. Studia storia e geografia sulle pagine di Walter Scott, Shakespeare e Robinson Crusoe. Va a cavallo, suona, disegna, detesta la mondanità.” La North rimase orfana di madre a soli dodici anni , visse per sempre accanto al padre, parlamentare britannico, e non si sposò mai. Ricevette l’educazione delle ragazze altolocate inglesi dell’epoca vittoriana con i viaggi tipici del tour europeo. Frequentò gli ambienti delle famiglie benestanti e incontrò scienziati, intellettuali ed imprenditori. Ricevette lezioni di pittura dalla pittrice di casa reale ed in seguito da una maestra olandese che le insegnò la pittura ad olio, dalla quale non si staccò più. Studiò pure incisione su rame. Dipingeva nei giardini della Horticultural Society a Chiswick dove conobbe William Hooker, famoso botanico. A quarant’anni cominciò a viaggiare sola o accompagnata in tutti i continenti e, durante questi viaggi, assunse il compito di dipingere tutte le specie fiorifere possibili in tutte le regioni tropicali della Terra e qualunque altra pianta incontrasse sul suo cammino. “Il mondo era ormai un posto in cui una donna, certamente ricca e con conoscenze altolocate, poteva viaggiare due volte intorno al Globo.” I suoi due giri intorno al mondo dureranno vent’anni: dagli Stati Uniti al Brasile, dall’India al Sudafrica, dal Giappone all’Australia… Ricevette ospitalità ovunque presso parenti, amici influenti o persone incontrate occasionalmente. Ella metteva i suoi cavalletti in qualsiasi posto, anche malagevole, purché le consentisse di riprendere piante, fiori e montagne. Alcune piante furono denominate col suo cognome. Fu persona critica e distaccata, talvolta cosciente ecologista della trasformazione in atto nel mondo colonizzato dagli europei. Soffriva di reumatismi e spesso per il freddo doveva interrompere il viaggio per riprendersi in zone climatiche più confacenti. Nel 1879 decise di affittare un locale in Conduit Street dove esporre i suoi dipinti indiani e la mostra ricevette dal Pall Mall Gazette recensioni entusiastiche che la convinsero ad allestire una mostra permanente a Kew. Le sue numerose relazioni le permisero di contattare anche Carlo Darwin che le suggerì di visitare l’Australia. Cosa che presto fece partendo nel 1880. Ritornò l’anno dopo ed iniziò i preparativi per allestire la galleria a Kew con la speranza che Darwin potesse inaugurarla ma, sfortunatamente, lo scienziato morì otto mesi prima della effettiva inaugurazione. Nel 1885 la galleria di Kew era completata con i suoi grandi spazi illuminati dalle ampie finestre che davano luce a 832 dipinti con più di 900 piante. Nella sua biografia, viene raccontato questo significativo aneddoto: “Entra un visitatore maschio. E chiede ironico:­ E’ vero che tutti questi dipinti sono di una donna?­ ­ Già – risponde Marianne – li ho fatti io.­ E l’uomo, afferrando le sue mani:­ Siete fortunata, signora, a non essere vissuta due secoli fa, perché sareste stata bruciata viva come una strega." La North trascorse gli ultimi anni della sua vita nella casa nel Glouchestershire creandovi un giardino floreale, che forse le ricordava i fiori tanto amati. Il suo grande lavoro pittorico non assunse un alto livello artistico, ma fu un innegabile contributo alla scienza, segnalando alla comunità botanica l’esistenza di piante sconosciute in tutto il mondo. La Nepenthes northiana illustrata da Marianne North https://it.wikipedia.org/

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Gruppo di fotografia Nicolò Tron

Ed è dallo sviluppo di questa esperienza che nasce il gruppo fotografico della UNITRE di Mogliano Veneto. Gruppo formato da briose foto­amatrici del secolo scorso e gioviali, ma attempati, foto­ amatori anch'essi dello stesso periodo storico Sotto la guida attenta e severa di Bruno, il burbero maestro, i fotografi imparano ad affinare il loro approccio nel cogliere e fermare le luci, le ombre, i colori e le emozioni che un'immagine può restituire in una stampa fotografica. Di anno in anno il gruppo aumenta i propri componenti e così aumenta anche la qualità delle opere al punto che si decide di farle conoscere all’esterno del gruppo stesso così, con l’aiuto e la collaborazione dell' UNITRE, vengono allestite delle mostre con risultati incoraggianti e positivi. Le ore dedicate al laboratorio di fotografia sono diventate occasione di piacevoli incontri tra persone che hanno lo stesso interesse. Il gruppo è coeso e ben assortito ed ha trovato il modo di riunirsi, anche al di fuori dell’ufficialità di UNITRE, in occasione di mostre fotografiche e di altri eventi legati alla fotografia, non disdegnando convivi a sfondo culturale. Simpatici e divertenti i componenti, femminucce e maschietti, si trovano bene assieme tanto da dispiacersi nell'approssimarsi delle vacanze scolastiche quando non potranno trascorrere le due piacevoli ore settimanali in istruttive conversazioni con il “Profeta” Bruno Carnevali . La consolazione è che a gennaio si riprenderà con nuovo materiale e nuove proposte.

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UNITRE Mogliano Veneto

Era già il secondo anno che si frequentava il “Laboratorio di Photoshop” nel quale l'eccellente docente, Graziano Piovesan, ci insegnava le tecniche più elementari per correggere e migliorare gli scatti fotografici da noi fatti, per lo più, con piccole macchine digitali o con il telefonino. In una delle ultime lezioni di quell’anno Graziano ci presentò uno strano signore, un tipo che alla prima occhiata mi ricordava il fratello più basso del Mosè del film “I dieci comandamenti”, di Cecil B. DeMille, interpretato da Charlton Heston. Capelli e barba lunghi di color bianco­argento, sguardo acuto e penetrante, veloce di parola e di immediata comunicazione, usava, ed usa tuttora, qualche espressione forte in vernacolo pur di non lasciare incertezze del suo giudizio sui nostri elaborati, senza giri di parole e senza affidarsi ad una ipocrita diplomazia il “piccolo Profeta” con poche ed incisive parole ci fece capire molti aspetti tecnici ed artistici dell’arte della fotografia. Unanime fu la nostra richiesta della disponibilità del citato Mosè (nella realtà risponde al nome di Bruno Carnevali che era, ed è, un affermato fotografo e insegnante all’istituto tecnico di fotografia di Padova), proseguire in quelle interessanti ed esaustive conversazioni. E’ cosi che nel successivo anno accademico di UNITRE fu introdotto il laboratorio di “fotografia” il cui docente era, ed è ancora, Bruno Carnevali maestro indiscusso.


Medicina: Allergia ai pollini

L'albero della vita Febbraio ­ Marzo 2018

Angelo Barbato La primavera è la più bella stagione dell’anno, ma non per tutti. Infatti il 10­20% della popolazione generale soffre di allergia ai pollini che sono la maggior sorgente di allergeni. Gli allergeni principali derivati dai pollini sono trasportati per via aerea da piante che sono impollinate con il vento (anemofile) piuttosto che da quelle impollinate dagli insetti. I pollini, a seconda delle specie di piante, variano da un calibro di 50 micron a 200 micron. La sorgente primaria di allergeni può essere il granulo intero di polline oppure sue frazioni che vengono liberate durante i temporali. I granuli di polline sono assenti nell’atmosfera nei giorni di pioggia e sono frequentemente sprigionati dalle piante nei giorni caldi e asciutti. Di conseguenza le stagioni di massima impollinazione sono la tarda primavera e l’inizio dell’estate. Le reazioni allergiche avvengono quando i granuli di polline vengono a contatto con l’epitelio delle mucose dei soggetti suscettibili (mucose delle vie aeree superiori e inferiori, mucose delle congiuntive). Non si sa quanti ne siano necessari per provocare la malattia allergica, ma si sa che, per il primo manifestarsi dei sintomi, la quantità di pollini deve essere maggiore all’inizio che non alla fine della stagione. I pollini variano da un’area geografica a un’altra anche nella stessa regione. Ad es. nel Sud Italia è più frequente l’allergia alla parietaria e al polline dell’olivo, nel Nord Italia è più frequente quella alle graminacee. Nel Veneto ci sono numerosi tipi di erbe che producono pollini allergizzanti:le graminacee sono le più frequenti, in particolare la Poa p. Lolium p., Festuca p., Dactylis g., Paleo o.. ma ci sono anche le Composite (Tarassaco, Artemisia, Ambrosia, Camomilla, Girasole), le Plantaginacee (Plantago L.), le Urticacee (Parietaria O., Urtica d.), Chenopodiacee (Chenopodium A.), Amarantacee (Amaranto C.), le cannabacee (Luppolo).

polline al microscopio

http://www.polleninfo.org

In aiuto del paziente e dell’allergologo, nella identificazione del polline specifico che dà reazioni allergiche in un dato periodo, l’ARPAV (Agenzia Regionale per la Prevenzione e Protezione Ambientale del Veneto) pubblica nel suo sito con cadenza settimanale il monitoraggio di pollini e spore fungine presenti nell’aria da metà gennaio a metà novembre. I dati sono rilevati da “stazioni captaspore" installate presso presidi ospedalieri o sedi di amministrazioni pubbliche a copertura dell’intero territorio veneto. Questo sito è aperto a tutti ed è di facile consultazione. Durante la stagione dei pollini, una persona predisposta a sviluppare la malattia allergica inizialmente si sensibilizza all’allergene e poi manifesta la malattia. La dose di polline necessaria alla sensibilizzazione è maggiore, cioè richiede del tempo mentre, quando un soggetto è sensibilizzato, ne basta una minore quantità per scatenare i sintomi. Nella mucosa nasale ci sono normalmente i mastociti che sono le cellule cui si legano gli anticorpi IgE che hanno uno specifico legame per gli allergeni pollinici. Questi mastociti aumentano col tempo nei soggetti allergici e di conseguenza i sintomi causati dalla loro degranulazione sono sempre più accentuati ad ogni successiva stagione pollinica.

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I mastociti infatti, quando avviene l’attacco della molecola allergica a due molecole di IgE, giustapposte e trasportate su recettori presenti nella loro parete esterna, liberano dei granuli contenenti istamina, proteasi, fattori chemiotattici (ECP, NCF), mentre dai fosolipidi della loro membrana viene prodotto acido che viene convertito in Leucotrieni e Prostaglandine, molecole amplificatrici della risposta infiammatoria. Così cominciano in maniera esplosiva i sintomi: prurito al naso, prurito agli occhi, colo di muco dal naso, lacrimazione, sternuti a ripetizione, e poi anche l’asma. Tutti disturbi che un soggetto allergico, col tempo e con l’aiuto dell’allergologo, riesce a gestire e controllare anche da solo. I farmaci che si usano servono a contrastare la reazione infiammatoria violenta che si scatena: sono gli anti­istaminici, il cortisone e gli antileucotrienici nelle varie formulazioni presenti in commercio. Con l’uso di questi farmaci in genere c’è un ottimo controllo dei sintomi; però se il soggetto allergico ne deve usare troppi rischia allora gli effetti collaterali da essi causati. In questi casi c’è l’indicazione all’uso di vaccini specifici contro i vari allergeni, che vengono evidenziati con le prove allergiche cutanee e gli esami del sangue. I vaccini disponibili oggi sono più specifici di quelli degli anni scorsi: non sono necessarie le iniezioni sottocutanee perché essi si possono somministrare per bocca, come compresse o spray sub­linguale alle dosi consigliate dallo specialista.

https://lastregadeicorbezzoli.wordpress.com/

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UNITRE Mogliano Veneto

In alcuni soggetti l’allergia ai pollini si può accompagnare, solo nella stagione della impollinazione, anche a quella per certi alimenti: in questo caso si parla di allergia crociata. Con lo studio degli allergeni molecolari infatti, è possibile individuare particolari allergeni che sono comuni ai pollini e ad alimenti di origine vegetale che, quando vengono assunti soprattutto nella stagione della impollinazione, possono dare reazioni più o meno acute e più o meno immediate tali da richiedere uno specifico trattamento. Conoscendo questi problemi si può fare una profilassi della allergia alimentare con la esclusione dell’alimento dalla dieta. La profilassi di questa allergia consiste nel ridurre la esposizione ai pollini il più possibile. Alcuni consigli utili possono essere i seguenti: evitare di tagliare l’erba del giardino se non usando una mascherina classe FFP1 NR D, in tessuto non tessuto, con valvola per coprire naso e bocca;se si cammina all’aperto respirare sempre per il naso che fa da filtro ai pollini e portare occhiali da sole per riparare le congiuntive; evitare di camminare/correre nelle giornate soleggiate e ventose lungo i fiumi o nelle aree incolte con erba alta; lavarsi i capelli alla sera nelle giornate soleggiate per asportare i pollini che vi restano intrappolati ed evitare il loro effetto notturno. La vaccinazione specifica per i pollini riduce di molto o elimina questi inconvenienti.


Il dramma di Medea ieri e oggi

L'albero della vita Febbraio ­ Marzo 2018

Maria Caterina Rag sa Alcuni fatti di cronaca nera vengono etichettati come effetto della “Sindrome di Medea”: sono gli infanticidi commessi da madri che ricorrono a questa forma di violenza estrema convinte di poter risolvere così i conflitti col marito o di vendicarsi di un suo tradimento o di un abbandono. Come si spiega, il riferimento a Medea? Parafrasando don Abbondio ci chiediamo: ”Medea, chi era costei?” La sua figura è presente nei più antichi testi di mitologia. Nipote della maga Circe, ha ricevuto da lei e dalla madre poteri magici che mette al servizio di dei e di uomini in cambio di benefici: per esempio, aiuta Giasone nelle sue imprese fino alla conquista del Vello d'oro, alla sola condizione che l'eroe la riporti in Grecia sulla nave Argo come sua moglie. Il dramma che ne segue è rappresentato nella tragedia “Medea” messa in scena da Euripide nel 431 a. C.: la donna, ripudiata da Giasone, deciso a sposare la figlia del re che li ospita, mette in atto la sua atroce vendetta: prima uccide la rivale e il padre di lei, poi massacra i due bambini nati da lei e da Giasone e infine fugge portandone con sé i cadaveri. Euripide usa il mito per denunciare un aspetto della società del suo tempo: fa pronunciare a Medea parole dure sulla condizione della donna: definisce la dote che ogni donna porta http://karli.overblog.com/la­sindrome allo sposo pari al prezzo da pagare per comprarsi un padrone; sottolinea il comportamento dell'uomo, libero di uscire di casa con gli amici, mentre “noi donne dobbiamo guardare a una sola persona”. E in questo modo Euripide giustifica il gesto estremo di Medea vittima del tradimento del marito che, confermando l'opinione comune, la giudica come donna, come straniera e come maga. Ed è significativo che ella si salvi per l'intervento degli dei, lasciando sospeso il giudizio degli uomini. Dopo Euripide altri autori nel mondo antico hanno fatto di Medea la protagonista delle loro opere, esprimendo, attraverso le sue vicende personali, un giudizio sulla loro epoca. In Seneca, ad esempio, vissuto a Roma nel primo secolo d. C., Medea è rappresentata come un'eroina sofferente, che agisce solo per amore di Giasone, il quale appare un uomo crudele e insensibile, ma soprattutto un ingrato, tanto da ripagare Medea con una duplice offesa, l'abbandono e il tradimento. A differenza di Euripide, che di Medea aveva messo in luce la dignità di madre e di moglie tradita, per Seneca Medea è la maga che può ricorrere agli spiriti del male pur di ottenere i suoi scopi, e le fa dire parole in cui predomina il furore che la rende implacabile nel suo desiderio di vendetta, perseguìta con lucida follia. Il mito di Medea ha trovato una sua dimensione anche in musica, con l'opera Médée di Luigi Cherubini, scritta verso la fine del Settecento. Anche in musica è risaltato il conflitto interiore di amante e madre che vive e agisce nell'ossessione della vendetta: per questo ruolo è necessario un soprano drammatico, capace di dominare le vette espressive musicali e al tempo stesso di caricare l'accento con una determinazione interpretativa quasi selvaggia. Questi caratteri drammatici così esasperati hanno allontanato l'attenzione da quest'opera per tutto l'Ottocento, ma il tempo le ha reso giustizia quando, agli inizi della seconda metà del Novecento, l'eroina tragica di Euripide ha trovato in Maria Callas la sua più convincente reincarnazione contemporanea, tragedienne di natura, “sacerdotale a tratti, feroce a volte come una belva che raspa il suolo consumando gli ultimi resti del suo pasto” (Eugenio Montale).

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Disappearance di Antonella Mason

La Redazione Antonella Mason, moglianese di nascita e cittadina newyorkese. Si definisce “artista appassionata, italiana, romantica, drammatica”. La sua è arte in movimento tra lo studio di New York (dove vive, dipinge e studia dal 2006) e Venezia. Il suo ultimo progetto artistico prende nome di Vertically, un complesso percorso pittorico ed intellettuale tra ragione ed inconscio, una non facile ricerca di una sintonia e di un equilibrio tra cuore e mente, un input per un personale dialogo con l’infinito. Abbiamo incontrato Antonella Mason dopo molti anni, e, da artista sensibile quale ella è, desidera condividere con noi questo viaggio tra intelletto ed emozione, e ha permesso di riprodurre in questo numero della nostra rivista (4a di copertina) un suo dipinto, “Disappearance” (Sparizione), appartenente a questo suo ultimo progetto.

Immersa nell’immenso non più forma né voce amalgama di luci essenza di colori: ameba silenziosa che il cosmo ingloba assorbe. Nell’eterna armonia si ridipinge.

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Disappearance

Cecilia Barbato

UNITRE Mogliano Veneto

Il ruolo della donna tradita e infine assassina diventa strettamente associato al soprano greco, che non si limita a rappresentare Medea sul palcoscenico, ma è chiamata a interpretarne il ruolo – stavolta come attrice e non come cantante – nella trasposizione cinematografica di Pier Paolo Pasolini nel 1969. Pur attenendosi strettamente al testo originale, Pasolini vede in Medea il simbolo della lotta tra civiltà agricola e civiltà urbana, tra un mondo ancora in parte primitivo, che si affida all'istinto, ai valori della razza e della religione, e un mondo dominato dalla razionalità, proteso verso il profitto e il successo sociale. Il film non insiste (anzi quasi li annulla) sui sentimenti esaltati da Euripide: l'amore, la morte, la disperazione, la rabbia, il pianto si consumano in un'atmosfera di freddezza. Più recentemente la scrittrice tedesca Christa Wolf (1929­2011), nel suo romanzo “Medea” (1996), ha rappresentato la protagonista come una donna carismatica, dal carattere forte, orgogliosa di appartenere a un mondo ancora integro, che si contrappone a quello di Giasone, dominato dalla ragione. Secondo la Wolf, Medea, non più “fattucchiera e tanto meno infanticida”, è una donna travagliata sì dall'amore, ma ancor più dall'incapacità degli abitanti di Corinto (i Greci) di integrare la propria cultura con quella del popolo della Colchide, per sua natura non incline alla violenza. Non un'infanticida dunque, al contrario una donna generosa, depositaria di una cultura che una società intollerante emargina e annienta negli affetti fino a minacciare di ucciderne i figli.


I nostri lettori raccontano ... Visita alla Biennale

L'albero della vita Febbraio ­ Marzo 2018

Mirella Pore o Eccomi dunque in stazione (nonostante il caldo abbraccio del letto non mi lasciasse andare) per prendere il treno delle 8.06, destinazione Venezia per una visita guidata alla Biennale. Ultimo appello prima di salire e via in allegra compagnia. La mia natura curiosa mi ha spinto a questa visita nonostante nutrissi dei forti dubbi riguardo alla cosiddetta Arte Contemporanea... ora tutto è considerato arte. La giornata si presenta da subito difficoltosa, visto che persiste un forte vento e l'acqua alta costringe i vaporetti ad altri approdi. Dopo averla attesa, la nostra guida ci fa stazionare per ben quindici minuti nel pieno vortice di un vento gelido, davanti al tabellone per spiegarci la dislocazione dei vari padiglioni ("domani avrò un bel mal di gola", è il mio pensiero nascosto). Finalmente si entra in un locale riscaldato, una biblioteca costituita da libri portati dagli stessi artisti. Visitiamo il padiglione centrale dove fanno bella mostra libri tagliati, incollati, cementati e inseriti in globi galleggianti nell'aria...("chissà quant'erano brutti per fare quella fine?") mentre un tipo orientale cammina a piccoli e calcolati passi intorno alla stanza, se lo sarà chiesto pure lui? Salto volentieri un'altra uscita al vento per sorbirmi la spiegazione del perché il tipo passeggia dentro e non fuori nel giardino .... In un'altra stanza un artista mette in mostra scarti di tutti i tipi esponendoli come in un supermarket... Un altro artista espone foto del suo corpo nudo ferito e si fa fustigare dal pubblico... Altre rappresentazioni mettono in contrapposizione torturati di guerra e torturatori. Più proseguo più trova conferma la mia ritrosia verso questo tipo di arte. Ha senso tutto ciò? Il presidente Baratta spiega: La Biennale si deve qualificare come luogo che ha come metodo, e quasi come ragion d'essere, il libero dialogo tra gli artisti e tra questi e il pubblico... io da profana devo dire che questo tipo di arte non mi piace, non mi trasmette nessuna emozione, non mi comunica nulla... Sono felice di aver visitato almeno UNA Biennale, ora posso tirare un sospiro di sollievo e lasciare ad altri ulteriori impressioni.

La vita non smette di sorprenderci !!! Adriana Terzano Quando, il luglio dell'anno scorso, a Caorle, Andrea Iacomini nel suo libro "Il giorno dopo" che aveva appena presentato mi scrisse: "Ad Adriana, le auguro di vivere una vita ricca di ­ giorni dopo ­ da cui ricominciare, amare, sognare.....", diedi un peso relativo alle sue parole: ormai, con parecchie primavere sulle spalle, avevo vissuto ed ancora quotidianamente vivevo molteplici e significative esperienze. Poteva ancora accadermi qualcosa tale da mettere "a soqquadro" la mia esistenza? Non ci pensavo proprio... Ed invece, solo pochi mesi più tardi, la mia unica figlia, dopo 16 anni di matrimonio, mi annuncia di essere incinta... e da pochi giorni sono una nonna "stagionata, soqquadrata, destabilizzata… ma immensamente felice"!

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Visita al Colorificio San Marco Rita Ambrosio

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Il giorno 13 dicembre 2017 un gruppo di iscritti all'Unitre di Mogliano Veneto si è recato in visita guidata al Colorificio S. Marco di Marcon. L'occasione era nata nella primavera precedente, con un invito della dott. ssa Alessandra Tamburini, figlia del fondatore dell'azienda, durante un suo incontro con i nostri associati, previsto nel programma dei corsi liberi della serie "Donne Moglianesi". Il programma della visita ha avuto inizio con l'accoglienza nel Training Center. Faceva gli onori di casa la moglie del presidente attuale, la signora Antonella Geremia, che ci ha poi accompagnato durante l'intero percorso della visita. Ci è stato distribuito del materiale didattico ed è stato presentato un video che illustrava la realtà aziendale che, da più di ottanta anni, è una storia di famiglia. Fondata infatti da Pietro Tamburini poi gestita per molti anni dalla figlia Alessandra, è oggi sotto la guida del dott. Federico Geremia, coadiuvato dai figli, la quarta generazione. Questa in breve la vicenda: Pietro Tamburini, nato a Venezia nel 1890, apriva nel 1930 a Treviso una vendita di terre colorate e olio di lino cotto. L’attività si trasferì a Mogliano Veneto dopo la seconda guerra mondiale; grazie all'importante aumento del giro di affari negli anni cinquanta, prese parte al progetto la figlia Alessandra, che è la fondatrice della fondazione Colorificio San Marco, che sponsorizza attività culturali, artistiche e sportive. Successivamente la sede dell’azienda viene spostata a Marcon. Nell'edificio del Training Center si trova la sala per le lezioni dei corsi di formazione ai clienti. Ci hanno spiegato che qui vengono presentati i nuovi prodotti, illustrate le loro modalità di uso e gli effetti decorativi che possono nascere, usando anche la fantasia. Abbiamo poi visitato il museo aziendale. Qui sono raccolti alcuni macchinari non più in uso, a ricordo di come si lavorava una volta. La dott.ssa Tamburini, presente per accoglierci con grande disponibilità, ci ha spiegato che a Marcon si producono solo vernici ad acqua, essendo stata spostata nello stabilimento in Bosnia la lavorazione dei prodotti con solventi. Infine abbiamo visto i vari reparti, accompagnati dal sig. Paolo Tonolo, attuale responsabile di fabbrica, arrivando fino al magazzino automatizzato e alla fase di spedizione che, con una logistica efficiente , assicura un servizio puntuale e preciso per ogni destinazione. Durante il giro, seguito con molto interesse, sono state poste diverse domande e curiosità, ricevendo esaurienti risposte. Abbiamo visto anche la sala relax, a disposizione dei dipendenti durante la pausa pranzo e anche in altri orari. E' seguito un coffee­break con i saluti e ringraziamenti. C'è stato anche un ulteriore invito alla visita per chi fosse interessato, magari nel prossimo anno, per conoscere una realtà industriale, importante nel nostro territorio . In conclusione una interessante e piacevole esperienza, che si potrebbe ripetere con altre aziende presenti nella nostra Regione.


La tisana: il vecchio rimedio che va sempre di moda

L'albero della vita Febbraio ­ Marzo 2018

Antonio Bor ole o E’ ormai noto come il rimedio fitoterapico si stia facendo largo nella pratica terapeutica e che il ricorso al naturale è ormai il primo approccio per i disturbi lievi e moderati in tutta Europa. Molto utilizzati sono i tipi di estratti più vecchi come estratti fluidi ed estratti secchi con cui si possono allestire preparati salutistici anche in farmacia. Quello che invece ha sempre conosciuto ampio utilizzo, interpretata forse per molti anni come medicina alternativa o semplicemente come un ritaglio di un momento per sé nel sempre più frenetico presente è stata la tisana. Per l’ottenimento di una buona tisana, quando per buona si intende che l’acqua utilizzata riesca ad estrarre completamente le sostanze utili contenute nelle piante della miscela, è necessario approfondire i tre metodi di preparazione: infusione, decozione e macerazione. L’infusione prevede che sulla droga essiccata (con il termine droga, si intende la parte utilizzata della pianta con la maggior quantità di principi attivi. Può essere utilizzata un’infiorescenza come nel caso dell’Elicriso o la radice, come nel caso della Valeriana) si versi acqua bollente. Questo metodo prevede l’utilizzo di parti molli di piante (come fiori, foglie, frutti ecc) o di droghe ben tagliate. In alcuni casi è anche previsto che si metta la mistura sul fuoco a fiamma bassa per 1­3 minuti. E’ importante che l’infusione avvenga in recipiente coperto, agitando di tanto intanto, per circa dieci minuti. Al termine si può filtrare con colino a maglie fitte oppure con garza di cotone. La decozione è il metodo utilizzato per le droghe particolarmente dure (legni, radici, cortecce ecc) o compatte e prevede che si introduca la droga in acqua fredda e la si porti all’ebollizione. Una volta a bollore, si abbassa il fuoco e la si lascia andare 10 minuti. Quando il liquido non è troppo freddo si filtra. La macerazione invece interessa in particolare i semi delle piante, che avendo la struttura particolarmente compatta, necessitano di essere “ammorbiditi” lasciandoli in ammollo in acqua fredda per 4­8 ore. Le tisane normalmente devono essere assunte più volte al giorno, mediamente tre, o fino a un litro di preparato. Possibilmente si consiglia di berle a cadenza costante per abituare l’organismo alle ingenti quantità di liquidi come normalmente si suggerisce per le cure idropiniche nelle stazioni termali. Alcune regole d’uso: le tisane depurative necessitano di almeno una dose al mattino e di una alla sera prima di coricarsi; le tisane antitussive dimagranti e diuretiche vanno assunte ad intervalli il quanto più possibile regolari; le tisane digestive, ipocolesterolemizzanti, antigottose vanno assunte dopo i pasti; le rilassanti necessariamente nel tardo pomeriggio e la sera prima di coricarsi. E’ sempre meglio preparare la tisana estemporaneamente e berla calda perché alcune droghe possono avere componenti meno solubili in acqua di altre e la temperatura critica ne inficia la solubilità, migliorandola e rendendola più facilmente disponibile. La scelta delle piante all’interno della tisana viene fatta con rigore. Ogni pianta ha una sua funzione che non è detto debba essere terapeutica, una pianta può essere scelta per le sue proprietà pigmentanti o aromatizzanti che collaborano nel rendere piacevole la bevanda. Avvicinandoci alla primavera, le tisane più richieste sono indubbiamente le depurative del fegato, le drenanti e le coadiuvanti ai disturbi intestinali quali ad esempio quelle contro il gonfiore. Il detto “Aprile dolce dormire” spiega come al cambio di stagione spesso ci presentiamo spossati e stanchi. Questa sensazione è dovuta al sovraccarico a cui sottoponiamo gli organi emuntori di cui il fegato è il capostipite. E’ infatti un organo deputato al metabolismo di tutto ciò che mangiamo oltre che chiaramente di molti farmaci che assumiamo. Una buona depurazione aiuterà a ripristinare la buona salute epatica ed a farci sentire più tonici. Tisana colagoga: Tarassaco radice Camomilla fiori Menta piperita foglie Marrubio sommità (OAB ­ Osterreiches Arzneibuch – Farmacopea Austriaca)

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Avvertenze: Come tutti i rimedi per il fegato, si sconsiglia l’assunzione di questa tisana a chi ha occlusioni ai dotti biliari o comunque in chi storicamente si siano riscontrati calcoli biliari o congestione alla cistifellea. La presenza della menta ne limita l’impiego in bambini al di sotto dei due anni con disposizione a laringospasmo o convulsioni, come suggerisce il Ministero della Sanità. Per quanto riguarda la camomilla, invece, si raccomanda attenzione nella somministrazione a persone con ipersensibilità alla famiglia delle Compositae. In conformità con la prassi medica comune, in mancanza di studi approfonditi e per cautela, se ne sconsiglia l’impiego durante la gravidanza e l’allattamento.

tarassaco

camomilla 19

UNITRE Mogliano Veneto

Razionale: Tarassaco radice (Taraxacum officinale Wenger). Secondo le monografie ESCOP (European Cooperative On Phytotherapy – compendio di studi scientifici che raccoglie le evidenze terapeutiche delle piante medicinali più valide) la radice di tarassaco possiede proprietà amaro­toniche e digestive. E’ disintossicante epatica, diuretica e depurativa. Tutte queste azioni fanno della radice di tarassaco, utile ad eliminare le scorie del nostro organismo. Camomilla fiori (Matricaria recutita L.). Si utilizzano i capolini floreali raccolti all’epoca della fioritura (Giugno­Luglio, di prima mattina). La Camomilla è un magnifico esempio di Fitoterapia poiché contiene un’elevata gamma di sostanze sfruttabili per le loro attività, oltre tutto di natura differente poiché si ritrovano sia sostanze a carattere idrofilo (che si sciolgono bene nell’acqua) sia a carattere lipofilo (che si sciolgono bene nei grassi). L’olio essenziale di camomilla infatti contiene α–bisabololo oltre che camazulene, che attribuiscono alla camomilla proprietà spasmolitiche ed antiflogistiche. Tra i costituenti idrofili invece troviamo una sostanza chiamata apigenina, responsabile dell’attività antinfiammatoria della camomilla oltre che quella spasmolitica condivisa da altri due flavonoidi chiamati quercetina e luteolina. Contiene anche sostanze amare (complessivamente per un 3%) che esercitano le loro proprietà sullo stomaco. L’utilizzo della camomilla citato nell’ESCOP è “trattamento sintomatico di disturbi gastrointestinali quali spasmi minori, distensione epigastrica, flatulenza ed eruttazione. La Kommission E tedesca (commissione che assommiglia alla Food and Drug Administration americana, la quale provvede ad attribuire evidenze scientifiche alle sostanze utilizzate tradizionalmente) invece la cita per “Spasmi gastrointestinali e stati infiammatori del tratto gastrointestinale”. Menta Piperita foglie (Menta piperita L.). Delle foglie della pianta viene utilizzato l’olio essenziale, estratto dalle foglie. L’olio essenziale contiene mentolo (29­48%) e mentone (20­31%). Come la camomilla, la menta elimina l’aria presente nell’intestino. Contiene dei flavonoidi che le attribuiscono una funzione depurativa del fegato marcata ed il mentolo che, escreto con la bile, svolge attività antisettica lungo il tratto digestivo. Presenta attività digestiva per la sua capacità di aumentare la produzione di acidi gastrici e non è da trascurare il suo piacevole aroma che contribuisce a migliorare l’appetibilità della tisana. L’associazione di Menta e Camomilla è spesso costruttiva e documentata. Marrubio sommità (Marrubium Vulgare L.). Si utilizzano appunto le sommità fiorite che contengono sostanze amare utili nel trattare disturbi dispeptici e l’acido marrubico, derivante dalla marrubina che svolge un’azione coleretica, ovvero di aumento della produzione di bile da parte del fegato. Questa tisana si assume versando su un cucchiaio di miscela 150 ml di acqua bollente. Si bevono almeno 3 tazze al giorno dopo i pasti di cui una dopo colazione.


Il Piacere della lettura

L'albero della vita Febbraio ­ Marzo 2018

SILVIO TESTA – La zaratina (Ed. Marsiglio ­ Specchi 2017 ) Silvio Testa è un giornalista che ha lavorato anche per il Gazzettino, vive a Venezia ed è figlio di genitori dalmati. L’autore ambienta il suo romanzo intorno al lungo dramma che ha vissuto la città di Zara, occupata dapprima dai tedeschi/nazisti, poi bombardata per ben cinquantadue volte dagli Alleati ed infine, ormai ridotta ad un cumulo di macerie, invasa dai partigiani di Tito. Questi ultimi scatenano una crudelissima pulizia etnica nei confronti della gente di lingua e di cultura italiana rimasta in città. Ci accompagna, in questa tragedia, una famiglia italiana su cui spiccano le personalità del padre patriarca e quella della figlia maggiore, “la zaratina,” simbolo del coraggio e della determinazione dell’intera comunità. E’ proprio attraverso la quotidianità per la sopravvivenza che possiamo scoprire o comprendere meglio cos’è successo al di là dell’Adriatico dopo l’8 settembre del 1943. Ci sono alcune pagine molto crude, ma necessarie ed altre ricche di precisi riferimenti storici, ma ciò che prevale è il romanzo dell’uomo che racconta di affetti familiari, di ansie, di paure e astuzie per superarle, della vana consapevolezza dell’assurdità della guerra ed infine delle vecchie, preziosissime amicizie rimaste inattaccabili nonostante i cambiamenti. Questa ultima considerazione, secondo me, trova riscontro in questo passo del romanzo : ­ “ Perché mi aiuti?” “Perché sèmo omini.” Nella sua semplicità di contadino, Jakov rifiutava la guerra e la violenza, non poteva evitarle ma le ripudiava non per ragioni ideologiche che non sapeva articolare, ma perché era intrinsecamente un uomo giusto. –

Albachiara Gasparella

DONATELLA DI PIERANTONIO – L’Arminuta (Ed. Einaudi, 2017) Arminuta significa, in dialetto abruzzese, la ritornata. E la protagonista della storia, una ragazzina, è costretta a tornare, suo malgrado, dopo aver vissuto per undici anni con quella che credeva fosse la sua famiglia, dai suoi veri genitori. Non riesce a capire il perché di questo improvviso abbandono che è reso ancor più drammatico dalle condizioni di vita mutate in modo radicale. Dall'agiatezza, da una confortevole casa al mare, passa2 alla miseria di una famiglia contadina che vive di stenti, avara di parole e di affetti. Unica luce in quel buio in cui è precipitata è la sorellina Adriana. Riceve anche le attenzioni del fratello Vincenzo che però non la guarda come una sorella, ma come una donna , e la potrebbe veramente far perdere per sempre. Solo andando alla fonte, tornando presso quella che credeva la sua famiglia, scoprirà la verità, amara, dolorosa, ma che le permetterà di continuare a vivere. Scritto in modo magistrale (ha vinto il PREMIO CAMPIELLO 2017) , con un linguaggio scabro, essenziale, ma penetrante. Mi ha ricordato Elena Ferrante nella sua "L'amica geniale" sia per lo stile narrativo sia per la somiglianza delle due protagoniste. L'Arminuta è un romanzo da leggere assolutamente e da amare.

Donatella Grespi 20


Un grande pioniere dell’aviazione italiana: Rambaldo Jacchia

Renzo De Zo is Al nome di Lugo di Romagna generalmente si associa quello del suo figlio più famoso, Francesco Baracca, del quale quest’anno ricorre il centenario della morte avvenuta il 19 giugno 1918 sul Montello. Ma Lugo diede i natali anche a un altro personaggio, molto meno celebre e per nulla celebrato ma altrettanto importante per la storia della nascente aviazione italiana. Si tratta dell’ingegner Rambaldo Jacchia, nato il 29 giugno 1876 da una antica ed agiata famiglia ebraica dalla quale discende anche sua nipote Ester Jacchia Frezza.

Il 27 aprile 1911 il vulcanico ingegner Jacchia inaugurò una nuova scuola di pilotaggio a Taliedo, presso Milano, il 30 aprile promosse la Prima Riunione di Aviatori Italiani e il 29 settembre organizzò un importante raid sul percorso Milano­Torino­Milano. Progettò quindi una macchina volante chiamata aerotorpedo e battezzata “Italia”, un monoplano monoposto dalle linee aerodinamiche piuttosto avanzate con l’ala in legno rivestita in tela e controventata con tiranti metallici. La parte più interessante era la fusoliera metallica che dopo il posto di pilotaggio si trasformava in una specie di trave cilindrica. Veniva propulso da un motore rotativo Luct da 50 cavalli e raggiungeva i 120 chilometri orari. Venne collaudato con successo dal pilota belga François Deroye il 28 giugno 1912.

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Dopo gli studi superiori Rambaldo si iscrisse al Politecnico di Torino dove si laureò in ingegneria navale nel 1899. Purtroppo non vi sono notizie certe e complete sulla sua vita: dopo la laurea lavorò per un certo periodo presso la ditta Wolsit di Legnano specializzata nella costruzione di biciclette, motociclette, motori e anche automobili. Sicuramente il 28 febbraio 1909 Rambaldo si trovava sul campo di volo di Bovolenta (PD) con il barone padovano Leonino da Zara, uno dei primi aviatori italiani, e insieme spiegarono ad un appassionato Gabriele D’Annunzio le particolarità degli aerei presenti. Il 16 aprile 1910 il Nostro, più interessato agli aerei che alle navi, presentò una relazione di grande interesse al primo Congresso Nazionale di Locomozione Aerea nella quale egli sollecitava le autorità militari e civili a concedere l’uso dei terreni necessari alla creazione di campi di volo per istruire gli aviatori di cui il Paese avrebbe avuto presto bisogno. Rambaldo si dimostrò in questo assai lungimirante, intuendo con grande anticipo l’importanza che avrebbe di lì a poco assunto l’aviazione. Non va dimenticato a questo proposito che nei primi anni del secolo scorso l’aeroplano veniva visto come l’oggetto della follia di pochi scalmanati e difficilmente si riuscivano ad ottenere aviosuperfici adatte a decolli e atterraggi. Più tardi Rambaldo Jacchia fu uno dei fondatori della Società Italiana di Aviazione che aveva tra i suoi scopi la valorizzazione di un aeroplano italiano. Nella primavera di quell’anno si recò in Francia, patria riconosciuta dell’aviazione, incontrò i maggiori costruttori aeronautici e tornò in Italia con la rappresentanza esclusiva per la vendita degli aerei Blériot e Farman. A questo scopo fondò a Milano nel 1910 la Società Anonima d’Aviazione (SADA) della quale venne eletto presidente. Nell’agosto dello stesso anno Rambaldo fondò la prima Scuola Italiana di Aviazione in località La Comina, a pochi chilometri da Pordenone, diventandone direttore tecnico. La scuola disponeva di una pista di 1500 metri e divenne ben presto una delle più importanti d’Europa.


Da questo aereo venne derivato un monoplano biposto, lo Jacchia­Botarini­Wolsit & C “Roma” che venne collaudato a Taliedo nella primavera del 1913, e in seguito prese parte al Primo Concorso Militare d’Aeroplani che si svolse a Torino Mirafiori ai primi di maggio dello stesso anno. Purtroppo il velivolo precipitò subito dopo il decollo finendo in mezzo a degli alberi che ne attenuarono la caduta consentendo al pilota, lo svizzero Attilio Maffei di Lugano, di restare incolume. Vale la pena di ricordare che in quella occasione era presente sul campo di volo anche il concittadino tenente Francesco Baracca che scrisse il 20 aprile alla madre Paolina: “Jacchia di Lugo aveva presentato al concorso un apparecchio nuovo ben costruito, ma ora è quasi distrutto perché affidato nelle mani di un pilota inesperto, glielo ha portato sopra un boschetto di cipressi, rovinandolo”.

L'albero della vita Febbraio ­ Marzo 2018

Nel corso della prima guerra mondiale Rambaldo progettò altri velivoli che però non furono costruiti e fra questi merita particolare menzione un idrovolante da bombardamento ideato per la lotta antisommergibile in Adriatico. Della attività dell’ingegnere dopo la guerra non rimangono purtroppo testimonianze e sappiamo solo che si spense il 5 maggio 1922 a soli 46 anni. Restano di lui i titoli di merito che vi abbiamo raccontato e che lo qualificano, per usare le parole di un grande storico dell’aviazione come Giorgio Evangelisti, “non solo come un pioniere dell’aviazione ma anche come uno dei più versatili e più preparati fra i precursori del volo in Italia”.

L'aerosiluro Italia

Jacchia con gli amici piloti

Jacchia all'aeroporto La Comina

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Pablo Picasso: Guernica Paolo Baldan

I personaggi rappresentati (la donna che precipita, la donna che si trascina, la donna con la lucerna, il guerriero agonizzante, il cavallo, il toro) sono il simbolo della violenza e del dolore che la guerra procura. Le bocche aperte delle persone ed animali urlano la loro disperazione, rabbia e dolore, i loro corpi dilaniati dall’odio umano formano un lacerato incastro che confonde gli uni con gli altri; il caos della distruzione ed il terrore sono presenti in ogni figura. I colori utilizzati il bianco, il nero e il grigio, accrescono ancora di più la sensazione del male che l’uomo riesce a procurare ai suoi simili. Ma perché dopo tanti anni quest’opera è ancora valida? Perché al di là dell’evento particolare di Guernica, Picasso ha voluto rappresentare, con le sue figure deformate e lacerate, con quelle forme spezzate e contorte, una tragedia in senso più vasto. Si possono trovare in essa gli orrori di tutte le guerre, lo sradicamento di qualsiasi deportazione, le tragiche e drammatiche conseguenze della violenza umana, le bestialità che possono derivare dalla perdita della ragione. Come si è detto, la tela fu ispirata dal tragico bombardamento del 26 aprile 1937, ma da essa noi possiamo ricavare il furente giudizio morale di Picasso su qualsiasi forma di violenza, anche di quella perpetrata all’interno delle mura domestiche. Stilisticamente quest’opera è una geniale sintesi dei principali movimenti d’avanguardia sorti dal 1900 fino alla data di Guernica.

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Guernica è una delle opere più famose di Picasso ed una delle più conosciute e rappresentative dell’arte moderna. Il titolo porta lo stesso nome di una cittadina spagnola. Questi gli antefatti storici: il 26 aprile del 1937 gli aerei della legione Condor dell’esercito di Hitler, chiamati dal generale Franco per dare un colpo decisivo all’opposizione basca, la più dura a cedere, eseguirono un devastante bombar­ damento. Guernica era allora un paese che contava qualche migliaio di abitanti e l’incursione aerea avvenne in un giorno di mercato. Picasso si trovava allora a Parigi. Quando venne a sapere che Guernica era stata quasi rasa al suolo e che i morti erano 1654, volle fermare sulla tela quei terribili minuti di terrore e di dolore. Si mise febbrilmente al lavoro, fece una sessantina di bozzetti preparatori e qualche mese più tardi, sempre nel 1937, questa enorme tempera di 7.82 x 3.51 metri fu esposta nel Padiglione spagnolo alla Esposizione di Parigi. Dal 1981 si trova in Spagna, prima al Museo del Prado e attualmente la si può ammirare al Museo Reina Sofia, sempre a Madrid.


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