INTERVISTA L'immagine massmediatica dell'assistente sociale

L’IMMAGINE MASSMEDIATICA dell’

ASSISTENTE SOCIALE

- Intervista ad Ugo Albano (assistente sociale specialista e giornalista) -

Questa intervista, insieme ad altre fatte a Suoi colleghi, ha come obiettivo generale quello di ricostruire la rappresentazione dell’assistente sociale che i media italiani veicolano, in generale dapprima e poi più specificamente in riferimento agli interventi a tutela dei minori, con o senza il concorso dell’autorità giudiziaria.

Cinque prime domande generali 1.

Possiamo innanzitutto parlare di ‘una’ rappresentazione della figura o a suo avviso ve ne sono di più?

Di rappresentazioni ve ne sono ben di più. Quella prevalente è nel campo dei minori, quindi restiamo in quell'ambito. Lei consideri che la prima volta che il Codice Civile cita gli organi di protezione dei minori è all’articolo 403 del Codice Civile. Se recupera il preambolo del Codice vedrà che è stato all'epoca emesso a firma di un tal Benito Mussolini. Quindi nel 1942 lo stato fascista interveniva all'epoca a protezione dei minori (spesso maltrattati e abbandonati), dice l'articolo 403, con la Pubblica Autorità a mezzo degli organi di protezione dell’infanzia. In questi organi di protezione vi è un po' il germe dell'assistente sociale, quindi all’epoca costui era qualcuno che aiuta la polizia nel proteggere il minore spesso in abbandono con l’allontanamento e collocazione in luogo sicuro.

All'epoca era così, ma preme sottolineare come tale articolo sia ancora oggi così! Quindi noi partiamo con questo peccato originale, cioè quello di essere previsti in servizi alternativi alla famiglia perché spesso la famiglia stessa era abbandonante e violenta. Quindi lo stato fascista riconosceva la supremazia pubblica nel proteggere i minori, la nostra rappresentazione iniziale parte da lì. Poi è successo nel frattempo che lo sviluppo dei servizi e anche della formazione ci ha molto inquadrati in quello che è un ambito di sostegno e aiuto alla genitorialità e quindi è questa la seconda, a mio modo di vedere, vera anima della nostra professione: quello di sostenere le famiglie a saper gestire compiti educativi. Quindi posso dire che ci sono due immagini nell'immaginario collettivo: controllo e aiuto.

2.

Secondo Lei quali sono le motivazioni che hanno generato questa/e visione/i della professione?

È una doppia aspettativa: quella di proteggere, ma anche di sostenere. Questo con tutte le ambiguità del caso perché se all’epoca di Mussolini era palese l'abbandono, oggi non lo è più. Spesso ci troviamo in presenza di genitori che pensano di sapere educare i figli, ma che di fatto non lo sanno fare e quindi in qualche modo lì nasce poi un po' la contrapposizione: tra genitori che hanno una loro rappresentazione positiva della genitorialità quando in effetti lo Stato ne ha ben un’ altra. Questo è un fatto anche culturale, cioè ai tempi di Mussolini diventare genitori significava generare figli, quindi la genitalità era l'unico modo in cui si diventava genitori. Oggi non più, interviene praticamente un interesse dello Stato a proteggere i minori al di là dell'atto generativo. Però questo non è facile perché la gravidanza, il portare avanti poi una vita con un bambino significa far scattare un rapporto reciproco che nel caso di genitori - anche come dire non in buona salute - comunque crea appartenenza. Quindi l'ostacolo non è il genitore in sé, quanto la sua rappresentazione di genitore che funziona, quando poi funzionante non lo è per nulla. Con tutta la delicatezza del caso ,perché dire alla persona che è inidonea ad essere genitore significa infrangere la sua autorappresentazione di “persona normale”. Quindi è lì la delicatezza del nostro lavoro: accompagnare il genitore incapace a riconoscerlo e a farsi aiutare.

3.

Quali sono i media (TV, giornali, ecc.) che contribuiscono di più a formare questa rappresentazione?

Molto i giornali locali. I giornali locali sono legati molto al fatto che avviene nella città o nel paese e quindi tendenzialmente portano un'idea di servizio sociale che agisce l'abuso. Questo proprio in ragione dei meccanismi di fonte giornali locali, lo so perché all'epoca feci tirocinio in un quotidiano locale, c’è praticamente la gente che va lì e si fa intervistare. Qual è il problema? Che dopo la controparte, che sarebbe il servizio del Comune, non risponde e questo amplifica la visione del

problema, nonché il sospetto che l’assistente sociale abusi del suo ruolo. Quindi nel non rispondere si rafforza quella che è la verità espressa da una sola parte: Lei capisce come può diventare molto strumentale questa situazione. Quindi il problema dipende molto anche dal fatto che i servizi in generale non comunicano, gli assistenti sociali ancor meno. Cioè se è legittimo per una mamma non buona genitrice andare in un giornale e lamentarsi degli assegni sociali, manca spesso la controparte cioè i colleghi che non intervengono, si nascondono dietro un falso senso della protezione del minore per non esporsi. Invece in verità, si può comunicare rispetto a un fatto di tutela senza citare i nomi, per esempio. Su questo gli assistenti sociali sono molto impreparati, ovvero su come interagire con i giornalisti. Quindi non parlando si avalla quello che può essere il sospetto di agito di abuso.

4.

Nel complesso è un’immagine connotata da un certo credito, riconoscimento sociale, oppure di discredito: per avere un termine di paragone, rispetto ai medici di medicina generale (medici di base), come si colloca?

Faccio una riflessione sociologica molto generale. Dunque, la sociologia del lavoro parla del lavoratore in due categorie: i professionisti e i semiprofessionisti. C'è un tale Greenwood che è un famoso sociologo del lavoro, che afferma appunto che il professionista ha cinque elementi presenti per definire se stesso. Uno di questi elementi (per approfondimenti si legga in letteratura) per esempio è la forte appartenenza di gruppo. Nelle esperienze comuni sappiamo benissimo che il medico difficilmente parlerà male dell'altro medico. Sappiamo benissimo che tra di loro litigano tanto, però nessuno denigrerà il collega in pubblico. Al contrario, nel campo dei semiprofessionisti avviene il contrario, cioè essendo uno degli elementi caratteristici di Greenwood quello di una più bassa identificazione del lavoratore col gruppo stesso di appartenenza, è più probabile che ci sia meno solidarietà al proprio interno e quindi su questo sarà molto più probabile trovare, per esempio indicatore del tema di cui

discutiamo, un assistente sociale che denigra l'altro collega oppure un assistente sociale che prende una posizione ed il resto dei colleghi che non lo sostiene rispetto a questa posizione. Nel caso del lavoro di tutela minorile questo è molto evidente. Cioè non c'è quasi mai una presa di posizione su un certo fatto, da parte del gruppo di professionisti-colleghi. Quindi sembra paradossalmente che il problema del presunto abuso di potere agito verso quel genitore-vittima che invece non ottempera ai propri doveri sia invece un problema personale di quel collega. Quindi diversamente dagli altri degli altri professionisti, da noi non scatta la solidarietà di gruppo e questo è un aspetto tipico della semiprofessione. Ciò per dire che a mio modo di vedere - l'ho scritto anche diversi libri - noi non siamo ancora un professione. Siamo in forte transito dalla semiprofessione alla professione. Uno dei tanti elementi che sarà necessario curare, sarà appunto la solidarietà di gruppo e quindi indirettamente anche la capacità di comunicare come gruppo e non come singolo.

5. Negli ultimi venti anni, da quando cioè è stata fatta la riforma generale del sistema dei servizi socioassistenziali (L.328/2000), la figura dell’assistente sociale nella pubblica opinione è migliorata o peggiorata a suo avviso?

Peggiorata per tanti motivi: uno è che la Legge quadro è stata di fatto annullata dal 2001 con la Riforma Costituzionale, il famoso Articolo 117 della Costituzione. Quindi succede che dal 2001 di fatto ogni regione ha il proprio welfare. Questo vuol dire che poi la codifica in ognuno dei venti welfare italiani, rispetto alle professioni, è avvenuta a seconda di quello che erano gli umori politici di ogni singola Regione, parlo con chiaro riferimento al consenso elettorale e agli stakeholders del sistema (in primis la cooperazione). E quindi osserviamo dal Piemonte fino alla Sicilia diversi modelli di servizio sociale pubblico e quindi di conseguenza anche diversi modi di agire del servizio sociale. Le faccio un esempio: il servizio sociale professionale, che è uno dei quattro elementi obbligatori che la legge

quadro prevedeva per ogni territorio, ha trovato in alcune regioni dei vincoli: in alcune ogni Comune ha il servizio sociale professionale, quindi ha un assistente sociale. In altre regioni invece si è fatto molto un lavoro di diluizione di ciò. Cito la mia regione Emilia Romagna dove la legge attuativa sul servizio sociale professionale ha comportato il non vincolo degli assistenti sociali nel Servizio Sociale Professionale. Di conseguenza, senza una Norma vincolante, nei Comuni anche il cane può fare l'assistente sociale: parliamo dei tanti operatori sociali, socialworker e via dicendo. Ma torniamo a noi: se io sono inserito in un ente dove c'è un tipo di indirizzo politico per cui devo fare più lavoro di sportello e meno di accompagnamento delle persone rispetto ai loro percorsi di vita, ecco che questo fa differenza rispetto all'immagine che si dà. Quindi una Regione che non codifica il servizio sociale professionale rispetto all’assistente sociale indebolisce di fatto il compito dell'assistente sociale pubblico. Sempre restando nell’esempio della mia regione, non essendoci questa legittimazione politica regionale noi finiamo di fare un po' di sportello, un po' di supporto agli altri e facciamo fatica ad esprimere appieno la nostra professionalità. Questa diventa addirittura una tragedia quando si fa combaciare l'attività quotidiana con l'appartenenza organizzativa. Quindi se – concludo - noi siamo in burocrazie che devono solamente dare soldi e servizi, noi ne diventiamo i dispensatori.D’altra parte che immagine ha la gente degli assistenti sociali comunali? Danno soldi, case, servizi, ma a loro piacimento o secondo l’indirizzo politico locale. Sta di fatto che in certe regioni l’immagine è un po' un riflesso della volontà politica locale, purtroppo.

Entrando ora più nello specifico degli elementi che costituiscono la rappresentazione 6. Quale idea è diffusa nei (e dai) media della formazione dell’assistente sociale. Si pensa che esista una disciplina scientifica che è il servizio sociale (al pari ad esempio della psicologia, della pedagogia ecc.)?

Nei mass media non c'è questo tipo di consapevolezza. Infatti lo vediamo quando nei programmi nazionali rispetto ai fatti minorili o sugli anziani si invitano gli esperti. L'esperto sarà sempre uno psicologo o un medico, ma pure perché loro, nell'immaginario collettivo in quanto professione, riescono ad avere più legittimità. Di chi è la colpa? Molti diranno che la colpa è dei cattivi giornalisti, molti diranno che la colpa è dei cattivi psicologi. No, la colpa è degli assistenti sociali stessi perché non si propone in positivo una immagine autorevole, che significa anche l’assistente sociale non è la persona di buona volontà, ma la persona che ha fatto un percorso di studi. Ecco questo è un aspetto propositivo che sta a noi comunicare ai giornalisti. Io ho visto negli ultimi hanno un po' più di tenacia da parte dell'Ordine Nazionale ad agire in questo senso, però c'è ancora molta strada da fare. Quindi la rappresentazione sociale che noi abbiamo nei mass media è anche il frutto di un impegno profuso da parte del nostro gruppo rispetto alla formazione di questa immagine. Fermo restando che poi nel quotidiano noi creiamo l'immagine a seconda di quello che facciamo ogni giorno. Le faccio un esempio: se lei va su Google e cerca “psicologo”, usciranno tanti siti internet di psicologi che si definiscono, che chiariscono cosa fanno, che chiariscono anche quelli che sono i loro costi; parimenti se cercherà “assistente sociale” uscirà molto meno. E’ la professione stessa che comunica se stessa sul web. Questo da cosa dipende? Dipende dal fatto che prima di comunicare agli altri, bisogna comunicare a se stessi chi si è e che si vuole. Essendo questa base identitaria e competenziale debole, ne consegue una comunicazione sul web molto più diradata. Quindi anche lì, secondo me è un impegno che la professione deve prendere. Si comunica quel che si sa fare, ma per fare questo bisogna essere altamente competenti.

7. Quale idea è diffusa nei (e dai) media della situazione occupazionale dell’assistente sociale (si pensa che lavori per enti pubblici, per organizzazioni lucrative, per cooperative ecc.)?

A mio modo di vedere non esiste per nulla nei mass-media questa riflessione. Basta solo vedere la recente vicenda del covid, che ha rafforzato l’idea di assumere medici ed infermieri, ma non assistenti sociali. La percezione generale è che siamo solo dipendenti pubblici. Invece in verità sta avvenendo, dalla Legge Quadro in poi, che le possibilità lavorative sono molto più nel non profit che non negli enti pubblici. Per tanti motivi: un po' perché l'asse erogativo si è spostato dagli enti pubblici al terzo settore, un po' perché soffriamo da decenni di blocco di finanza pubblica in cui la prima cosa che i politici sanno fare è bloccare le assunzioni. Io ho lavorato in servizi in cui c'erano prima cinque assistenti sociali adesso ce n'è solo uno: ai servizi sociali si assiste quindi ogni giorno ad un vero e proprio assedio. Quindi da parte dei mass media non c'è per nulla consapevolezza su questo, non esiste proprio interesse, anzi parlano molto poco delle dinamiche del lavoro se non parlare in termini di occupazione o disoccupazione in generale. Quel che manca da parte nostra è una riflessione anche rispetto a delle strategie. Lei consideri che si assiste nel nostro campo a un calo del livello di occupazione. Strano, anche perché la Legge quadro invece parlava del contrario, ovvero di un'esplosione dei servizi. Cosa avviene nei servizi, specialmente in sanità? Molti lavori che prima erano specifici dell’assistente sociale passano ad altri professionisti. Parlo degli infermieri e parlo degli educatori professionali. Non è cattiveria, sono precise scelte politiche di cui i colleghi non si rendono conto. Da voi a Torino la situazione è emblematica perché in Piemonte, essendo molto forte la presenza di pedagogia, sta avvenendo che molti lavori che prima facevano gli assistenti sociali vengono fatti dagli educatori professionali. Provate voi in Piemonte a fare la domanda ad una cooperativa, probabilmente si risponderà “ci servono educatori professionali e non non assistenti sociali”. Quando poi, nell'insieme delle funzioni siamo molto simili. Le faccio un altro esempio un po' cattivo per capire un po' come l'immagine pubblica sulle professioni infici in modo negativo la visione dell'assistente sociale. Io ho lavorato all’estero e generalmente sulle povertà estreme ci sono gli

assistenti sociali di strada, gli street socialworker. Non appena questa esperienza ha fatto il salto delle Alpi è diventata in Italia fino a dieci anni fa l'attivita dell’operatore di strada. Specialmente in Piemonte se ne faceva anche tanto tanto uso. Questo operatore non differenziato (che non esiste nei titoli di studio) poi è diventato l'educatore di strada. Cosa fa l’attuale educatore di strada a Torino se non quello che fa lo street socialworker a Londra? Con la sola differenza che all’estero sono assistenti sociali e da noi educatori professionali. C’è stata una precisa scelta politica di investire, parliamo della lotta alla povertà, su altre figure perché il disegno mai dichiarato, ma di fatto esistente qui in Italia è che l'assistente sociale stia sulle carte e sulle procedure e l’educatore professionale stia sulle relazioni.

Questa grossa cavolata su cui secondo me è bene che si dia una svegliata il gruppo professionale tutto, ma anche voi studenti stessi, perché se voi ad un certo punto vi trovate questi ambiti molto residuali di lavoro, rischiate di stare lì a fare le carte e non a fare il lavoro per cui avete studiato.E’ una questione di identità: l’assistente sociale è specialista di azioni di aiuto di tipo relazionale o solo proceduralburocratiche? All’estero è di primo tipo, in Italia si vuole il secondo. Tornando al tema, la comunicazione produce certamente degli effetti sulla percezione delle possibilità occupazionali, però su questo il problema non sono gli “altri” (compresi i “cattivi” giornalisti), siamo anche noi che abbiamo mal comunicato e ancora insistiamo a comunicare un assistente sociale burocrate che eroga soldi, che regala case, che concede servizi. Dobbiamo forse dirci un’altra volta che il nostro lavoro è quello di lavorare con le persone, sulle relazioni e che le relazioni non sono un’esclusività degli psicologi e degli educatori professionali.

8. Quale idea è diffusa nei (e dai) media dei contenuti delle attività degli AASS: si pensa che si tratti di attività burocratico-impiegatizie, di relazione con i politici, di colloquio con gli utenti ecc?

Spesso noi siamo la mano longa della politica. Infatti, quando avviene il fattaccio nella comunità

locale, spesso parla il politico al posto nostro. Però parla non per giustificare l'operato nostro, quanto per consolidare un buon senso politico. È cosa ben diversa, questa cosa va capita. Io dico sempre ai colleghi di parlare con i giornalisti anche se in forma anonima. I giornalisti hanno molto interesse a capire i fatti. Basta chiamare un giornalista e proporgli di bere un caffè, chiedendogli l’anonimato. Se acconsente, basta raccontargli le cose per come sono: si tratta di fungere da fonte informale. Ciò, a mio avviso, è molto interessante, perchè si rappresenta che, sul fatto, non esiste solamente l'opinione del cittadino-presunta vittima e neanche l'opinione “interessata” del politico, c’è anche e specialmente specialmente quella del tecnico: siccome questa è già poco legittimata, noi la facciamo valere in qualche modo. Comunque richiamo l’importanza del “buon operato” di ognuno di noi ogni giorno: sono i cittadini che ci giudicato e che rappresentano un fronte importante per la nostra immagine. Se un assistente sociale lavora sulle relazioni e se gli interlocutori riconoscono in noi una persona che ascolta, che fa le cose, che convince, che aiuta, che giustifica le valutazione, si guadagna in autorevolezza, il che è sempre la benzina della buona immagine. Su questo aspetto litigo spesso con le colleghe, che probabilmente hanno un altro imprinting sul lavoro. In fin dei conti è più facile essere burocrati che professionisti dell’aiuto. Nel momento in cui nel lavoro ci si pone in maniera un po' più innovativa ed efficace, diversa dal “si è sempre fatto così”, questo viene ben percepito dall'utenza, un po' meno dal politico, chi spesso non lo capisce sono proprio i colleghi. D’altra parte uno degli effetti perversi del “posto fisso” è proprio un’operatività autocentrata, impermeabile alle innovazioni, che invece il lavoro di aiuto richiede. Ciò crea immagine. Noi lavoriamo con le persone e quindi il gradimento passa tramite il tam-tam sociale: “quell’assistente sociale è bravo”. “Quell’altro non capisce niente”. Ma anche lì mi chiedo, non è la stessa cosa che avviene tra i medici? Cioè i cittadini quando sanno che c’è uno che è un passacarte e l’altro medico più attento alla persona e alle cure, le cose se le dicono. Questo è anche un aspetto tipico dei servizi alla persona, cioè la legittimazione di chi ci lavora (medico e assistente sociale) passa molto sui contatti interpersonali con i clienti e molto

meno rispetto a quello che è un ipotetico messaggio mass mediatico. Io trovo ciò estremamente interessante perché vuol dire che la gente non vive solo di televisione, ma vive anche di relazioni e su quello si forma un'immagine. Viva Dio! Veniamo ora a questioni attinenti agli interventi di tutela per i minori 9. Pensando alle narrazioni fornite dai media, che tipo di rapporto emerge tra AASS e famiglie: un patto di collaborazione o un controllo/supervisione dei genitori se questi sono in difficoltà?

Prevale in controllo, questa è la visione dei media. Ma perché è anche la visione più semplice. Se ci fosse più una presenza nostra propositiva in cui si interviene dicendo: “Noi non togliamo i bambini, ma aiutiamo i genitori a fare meglio” sarebbe una cosa positiva. C'è questa tendenza ultimamente, però bisogna renderla più sistematica. La comunicazione è l'effetto di quelli che sono gli input. Se in una stanza ci sono cinque persone e quattro dicono A e quell'altra non dice B, alla fine la comunicazione vincente sarà A perché se B non dice la sua, è come se non esistesse. È così nell’arena comunicativa.

10. Quando vengono raccontati fatti che riguardano questo ambito, emerge in modo chiaro il peso che assume l’assistente sociale rispetto ad altre figure professionali nelle decisioni che riguardano l’eventuale allontanamento dei minori dai nuclei familiari di origine?

Bella domanda questa. E’ interessante perché fa capire che il potere decisionale non ce l'ha l'assistente sociale. Il potere ce l’ha il giudice. Questa è una cosa molto importante da dire sistematicamente: se non c'è una corretta comunicazione, se neanche l'interessato non rappresenta ai mass media che c'è

tutto un meccanismo dietro di osservazione e di indagini da parte del giudice, si creano “leggende metropolitane”, la più famosa delle quali è che l’assistente sociale ruba i bambini. Bisogna dire che prima di emanare un allontanamento ex art 403 C.C. il giudice fa sorvegliare la famiglia, fa sorvegliare i minori, chiede informazioni alla scuola, fa svolgere indagini alla polizia giudiziaria. È molto importante capire ai massmedia che l’assistente sociale non fa altro che eseguire l'ordine di un giudice e che quindi il potere sta al Tribunale e non a noi. Se manca questa chiarificazione resta ancora la favoletta in base alla quale l’assistente sociale si alza la mattina dalla parte sbagliata del letto e dice: “Beh chi devo rubare stamattina?”, il che alimenta ancor di più un’immagine inesistente.

Noi siamo solo un pezzettino del procedimento, non siamo il procedimento, men che meno i decisori.

Sta a noi venderci come persone che aiutano le famiglie, anche accogliendo ed informando genitori a seguito di allontanamento ex art. 403 CC su quanto un Giudice ha disposto, magari proponendo loro di esplicitare al Giudice la loro posizione, le loro controdeduzioni. Già questa modalità significa non vendersi come controllori, ma come professionisti che ascoltato, seppur con un mandato chiaro. Sta anche a noi e nelle modalità di approccio venderci come interlocutori tra la famiglia e il giudice.

Questo indirettamente fa capire che il nostro ruolo non è di controllo, ma è di aiuto. L’accoglienza è verso la famiglia, non contro la famiglia.

11. Quando si affrontano casi di tutela minorile, come si coniuga il diritto all’informazione con il diritto alla riservatezza che l’assistente sociale deve rispettare (disponibilità degli AASS a farsi intervistare, a quali condizioni ecc.)?

La condizione che la legge impone per i giornalisti è quella in base alla Carta di Treviso che è una delle carte deontologiche dei giornalisti che impongono di non citare né il nome del minore, nè i nomi dei genitori, né condizioni che indirettamente portino al riconoscimento di queste persone. Questa è la

tutela a cui i giornalisti sono tenuti. Quindi quando c'è un fatto il giornalista ha bisogno di capire cosa è successo. Il bravo giornalista chiama spesso il servizio sociale, dove però l’assistente sociale va in ansia perché non sa rapportarsi col giornalista, non sapendo cosa e come riferire. Generalmente si rilancia l'interlocuzione con il dirigente del servizio o col politico; con la differenza che il politico generalmente prende l'occasione per incontrare il giornalista e quindi caricare di pubblicità la propria persona, il dirigente generalmente non interviene. Quello che avviene praticamente è spesso un teatrino dove si elude la comunicazione sui fatti, lasciando il giornalista insoddisfatto. C'è modo e modo perché ad un certo punto nei momenti in cui si interviene su di un fatto con un giornalista, occorre sì essere tutelati, ma nulla vieta di spiegare i retroscena del fatto stesso. Lei consideri che poi noi in questi fatti, se c'è un procedimento giudiziale, siamo tenuti al segreto professionale. Non possiamo parlarne, così come il giornalista non può citare i nomi degli interessati, ma ciò non toglie la possibilità di discutere con il giornalista sul fenomeno retrostante il fatto. Semplificando, non posso dire: “ Nicolino ha fatto questo a Giacomo”, ma posso dire: “Le condizioni di questo quartiere sono tali per cui questo fatto segue altri fatti”. Sposto cioè il focus della notizia dal fattaccio al fenomeno.

Ci sono occasioni in cui secondo me possiamo essere di stimolo ai giornalisti, è invece perdente un atteggiamento fuga da queste occasioni di comunicazione. La colpa non è dei cattivi giornalisti.

Riguardo la promozione della professione di assistente sociale 12. Ritiene che si possa migliorare l’informazione sulle attività e la preparazione degli AA.SS? Se sì, da chi dipende (dagli AASS, dai giornalisti, delle organizzazioni per cui operano ecc)?

Viene molto ben accetta la volontà di comunicazione di un gruppo professionale sui media, però bisogna volerlo davvero fare. L’Ordine Nazionale lo cominciò a fare sistematicamente circa dodici

anni fa, poi si è affievolita la spinta. Attualmente si evince un tipo di comunicazione che è molto fredda, istituzionale, a tratti noiosa, devo dire. Se cerca su internet tracce degli assistenti sociali troverà spesso interviste in giacca e cravatta rilasciate dal Presidente. La vera comunicazione della professione non è solo quella, la vera comunicazione è l’effetto di varie sinergie, quelle che il gruppo produce nel suo insieme. Le faccio un esempio: dieci anni fa se andava su Google e cercava “assistenti sociali” sui video, uscivano come risultati due o tre video in lingua italiana della Svizzera e dalla Germania in cui ( pensi un po' , in lingua italiana) quello che era il compito dell'assistente sociale.

Solo queste erano le comunicazioni positive o propositive. Il resto dei filmati che si beccavano con Google erano tutti in negativo (filmacci brutti, oppure filmati “contro” l’assistente sociale, talk show sulla Rai strappalacrime). Oggi Lei troverà invece una comunicazione propositiva, però ancora molto asettica secondo me: con google i siti pescati sono ancora prima di tutto gli Ordini, il che fa comprendere la forte “immagine istituzionale”, invece che fattuale, esplicativa, diffusiva. Io sul mio sito internet ho una collezione di siti degli assistenti sociali: sono circa una ventina e a vederli si comprende come i colleghi abbiano fatto una grossa fatica a dire: “adesso io mi devo comunicare in termini propositivi, devo mettere in evidenza chi sono, cosa so fare ,cosa voglio fare”. Stare su internet e strutturare un’immagine deriva da una sostanza competenziale e da certezza identitaria. Il problema è che noi, essendo in maggioranza dipendenti pubblici, spesso deleghiamo alla nostra istituzione la nostra comunicazione di immagine. Cioè: assistente sociale = servizi sociali = comune.

Questo è sbagliatissimo. Invece quei pochi colleghi che ci tengono a mettersi in gioco di persona, fanno un lavoro di presentazione di sé e quindi su questi siti Lei vedrà persone che si sforzeranno di dire chi sono e cosa fanno. Se vuole può confrontare i siti internet degli psicologi con i nostri siti internet. Lo psicologo dice sempre chi è e che sa fare, noi “chi siamo” facciamo fatica a dirlo, “che sappiamo fare” ancora di meno. Questo vuol dire che ad un certo punto noi saremo più professionisti se sapremo meglio codificare i contenuti del nostro agire e quindi di conseguenza anche comunicare all'esterno la

nostra immagine.

13. Cosa potrebbe fare la categoria dei giornalisti per contribuire alla costruzione di una corretta rappresentazione sociale, più rispondente alla realtà?

Il giornalista è fatto così, è un brutto mestiere, nel senso che la mattina vanno sul desktop e quello che c'è lo pubblicano. Se non c'è una proposta, non pubblicano. Se una mattina il giornalista trova la richiesta di intervista da parte dell'associazione delle mamme contro gli assistenti sociali e non si trova la proposta degli assistenti sociali, tenderà molto a mettere in evidenza quell’unica voce. Voglio dire che il giornalista non inventa le notizie, il giornalista raccoglie le notizie. È molto importante comunicare in positivo. In questi giorni prima di questa intervista, per esempio, gli psicologi di tutta Italia hanno creato la “giornata della consulenza psicologica”: tutti gli psicologi su internet pubblicizzavano il fatto che offrivano consulenze gratis, che “non si può vivere senza psicologi”, ecc.

Questo vuol dire che gli psicologi hanno fatto dei comunicati stampa ai giornalisti, i quali hanno rilanciato la notizia. Mi chiedo: perché gli assistenti sociali non lo fanno? Chi lo vieta? Perché non parlare di noi in positivo offrendo servizi e quindi migliorando l’immagine? Chi lo vieta? Possiamo fare un'iniziativa in cui comunichiamo, che so, la “giornata degli assistenti sociali che aiutano le persone”? Facciamo un bel comunicato stampa e lo mandiamo ai giornalisti? Forse su cento giornalisti uno ci chiamerà. Quindi torniamo sempre allo stesso punto, siamo sulle conseguenze di un’assenza di comunicazione da parte degli assistenti sociali, che secondo me non sono vittima di questo gioco al massacro, ma ne sono un parecchio complici. Concludo: se l’assistente sociale ha l'immagine di “chi ruba i bambini”, forse è perché in verità li rubano davvero. È brutto dirlo, lo so, ma se non rubi i bambini perché non lo dici? La comunicazione è una competenza. Un gruppo deve dotarsi di un modo professionale di comunicare. Noi siamo ancora molto indietro. Tutti quanti a

scambiarsi le ricette di cucina e gli affari di cuore su Facebook, quasi nessuno sui forum professionali a parlare di contenuti.

14. Ci sono degli ostacoli a questa costruzione di una rappresentazione più fedele che sono intrinseci al modo con cui oggi si fa informazione (interessi politici, sensazionalismo ecc.)?

Dunque, il limite dei giornalisti è che hanno bisogno di ipersemplificare la realtà perché altrimenti una notizia complessa non passerebbe. Gli scoop stessi dei giornalisti si basano sul fatto che una cosa eclatante “buca” - si dice in termini giornalistici - cioè fa notizia, che non una notizia che ha bisogno di più approfondimento. Purtroppo è così, da quando esiste la comunicazione via web è ancora più in tal senso. Lei consideri che sul web noi vediamo -noi giornalisti poi lo studiamo – che l'attenzione del lettore-tipo cala dopo due o tre periodi, non di più. Quindi se c'è uno spot pubblicitario oppure c'è un articolo di approfondimento, la maggioranza leggerà lo spot pubblicitario. Questa è una grossa colpa del giornalismo italiano, focalizzato molto su quel che non funziona. Se lei legge un giornale vede tutte le cose non funzionano, invece all'estero sono molto più attenti a quelle che sono le cose che funzionano. Faccia un pò il paragone tra i telegiornali di diversi Paesi, specialmente quelli del Nord Europa: esiste una cultura molto più obiettiva e molto più razionale e meno emozionale. Quindi, torniamo al nostro caso, un assistente sociale fa un bellissimo percorso di aiuto alla famiglia? Perché questo non può essere notizia? Secondo me nel momento in cui c'è una storia a lieto fine di un allontanamento andato a buon fine per cui c’è un ritorno dei bambini a casa, ecco, quella è l’occasione per l’assistente sociale di chiamare il giornalista per proporre una good new, sperando che produca audience. Secondo me questo è un modo nuovo di procedere che un po' rieduca le persone alle cose che funzionano rispetto a quelle che non vanno. In Italia sui mass media ci alimentiamo del male, mai del bene. Ci alimentiamo sempre delle cose che non vanno, invece tante cose che vanno non vengono

semplicemente comunicate. Per cui lei pensi anche al nonno che vive di televisione dodici ore al giorno: costui pensa che tutto il mondo sia una rovina solo perché quel che viene comunicato è solamente in negativo. Allora, ci sono delle cose positive nella nostra professione? Viva a Dio, comunichiamolo. Questo è un compito dell'Ordine Nazionale, ma anche e specialmente di ognuno di noi. Io posso fare un tipo di servizio innovativo, io adesso per esempio ho scritto con un collega un libro sul servizio sociale e il fine vita. Io sto contattando i media, mi stanno invitando per fare delle interviste... cioè si comunica che c'è un modo diverso di lavorare e si cerca l’interesse del lettore.

15. Ritiene che venga dato spazio agli AASS quando si trattano temi di rilevanza sociale nei media (ad esempio AASS chiamati in qualità di esperti)?

Generalmente no, però mi ricollego all’aspetto di prima. Non dobbiamo aspettare che al singolo giornalista venga mente di chiamare l’assistente sociale che è esperto. In questa cosa viene spesso preferito sociologo. Manca però un’offerta di disponibilità da parte dell’assistente sociale. E’ come se il “lavoro di rete” su cui studiamo all’università, non si traduca in un concetto di “rete comunicativa”.

Il lavoro di rete nostro significa anche avere contatti con i giornalisti. Nel momento in cui io so che voglio comunicare in termini propositivi chiamo il giornalista, me lo faccio amico, faccio io a lui la proposta anche rispetto a quello che può essere un tema alternativo, interessante, intrigante rispetto al sociale. E noi avremmo questa capacità perché noi non stiamo sulla lettura superficiale della realtà, noi ci andiamo nel profondo, noi ci viviamo, noi andiamo a casa delle persone. Siamo noi che per esempio conosciamo quelle che sono le contraddizioni della vita di una badante con un anziano demente. Siamo noi che conosciamo davvero quella che è la realtà di certi quartieri popolari in cui il minore a certe condizioni davvero ha solo il destino di delinquere. Siamo noi che conosciamo il paradosso delle persone che potrebbero autonomizzarsi con il reddito di cittadinanza e non lo fanno

perché bloccati da una cultura assistenzialistica alimentata dalle politiche locali. Questa visione critica significa: io porto del materiale per una notizia approfondita, la faccio presente al giornalista, gli attizzo l'interesse. Non è vero che il giornalismo è tutto quanto legato alla notizia di cliché. C'è molto bisogno di approfondimento, ma i giornalisti non sanno che noi siamo delle fonti vere: noi poco comunichiamo anche con loro. Quindi io proporrei davvero tanta comunicazione propositiva. Se il sociale è interessante, se il sociale migliora la vita, se il sociale sostiene lo stato di diritto, sta a noi farlo presente. Gli psicologi sono già bravi su questo, sembra che loro siano gli esperti su tutto. Non è vero, essi presidiano tanto il fronte dei giornalisti per guadagnare in legittimazione.

Ileana Bochicchio Università di Torino