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DIARI DI CARNE.......................................... ...... pagina
APPENDICE
DIARIO DI CARNE
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TRASCRIZIONE TESTUALE
23 ottobre Fino all’altro ieri, mai e poi mai mi sarebbe venuto in mente di scrivere qualcosa sulla mia vita. Un diario, per la verità, che comincio a scrivere in questa temporalesca giornata estiva. Speriamo che il temporale non sia di malauspicio. Di certo è significativo, è una coincidenza significativa. Perché? Perché nella mia vita l’altro ieri è arrivato un temporale, uno di quei fortunali destinati a sconvolgerti l’esistenza, a far turbinare tutte le carte che ti eri messo a posto sulla scrivania. E magari anche a portare delle risposte, risposte inattese a domande mai fatte, ma che è come se risuonassero dentro di te da sempre, anche se non le hai mai formulate. Niente di tragico, intendiamoci, ma una notizia così, che ti arriva tra capo e collo, non può che lasciarti a bocca aperta. Funziona così: la notizia arriva, e si rimane lì, con la bocca aperta e gli occhi sgranati. E lì per lì non ti viene in mente niente da fare. Non puoi fare niente, puoi solo prenderne atto. Non puoi neanche dire qualcosa... Puoi solo tacere, e stare lì a sentire con la bocca aperta. La notizia è lì, e da adesso in avanti ci sarà sempre, con i suoi effetti e con le sue conseguenze.
24 ottobre Stavo dicendo che fino all’’altro ieri non mi passava neanche per l’anticamera del cervello di tenere un diario. In effetti non è proprio vero. Da ragazzino ho sognato di tenere un diario. Conoscevo altri figli unici, che nella loro stanzetta di bambini solitari spalmavano i loro segreti e i loro struggimenti di adolescenti sulle pagine di un diario. Pensavo che fosse una bella cosa, così mi sono fatto regalare anch’io un almanacco, di quelli con il lucchetto. Per trovarne uno da uomo dovetti girare parecchio. Quasi tutti i diari erano da ragazzina, con le farfalle, i fiori o le bambole sulla copertina. Abbondavano i fiocchetti rosa. Come buona parte dei miei amici, anch’io ero terrorizzato dall’idea di poter essere omosessua-
le. Alcuni miei compagni di scuola, riguardo al diario, mi avevano detto che era da finocchi. Io non mi sentivo finocchio, c’era anche una ragazzina con gli occhi nerissimi che mi faceva sentire in subbuglio ogni volta che la vedevo, ma forse un diario avrebbe potuto lentamente invertirmi, come si diceva all’epoca. Ricordo che mi arrabbiai, perchè mi sentivo di fronte a un bivio: o tenere un diario o essere un vero uomo. Decisi comunque di sfidare la sorte, forse volevo dimostrare che anche se non ero omosessuale avrei potuto tenere un diario. Ne trovai uno verdone scuro, di finto coccodrillo, con un lucchetto dorato e relativa coppia di chiavette. Al negozio dissi: “è un regalo per mia cugina”. Aspettai rigorosamente il primo gennaio, poi cominciai svogliatamente a descrivere quanto era accaduto nelle vacanze di Natale. Scrissi due facciate molto larghe, piene di cancellature. Non scrissi mai più nulla, però inspiegabilmente ho trovato i miei diari di fanciullo scritti per esteso, continuati là dove io avevo smesso di scrivere, e per di più con una grafìa simile alla mia, per non dire uguale. Questo fatto mi ha sempre suscitato un sospetto, ma ho sempre pensato che li avesse completati mia madre, nel tentativo di farmi sembrare un bambino zelante. Oggi questo enigma potrebbe avere un’altra spiegazione.
24 ottobre D’altra parte, lo devo ammettere. Fino all’altro ieri la mia vita non ha avuto niente di ragguardevole da far registrare. La posso sintetizzare qui di seguito, in poche righe. Sono nato in Italia. Quando ero ancora molto piccolo, mio padre, che era un dirigente di una grande impresa, è stato mandato in Belgio, poi in Inghilterra, nello Yorkshire. Credo che lui adesso viva ancora là, ma non ne so quasi niente, perché lui di me se n’è sempre fregato, quando addirittura non ha maledetto il giorno in cui sono venuto al mondo. E’ come se mi avesse sempre confrontato con un fratello gemello ideale, il quale era sempre migliore di me: più pulito, più puntuale, più elegante e più bravo a scuola. Comunque quando ero piccolo siamo emigrati per un po’ nello Yorkshire, a Carlton Fields, dove mio padre prese in affitto una villotta da un signore inglese in Cui Nome però Non Poteva Essere Pronunciato. Questo, lo ricordo benissimo, era un dictat di mio padre. Ma nello Yorkshire le cose tra mio padre e mia madre andavano sempre peggio, così mio padre restò là e io tornai a Viareggio con mia madre.
25 ottobre In questo paese ho mosso i primi passi, mi sono laureato, ho preso moglie e ho fatto due figli, che adesso sono già abbastanza grandicelli. Nessuno dei due è un genio. D’altra parte io ho sposato Mrs. Kate Fuller, una inglese di intelligenza modesta che lavora come archeologa alla Soprintendenza delle Belle Arti. In quanto a intelligenza, a ben vedere neppure io sono particolarmente brillante. Mia moglie dice che è la nostra fortuna. Povera cara Kate, mi accetta così come sono. Le vado bene, mi digerisce. Forse ha ragione, nel senso che non sono troppo indigesto. Non sono esigente, non sono disordinato. Non passo serate fuori casa a bere con amici nottambuli. Non sono irascibile. In effetti lei non me ne ha mai dato motivo, almeno credo. Sul lavoro ho uno stipendio discreto, ma non ho fatto carriera. “E’ perché non sei un lèche-bottes, dice Kate. Ma io so che non è vero.
27 ottobre E’ che io non voglio grane, non voglio imprevisti. Responsabilità, il meno possibile. Già quelle che ho mi soverchiano: il fatto di avere due figli, le tasse da pagare, i pochi risparmi da amministrare e per di più, dall’anno scorso, anche quella di essere vice-presidente dell’ Associazione anglo-italiana della mia città. Il bello è che in tutti gli inviti al posto del mio nome, “Carne”, loro scrivono “Carnet”. Chissà perché non correggono, l’ho già segnalato due volte. Comunque alle riunioni mica sempre ci vado. Ne ho fin sopra i capelli, tra un’assemblea di condominio, una pre-iscrizione scolastica, un fondo pensionistico da seguire. E tutto questo fuori dall’orario di lavoro, perché sul lavoro sono preciso e puntuale. Nessuno mi ha mai mosso delle critiche, sanno fin dove posso
arrivare e anche a loro vado bene così. Comunque in tutto questo can can mi sembrava non ci fosse spazio per altro, finche non è arrivata la notizia.
28 ottobre Prima di parlare di questa benedetta notizia voglio scrivere un po’ di considerazioni su questa mia ignavia, come dice mio padre. Mio padre mi ha sempre detto: non è vero che non sei intelligente, è che sei ignavo. Naturalmente, fin da ragazzino, sono andato a cercare la parola sul vocabolario. Beh, quello che viene fuori non è piacevole: mancanza di volontà e di forza morale, pigrizia, indolenza, viltà, accidia... e via di questo passo. E certe cose dette da un padre a un incerto adolescente finiscono per suonare come una sentenza. Se sei perfido ti possiamo raddrizzare, se sei immaturo crescerai, se sei esuberante ti calmerai, ma se sei ignavo, cioè se dentro di te non hai la forza per cambiare, ebbene, mio caro, resterai ignavo per sempre. E qui compariva il gemello di raffronto: lui era pieno di energie, propositivo, intraprendente… e senza scrupoli, come piaceva a mio padre. Ecco perché fino all’altro ieri non avrei scritto niente. Avrei dovuto inventarmi un titolo tipo : “Diario di un ignavo” oppure “La vita monotona di un accidioso”, seguito da un testo in cui le pagine sia assomiglierebbero tutte l’una all’altra in modo preoccupante... non sarebbe molto attraente, a mio parere. Ma siccome voglio mettere bene per iscritto il mio intento, che è quello della sincerità, voglio anche cercare di dire che spiegazione mi sono data per questa mia presunta ignavia.
29 ottobre Qui mi devo avventurare in una dimensione un po’ più ancestrale, non so se i miei poveri mezzi di scrittore saranno sufficienti. Voglio dire subito che ho dentro di me un vuoto. Lo dico adesso, senza troppi preamboli, tanto lo so benissimo, lo conosco benissimo. L’ho sempre sentito dentro di me, tra il cuore e la pancia, come una specie di languore, di mancanza, di nostalgia. Ecco vedi? Già mi passa la voglia di scrivere. “Nostalgia” è una parola sbagliata. Anche “rimpianto”, anche tutte le altre... E un qualche cosa che si può esprimere solo con delle metafore. Come quando un lattante viene staccato repentinamente da un seno. Come quando un animale libero viene catturato e messo in una gabbia. Come quando un vecchio pensa alla sua gioventù e piange. Come quando vedi qualcuno soffrire. Come quando perdi qualcuno per sempre. Perché, chiariamo: io questo mio gemello ideale lo odiavo, lo detestavo. Ma quando non c’era ne sentivo la mancanza. Era come se il mio ispiratore, il modello da emulare, sparisse dalla mia visione, e io sentivo il vuoto.
30 ottobre Da dove mio arrivi questo vuoto non so dire, mi sembra di esserci nato. Perché dopo un po’ che siamo tornati a Viareggio mia mamma mi ha lasciato lì e se n’è andata in Francia, a Parigi. Io sono rimasto alla Pensione Belvedere di Viareggio, dove mi hanno cresciuto gli ospiti. Il vecchio Signor Breviglieri, prima di tutto. Che mi ha costretto a imparare a memoria il Secondo Coro dell’Adelchi e le tabelline, la formula del bario e alcune mosse di arti marziali. Ma a parte il povero Breviglieri, che è un uomo d’altri tempi, e che ha fatto quel che ha potuto, non ricordo nessuno che mi abbia dato una mano. Non ricordo un momento, un’età in cui il vuoto non ci sia stato; e neanche un periodo in cui si sia riempito. Forse è una condanna, forse è una mia caratteristica, punto e basta. Una volta un medico alternativo, un guru delle terapie naturali, mi ha detto : lei ha un centro freddo. Altra sentenza. Che devo fare? Mangi del peperoncino. Lì per lì mi sembrò una idiozia, il fatto di avere un centro freddo mi sembrava un problema cosmico, la chiave di volta della mia esistenza, la spiegazione alle mie manchevolezze... come poteva il peperoncino risolvere tutto ciò? Ma poi pensai alla farfalla che sbatte le ali in Cina, e da bravo ignavo ho preso a mangiare peperoncino. Eppure il mio centro è rimasto freddo, almeno fino all’altro ieri.
31 ottobre La notizia mi ha sconvolto proprio perché forse viene a colmare questo vuoto, a creare combustione in questo centro freddo. La notizia non è banale, anche se è arrivata nel modo più banale, nella mia banale vita da ignavo. I fatti sono andati così: dopo la morte di mia madre, dopo parecchi mesi intendo, ho messo finalmente le mani nelle sue carte, quelle poche rimaste qui a Viareggio. Specialmente nella sua cartella di marocchino, quella proibita. Da bambino mi ricordo che quando la tirava fuori per guardare dei documenti, c’erano delle azioni di una ditta inglese, La Pea&Larrins, poi c’erano delle carte riguardanti delle proprietà su un’isola chiamata Shitland, ma forse era solo il nome di una finanziaria e l’isola era un’invenzione di marketing. Comunque poi mia madre rimetteva tutto in ordine con cura e la riponeva sempre in un cassetto chiuso a chiave. Mia madre se n’è andata senza potermi dire addio, senza poter dire nulla, lasciando dietro di sè i suoi misteri chiusi nella cartella di marocchino.
2 novembre Le ho voluto molto bene, ma se devo essere obiettivo e sincero, non è che avesse un buon carattere. Coi vicini di casa non si è mai scambiata più di un saluto. Con mio padre era rabbiosa, litigiosa. D’altra parte mio padre era veramente un uomo capace di far incazzare chiunque, probabilmente perfino San Francesco; figuriamoci mia madre, che era predisposta: nei negozi l’ho sentita spesso questionare con i gestori, per strada con gli automobilisti, negli uffici con i funzionari. Le sue amicizie duravano poco, perché prima o poi veniva sempre fuori un buon motivo per non vedere più questa o quell’altra persona. L’ho sentita spesso alzare la voce anche al telefono, con la zia Olga, l’unica parente che abbiamo e che non siamo mai andati a trovare, anche se era lei a darmi la zuppa quando la Pensione Belvedere d’estate non aveva più neanche un letto libero. Ma neppure la zia Olga si è mai peritata di prendere un treno e andare a Parigi. Le telefonate tra mia madre e la zia Olga quand’ero bambino mi inciuriosivano molto, e qualche volta mi angosciavano. Si passava da un parlottare basso e sommesso, con la mano davanti al ricevitore, come per non far sentire ciò che si dice, a frasi concitate e arrabbiate, dette ad alta voce, quasi gridate. Spesso una delle due interrompeva la comunicazione, riagganciando violentemente dopo uno scatto d’ira.
2 novembre La chiarezza non è mai stata il suo forte. Di mia madre, dico. Nella penultima lettera (se consideriamo ultima quella trovata dopo la morte), di circa cinque anni fa, diceva di andare a trovarla. Abito “in un seminterrato al secondo piano nobile ammezzato di Rue Laforet, a Montparnasse”, diceva. Dove pare che abbia avuto una “relazione” (una tra le altre) con un certo Timothy Graham Fuller. Strana coincidenza, ha lo stesso cognome di mia moglie Kate.
2 novembre Adesso… sono già passati dei giorni dalla notizia; devo decidermi, andare dalla zia Olga e farmi raccontare tutti i dettagli. Speriamo che non abbia perso la memoria, speriamo che sia in grado. L’ho sentita l’altro ieri per telefono, e non mi sembrava molto in forma. Forse è solo sorda, non capiva ciò che dicevo, così non ho potuto chiederle niente. Le ho solo detto: “Ho avuto la notizia, ho trovato la lettera tra le carte della mamma”. Lei non capiva, o forse fingeva di non capire. Diceva: ma quali calze della mamma? Che notizia? Le ho detto che andrò a trovarla. “Vieni con la mamma?” mi ha risposto. Forse è rincoglionita completamente, non si ricorda neanche che la mamma è morta.
4 novembre Fino all’altro ieri pensavo che fosse la nostra unica parente, l’ultima rimasta, sia in Italia che in Francia. Poi è arrivata la notizia, quindi deduco che ne devo avere altri, di parenti. Non so dove, anche se molte cose portano a Londra, non so quanti, ma so che ci sono. Nella lettera c’era
scritto: “Caro Carne, avrei preferito non dirtelo mai, ma il dolore di dovermene andare senza poter abbracciare tuo fratello mi costringe a chiederti di abbracciarlo da parte mia. Hai un fratello gemello. Si chiama Carnet, e quando eravate piccoli eravate uguali come due gocce d’acqua. Per ragioni che non voglio spiegare e che dipendono quasi esclusivamente dai miei errori, non l’hai praticamente mai conosciuto. Io ritengo che sia stato bene così, e forse sarebbe bene che continuasse così. Ma forse è vero il contrario; forse non ho trovato il modo di fare un’altra scelta, ed è stato un errore. Se lo è stato, se pensi che lo sia stato, a te resta il tempo per rimediare. E speriamo che resti tempo per rimediare anche a quella Grande Merda di tuo padre e che, anche se è un essere abominevole, a tratti può essere utile. Ti abbraccia forte la tua mamma”
4 novembre, notte Ecco il perché della bocca aperta, e di tutte le altre cose che ho scritto. Sono rimasto lì, incredulo, con quel foglio in mano. Ed ecco il temporale: non sono un figlio unico, ho un gemello. Lo sospettavo, ma la conferma arriva a quarant’anni passati. E nel ritrovare mio fratello Carnet, il mio gemello, l’altro uguale a me in fondo a un cassetto, ho trovato anche tante ipotesi riguardo quel famoso vuoto. Perché quel vuoto a volte assumeva anche la fisionomia del ricordo: una lontanissima luce in un portico, io che vengo preso in braccio, ci sono altri bambini... c’è qualcuno a cui corro incontro e c’è la luce che filtra sotto un pergolato e si intreccia con i miei ricordi ormai trasfigurati dalla memoria di un bambino forse appena capace di camminare. Forse, ma dico forse, perché non so se è un ricordo, un sogno o un racconto che qualcuno mi ha fatto nell’infanzia, ma ricordo il cortile di una scuola - un college, probabilmente - in cui altri bambini mi deridevano…
5 novembre Ricordi che mia madre ha sempre negato, dicendomi “te lo sei sognato”. Così come quel luogo che io ormai ero certo essere un luogo di sogno viene forse ad essere un luogo della memoria. Forse quella luce è esistita veramente, quel pergolato c’è ancora, da qualche parte. Perché man mano che zia Olga apriva i vecchi cassetti, venivano fuori immagini sconosciute, come per esempio le vacanze estive nella casa di campagna di zia Ethelred, nella tenuta del Carnarvonshire. Ci sono foto in cui lo zio Wulfstan, conte di Glamorgan, veniva a prenderci alla stazione di Huddersfield con la Bentley guidata dal vecchio Winnie, autista e giardiniere nonché stalliere di famiglia. Li accompagnava Gwen, figlia della cuoca Jemima e del maggiordomo, il signor Hichens. Ma io non ho veri ricordi, e nelle fotografie la zia Olga dice: questo sei tu. Questo è Carnet. Raramente ci siamo tutti e due, e sempre da lontano. Per la verità ce n’è solo una che in effetti è abbastanza eloquente: mia madre a Londra, davanti all’entrata di Bedford Square, che da la mano a due bambini identici. Uno tiene la mano destra, l’altro la sinistra. E uno di loro, cioè entrambi, mi assomiglia terribilmente. Per il resto, nelle foto c’è quasi sempre lui; io non ci sono quasi mai. Ad ogni foto sussulto, perché mi vedo in un luogo che non ricordo, in situazioni che non ho vissuto. No, ma quello non sei tu. E’ Carnet, tuo fratello.
5 novembre Non è difficile immaginare come questa cosa mi abbia messo in subbuglio. Adesso, qui, nel mio ufficio, prende i tratti di questo temporale estivo. Poco fa era ancora sereno, poi all’improvviso sono arrivati da occidente dei nuvoloni neri e ha cominciato a piovere a goccioloni grandi e radi. Con tuoni, fulmini e vento. E’ una metafora della mia vita. E se guardo queste gocce d’acqua che il vento soffia sui vetri della finestra, ebbene anche queste sono una metafora: uguali come due gocce d’acqua, c’era scritto nella lettera di mia madre. Nei miei pensieri poco intelligenti ho salutato questa notizia come una spiegazione: forse quel vuoto che sento, che ho sempre sentito, dipende dal fatto che avevo un gemello, un altro me in cui rispecchiarmi, e la vita me l’ha portato via. Forse quella separazione dimenticata ha lasciato quell’inconsapevole vuoto, quella specie di
attesa già delusa in partenza, come un’asola senza bottone.
6 novembre Non so come si tenga un diario. Da qualche parte ho letto che si scrive: caro diario. Non mi sembra una buona idea. Comunque, caro diario, eccomi qua anche oggi a cercare di mettere ordine tra le idee. E’ passato un altro giorno di lavoro. Mi resta ancora questo e poi mi sono preso venti giorni di permesso per andare a incontrare mio fratello. Vederlo, conoscerlo, scoprire cos’abbiamo in comune, com’è andata la sua vita in trent’anni , sentire come ha affrontato e risolto i problemi... Kate non è stata entusiasta. Le ho chiesto se voleva venire con me, ma a parte i suoi problemi di lavoro mi ha detto che non le sembrava una buona idea, che è una cosa mia, che devo fare io. Come ho già detto non è una donna molto intelligente, però ha il buonsenso della borghesia vallona. Così ha sentito il bisogno di dirmi anche “fossi in te ci penserei bene. Potresti avere dei dispiaceri”. Questo enunciato, detto alla maniera di Kate (e cioè con una impercettibile corrugazione della fronte), trova terreno fertile nello spaventarmi, perchè in effetti sono ormai tre giorni che mi interrogo sul motivo di quel taglio così netto dato da mia madre a uno dei suoi figli. Ho fatto le ipotesi più pazzesche, non sto neanche a dirle, tanto mi vergognerei nel mostrare a Kate per quali assurde lambiccazioni la mia mente va a strologare.
8 novembre A proposito di quell’impercettibile contrazione dei muscoli frontali sul viso di Kate, vorrei dire che mi ha sempre impressionato moltissimo, quando eravamo fidanzati mi faceva addirittura trasalire. Kate non ha un volto molto espressivo, e in genere trasmette una neutra tranquillità, cui si sovrappone un’ombra di rassegnata stanchezza. Mille volte, forse di più, le avrò detto “andiamo”, e per quanto mi sforzi non riesco a ricordare una sola volta in cui mi abbia detto no. Mi ha sempre seguito, certe volte anche nettamente preceduto. Io mi sono fidato, perché cate sarà pure un enigma, ma tutto sommato ha un viso rassicurante e perfino un po’ ieratico. Da giovane mi sembrava angelico, adesso il turgore serafico ha lasciato il passo ad una certa forma di rassegnazione mistica, da martire o da monaca di clausura. Quell’espressione mi piace perchè sembra testimoniare che Kate non farà mai colpi di testa, che è una persona che non mi riserverà sorprese, che non ci sarà mai un mattino in cui si sveglierà e mi dirà che desidera un’altra vita. Ma quando compare quella contrazione sulla sua fronte tutto nel suo volto sembra cambiare, tutto si trasforma in una dolorosa apprensione, quasi assistesse angosciata a un infausto presagio. E quell’espressione mi preoccupa e mi imbarazza così tanto che quasi sempre cambio idea o cambio decisione, pur di far sparire quella contrizione dalle sue sopracciglia.
8 novembre Ma stavolta no. Kate ha assunto quell’espressione quando ha detto “potresti avere dei dispiaceri”, e la cosa ha avuto l’effetto desiderato, e cioè quello di aumentare a dismisura la mia ansia; ma in ogni caso non riuscirà a tenermi a casa. L’ansia mi attraversa per intero, ma il desiderio di vedere mio fratello è più forte, anche se è nello stesso tempo il motivo che scatena tutta la mia ambascia. Fino a prima che arrivasse questa notizia la mia vita non mi interessava un granché, mentre questo mi è sembrato un salvifico segnale, un buon motivo per continuare a vivere, un appuntamento con alcune importanti verità che riguardano la mia vita. Domani mattina di buon’ora partirò per Londra, dove noleggerò una macchina per l’ultima parte del viaggio. Almeno fino a dove finiscono le indicazioni di zia Olga. E poi vedremo.
9 novembre Stamattina all’aurora sembrava una pessima giornata. Il cielo era incombente, livido. Il bianco degli aerei risultava smagliante. Io non sono riuscito a fare colazione, avevo lo stomaco chiuso. Provenivo da una notte insonne, di quelle che non possono far altro che essere seguite da un’alba compressa e sospesa, come prima degli esami
scolastici. Se devo descrivere la mia sensazione in due parole, direi che mi sentivo come un innocente che sta per essere processato. Logicamente ho le mie speranze di essere assolto, ma l’esito di un processo potrebbe anche essere infausto, non sarei il primo innocente condannato ingiustamente. Non so se riesco a rendere l’idea... vorrei restare, ma devo partire. Da una parte c’è la mia ignavia, quella specie di desiderio di tenere la testa ben seppellita nella mia rassicurante sabbia, dall’altra c’è quel vuoto interiore che chiede disperatamente di essere riempito. Ma mentre la prima è sotto gli occhi di tutti e ormai tutti intorno a me l’hanno accettata, il secondo, quel buco al centro del mio corpo, lo conosco solo io, solo io lo sento, lo vedo, addirittura; e ne subisco gli effetti.
9 novembre Dunque stavolta è andata un po’ diversamente dal solito. Sì, perché se avessi ascoltato la voce della mia coscienza abituale, che poi è quella che canta all’unisono con Kate, sarei rimasto a casa. Mi sarei detto: fino ad oggi è andato tutto bene, perchè scompaginare le carte? Perché andare a sollevare dei pietroni e scoprire magari che sono lapidi tombali dalle quali potrebbero emergere dei fantasmi? Si, caro diario: se avessi ascoltato a mia coscienza sarei rimasto a Charleroy, tra il tepore delle lenzuola che sanno di lavanda e che Kate cambia due volte la settimana, e la mia tranquilla scrivania con la foto dei miei figli sul desktop e le rassicuranti pratiche non urgenti da sbrigare. Ma dentro di me c’è qualcosa di più della coscienza. Non so se l’altra gente ne abbia un’immagine simile alla mia, ma a volte la mia coscienza mi appare come un personaggio grottesco che non sono io, un qualcosa di simile al giudice di Pinocchio: uno scimmione ottuso e moralista, molto più lento e più pauroso di me.
9 novembre Mi sono sentito in disaccordo con la mia coscienza numerose volte, ma ho sempre ascoltato lo scimmione. Francamente non saprei dire se ho fatto bene. Come quando una decina d’anni fa venne a lavorare da noi la signorina Greta. Mi resi subito conto che le piacevo, e anche lei mi piaceva, mi turbava... e mi aveva fatto capire in ogni modo che non voleva implicazioni, che era una donna libera e che usciva spesso a divertirsi. Ho dato retta alla coscienza, ho lasciato spegnere quel fuocherello senza fare niente. Ma quando in questi anni ho passato intere mattinate a guardarle il fondoschiena e le gambe, a immaginare come sarebbe coi capelli sciolti, a fantasticare un suo orgasmo, penso che forse avrei fatto meglio ad andarci a letto. La stessa cosa vale per decine e decine di altre situazioni in cui avevo la sensazione che le mie istanze non coincidessero con i diktat della mia coscienza. Forse la mia ignavia e il mio vuoto interiore hanno girato per anni lì, attorno all’atto della rinuncia, nel tentativo di preservare una tranquillità che però alla fine toglie ogni colore alla vita. La mia ignavia mi faceva rinunciare, e così si creava sempre più vuoto. Mi sono giustificato per anni dicendo che odio avere sensi di colpa, e siccome si tratta di un malanno nel quale cado abbastanza facilmente, ho evitato accuratamente tutte le situazioni che potessero provocarmi un attacco.
10 novembre Fortunatamente appena l’aereo ha preso quota buona parte delle angosce sono rimaste a terra. Ho cercato di razionalizzare. Non trovavo nessun motivo sensato per avere sensi di colpa: sto andando a cercare mio fratello, un fratello che non sapevo di avere e che non ho mai visto. Non sto facendo niente di male, se si esclude ovviamente l’aver lasciato Kate e i ragazzi da soli a casa, cosa che non ho mai fatto prima d’oggi. La preoccupazione rimane, ma da qualche parte ho letto che fare delle ipotesi negative sugli eventi futuri non ci aiuta ad affrontarli. Voglio quindi pensare che riabbracciare mio fratello sarà una cosa bella e commovente, che anche lui come me troverà in quell’abbraccio una specie di calore per il suo centro freddo.
10 novembre Arrvato a Londra. Sull’aereo avevo di fianco una bizzarra signora, Madame Shalikan. E’ una esperta di esoterismo, in effetta ha la faccia di una vecchia tigre, con gli occhi giallastri. Mi ha fatto uno strano discorso sui livelli della realtà… parlava di ontologia, una disciplina a me sconosciuta. Diceva che noi eravamo lì, ma che avremmo potuto essere in una situazione completamente diversa, e che quello che vivevamo lì non era che uno dei livelli della realtà. Affermava che probabilmente non era neanche il più reale. In teoria avremmo potuto essere solo i pensieri di uno scrittore, e in quel caso lo scrittore sarebbe ad un rivello di realtà “più reale” di noi qui sul treno. Ma a questo punto nessuno ci garantisce che anche lo scrittore non sia un pensiero pensato da qualcun altro, in un altrove che non possiamo neanche immaginare… Abita a Londra, mi ha detto di andarla a trovare, ma penso che non ci andrò, perché non mi piace avere la testa confusa da tutte quelle baggianate sui livelli di realtà. L’arrivo a Stansted mi ha sorpreso, come se il viaggio fosse durato venti minuti.
10 novembre Vorrei scrivere adesso del viaggio in auto, che man mano che mi avvicinavo alla città risvegliava in me delle colossali sensazioni di familiarità. Mio fratello ha mandato un’auto con l’autista. Si chiama Winnie, mi ricorda Breviglieri. E’ pur vero che nell’infanzia ci sono stato, ma è anche vero che sono stato portato altrove prima che la mia vita qui potesse archiviare dei ricordi precisi. Ma forse bastano quelli imprecisi, forse basta aver provato una volta da piccolo questa specie di accogliente vastità per non dimenticarla più, e risvegliarla ogni volta che si torna. Dovevo essere ospitato nella casa di Bedford Square, ma ho preferito scendere all’Hampton. In hotel mi sento più a mio agio. Tanto più che mio fratello stasera non è in casa. Mi ha detto Winnie che stasera lui è a cena da Lady Cophetua Hinshelwood e che rincaserà molto tardi. Non riesco a capire. Io non sto nella pelle… e lui la sera del mio arrivo va a cena fuori. Quanto alle indicazioni di zia Olga, ricordo che mi ha detto: abita in Bedford Square, di fianco al British Museum, e si muove abitualmente con una Bentley guidata dal suo autista. Se non ti manda a prendere dallo chaffeur la casa la trovi facilmente, dalla stazione di Euston Road prendi Gower Street e arrivi direttamente a Bedford Square. Anche se le case sono tutte uguali, color merda, ciascuna con quattro gradini verso l’entrata... La casa di Carne è l’unica verniciata di bianco. Non puoi sbagliare.
10 novembre Ho telefonato a Flack, lui ha agganci dappertutto. Stando all’hotel non riuscivo a vedere il portone della casa di mio fratello. Così ho telefonato a Flack, quello che risolve i problemi. Gli ho detto: “Mi serve una casa a Londra, a Bedford Square, dalle cui finestre si possa vedere la casa marrone, quella a fianco del British Museum” “Come, no? E magari nel letto Sharon Stone assatanata, perché no? Serve altro?” “Ti ho chiesto solo una casa… una camera!” “Ma… a Bedford Square! Ti rendi conto? Cosa dovrei fare, secondo te? Andare a casa di qualche ministro o di qualche premio nobel che abita da quelle parti e dirgli, scusi le spiacerebbe togliersi dai coglioni per una ventina di giorni, che c’è qua un mio amico che vorrebbe guardarsi con calma l’entrata del British Museum??? Ma lo sai che Bedford è la piazza georgiana più bella e meglio conservata di Bloomsbury, realizzata dall’architetto Thomas Leverton nel 1775? Che le case color merda come dici tu, sono location per centinaia di film, teatro di romanzi, sono, sono… sono edifici storici” “Basta, cazzo!” “No, lasciami finire, edifici di mattoni su tre piani, con graziose porte arrotondate sormontate da eleganti finestre a mezzaluna e, al primo piano, balconi decorati da un frontone centrale in stucco. E il giardino della piazza è di proprietà privata delle case che gli stanno intorno? Roba tipo Colosseo, le piramidi e la Tour Eiffel, hai presente?” “Ne ho bisogno” “Fammi fare un paio di telefonate, ma non ti prometto niente”
10 novembre Forse l’ho visto nelle pochissime foto di famiglia che mia madre aveva, tra le altre che mi ha dato zia Olga, forse in qualche immagine turistica, ma questo paesaggio mi appare amichevole e domestico, e anche se davvero non ricordo d’esserci mai stato, sembra essere la fonte della mia nostalgia. Adesso che ci penso, mi sembra che i racconti della mia famiglia fossero sempre un po’ troppo sbrigativi, elusivi. Le domande che da bambino facevo sulla mia prima infanzia, sui nonni, sulle nostre origini, ricevevano sempre risposte molto tranchant. A parte il fatto di Rivendicare il titolo dei Di Culo, ovviamente. Quando ho fatto le elementari, se confrontavo la mia vita con quella dei miei compagni, avevo una grande sensazione di vuoto. I loro racconti abbondavano di cuginetti, di nonni, di visite ai parenti e di cene di natale o di compleanno. A me sembrava di non avere un passato, e soprattutto di appartenere a un nucleo familiare microscopico, isolato dal mondo.
11 novembre mattina prestissimo “Carne? Sono Flack” “Novità?” “Poi dovrai baciarmi i piedi per vent’anni. Lo sai, questo, sì?” “Ok, ma lo faremo dopo. Adesso dimmi…” “C’è una ricca signora che ha un bell’appartamento su Bedford Square, il palazzo è in Adeline. La camera del figlio ha una bella finestra. Fai le valigie” “Ma cosa fa, la signora? Mi affitta la camera?” “No, le devi dire che sei il figlio” “Ma cosa dici? Sei pazzo?” “E’ rincoglionita, raccontale due stronzate come se tu fossi suo figlio” “E… suo figlio dov’è?” “Suo figlio è una specie di militare… è sempre in missione” “Ma siamo sicuri?” “Beh, diciamo al 75%. Vale la pena di provare, è l’unica possibilità che abbiamo. Cioè, che hai” “Dimmi almeno come si chiama la signora. Il nome del figlio!” “La signora si chiama Mary Spengler, e il figlio si chiama Jason. Devo andare” “Aspetta…”
11 novembre Con la vecchia è andata bene. Non c’è stato bisogno. Appena le ho suonato alla porta lei mi ha buttato le braccia al collo dicendomi “Bentornato, Jason”, poi ha imprecato sulle regole militari che mi avrebbero imposto di tagliarmi il ciuffo, ma d’altra parte si sa, le regole sono regole. Così, quando le ho detto che per ragioni di sicurezza nazionale dovevo portare in casa un cannocchiale lei non ha avuto niente da obiettare. E’ veramente cerebrolesa, continua a parlare di questi due fantomatici Stanz e Venkman che dovrebbero venire a prendere me (cioè questo Jason) per una missione su un pianeta sconosciuto. Forse vede troppa tv, ma ho visto che ha anche parecchi videogame.
11 novembre A un tratto mi è venuta voglia di lasciar perdere questo diario, ma registrerò qui le mie emozioni, che ancora mi formicolano dentro mentre sto scrivendo. Innanzitutto la curiosità. Poi anche il rimpianto. Sì, perchè qui, in questa famiglia che guardo da una finestra, questa famiglia di cui faccio parte ma che non mi appartiene forse si è svolta una parte di vita in cui avrei dovuto esserci anch’io, una specie di copione teatrale in cui era prevista anche la mia parte, oltre che quella di mio fratello gemello, quella di mia madre e di mio padre… ma invece poi questi tre protagonisti se ne sono andati prima che io entrassi in scena. E poi sento anche una specie di rabbia, di rancore verso i miei che hanno conservato per anni questi segreti, mantenendomi all’oscuro di tutto e facendomi credere di essere una povera famiglia disgregata, isolata, senza parenti, senza un focolare in patria presso cui ritornare, se non una pensione di seconda categoria sul litorale toscano. Capisco che oggi parlare di “patria”, specie per un figlio di stranieri nato all’estero ha poco senso. Come probabilmente ha poco senso dire che io in questi luoghi sto trovando le mie origini, “le mie radici” come si usa dire talvolta, dimenticando che le radici per un essere umano sono talvolta un
grave handicap perché è altamente probabile che l’essere umano sia fatto per spostarsi velocemente da un luogo all’altro.
12 novembre E’ incredibile. Sto qui, appostato ad una finestra a guardare la vita di mio fratello. Quello a cui la vita ha dato tanto, almeno da quanto sembra. Entra ed esce da quella casa principesca seduto sul sedile posteriore di una Bentley con tanto di autista, oppure con una Jaguar MK II 3,8 del 63 color bianco-latte quando va a giocare a golf. Non mi dispiace stare qui seduto a spiare. Non so se ho voglia di incontrarlo. Perché quello che dicevo ieri a proposito degli spostamenti veloci, ovviamente vale per una certa parte dell’umanità; vale per gli esseri dinamici e pronti a tutto, che mentre stanno raggiungendo un luogo hanno già pianificato di raggiungerne un altro. Vale probabilmente per mio fratello Carnet, che stasera è a cena da Lady Cophetua Hinshelwood. Non vale invece per gli ignavi come me, che nella scoperta delle loro cosiddette radici riconoscono una probabile risposta al loro innato desiderio di quiete, di immobilità, di appartenenza a un contesto sociale che ti contiene e ti protegge. Mi rendo conto adesso che a Viareggio, dove vivo, ho cercato disperatamente di ricreare qualcosa di simile: ho lo stesso barbiere da anni; prendo sempre il caffè nella stessa caffetteria, ho alcune frequentazioni abbastanza assidue... ma vedendo come funzionano qui le relazioni tra mio fratello e le persone del mondo mi rendo conto che c’è qualche cosa di arcaico e veritiero che spinge la gente a relazionarsi a Viareggio, mentre qui c’è solo una specie di commedia farsesca di continui cambiamenti. Un divertimento disperato, uno stordirsi con gente sempre diversa. Tutta roba che io detesto. Non parliamo poi della casa e della vita famigliare. Fosse per me, non si farebbe venire in casa nessuno. Ero disgustato dal viavai della Pensione Belvedere. Sognavo una casa in cui di notte poter sprangare la porta e un’entrata in cui spegnere la luce. Poi un po’ chi ha pensato Kate, a rieducarmi. 13 novembre Accanto a me c’è sempre lei, la scatola di scarpe piena di vecchie fotografie che mi ha dato Olga. Cerco di capire chi è tutta questa gente elegante, queste foto, alcune delle quali veramente incomprensibili: Ce n’è una dove mio fratello (presumo essere lui, è il mio alterego) è seduto su una poltroncina su una spiaggia deserta, in un paesaggio veramente strano alle loro spalle: completamente brullo e costituito da cumuli scuri… mio fratello è vestito elegantemente di bianco, cammina lungo la spiaggia con un cestino di vimini . Accanto a lui , una avvenente giovane donna dal tono equivoco, con la camicia semiaperta che lascia intravvedere un seno di straordinaria consistenza, i cui capezzoli sembrano voler perforare l’esile trama del sottile tessuto. La ragazza ha due lunghe gambe perfettamente disegnate, dalla carnagione liscia e compatta. Dietro la foto c’è scritto al mio Sire da Lola.
13 novembre Notizie ancor più nebulose vengono invece dalla famiglia di mia madre. La prima è che mia madre ha origini nobili. Di cognome fa Fraschini , e il mio bisnonno era un capostazione che durante un guasto ferroviario ebbe una storia d’amore con una nobildonna inglese, Demetra, la figlia del commodoro Theo Peacock, che apparteneva a una antica famiglia inglese, che era stato a capo dell’Ordo Merdiensis e conosceva il segreto dell’Helleborus. Non chiedetemi di preciso di cosa si tratti. Credo roba esoterica del secolo scorso. Certo se aveva nobili origini mia madre le scordò molto presto; quando tornammo da Lydden Hill a Viareggio lei cominciò ad uscire tutte le sere e a frequentare La Bussola e la Capannina, a tornare a casa ubriaca alle cinque di mattina, quando tornava.
Ecco qua, una fotografia tra quelle che mi ha dato zia Olga… la mamma qua è ancora una bellissima donna. Il vestito da sera di Worth la fascia mettendo in risalto le sue forme mature. Il décolleté ancora fresco è sottolineato da due semplici giri di topazi chiari, sfaccettati a cabo-
chon e ripresi da un pavé delle stesse pietre sui due bracciali a fascia, che porta con grandissima disinvoltura mentre estrae dalla borsetta filigranata di platino un bocchino di lacca cinese nel quale infila una Balkan Sobranie . C’è qualcuno, lì a fianco, già pronto con il Dupont acceso. Un Dupont vintage incrostato di zaffiri pallidi e madreperla.
13 novembre A proposito di mia madre, ieri mi è arrivato qui un telegramma da Parigi. Qui, a casa di Mrs. Mary Spengler. Come fanno a sapere che sono qui? Chi è il mittente? Dice testualmente: “Sono viva. Solo che non trovato modo migliore per dirti di tuo fratello che fingere di morire. Perdonami. Venite a Parigi, tu e Carnet? Baci. Mamma”. Ecco, questa è mia madre, o almeno serve a farsi una prima idea del personaggio. A Parigi? Vedremo, dopo Londra. L’ultimo indirizzo che ho è di un ammezzato di Rue Laforet, a Montparnasse. Vive lì dal 1979. Zia Olga dice sempre: “su tua madre no comment. Ognuno è padrone della sua vita e amen: D’altra parte se ha fatto quello che ha fatto avrà avuto le sue ragioni, non sta a noi giudicare”. Cosa abbia fatto, a parte abbandonarmi alla Pensione Belvedere, davvero non saprei.
13 novembre Sempre a guardare la finestra, le fotografie e a mangiare rahat lukùm. C’è un corner di degustazione di prodotti turchi, giù nella hall. Così l’altro giorno ho comperato una scatola di questi rahat lukùm. Da non crederci, sono diventati una droga. Ne ho gà comprata una deina di scatole. L’altro giorno il ragazzo del banco mi ha chiesto: “Il signore ha già provato il nostro halva?” Gli ho risposto di no. “Allora mi permetta di regalargliene un barattolino per la degustazione, con gli omaggi della Ditta Soliman, importazione di specialità turche” Così guardo le foto di mia madre mangiando i lukùm, ma il sapore amaro non sparisce. Perché, come ha detto zia Olga, lei ha fatto “il grande passo”. Quello che tutte le donne almeno una volta nella vita hanno voluto fare: scaricare, marito, lavori in casa e fuori casa, la cucina, la spesa e i figli… sì, anche i figli, e partire all’avventura lasciandosi le pentole e i pannolini alle spalle. Tentare di nuovo la fortuna, come all’inizio della vita. Era andata a Parigi, per girare dei film con piccoli ruoli e per esibirsi Au Lapin Rouge. Le era andata bene, a giudicare da questa foto, con il neon alle sue spalle con la scritta “Isa di Culo”, e dodici splendide ballerine in costume di scena.
14 novembre L’altro giorno sono arrivati qui due poliziotti. Non cercavano me, cercavano lui. Cioè, lui aveva detto a dei poliziotti che se lo cercavano potevano trovarlo nella camera del figlio della signora Spengler, che nel frattempo lui, cioè io, stava occupando abusivamente essendosi infilato in casa della Signora Spengler con un vergognoso raggiro, aggravato vieppiù dal fatto che la suddetta signora è affetta da deficit cognitivo? . Cioè, non so se è chiaro. Secondo lui avrei dovuto assecondare la sua tacita richiesta, fingere di essere lui. E lui, nel frattempo, dov’era? Probabilmente a fare qualcosa che la Polizia non deve sapere. E quindi mi usa come sponda. Questo significa anche che lui sa che sono qui a guardarlo? Di certo l’autista gli avrà detto che ho voluto scendere senza dire dove sarei andato. Credevo se ne fregasse, invece evidentemente ha preso informazioni. Sa che sono qui. La faccenda mi sta creando una certa confusione, come se fossi finito in un gioco più grande di me…
15 novembre Quindi con qualche indugio, nella certezza che quello che scrivo non riuscirà a ricostruire pienamente ciò che sto vivendo, vedo la saga della mia famiglia mancata, gli accadimenti di adesso e con le fotografie di zia Olga quelli che precedettero la nostra partenza all’estero e quelli che la determinarono. Mio padre, da giovane, era stato “un povero” in Inghilterra. Figlio unico di madre vedova, proveniente da una famiglia di ignoti profughi; erano poverissimi, ma sostenevano di discendere dalla casata dei De Culo, proprietari di diversi possedimenti nel Regno Unito, tra cui un
intero palazzo in Bedford Square, proprio dove io mi sto recando. Mia nonna restò vedova quasi subito, perché mio nonno morì di malaria. Zia Olga dice che la salvarono i preti, che fecero studiare mio padre fino alla laurea. Fino ad un anno dopo la laurea la nonna visse grazie al Parroco che la prese come perpetua. Ma mio padre, Doctor Mouse De Culo (o se preferite Grande Merda, come lo chiamava mia madre) ad un solo anno dalla laurea era già Presidente del Circolo di Cheapside, campione di Golf e tra i maggiori azionisti del Times, l’aveva già trasferita in una elegante dimora di Southwark con un paio di domestici al suo servizio.
16 novembre Questa foto sembra il salotto della casa di Carlton Fields, dove abitavo da bambino. Ma l’arredamento è diverso, anche se riconosco il tappeto. Seduti su due diversi divani, ci sono due vecchi. Da quello che ho capito uno di loro dovrebbe essere mio padre, anche se zia Olga non è sicura. Ecco un’altra foto, dentro una busta… questo personaggio, Colui il Cui Nome Non Può Essere Pronunciato. Insieme alla foto, c’è un biglietto con alcune righe, scritte con una calligrafia nervosa e quasi certamente femminile: “davvero una grande merda, mettere incinta Isa Di Culo, lui sapeva benissimo che era una ragazza dell’alta borghesia. L’ha fatto senza scrupoli, spacciandosi per un tale Dottor Mouse che era stato forse uno dei pretendenti di Isa negli anni passati… e poi ha convinto il Dottor Mouse che l’ultima prostituta con cui aveva fatto del sesso era rimasta incinta, e che che la prostituta si chiamava Isa Di Culo. E’ stato una grande merda quando ha mandato Pandemonium a fare schiattare Carne (suo figlio naturale) convincendo Mouse (che era convinto di essere il padre dello stesso) che era una cosa giusta. Qualsiasi scelta della sua vita è degna del suo nome.
17 novembre E ormai una settimana intera che osservo la vita di mio fratello dalla finestra dell’hotel. Da qui si vede benissimo la casa di Bedford Square e in prospettiva vedo anche la finestra del suo bagno privato. Prima di conoscerlo voglio studiarlo un po’. Lo vedo uscire verso le undici di mattina con la sua Jaguar col cambio manuale, non rientra quasi mai per il pranzo. Rientra a metà pomeriggio, sta nello studio per un po’, poi fa la doccia e scende. Verso le diciannove si capisce l’esito della serata. Se esce e va al Club, oppure è invitato da qualcuno. Se resta in casa può esserci una cena con tanti invitati, ma può anche accadere che arrivi una invitata sola. Diverse invitate sole. Insomma, si sarà capito che la vita di questo mio fratello è come un film, è la vita che tutti vorrebbero. Non certo come la mia, con Kate che ogni tanto invita colleghi a cena, e ogni tanto mi costringe anche a invitare i miei. E già mi sembra troppo. Le sere che viene gente a cena poi ci sono tante pentole e piatti da lavare. Io invito sempre Flack e la moglie. Lui mi aiuta a investire i miei pochi risparmi. Lo faccio per i figli: Carmine e Carneade. Comunque Flack e la moglie sono gli unici con cui mi diverto, perchè bevono parecchio, e dopo il terzo bicchiere diventano più spontanei, anche se poi, finita la prima bottiglia, diventano un po’ troppo chiassosi e difficili da mandare a casa. Comunque tutto ciò che accade laggiù nel mio ménage della Versilia, mi sembra un pallido simulacro di ciò che qui accade davvero.
17 novembre Dal viavai di donne che si vede dalla finestra direi che se la passa bene. La più ricorrente è una tipa con l’aria della nobilotta di campagna, ha un sedere enorme, veramente molto molto grande. Poi c’è quell’altra, quella che assomiglia un po’ a Kate. Ma non può essere lei perché arriva in bicicletta, mentre la mia Kate non sa andare in bicicletta. Poi c’è l’altra, quella veramente notevole. Arriva con una Austin Healey-Sprite color malva, suona il clacson e parcheggia davanti al portone. Sembra una top model o una attrice del cinema. Questa arriva prevalentemente la sera.
18 novembre Oggi il vecchi autista di mio fratello mi ha bussato alla porta. Era stranamente gioviale e mi ha detto “come sono lieto di rivederla, signore!” come se io fossi il suo padrone. Comunque portava un biglietto da parte di mio fratello che diceva così: “Caro Carne, se dobbiamo o vogliamo vederci, direi di farlo prima che ci venga la demenza senile. Ti prego, smettila di osservami dalla finestra di Mrs. Spengler, ti darò io tutte le informazioni che vuoi. Sei invitato domani sera per un thè a casa mia. So che sai dov’è. Alle cinque in punto, mi raccomando. Tuo Carnet” “Mr. Carnet mi ha pregato di attendere la sua conferma” “La mia conferma? No, non confermo. Gli dica che beva pure il suo thè trenquillo. Io lo aspetto al Barley Mow in Horseferry Road alle otto. Ci mangeremo un hamburger e ci berremo una birra” “Posso andare, Mylord?” mi chiede il vecchio autista “Certo, Winnie” Il vecchio autista si è girato con uno sguardo compiaciuto, una specie di sorriso grato per essermi ricordato il suo nome. Ma io ero stupefatto. Da dove mi era uscito quel nome? Non ricordo che all’areoporto si fosse presentato. E’ strano, ma io sapevo come si chiamava. E mi sembrava perfino che avesse un’aria familiare.
19 novembre Adesso sono seduto al Barley Mow al 104 di Horseferry Road. Ho scelto questa terra di nessuno per incontrare Carnet. Sono già dieci minuti che aspetto con davanti una birra già bevuta a metà. A un certo punto… non credo ai miei occhi. E’ Kate. Kate? Ma cosa ci fai a Londra anche tu? E i ragazzi, a chi li hai lasciati? Ma è un’altra Kate. Ho uno sguardo da capra, gelido, senza sentimento. “Andiamo” mi dice “Andiamo dove?” “Carnet non può venire, probabilmente è nei guai” “Ma tu… tu cosa ne sai, di Carnet?” “Te lo spiego strada facendo, adesso scusami ma non c’è tempo” “Ma… tempo per cosa? Kate, mi vuoi spiegare cosa sta succedendo?” “Dobbiamo partire, subito”
il diario è interrotto alla data del 17 novembre di un anno imprecisato, ma al quale sarà facile risalire con l’accurata lettura della Saga. (NdE)
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