the trip n°9

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the trip N째9 novembre 2011 / free press Spomenik Roma - Londra Cappadocia / Taiwan Franco Purini thetripmag.com





Le materie scientifiche non sono mai state il mio forte. Al liceo ho avuto la fortuna di avere una compagna di banco che era una specie di genio e finito il suo compito in classe si dedicava al mio. Risultato: un bell'otto in pagella. All'università per racimolare qualche euro extra dovevo nascondere la calcolatrice sotto la scrivania mentre davo ripetizioni al mio cuginetto che si preparava per gli esami di terza media. Lui era fortissimo: mentre mi dava i risultati di equazioni, sottrazioni o divisioni io stavo ancora contando le palle sul pallottoliere... un vero disastro. Eppure la geometria mi ha sempre incuriosita. Sarà stato per la mia passione per i giochi di ruolo, dove non finivo mai di disegnare mappe, città e abitazioni. Ma certo non basta saper calcolare l'area del triangolo per essere un architetto. Così mi sono data alla letteratura. Per imbattermi nel più classico dei classici “contemporanei”: Italo Calvino. L'intellettuale ligure nato a L'Avana, grazie ad Einaudi, presenta al pubblico nel 1972 la raccolta delle relazioni di viaggio che Marco Polo fa a Kublai Khan, imperatore dei Tartari (nella realtà storica, Kublai, discendente di Genghis Khan, era imperatore dei Mongoli, ma Marco Polo nel suo libro lo chiama Gran Khan dei Tartari e tale è rimasto nella tradizione letteraria). A questo imperatore malinconico, che ha capito che il suo sterminato potere conta ben poco perché tanto il mondo sta andando in rovina, il fortunato mercante veneziano racconta di città impossibili. Ad esempio di una città microscopica che si allarga in continuazione e che poi risulta essere costruita da tante città concentriche in espansione, una città-ragnatela sospesa su un abisso o una città bidimensionale. Come lo stesso autore spiega in una conferenza tenuta in inglese il 29 marzo 1983 agli studenti della Graduate Writing Division della Columbia University di New York, “Le città invisibili” sono un ultimo poema d'amore

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alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come tali. “Forse stiamo avvicinandoci a un momento di crisi della vita urbana - spiega Calvino - e Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili. Oggi si parla con eguale insistenza della distruzione dell'ambiente naturale quanto della fragilità dei grandi sistemi tecnologici che può riprodurre guasti a catena, paralizzando metropoli intere. La crisi della città troppo grande è l'altra faccia della crisi della natura”. L'immagine della megalopoli che va ricoprendo l'intero globo terrestre domina il libro. Ma Calvino non vuole scrivere qualcosa che annunci catastrofi o apocalissi di vario genere (bastano i Maya per profetizzare la fine del mondo!). L'intento dell'autore, e in questo caso di Marco Polo, è scoprire le ragioni segrete che hanno portato gli uomini a vivere nelle città, ragioni che potranno valere al di là di tutte le crisi. “Le città sono un insieme di tante cose - continua Calvino - di memoria, di desideri, di segni d'un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell'economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi. Il libro si apre e si chiude su immagini di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici”. Il numero di “the trip” che state per sfogliare prende spunto dalla lezione di Calvino e invita ognuno di voi ad immaginare la propria città, la propria personale architettura fatta di parole, ricordi, scambi. Noi vi proponiamo qualche esempio, dalle case di tufo in Cappadocia ai monumenti commemorativi sparsi per la ex Jugoslavia. Dagli acquedotti romani fino agli UFO di Taiwan. Io, intanto, ho buttato il pallottoliere. Valentina Diaconale

“Foggiest” di Mateo

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sommario

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06 eventi dal mondo

editoriale

Franco Purini

Winchester house

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Taiwan

51 inviati

Spomenik

Benjamin Beker

Cappadocia

la casa chiusa di Bari

il Giardino dei Tarocchi

68 Napoli

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62 B.I.G.

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54 il mercato dell'Esquilino

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18 Roma - Londra

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66 Roma

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redazione the trip N° 9 novembre 2011

sede legale via Gasperina 188 - Roma

direttore responsabile Valentina Diaconale valentinadiaconale@gmail.com direttore editoriale Lorenzo Verrecchia lorenzoverrecchia@thetripmag.com art director Andrea Bennati info@andreabennati.com responsabile redazione Francesca Rosati redazione Claudia Bena, Simone Bracci, Anna Mastrolitto e Paolo Valoppi photo editor Martina Cristofani responsabile web Veronica Gabbuti responsabile marketing abc project

sede redazione via Apollo Pizio 13 - Roma

editore the trip s.r.l. via Apollo Pizio 13 - Roma centro stampa Arti Grafiche s.r.l. via Vaccareccia 57 - 00040 Pomezia

Registrazione Tribunale di Roma n. 329 del 6 ottobre 2009 hanno collaborato Gianluca Bernardo, Chiara Branca, Bianca Di Cesare, Alessandra Iodice, Benedetta Marciani, Alexandra Rosati, Viola Stancati, Francesco Zingoni. foto Elena Adorni – elenaadorni@gmail.com Benjamin Beker – benjaminbeker.com Luisa Carcavale – luisacarcavale.it Jan Kempenaers - jankempenaers.com Samantha Kwok Marco Lafiandra - coroflot.com/marco_lafiandra Salvatore Landi – salvatore.landi@gmail.com

Alessia Laudoni – alessialaudoni.com Daria Muller – essence-of-entities.blogspot.com Saverio Scattarelli – saverioscatta@yahoo.it La foto in copertina è di Jan Kempenaers L’illustrazione dell’editoriale è di Mateo mateo-art.com Un rigraziamento particolare a Daria Muller per l'idea del reportage contatti info@thetripmag.com thetripmag.com



EVENTI DAL MONDO a cura di Francesca Rosati

SEGNALACI ANCHE IL TUO

AGRIGENTO (ITALIA) 17 APRILE – 30 NOVEMBRE “I GIGANTI DELLA MITOLOGIA” Lungo la via sacra della Valle dei Templi si stagliano le sculture monumentali di Igor Mitoraj, in quella che è ad oggi la mostra più importante dedicata all'artista polacco. Frammenti di corpi di bronzo e resti di pietra chiara. Il moderno e l'antico. Il surreale e il più classico dei classici. I vuoti e i pieni delle grandi statue di Mitoraj si uniscono a quelli creati dalle colonne greche in una danza mistica di grande impatto estetico, quasi inquietante.

GÖTEBORG (SVEZIA) 10 SETTEMBRE – 13 NOVEMBRE “PANDEMONIUM” Jonh Milton nel primo libro del suo poema epico il “Paradiso Perduto”, parafrasando “pantheon” (tutti gli dei) compone pan – daimonion per indicare il Palazzo costruito dall’Angelo Caduto: Satana. Ma la sua è una interpretazione positiva: dalle ceneri per ricominciare. Per la Biennale Internazionale d’Arte Contemporanea di Gotebörg, Pandemonium è un laboratorio di esperimenti ed idee. goteborg.biennal.org

LAGO DI PATZCUARO (MESSICO) 1 NOVEMBRE “IL DIA DE LOS MUERTOS” Sul lago di Patzcuaro nel Michoacan, a quattr'ore di autobus a nord di Città del Messico, si svolge la celebrazione più spettacolare di tutto il paese. Nella notte del 1 novembre centinaia di barche raggiungono l'isola di Janitzo al centro del lago e centinaia di persone, con delle lanterne, ne risalgono i sentieri fino al cimitero. Ogni tomba è decorata con luci e offerte di cibo a identificare il forte legame tra il popolo messicano e l'aldilà.

ROMA (ITALIA) 4 – 6 NOVEMBRE ““...TEN YEARS AFTER...” San Lorenzo, Pigneto e Tiburtino ospitano la VII edizione del Mojo Station Blues Festival, il principale e più longevo Blues Festival della capitale. Le sonorità del Blues proposte in una visione multimediale: concerti, dj-set, mostre ed esposizioni fotografiche, rare movies e visual-art all'interno di questi quartieri tanto popolari quanto in costante mutamento sociologico e culturale. mojostation.net

scrivi a info@thetripmag.com

PARIGI (FRANCIA) 15 SETTEMBRE 2011 – 15 GENNAIO 2012 “COEURS DE NATURE EN FRANCE” Le ringhiere che costeggiano i Giardini di Lussemburgo, nel cuore di Parigi, mostrano al pubblico passante il vero cuore della Francia: duecentocinquanta riserve naturali, nove parchi nazionali, due parchi marini e centinaia di siti protetti sulla costa catturati in quaranta immagini per creare una collezione fotografica unica. Per la tutela di quei siti, veri serbatoi di bio diversità. coeursdenatureenfrance.com

BELGRADO (SERBIA) 14 – 16 NOVEMBRE “GREEN SCREEN FESTIVAL” L’innovazione, l’educazione e l’utilizzo delle nuove tecnologie per la valorizzazione e la tutela dell’ambiente sono requisiti obbligatori per partecipare alla II edizione del Festival del Cinema Ambientale. Il tema di quest’anno? Gli ecosistemi delle foreste. Non perdete le proiezioni dei documentari vincitori al Sava Center di Belgrado (Milentija Popovica 9). Vi aspetta una combinazione ambiziosa di arte cinematografica ed ecologia. greenscreenfest.org

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BELO HORIZONTE (BRASILE) 22 – 27 NOVEMBRE “FEIRA NACIONAL DE ARTESANATO” La fiera degli artigiani in Brasile è una delle fiere più grandi dell'America Latina. In esposizione cinquantamila articoli fatti a mano da quasi ottomila artigiani provenienti da varie parti del Brasile e del mondo. Oltre a una vasta gamma di prodotti artigianali la 22° Feira Nacional de Artesanato offre un vasto programma di corsi e seminari per esperti e non. feiranacionaldeartesanato.com.br

EMISFERO AUSTRALE 25 NOVEMBRE ECLISSI SOLARE Gli occhiali da sole sono d’obbligo. Meglio se usati al contrario. La luna che passa davanti al sole oscurandolo completamente è un evento raro che si ripete ogni 600 anni. Più facile vedere una eclissi solare parziale. In Italia l’ultima è stata il 3 ottobre 2005. Questa volta è visibile nell’emisfero australe toccando Antartide, Sudafrica, Nuova Zelanda e Tasmania. Qui nel Belpaese bisognerà aspettare il 2 agosto 2027.

TRAVELLING AROUND MUSIC CLUB TO CLUB TORINO 3 - 6 NOVEMBRE foto di Alessia Laudoni

Sfiziosissimi piatti accompagnati da un buon vino, un viaggio attraverso la storia del cinema nella Mole Antonelliana, un giro tra capolavori dell’arte contemporanea in occasione di Artissima o il Contemporary Art, le passeggiate illuminate dalle Luci d’Artista, e poi? Elettronica di quella sofisticata, visionaria, nazionale ed internazionale, per riflettere e ballare: Club to Club Alfa Romeo MiTo, festival internazionale di musiche e arti elettroniche, dal 3 al 6 di novembre a Torino. Club to Club non si accontenta di con-

taminare solo il capoluogo piemontese con la nuova onda creativa della scena musicale italiana. Il festival, avendo tra i suoi obiettivi anche quello di partecipare alla celebrazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, farà tappa a Roma e Milano per un’anteprima di quel che sarà il vero e grande evento. Un viaggio intorno alle città che sono state o sono, per una ragione o un’altra, le capitali italiane. Un festival tricolore dunque che conferma il legame con il ricco programma di Esperienza Italia 150. L’undicesima edizione di Club to Club presenta una line-up ricca di anteprime e piatti prelibati che accosta le leggende dell'elettronica alle novità internazionali e italiane più interessanti del momento. Talenti rappresentativi delle avanguardie di casa nostra come Lucy, Giorgio Gigli o Vaghe Stelle che in-

sieme a Stargate e A:Ara presenteranno in anteprima il progetto “O” per essere sotto gli stessi riflettori di consolidati artisti internazionali come Alva Noto, Byetone, Apparat Band, Jeff Mills, dOP, Pantha du Prince, Caribou, Kode9 e Moderselektor. Numerose e prestigiose le sedi che faranno da cornice alle performance degli artisti e raccoglieranno le energie dei partecipanti: Teatro Vittoria, Teatro Carignano, Auditorium RAI Arturo Toscanini, GAM, Lingotto Fiere - Padiglione 1 e Sala Rossa, Fondazione Arnaldo Pomodoro a Milano e Brancaleone a Roma. Cin, cin… buon festival e… tanti auguri Italia! clubtoclub.it Anna Mastrolitto travellingaroundmusic.com


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intervista

I giganti dell’acqua

questi spettacolari ruderi che si perdono nella lontananza come un'eco alternando il pieno al vuoto costituiscono tracce territoriali continue che pervengono alla scala geografica conferendo ad essa una dimensione eroica

di Valentina Diaconale

“Benché privi ormai del prezioso liquido che per qualche secolo avevano portato a Roma, i millepiedi murari, altrettanti ponti di infinita lunghezza, erano comunque in grado di ricordare il ciclo dell'acqua. Le nuvole che solcavano il cielo promettevano un'acqua che essi non avrebbero più raccolto come vene efficienti, ma l'essere stati il supporto di veloci torrenti era per loro ancora emozionante”. Siamo nella Campagna Romana, a sud della Capitale, tra il quartiere Tuscolano e Cinecittà, e l’emozione descritta nelle parole del professor Franco Purini appartiene a quel particolare manufatto architettonico che segna inconfondibilmente il profilo della periferia. Stiamo parlando degli Acquedotti romani. Professore ordinario di Composizione Architettonica e Urbana presso la Facoltà di Architettura Valle Giulia a Roma e Direttore del Dipartimento di Architettura e Costruzione, Franco Purini utilizza il disegno come strumento di ricerca, che sfocia in una grande complessità grafica del progetto, oltre che in una carica fortemente simbolica delle sue opere, dense di sfalsamenti ed effetti chiaroscurali. Nel 2006 è stato curatore del Padiglione italiano alla decima Mostra Internazionale di Architettura della Biennale a Venezia. Nel 1966 ha fondato uno studio con la moglie Laura Thermes, affrontando sia questioni di linguaggio architettonico che complessi interventi urbani. Molti dei progetti relativi a città hanno come oggetto il rapporto tra segni permanenti ed elementi mutevoli. La particolare predilezione per la cosiddetta architettura disegnata, ha fatto sì che alcune sue tavole siano conservate presso numerosi musei del mondo. Allestita nell’unico centro commerciale in Europa con uno spazio espositivo permanente, Cinecittàdue Arte Contemporanea, all’ultimo piano nell’omonimo shopping mall (viale Palmiro Togliatti 2), la mostra “Acquedotti Romani “, da lui ideata e curata, unisce architettura, arte, fotografia e poesia. Da Santiago Calatrava a Mimmo Paladino, da Gabriele Basilico a Marco Lodoli, trenta architetti insieme ad artisti, fotografi, scrittori, poeti e il musicista Giorgio Battistelli hanno partecipato alla creazione di opere che, come spiega Purini: “dovrebbero consentire di vedere nel passato, nel presente ma soprattutto nel futuro di questi straordinari manufatti che sono gli Acquedotti romani, nelle diverse ottiche dell’architettura, della pittura e della scultura, della video arte, della musica, della letteratura e della fotografia”.

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“Il Tempo dell’Acqua”, “Un fiume sopra di me, una casa dentro di me”, “Ricordando il Quadraro”. Sono le tue opere

esposte in mostra. Che cosa raccontano? Tra il 1948 e il 1953, prima che mi trasferissi con la mia famiglia a San Lorenzo, gli ampi spazi attorno al Quadraro sono stati per me, per mio fratello e per i miei amici di allora straordinari luoghi dell'avventura. Prati, marane, canneti, campi coltivati, pareti di tufo sulle quali si aprivano grotte che ospitavano qualche pastore con le sue greggi, case sparse o unite a formare microvillaggi, orti, torri medioevali isolate costruite su fondazioni romane, terrain vague formavano un universo fantastico che non si finiva mai di esplorare. Era la Campagna Romana come l'avevano vista e raccontata scrittori come Goethe, Chateaubriand, Stendhal. Generazioni di pittori avevano trovato in quel mondo vuoto e desolato –

che più tardi, dopo molte letture, avrei scoperto nella sua dimensione sublime – numerosi scorci da fissare sulla tela. Tra i molti ruderi che punteggiavano quello spazio sconfinato emergevano gli acquedotti, architetture in marcia verso il centro della città che segnavano ancora, nonostante le molte arcate crollate che ne interrompevano la continuità, una prospettiva spaziale che governava il paesaggio. Con il loro ritmo pieno-vuoto o, se si preferisce, con un'alternanza positivo-negativo gli acquedotti, soggetti in due modi diversi alla legge di gravità, si presentavano come una sequenza primaria dal carattere musicale. Leggeri a distanza come aerei trafori si rivelano da vicino potenti nei loro solidi e pesanti pilastri di tufo i quali, più che inquadrare l'orizzonte lo

“Il tempo dell’acqua” china su cartoncino schoeller – cm 70 x 50

“Un fiume sopra di me, una casa dentro di me”

“Ricordando il Quadraro”

“Pensare una mostra sugli acquedotti romani - continua Purini - significa leggere, attraverso la loro capacità di costruire il paesaggio oltre la loro essenza tettonica e architettonica, la città di oggi nelle sue contraddizioni, nei suoi aspetti stabili e mutevoli, nella sua singolarità. Assieme a una pluralità di ambiti relativi alla città, gli acquedotti romani suggeriscono una ulteriore sfera di contenuti che comprende i temi del frammento, della vastità, del tempo, dell’acqua, una risorsa che sta divenendo sempre più rara e preziosa, oggetto in questi ultimi anni di complesse strategie globali”.

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intervista

comprimevano. Sposando l'archeologia con la metafisica quei nastri forati che si perdevano nell'atmosfera misuravano il territorio rendendolo ancora più vasto. Plinio il Vecchio li ha definiti “La più grande meraviglia che il mondo abbia mai visto”. Cosa rimane oggi della bellezza degli acquedotti di Roma inseriti nel paesaggio urbano della periferia? Negli ultimi decenni gli acquedotti sono stati per così dire assorbiti dalla città, che li vede ormai come semplici ornamenti di una periferia informe e intrinsecamente provvisoria anche se essa è, in realtà, una città oltre la città consolidata da tempo. Alessandro Viscogliosi nel testo “L’architettura degli Acquedotti”, contenuto nel catalogo della mostra, scrive: “quando Roma era ancora terra di sperimentazione, se non di conquista, di tutti i linguaggi architettonici mediterranei, gli architetti romani erano già famosi nel mondo come costruttori di acquedotti”. Oggi qual è il valore simbolico degli acquedotti? In qualche modo gli acquedotti si sono confusi con lo sfondo casuale di strade e di edifici perdendo la loro vera visibilità, vale a dire quell'emergenza iconica che li aveva trasformati in autentici simboli. Per questo motivo ho proposto a Stefano Todi di chiedere a questi solenni ruderi, attraverso una mostra ad essi dedicata, di riprendere il loro ruolo di protagonisti di un rinnovato immaginario urbano. Un immaginario che sembra ermetico e lontano, ma che in realtà è in attesa di ridiventare operante. La storia degli undici principali acquedotti dell’antica Roma è legata indissolubilmente a quella del territorio che circonda la città. La storia del Tuscolano come si lega a Franco Purini?

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All’inizio degli anni ’50 si stava realizzando il Tuscolano di De Renzi e Muratori. Non persi neanche un giorno di quello spettacolo suggestivo di gru, di impalcature, di travi e di pilastri che crescevano di giorno in giorno. Mi ricordo che nel 1951 in una assolata domenica di maggio partecipai all'inaugurazione del quartiere. Salivo e scendevo per le scale delle torri ascoltando i commenti degli abitati sulle cose di cui avevo appena preso possesso. Mi colpì talmente tanto la gioia che illuminava i volti dei nuovi abitanti, finalmente accecati dalla città, che decisi allora di dedicarmi all'architettura. Mi venne in mente allora che tra le case in costruzione e gli acquedotti che le fronteggiavano dovesse esserci un legame. Si trattava di un rapporto misterioso, ma al contempo evidente, che si stabiliva attraverso una sorta di trasferimento semantico dalla serialità delle arcate alle torri che delimitavano il quartiere come pilastri ingigantiti. Mi sembrava che la ragione per la quale il Tuscolano fosse lì consistesse nella presenza di quei resti maestosi, ai cui piedi si allineavano peraltro piccole case di fortuna, minacciate dai conci sconnessi delle arcate. Una galleria d’arte all’interno di un centro commerciale. L’unica in tutta Europa. Perché questa scelta? Mettere in tensione il mondo affollato e ipercomunicativo di Cincittàdue, il primo shopping mall romano, con gli acquedotti che lo osservano in silenzio, e che per più di un verso gli conferiscono l'identità che esso possiede, mi è sembrato un obbiettivo da perseguire. Un obbiettivo che a me appare importante e necessario. Spero che la mostra, nella compresenza di diversi linguaggi artistici che essa propone, permetta di raggiungerlo. Sarebbe come ricongiungere Roma moderna alla sua memoria.


double image double experience presentazione del progetto a cura di Claudia Bena foto di Luisa Carcavale e Valentina Marella

Hogre draws on the Abney park


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racconto di viaggio

Southbank centre on Via Libetta

Canary wharf in Tuscolana

contemporaneamente artisti scattano riavvolgono e spediscono creando una rete performativa in tutto il mondo load Double Image / Double Experience è un progetto fotografico internazionale nato nell’estate del 2010. L’idea scaturisce dalla curiosità e dalla continua ricerca nel campo della sperimentazione fotografica dell’artista Luisa Carcavale, dalla sua esigenza di creare un dialogo interculturale con artisti di ogni parte del mondo. In un momento storico in cui tutto si vive attraverso il digitale, il progetto cerca di sovvertire l’attuale linguaggio interpersonale di comunicazione di massa. Invece di esprimersi tramite post e chat, la pellicola diventa il mezzo attraverso il quale avviene il racconto di visioni artistiche personali, non narrate a voce, ma direttamente vissute. Si può

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definire dunque uno svecchiamento dell’antica tecnica fotografica con risultati, cromatici e semantici, avanguardistici. Con la condivisione tattile della pellicola, strumento di creazione artistica sempre più a “rischio estinzione”, si cerca di superare la freddezza dell’immagine condivisa unicamente sul web e di unire non solo lo sguardo di diversi artisti, ma anche le loro differenze geografiche e sociali, in un dialogo interculturale, che diventa una sorta di ricerca etno-antropologica fatta sugli aspetti della vita sociale e sull’espressione umana. Nel progetto è previsto l’utilizzo di fotocamere analogiche 35 mm e medio formato come le Lomo (Holga, Diana, LC-A, etc), pellicole 120 mm a vari ISO e la tecnica

della doppia esposizione. Tale tecnica è utilizzata per realizzare immagini sovrapposte. È necessario esporre la pellicola due volte, ovvero scattare due foto diverse senza riavvolgerla. È un processo che su pellicola è ottenuto con dei valori impostati manualmente, per evitare di sovraesporla, rischiando di bruciarla. Per questo è stato necessario fare una ricerca in rete selezionando artisti con una conoscenza approfondita della tecnica e tanta passione per la fotografia. Dopo un’accurata valutazione del loro portfolio, sono state create delle coppie di artisti in base alle differenze paesaggistiche dei propri paesi, seguendo i criteri base del progetto (architettura / urbanistica / ritratti).

Highbury station in Garbatella

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racconto di viaggio

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Gazometro on Amstead hill

Angel on Islington

un luogo "altro" una sintesi fra due visioni due mondi distanti che si uniscono nell’immagine fotografica

Hacney central station in Piazza Navona

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shot Il primo artista carica la fotocamera e va in giro per la propria città, ritraendo ciò che è rappresentativo dei luoghi e per se stesso, lasciando l’ultimo frame per un autoritratto. Riavvolta completamente, la pellicola è fissata con del nastro adesivo, imbustata e spedita al secondo artista, il quale la userà per imprimere a sua volta le immagini della città in cui vive. Contemporaneamente altri artisti scattano, riavvolgono e spediscono, creando una rete performativa in tutto il mondo tracciata da un’unica volontà: far parte di una performance artistica in attesa del risultato finale. Lo sviluppo e la stampa daranno vita ad un luogo “altro”, una sintesi fra due visioni. L’in-

tento è quello di creare un dialogo tra artisti per fondere le proprie personali visioni. Ogni immagine è un prodotto collettivo. Come sosteneva Becker, “ciò che differenzia un’immagine del sociale da un’immagine di valore sociologico non è il contenuto, ma la metodologia d’interpretazione ed utilizzazione di quella informazione visiva”. La fotografia, seppur fortemente attratta verso orizzonti creativi e artistici, è rimasta fedele alla propria originaria funzione informativa, documentaria e descrittiva della realtà umana.

Hanno partecipato al progetto con Luisa Carcavale: Misha Ashton, Susumu Khoda, Valentina Marella, Jorg

Richner e Valentina Cristi. Abbiamo scelto il reportage Londra/Roma delle fotografe Valentina Marella e Luisa Carcavale, che hanno raccontato le città in cui vivono confrontandone gli stili architettonici, contrapponendo l’urbanistica industriale londinese alla classicità della capitale. In seguito al successo avuto presso la libreria Altroquando di Roma, la mostra sarà ospitata a Parigi, Zurigo e Londra. È possibile partecipare al progetto inviando un portfolio di fotografie o un link dal quale visionarle. La fotografia è sempre alla ricerca di artisti che elaborano nuove visioni! contact@luisacarcavale.it luisacarcavale.it

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curiositá

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Winchester House

la strana storia della vedova Sarah testo di Simone Bracci La disperazione è un’emozione potente, drammatica, che talvolta può far compiere gesta che normalmente definiremmo inconsuete, curiose. Come insolita è la storia di Sarah Winchester, passata agli onori della cronaca per un evento che le ha regalato suo malgrado fama planetaria: la costruzione della Winchester Mystery House. Leggenda vuole che la signora Sarah, vedova ed erede delle industrie dei fucili “western”, si ritrovò con un enorme vuoto creato dal lutto familiare e con tanti soldi da spendere. In questi casi ognuno elabora la perdita nella maniera più opportuna e personale. Il metodo scelto dalla vedova fu assai particolare. Per mettersi in contatto con il marito nell’aldilà, si lasciò convincere dalla sua medium che le anime delle vittime causate dall’artiglieria Winchester l’avrebbero perseguitata, se non avesse cominciato a dar loro dimora terrena. Una storia paranormale che, partendo da una base macabra, arriva ai giorni nostri quale parabola sulla debolezza della psiche umana. L’inizio di questo strano viaggio portò la vedova a cominciare la costruzione di un enorme complesso edilizio che continuò ad ampliare

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fotografia della piantina esposta all’interno del museo della Winchester Mystery House

per trentotto lunghi anni: era il 1884 quando l’idea fermentò. Oggi la sua casa è divenuta un’attrazione turistica degna di nota, stando al volantino pubblicitario “una delle case spiritate d’America che vanta il maggior numero di avvistamenti”, suoni, rumori ed inspiegabili cali di temperatura a cui (forse) potrete assistere se sarete di passaggio nella cittadina di San Josè, in California. La superstizione verace e il terrore reale che si erano insinuati nella mente di Sarah ebbero come conseguenza la realizzazione di un progetto mastodontico. La sua tenuta, nata già come grande casa aristocratica, diventò sotto ogni punto di vista un’abitazione enorme, spropositata nella sua vastità e nella complessa architettura, fatta di corridoi e scale, camere e anticamere, salotti e passaggi segreti che rendono il mito ancora oggi molto appetibile dal punto di vista turistico e commerciale. Sono centinaia i visitatori che ogni giorno percorrono i luoghi dove ha vissuto per decenni la signora Winchester senza avere il coraggio di uscire all’aria aperta o provare a riprendere una vita che fino a quel momento le aveva regalato solo amarezze. Probabilmente,

al termine della sua esistenza, lei stessa si legò in maniera indissolubile a quelle mura, come ogni storia tenebrosa che si rispetti, intrappolata nei ricordi e nella sofferenza di una proprietà trasformata in gigantesco mausoleo, che tutt’oggi si perde a vista d’occhio nella tenuta di famiglia. Stando alla piantina e alle sue fotografie panoramiche si tratta di un complesso ampio e raccolto, asimmetrico e irrazionale, a tal punto da sconfinare nei lussuosi giardini ornamentali; un ponte da cui Sarah era decisa ad osservare il lento scorrere del tempo e sentirsi al sicuro, riparata da pareti amiche. Uno spettacolo edile sicuramente affascinante e allo stesso tempo inquietante, un luogo da visitare con lo spirito ottocentesco del timore reverenziale verso l’ignoto, alimentato dai racconti enigmatici ad esso legati. La sensazione, una volta sull’uscio, è quella di essere di fronte ad un luogo sospeso, in cui fede e mistero si sposano con la speranza di salvezza, all’interno di un labirinto inestricabile. Sconsigliamo di perdere la via d’uscita. Ritornare alla luce potrebbe rivelarsi un viaggio decisamente prolungato. una delle “scale chiuse” all’interno della casa

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il tuo inizio la mia fine testo di Francesco Zingoni

Alla fine degli anni ’70, il visionario architetto Yu Zi progettò un villaggio vacanze “retrofuturista” a Taiwan. Mai completato (a causa di misteriosi incidenti) né abitato, divenne famoso come la “UFO ghost town” di San Zhi. Francesco Zingoni rac-

il complesso residenziale di San Zhi

conta queste rovine (definitivamente demolite nel 2010) con uno spin-off del suo romanzo, "Demian Sideheart", che vede il protagonista vagare nell'isola di Taiwan, alla ricerca di una donna scomparsa.


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racconto di viaggio

Corro lungo la Fu-Hai, distretto di San Zhi. Il tramonto mi abbaglia. Mettiamo in chiaro una cosa, ragazzo: sono un vagabondo. E vivo in una casa abbandonata. Non vorrei che arrivassi fin qui e ti spaventassi. Così gracchia la voce, una chiamata a mio carico. La moto scollina sul vuoto. Il posto è in riva all’oceano, sulla punta nord di Taiwan. Ed eccolo, l’oceano, oltre le creste della foresta. Li riconoscerai subito Si, ora li vedo sono grossi baccelli metallici appesi a grappoli, scintillanti nella penombra a grappoli, come disegni di molecole o forse televisori di design anni ’60 noi occupanti le chiamiamo case-ufo. Freno davanti alla recinzione in ferro battuto, slittando sulla ghiaia. Il cancello è aperto. Il giardino appare curatissimo ed elegante. “San Zhi Luxury Residences” recita un cartello tra le bouganville. A me piace pensarle come scialuppe di salvataggio, appese agli alberi di un veliero interstellare… …naufragato sottoterra. Sì, molto romantico. Dietro il cancello, una Lamborghini Gallardo è la prima di una fila di supercar, parcheggiate sul vialetto di ghiaia bianca. Ripeto: non t’impressionare quando arrivi. Un villaggio di lusso per Raeliani in vacanza? Un po’ inquietante lo è davvero. Lascio la moto e costeggio la piscina, spettralmente illuminata da una fila di faretti subacquei. Vive in una casa abbandonata, ha detto. Forse una baracca sulla spiaggia, dietro queste lussuose case-ufo? Non ho idea del perché mi abbia cercato. Al telefono non mi ha voluto anticipare nulla, a parte il fatto di aver trovato uno dei volantini segnaletici con la tua foto. Davvero farai questo, per lei?

Sul vialetto non c'é un'anima. È ora di cena e sono tutti chiusi nelle loro eccentriche casette: dietro gli schermi retroilluminati li vedo muoversi, mangiare, ridere, versarsi da bere, immersi nel brusio rilassato della vacanza. Unica nota stonata, un signore anziano, solo, seduto con le braccia molli. La testa rugosa fuoriesce dalla camicia come una pesante appendice del collo, l’osso occipitale piatto come la nuca. Ha lo sguardo fisso sul tavolo vuoto. Si volta verso di me, mi vede, agita la mano. Ha qualcosa di inspiegabilmente familiare quest’uomo… sembra la versione maschile e invecchiata di mia madre. Mi mostra il foglio che sta fissando. Lo gira lentamente verso di me. È la tua foto. Ma non quella del volantino segnaletico: è una foto che posso avere solo io. Avverto nei timpani un lieve sfasamento di pressione. Ora devo chiudere gli occhi. Quando li riapro - forse dopo ore - vedo le rovine. È un peccato che tutto sia finito così. Ma sai, gli operai morti… e i guai finanziari… e quella “cosa”, che appariva sulla spiaggia! Ciò che vedi ora ne è l’ovvia conseguenza: lo scheletro di una civiltà futura, morta prima di aver visto la luce. I dischi sono tutti sventrati e corrosi- resti di un immane cataclisma avvenuto ieri o tra un milione di anni. La porticina azzurra si spalanca davanti ai miei piedi. È da qui che si parte? chiedo. Sì, risponde l'uomo-tartaruga. Varco la soglia. Dietro c’è un tunnel. Si curva in avanti, sempre più ripido. Sul fondo intuisco le acque scure dell’Oceano. Ne sento lo sciabordio ovattato e l’odore. Pesci d’ombra guizzano in aria, lasciandosi dietro scintille immaginarie. Il buio ha la stessa consistenza di due palpebre chiuse. Ora l’acqua gelida mi arriva ai fianchi. * * * Non è solo un sogno. Nuoto fino a cancellarmi le impronte digitali. Mentre trattengo il respiro l’apnea è accecantenelle spiagge stellari, nei mari lattei attraversiamo muri d’acqua nera- si lava via il nostro nome come sabbia Ti sto inseguendo oltre la direzione del tempo, amore mio ma ho paura che esistere e raggiungerti non possa più accadere insieme Il mio inizio, la tua fine Il tuo inizio, la mia fine

le macerie delle abitazioni

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racconto di viaggio

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particolari interni ed esterni delle case abbandonate di San Zhi

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Spomenik reportage fotografico di Jan Kempenaers jankempenaers.com

Tra il 1960 e il 1970 il governo jugoslavo del presidente Josip Broz Tito avvia la costruzione di una serie di monumenti commemorativi, detti “Spomenik”, per ricordare le vittime della seconda guerra mondiale e celebrare la forza e l’unità della Repubblica Socialista. Lontane da ogni modello architettonico, esasperate da una totale impersonalità e costruite quasi sempre in cemento armato, queste architetture sorgono nei principali siti di guerra sparsi nei territori Balcani. Il reportage del fotografo belga Jan Kempenaers è stato realizzato viaggiando da un monumento all’altro. Attraverso i suoi scatti “oggettivi” rivive la complessa rete di emozioni che circondano l'abbandono di questi edifici e ciò che un tempo simboleggiavano.










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Chiara Branca CUBA - Plaza de Armas Passeggiando nel cuore pulsante della Habana Vieja, si trova una piazza che si lascia scoprire man mano che la si percorre, come una ragazzina timida ed innamorata. Soffermatevi sui banchi di venditori di libri usati, che se convinti con chiacchiere amichevoli possono introdurvi al possesso di veri e propri tesori. Al centro del parco, si incontrano suonatori ambulanti che per 1 CUC (peso cubano convertible) vi fanno cantare e ballare al ritmo di salsa e son. Proseguendo verso il lato della chiesa, fanno capolino il mare, la muraglia e la fortezza che dà il nome alla piazza, un tempo uno dei quattro bastioni protettori del Golfo de la Habana. All’ora del tramonto approfittate dei colori piu suggestivi per godervi questo luogo denso di personalitá.

Viola Stancati DAMASCO - reggiseno e culottes Se si cammina per il souk Al-Hamidiyeh della città vecchia di Damasco, è difficile non notare le numerose bancarelle di intimo, dove una miriade di pomposi reggiseni color rosso passione vengono sventolati all’aria da venditori locali che confidano nei portafogli delle donne straniere. Avvinghiate allo stand però, sono più che altro le donne damascene, che come bambini davanti ad un negozio di caramelle si affrettano a comprare reggiseni con ferretto e provocanti culottes da poter esibire una volta tornate a casa. Perchè le mura domestiche sono quasi come uno sfogo, l’unico luogo dove tutta la femminilità può essere espressa appieno.

Bianca Di Cesare LOS ANGELES - Abbott Kinney Boulevard

l profumo e' emozione. Il profumo e' ricordo. Il profumo e' arte. Il profumo e' incontro. Il profumo e' il viaggio. E il viaggio e' fatto di profumi.

Contact:

via Vittoria, 52 - 00187 Roma (Italy) viavittoria@campomarzio70.it phone: +39.06.69922170 www.campomarzio70.it

Ecco che arriva un altro Abbott Kinney First Friday. Ogni primo venerdì del mese i negozi, le gallerie e i ristoranti della strada più “hip” di L.A. sono aperti fino a tardi. Dopo un pasto da GJelina, riservato con due settimane di anticipo, andiamo ad ammirare lo struscio. Per chi non vuole spendere troppo per mangiare, ci sono i Food Trucks, con diversi cibi serviti dai camion. In questa parte ripulita e radical chic di Venice Beach non sono ammesse grandi corporation. Al posto del famoso Pinkberry c'è un più modesto Nice Cream. Un certo snobismo verso chi vuole invadere o distruggere questo angolo di paradiso è evidente. Chissà se Abbott Kinney First Friday sopraviverà alle masse e resterà un segreto del quartiere e dintorni!

Alessandra Iodice MELBOURNE - i 12 acri di Montsalvat Dietro alberi di Eucalipto, dopo una decina di casette di legno, nel cuore di Eltham, è protetta la più antica colonia di artisti di Melbourne. Justus Jörgensen acquistò i 12 acri di Montsalvat nel 1935 e lo trasformò in un villaggio di mattoncini rossi e botteghe di pietra. Lo spirito di Montsalvant vive attraverso il costruttore di violini, l’orologiaio e tutti gli artisti che dipingono sotto i piccoli archi e sui bordi della vecchia piscina di uno degli ultimi rifugi gotici rimasti. Non è certo difficile prendere ispirazione da questo posto. La passeggiata nel giardino e i grandi finestroni di mosaico della sala principale aprono gli occhi su un piccolo mondo incantato, colorato dall’intenso blu dei peacocks, elegantissimi pavoni abitanti del posto.


curiositá

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Benjamin Beker

forme fissate nel movimento di Alexandra Rosati Nell’artista Benjamin Beker sia la vita che l’arte sono e sono sempre state in perenne movimento. Nasce a Bonn, in Germania, e cominciando fin da piccolo a far viaggiare le sue mani nel disegno segue il babbo, per metà tedesco e per metà ucraino, nei suoi spostamenti di lavoro. Vive a Hong Kong, a Singapore e in Giappone, per poi trasferirsi a Belgrado dieci anni, nella terra originaria di sua madre. Il suo interesse passa dalla pittura alla fotografia, affascinato dalla possibilità di entrare in contatto diretto con la realtà. Decide così di seguire il suo istinto, prima frequentando un corso all’Art Academy di Belgrado, laureandosi nel 2001, e poi avviando un Master, sempre in fotografia, al Royal College of Art di Londra, laureandosi per la seconda volta nel 2008. Ispiratosi principalmente all’artista visivo David Thorpe, e ai suoi collage architettonici, e ai fotografi Sophie Ristelhueber e Waalid Raad, e al modo in cui essi giocano nel rapporto tra real-

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tà e finzione, costruisce le sue prime opere un po’ come fossero Lego. I suoi Blocks infatti sono un insieme di fotografie originali, scattate alle centinaia di edifici nella Nuova Belgrado, al di là del Danubio, che decontestualizzate danno forma ad una nuova realtà. Una realtà che, seppur alterata da un gioco ‘de’ e ‘ri-costruttivo’, documenta quella vera. Su uno sfondo grigio appaiono così delle interessanti configurazioni geometriche a forma di scala, isolate e dunque messe in risalto dalla mancanza di un ambiente circostante. Ciascuna di esse è composta da tante unità, come ad esempio le finestre, che mantengono inalterato il loro colore originario. Una seconda produzione artistica di Benjamin Beker si chiama “War and Liberation Monuments”. In questa fase l’artista prende monumenti costruiti dal 1950 al 2000, in occasione di eventi diversi, e continua il suo gioco de-storicizzandoli, strappandoli al loro contesto, e ridimensionandoli. Questi lavori, come i

Blocks, hanno uno sfondo grigio, per dargli una base neutra e neutrale, anche rispetto a qualsiasi riflessione di tipo politico o ideologico. Con l’opera “Interiors of Power” abbiamo una serie di fotografie scattate all’interno degli ex edifici del governo. Costruzioni ormai abbandonate, ma nelle quali si possono trovare ancora tracce dei loro vecchi residenti. Per esempio su una sedia della Corte Bianca, immortalata in una fotografia, sono rimaste macchie rosse del colorante che Tito usava per i capelli. Un’ulteriore, arguta de-storicizzazione. Benjamin Beker ha vinto numerosi premi, come il National Magazine Award nel 2007; è stato nella rosa dei finalisti per il premio Conran, ha esposto le sue opere in diverse Gallerie, anche con mostre personali. Attualmente fa parte di una mostra collettiva che partirà da Losanna, in Svizzera, e andrà in giro per il mondo per cinque anni. Non si può che augurare, a questo ingegnosissimo artista, di proseguire per sempre il suo viaggio.

Untitled block no.1

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curiositá

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il mercato dell’Esquilino un singolare campione urbano testo e foto di Salvatore Landi Secondo l'antropologo francese Marc Augé i non luoghi sarebbero quei posti tipo supermarket, centri commerciali, autostrade e varie versioni di Disneyland che si differenziano dagli spazi antropologici intrecciati, invece, con il tessuto del territorio e con le persone che lì vivono. La sostanziale differenza è la creazione di una relazione più o meno simbolica tra individuo e spazio. A Roma c'è un quartiere che su questo rapporto ha creato un singolare campione urbano, caratterizzato da una forte presenza multietnica e in particolare da un grande mercato che trascende la mera dimensione commerciale. È l'Esquilino, crocevia di scambi economici e culturali, tra

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il centro storico e la stazione Termini, dove gli antichi porticati in stile piemontese di Piazza Vittorio ospitano esercizi commerciali della comunità cinese, dove monumenti e basiliche si alternano a edifici di era industriale, dove al posto della Centrale del Latte spunta fuori un pezzo di acquedotto romano e in un ex caserma c'è il più grande mercato multietnico della capitale. Il mercato dell'Esquilino dall'alba al tramonto diventa un mosaico di attività che coinvolge venditori, acquirenti, trasportatori, inservienti e curiosi. Un'esplosione multietnica di varietà alimentari e umane, al di qua e al di là dei banconi. Ciò che innanzitutto colpisce è quell'aria un po' anarchica

propria dei mercati nei quali sboccia una fiducia data dalla vicinanza ai venditori, a loro volta vicini ai prodotti, un'evocazione di genuinità ormai scomparsa nello sterile acquisto al supermercato o al centro commerciale. Ma la vera peculiarità del mercato Esquilino è la vastità dell'offerta: ogni reparto, dalla carne al pesce, dalla frutta alla pasta, dalla verdura alle spezie, espone prodotti provenienti da tutto il mondo. Ai nostri cibi mediterranei si affiancano quelli di colture asiatiche, mediorientali e nordafricane. Forme e colori si intrecciano, odori e lingue si confondono, un abbraccio simbolico della forte funzione sociale esercitata da questo luogo.

commercianti del mercato

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i camini delle fate testo di Maria Celeste Meschini foto di Samantha Kwok

mongolfiere sulla valle di Avcilar


racconto di viaggio

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la cittadina di Uchisar

una delle case di tufo

torri altissime e porose, funghi di roccia nuvole, guglie e primitive forme falliche sono i Camini delle Fate in Cappadocia Sono dentro ad un cestino di vimini. L'aria calda mi avvicina al sole ancora dormiente. Sopra la mia testa arcobaleni di colore che vibrano nel cielo. Palloni. Palloni colorati che fanno su e giù nell'etere dipinto di rosa. Mi affaccio dal mio cestino. Il mondo sotto ai miei piedi non è reale. Accanto a me compare Jacques Ètienne Montgolfier che mi racconta del suo primo volo. Parigi, 19 ottobre 1783. Ancorato a terra, insieme al fratello Joseph Michel, meraviglia i parigini con la loro invenzione. Quella che ancora oggi porta il loro nome. Ma io non sto sorvolando Parigi. E al mio fianco non ho lo scienziato che

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riuscì a sfruttare per primo la combustione del propano. Sono incastrata in questo sogno che si fa sempre più reale. Abbagliata da strane architetture naturali che raccontano millenni di storia. In molte cartine questo luogo non viene neanche menzionato. Non si tratta di una delimitazione politica in quanto tale, ma piuttosto di una regione storica che comprende porzioni di varie province: la Cappadocia. Nella stessa epoca in cui si formava in Europa la catena alpina, circa 60 milioni di anni fa, si formò la catena montagnosa del Tauro nell'Anatolia meridionale (al centro dell'attuale Tur-

chia). La formazione delle cordigliera del Tauro creò numerosi burroni e depressioni in Anatolia centrale. Dieci milioni di anni fa, queste depressioni sono state riempite da magma vulcanico e altri materiali provenienti dai numerosi vulcani in eruzione in Anatolia centrale, in particolare i vulcani Erciyes, Keciboyduran, Develi, Göllü Dagi e Melendiz. Gradualmente, le depressioni andarono scomparendo, trasformando la regione in un altopiano. Tuttavia, il minerale che colmò la depressione non è molto resistente all'azione erosiva del vento, della pioggia, dei fiumi e alle escursioni termiche, di modo che

all'orizzonte spunta il castello che ha reso celebre la cittadina di Uchisar, una fortezza naturale sulla sommità di una collina l'erosione è stata in grado di "scolpire" le numerose valli della Cappadocia. È Alim che mi racconta tutto questo. Con sguardo fiero punta il dito verso il basso. Il vento ci culla sopra gli innumerevoli funghi di roccia, un tempo rifugio di popolazioni eremite che scavarono le loro abitazioni nel tufo. Fin dal IV secolo a.C. queste terre incantate sono state abitate prima dagli anacoreti poi dai romani. In epoca bizantina – continua entusiasta Alim – l'intera regione si trasforma in uno straordinario universo rupestre con quasi quattrocento edifici tra chiese, case e monasteri. Torri, canyon, crepacci, pinnacoli, vil-

laggi dai colori che vanno dal rosso all'oro, dal verde al grigio. È la valle di Göreme, oggi parco nazionale e dal 1985 patrimonio dell'umanità protetto dall'UNESCO. Ed è qui che si scagliano verso il nostro continuo dondolare i Camini delle Fate. Un luogo incantato dove non c'è più bisogno della fantasia. Perchè il reale sovrasta qualsiasi immaginazione. E la migliore fiaba diventa il mio viaggio.

DETTAGLI DI VIAGGIO Göreme: cittadina di circa 2.000 abitanti si trova nella provincia di Nevşehir nell'Anatolia centrale, 12 km dall'omonima capitale Una parte della serie Guerre Stellari è stata girata nel paesaggio lunare di Göreme in Cappadocia Il villaggio di Uchisar offre un panorama unico dalla sua piazza principale su tutta la valle intorno fino ad Avanos Derinkuyu: la città sotterranea a 9 livelli nella valle di Zelve

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curiositá

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una villa sul mare

minuti di tradizionale trasgressione

l’ingresso della villa sul mare

testo e foto di Saverio Scattarelli Bari, Lungomare Nazario Sauro. Quello – per intenderci – delle scorribande in auto de La capa gira e Mio cognato. Ma anche la culla del Pensiero Meridiano e dei ricordi confusi e lucidi di Gianrico Carofiglio. Qui, tra il passaggio continuo delle auto, a poche centinaia di metri dal buco verde di Punta Perotti, c’è una villa sul mare. Nessun gorilla all’ingresso, solo un cancello di ferro arrugginito. L’arrivo degli ospiti non è controllato, anzi. Quello di un fotografo fa sorridere e, per poche decine di euro, ci si sbottona un po’. M e V si raccontano. La storia Le padrone di casa si chiamano M e V, due donne piazzate sulla cinquantina. Vestitini neri succinti. Non di Prada, non di Gucci. Più di un tatuaggio, tra quelli in inchiostro e quelli scavati nella pelle. Professione: prostitute. Stato civile: vedove con figli (e nipotini). M è la proprietaria della villa, ereditata alla morte del marito ventidue anni fa (un incidente grave con la moto). V le corrisponde un affitto mensile, ma è solo

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un gesto di riconoscenza per la condivisione della sede in cui esercitare il mestiere. “Qui nessuno ci dà fastidio. La casa è nostra”. In effetti di qui la polizia ci passa senza troppo stupore. Sono anni che la villa al mare è sede di festini, meno organizzati di quelli balzati agli onori della cronaca ma con le stesse linee guida: divertimento, piacere rubato, trasgressione. M e V guadagnano dai 200 ai 300 euro al giorno. Neanche un rimborso spese perché - in questo caso - l’ospitalità la danno loro. Del resto nelle vicinanze della villa si è sviluppata una concorrenza accanita. Tra i campi abbandonati e gli scheletri di palazzi occupati da immigrati, di ragazze ce ne sono per tutti i gusti. Ma M e V detengono il monopolio. Loro sono conosciute, fanno le cose per bene. La casa è sempre pulita e hanno una certa esperienza. Qualche volta – su richiesta – il preservativo resta chiuso nell’involucro. La droga? “Non ci interessa, noi preferiamo questo lavoro. I nostri amici poliziotti lo sanno”. L’identikit del cliente non esiste. Gio-

vani, meno giovani, anziani. Gente per bene, professionisti, sposati, single, divorziati, nonni. Spesso portatori di handicap, anche gravi. Target eterogeneo. Orari di ricevimento: dal mattino alla notte. Ci si divide il lavoro. È più di un full time. Alcuni sono abituali ed entrano come fossero a casa loro. Altri sono di passaggio. Altri ancora non sono graditi e dunque vengono perentoriamente mandati via. “Poi a volte li rivediamo per strada con le mogli, i figli” – raccontano M e V con sorriso rassegnato e con il tono di chi la sa lunga. Certo, perché dopo tanti anni se lo saranno domandate entrambe il motivo per cui, anche uomini ai quali non manca una vita apparentemente felice, si rivolgono a loro per qualche minuto di trasgressione, in una villa che non profuma di casa, in un letto dove hanno lasciato il proprio sudore migliaia di altri uomini, con due donne che sono di tutti, di tutti quelli che possono pagare 15/20 euro per un orgasmo ad ogni ora. Semplicemente qui il sesso si scambia solo col denaro. E questo non è un dettaglio.

una delle stanze della villa

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curiositá

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B.I.G. Is More un’orgia di spazi diversi testo e foto di Benedetta Marciani Una voce fuori dal coro, un approccio tutto personale verso l'architettura, che finalmente si lascia dietro limitativi dogmi accademici per riscoprirsi accattivante e - perchè no - divertente. Lo studio B.I.G. (Bjarke Ingels Group) rappresenta una ventata d'aria fresca in un dibattito architettonico che da troppi anni ormai indugia all'autoreferenzialità. Appena 37 anni per il suo fondatore, maturato tra le mura dello studio OMA di Rem Koolhaas, lo studio B.I.G. si è meritato un posto d'onore tra le Archistar per via delle numerose vittorie conseguite nei più importanti concorsi internazionali degli ultimi anni. Il loro atteggiamento ironico ed allo stesso tempo impegnato nelle cause sociali più disparate ha dato vita ad un'estetica progettuale unica, riconoscibile ma sopratutto - e qui c'è la svolta - accessibile a tutti: l'utilizzo di forme geometriche pure e l'impiego di schemi grafici semplici ed intuitivi facilita il passaggio dall'idea su carta all'edificio funzionale vero e proprio. Conosciuti soprattutto per la progettazione di unità abitative di grandi dimensioni, iniziano la loro ricerca nel quartiere di Orestad poco fuori Copenaghen. Qui sviluppano uno dei progetti che li renderà famosi al pubblico

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internazionale: 8 House, un quartiere vero e proprio concentrato in un unico edificio polifunzionale definito dallo stesso Ingels come ''il risultato architettonico di un’orgia di spazi diversi''. Attenzione particolare viene conferita in tutti i loro progetti all'impatto ecosostenibile dell'edificio; in questo caso, il concept progettuale del nastro di Moebius che avvolge i moduli abitativi rappresenta fisicamente un percorso completamente ciclabile ed allo stesso tempo una promenade verde fruibile dagli abitanti dello stabile. Approccio simile anche per il loro progetto The Mountain, scenografia del documentario sulla disciplina del parkour 'My Playground'. In questo caso risolvono l'esigenza funzionale di un lotto i cui 2/3 sono dedicati a parcheggi ed 1/3 ad abitazioni unendo le due diverse spazialità e facendole dialogare tra loro. Creano così un nuovo skyline nel quartiere principalmente pianeggiante di Copenaghen e al contempo donano ad ogni singola abitazione luce, verde ed aria fresca. Ultimi progetti ancora work-in-progress per lo studio danese sono un grattacielo residenziale a New York, il West 57, ibrido tra il classico blocco abitativo europeo ed un grattacielo, e la

Galleria D'Arte Nazionale della Groenlandia: un semplice cerchio che si adagia sul paesaggio montuoso ed evocativo di Nuuk, plasmandosi sul terreno scosceso ed aprendosi in una corte centrale catalizzatrice degli eventi artistici del museo. Il manifesto ideologico di B.I.G. si articola nel libro 'Yes Is More' curato interamente dallo studio, sia nei contenuti sia nella parte grafica: tutti i progetti sono raccontati sotto forma di fumetti, dimostrando - finalmente - che non sempre l'architettura si deve prendere così sul serio. Quindi 'Si, è Meglio' come filosofia di vita e modus operandi che si traduce nella volontà di conciliare sempre le esigenze della massa (intesa in senso lato) rendendole parte di un dialogo architettonico in continua evoluzione. In merito a questo Bjarke Ingels ama citare Darwin, guardando all'architettura come a un processo di selezione in cui sperimentare visioni contrapposte. Ed ecco che ''saranno le forze sociali ed i molteplici interessi individuali a decretare quale delle nostre idee potrà sopravvivere. Così le superstiti si evolveranno verso un'architettura nuova''. big.dk

progetto grafico della Galleria D’Arte Nazionale in Groenlandia (foto di archivio per concessione dello studio B.I.G.)

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arte

il Giardino dei Tarocchi testo e foto di Claudia Bena

Un pomeriggio d’estate mi sono inoltrata nel bosco toscano, e vagando mi sono imbattuta in un luogo fuori dal tempo e dallo spazio, una realtà altra racchiusa da spesse mura, un giardino misterioso. Al suo interno i ventidue Arcani maggiori dei tarocchi marsigliesi sono rappresentati sotto forma di grandi e colorate sculture, e fontane e specchi e parole completano un quadro di per sé già meraviglioso. Come nei sogni, qualcosa mi sembra fortemente conosciuto, qualcos’altro terribilmente nascosto. Vedo Bomarzo e Parc Guell a Barcellona, sento Breton e tutta la sua carica surrealista. Quello che segue è il racconto di ciò che ho visto, che ho sentito e che ha risvegliato nel mio inconscio l’incontro con una dimensione a me finora sconosciuta. A parlare non sono io, ma le carte stesse.

Il Carro, l’Arcano numero VII, il più attivo dei numeri dispari. Il suo scopo è direzionare consapevolmente proprio questa esplosione. Attraverso il giardino si realizza infatti la grande forza creatrice di Niki, che sopravvive alla sua morte, avvenuta nel 2002. Le ruote, che sembrano immobili, sono in realtà strettamente connesse al movimento del pianeta. Non si spostano, ma girano insieme alla terra. Rappresenta la ricerca alchemica, un percorso iniziatico, lo stesso che siamo invitati ad intraprendere attraverso questa esperienza. E così proseguo, uscendo dalla dimensione abitabile delle sculture del giardino, a vagare tra gli Arcani, lasciandomi cavalcare dalla mia più profonda soggettività. È il sogno più colorato che abbia mai fatto, uno strumento potente di proiezione.

C’è una donna alla mia sinistra. È l’Imperatrice, il terzo degli Arcani maggiori. Questa carta invita a trasformare la propria fortezza in un tempio, come sintesi della creazione dell’universo. Ed è proprio ciò che rappresenta, perché una donna, Niki de Saint Phalle, ha voluto abitarla e spalancare le sue porte al mondo, rendendo visibili le proprie emozioni. Ogni sentimento, anche il più basso, attraverso lei acquista valore. “Che meravigliosa tristezza! Che collera potente!”. Madre e amante, padrona e prostituta, bellezza ed abbondanza, produce affinchè l’umanità intera raccolga i suoi frutti. La sua esplosione creativa necessita però di un limite concreto che la indirizzi. Per questo al suo interno Niki ha voluto portare con sé un’altra carta.

Mi sono fermata a meditare con l’Appeso, ho visto la Giustizia e la Torre. Non ho temuto davanti all’Arcano senza nome che con la sua falce miete teste, mani e piedi dalla terra. La carta XIII non indica la morte come termine del viaggio, ma trasformazione, rivoluzione. Attraverso la sua accettazione passa la via per la saggezza. Solo così si arriva all’ultimo Arcano, il Mondo. “Forte come una leonessa, altera come un’aquila, materna come una mucca e soave come un angelo”, così Italo Calvino descrive questa carta, che racchiude in sé i quattro simboli degli Arcani minori e che rappresenta la gioia suprema, che è la gioia di vivere. Al tramonto finisce il viaggio, il grande cancello circolare si chiude alle mie spalle e ritorno nel mio mondo con una nuova, profonda consapevolezza. l’entrata a L’Imperatore – carta NO. IV all’interno del giardino ideato da Niki de Saint Phalle. Capalbio (GR)

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antropologia

1970

testo di Gianluca Bernardo e Elena Adorni foto di Elena Adorni A casa ho una vecchia pubblicazione della metà degli anni settanta dove si parla della città di Roma e della sua incontrollata espansione urbanistica. È uno di quei libri stampati con pochi soldi. Copertina in cartoncino ad un colore, foto in bianco e nero all'interno. “Roma Ovest lungo il Tevere”, si chiama. Lo apri e dentro c'è un mondo intero, bello e amaro come certe verità che è meglio mettere via. Pagina dopo pagina si schiude tutto un brulicare di prati ingialliti, palazzoni in costruzione, poche e improbabili macchine dal sapore autenticamente proletario, vialoni deserti e ancora scorci di campagna romana prima del disastro, casali da ristrutturare e restituire, nei sogni degli autori, alla cittadinanza, verde da “sottrarre al profitto” (c'è scritto proprio così!). Una città irriconoscibile e persa per sempre. La mia. Chiudo il libro ed esco di casa. Non è facile descrivere il dolore alla vista di un nuovo cantiere. Le ruspe che sventrano la terra, il cemento che cola. Da qualche parte un palazzinaro di Roma ha la sua quota. Gli utili della sua società crescono. Nel resto della città, invece, un'altra fetta di paesaggio è sottratta alla gente, ai lavoratori, agli anziani, agli studenti. Le persone si ritrovano via via a vivere in uno squallido non-luogo, dove non c'è nessun legame tra l'abitare, il provenire e l'appartenere. Niente radici, niente futuro. Profitto per pochi e miseria per gli altri, con buona pace per i bei discorsi. I palazzinari romani degli anni '50 e '60 hanno risparmiato fino all'ultima lira per poter intascare utili maggiori. Ogni ettaro di campagna doveva fruttare il massimo. Palazzi brutti, progettati da oscuri architetti o peggio direttamente dai geometri, nessuna cura, nessun senso estetico, massima razionalizzazione e una palese assenza di scrupoli. Tanto poi a vivere sulla Tuscolana o sulla Tiburtina non ci dovevano certo andare loro. Peggio della peggiore architettura sovietica e senza neanche la blanda scusante ideologica della ricerca del bene collettivo; un utilizzo scel-

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lerato del bene più prezioso di cui disponiamo: la terra. E che cos'è l'uomo senza la terra? Prima dei palazzi, su Viale Marconi c'erano i prati e in fondo, sulla riva del fiume, degli enormi canneti che nascondevano la spiaggia da cui s’intravedeva, sola nella campagna, la mole della Basilica di San Paolo. A chi devo chiedere per riavere indietro tutto questo? E se vi diranno che le case servivano, che la gente non poteva certo vivere sotto i ponti, che i cantieri hanno dato lavoro a centinaia di migliaia di padri di famiglia, non credetegli. Non è vero. È la stessa gente che parla da sempre di guerre giuste e che quando torna a casa, la sera, si giustifica dicendo che il mondo, tanto, va in questa direzione e non si può fare altrimenti. Tutto, invece, poteva e doveva essere fatto diversamente. Le abitazioni sarebbero sorte nel rispetto del paesaggio, come facevano i contadini e gli artigiani che hanno costruito i borghi, o gli urbanisti dei quartierigiardino come la Garbatella. La città sarebbe divenuta un ecosistema felice, forse il migliore al Mondo, con una moderna simbiosi tra uomo, storia e natura. Le poche porzioni di paesaggio integro rimaste, invece, sono oggi rinchiuse nei parchi, visitate come si fa con un animale raro in uno zoo, “tutelate” come i nativi nelle riserve. Di tanto, ammettiamolo, ci siamo allontanati dalla nostra unica madre, veri e propri figli idioti di un Novecento popolato da ogni sorta di orrore e che sembra non dover finire mai. Mi chiedo se esisterà mai una rivoluzione tanto radicale, violenta e risolutiva da riuscire a riportarci indietro, a prima della catastrofe. Me lo chiedo e chiudo gli occhi. E all'improvviso vedo gli uccelli sugli alberi, tra le rovine dell'Acquedotto Felice, i pascoli sotto Monte Mario, i bambini che corrono sui prati di Porta Portese, il sole che illumina i resti della Tangenziale, abbattuta. a pagina 65 via Tiburtina – Roma. Maggio 2011


150 - omaggio ai perdenti

Napoli a cura di Claudia Bena

singoli scatti realizzati in pellicola del Palazzo Reale in primo piano la statua di Vittorio Emanuele II di Francesco Jerace

Il 7 settembre 1860 Napoli aspetta Garibaldi. Orfana del suo re, il quale ha preferito ritirarsi piuttosto che vedere il popolo combattere, è già pronta ad accogliere il rosso esercito dei Mille, mentre sarà restia a lasciarsi conquistare da Vittorio Emanuele II. Palazzo Reale prepara il suo balcone affinché tutti i napoletani possano ascoltare la voce del generale. Di fronte la chiesa di San Francesco di Paola, eretta da Ferdinando I per la restaurazione, sta a guardare. Ad aprirgli le braccia la stessa piazza nella quale i Borbone organizzavano la cuccagna, che tanto inorridì il marchese De Sade nel suo “Voyage d’Italie”. Perché questa città è un paradiso, ma non è certo per puristi. La sua non è una bellezza immediata, ma cresce di giorno in giorno, di vicolo in vicolo. “Questa è Napoli, dove i monumenti, ancora più che per sé stessi, valgono nel miscuglio della tradizione storica, dell’aneddotica, della vita locale” diceva Guido Piovene nel suo di Viaggio in Italia. Quella che si trova davanti Garibaldi è la quinta città europea per popolazione, la più grande d’Italia, sede della prima università laica, ma nello stesso tempo così carica di tradizioni cattoliche.

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Il sacro ed il profano che la avvolgono in un unico meraviglioso intreccio trascinano nella propria trama anche lui, l’ateo, dirigendolo alla cattedrale di San Gennaro per sapere benedetta la sua missione con lo scioglimento del sangue del santo. Qui si conclude l’impresa dei Mille. Quando il 7 novembre entra in città il futuro re d’Italia le camice rosse non ci sono più, una nazione si sta formando sui cadaveri dei patrioti che per lei hanno combattuto, mere pedine delle mire espansionistiche piemontesi. E qui inizia la questione meridionale, con i pregiudizi che si porta dal nord la futura classe dirigente ed il trasferimento del potere in Piemonte prima e a Roma dopo, passando per Firenze. A Napoli si sente tutto, niente ti scivola addosso. La cosa più importante è guardarsi dal velo di retorica che appanna la vista a chi ancora non sa osservare. Scriveva Goethe nel 1787: “a Napoli non si vuole che vivere; si dimentica sé stessi e l’universo”. Un quarto di puro sangue napoletano mi basta per sentirmi così ogni volta che il mio treno si ferma alla stazione centrale. continua su thetripmag.com

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Marco Lafiandra coroflot.com/marco_lafiandra Roof of Barcellona Marco Lafiandra nasce a Bari nel 1983. Consegue la laurea specialistica in Disegno Industriale nel 2009, presso l’Università di Roma La Sapienza. Frequenta, durante il suo ultimo anno di studi, il Politecnico di Valencia. Attualmente vive e lavora a New York come designer. Durante gli anni di studio approfondisce i suoi interessi attraverso numerose esperienze parallelamente nel campo della fotografia e del design. La sua ricerca interessa diversi settori, con la consapevolezza che l’evoluzione progettuale è frutto di una paziente ricerca, una giusta sintesi e una buona dose di cuore. "Abituato ad osservare comportamenti – ci racconta Marco – non ho mai avuto una grande attitudine per i paesaggi. Ma osservando una vista del genere, dalla cima del monte Carmelo a Barcellona, credo fosse impossibile non cogliere la connessione tra uomo e città". "What is a great depth of field if there's not an adequate depth of feeling?" Eugene Smith

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