the trip magazine n°13

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the trip N째13 autumn 2012 The Lion of Central Asia Pushkar / Wadi Mujib Tornado Alley / Palermo Alain Robert thetripmag.com



EDITORIALE

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DICOTOMIE Piccole e grandi storie per trovare le parole adatte a completare un disegno nero, che racconti il male. A volte è talmente scuro che diventa quasi facile catturarlo, come ha fatto la nostra Francesca Cao inseguendo l’oro nero in Kazakistan. A volte invece è talmente impercettibile che diventa faticoso riconoscerlo, nascosto dietro una pietra boliviana che ti fa precipitare lungo un cammino fascinoso. Ma il più delle volte è solo l’interpretazione che tu stesso decidi di dare alla tela, controllando l’aggiunta di ogni pennellata fumosa. Negazione. Estrapolazione. Divisione. Una stessa entità spaccata in due parti non necessariamente esclusive ma complementari. Dicotomie di storia tese a raccontare il medesimo luogo. Perché di certo c’è solo la consapevolezza che nulla è fermo ma tutto si trasforma. Di continuo. E su quella tela scura cominciano a gettarsi schizzi di luce che completano il tuo male. La trama del dipinto che apre il numero 13 di the trip si trova a trentotto gradi Nord e quattordici gradi Est. Uno scoglio di appena dieci chilometri quadrati in mezzo al mar Tirreno. Filicudi, la seconda isola più piccola dell’arcipelago delle Eolie, fino agli anni Settanta era l’unica completamente indipendente. I quasi tremila che la abitavano, sfruttando la ricca terra dei sette crateri spenti, avevano costruito terrazzamenti dalla cima fino al mare per coltivare di tutto. In un’Italia che cavalcava il boom economico, Filicudi rimaneva l’ultimo baluardo di un vivere ormai dimenticato e disprezzato dal resto del paese. Inevitabilmente il processo iniziato nella penisola raggiunse anche queste acque. I ragazzi si stufarono di passare le loro giornate sporcandosi le mani e cominciarono ad abbandonare l’isola. La piccola oasi svuotata della sua forza lavoro si ribattezzò come repubblica del turismo, e così è ancora oggi. Ma in questo passaggio successe qualcosa. Nel 1971 Pietro Scaglione, procuratore di Palermo, venne assassinato dalla mafia. Lo stato reagì con la cattura di quindici boss e decise di spedirli, come si faceva negli anni Venti, proprio a Filicudi, tappa prescelta come confino coatto per criminali di ogni tipo. Dopo tanti sforzi per stare al passo con i tempi, i filicudesi organizzarono barricate con le barche per impedire lo sbarco ma dopo giorni vissuti all’addiaccio scelsero la via della resistenza passiva abbandonando completamente l’isola. Rimasero solo i militari e i quindici boss, isolati dal mondo, senza mezzi di sostentamento, senza cibo né acqua, senza servizi igienici né luce elettrica. Le giornate di Filicudi rappresentano la prima rivolta contro la mafia e contro lo stato, costretto da soli duecentocinquanta isolani a rivedere le sue scelte e trasferire infine i capi mafia all’Asinara. “Nessun uomo sceglie il male perché è il male; lo scambia solo per la felicità, per il bene che cerca”. Un concetto, quello di Mary Wollstonecraft, che danza in un mare burrascoso e troppo spesso dimenticato. Valentina Diaconale

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Motoring di Laurie Lipton - charcoal & pencil on paper - 75,5 x 100 cm (2009)

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SOMMARIO

02 editoriale

06 eventi dal mondo

12 Portland

Alain Robert

16 Namibia

22 i baba indiani

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56 Sodoma & Gommorra

63 Italia / chi ci crede ancora

66 Fabio Ghioni

33 The Lion of Central Asia

tornado

ayahuasca

20 le catacombe di Palermo

Venezuela

el camino de los yungas

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l’elegia del male

68 Alexander McQueen

64 THE NEXT TRIP IL TEMPO scrivi a info@thetripmag.com i migliori reportage saranno pubblicati sul prossimo numero

REDAZIONE the trip N°13 autumn 2012 direttore responsabile Valentina Diaconale valentinadiaconale@gmail.com direttore editoriale Lorenzo Verrecchia lorenzoverrecchia@thetripmag.com direttore artistico Andrea Bennati info@andreabennati.com responsabile redazione Francesca Rosati redazione Claudia Bena, Simone Bracci, Anna Mastrolitto e Paolo Valoppi photo editor Martina Cristofani responsabile web Veronica Gabbuti coordinatore tecnico Damiano Mencarelli responsabile marketing Luca Salice lucasalice@thetripmag.com editore the trip s.r.l. via Apollo Pizio 13 - Roma

centro stampa Pignani printing via degli Imprenditori snc Zona industriale Settevene – Nepi (VT) sede legale via Gasperina 188 - Roma sede redazione via Apollo Pizio 13 - Roma Registrazione Tribunale di Roma n. 329 del 6 ottobre 2009 hanno collaborato Fulvio Benelli, Mirta Brignone, Alessandra Corbi, Daniele D’Angelo, Davide Fracasso, Marianna Kuvvet, Serafino Murri, Carolina Pozzi, Alexandra Rosati, Pietro Salvatori, Dario Tecchio

foto Luca Baldi Filippo Barbieri – iloyoli.net Gerald Bruneau – blackarchives.it Francesca Cao – francescacao.com Monica Forss Francesco Iervolino Azli Jamil – fb: Azli Jamil Photography Alessia Laudoni – alessialaudoni.com William T. Reid – stormbruiser.com Paolina Sturni – paolinasturni.com David Tratting – subsquare.at/visual La foto in copertina è di Francesca Cao L’illustrazione dell’editoriale è di Laurie Lipton laurielipton.com contatti info@thetripmag.com thetripmag.com

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EVENTI DAL MONDO a cura di Francesca Rosati

SEGNALACI ANCHE IL TUO

HALIFAX (CANADA) 16 – 20 OTTOBRE HALIFAX POP EXPLOSION HPX è un festival internazionale di musica che presenta centocinquanta artisti in una ventina di location a più di ventimila fan ed esperti del settore provenienti da tutto il mondo. L’evento, nato nel 1993, è oggi uno dei più importanti del paese e si rivolge a un pubblico differenziato proponendo talenti vecchi e nuovi di diversi generi, dall’hip hop al punk, dal folk all’indie rock. halifaxpopexplosion.com

NEW ORLEANS (STATI UNITI) 26 – 28 OTTOBRE VOODOO EXPERIENCE Totalizzante, creativo, stimolante. Il suo motto è worship the music (venera la musica), e in effetti ha qualcosa di mistico e spirituale. Voodoo è meta obbligata per gli amanti dell’arte grazie alle sue live performance, le installazioni mastodontiche, i giochi di luce, le parate e tante altre attività. Artisti di fama mondiale con esperienza anche al Burning Man vi partecipano ogni anno. thevoodooexperience.com

TORINO (ITALIA) 8 – 11 NOVEMBRE #C2C12 Con due preview a ottobre a Londra e Milano, Club to Club propone ancora una volta esclusive nazionali e internazionali, eventi innovativi e più di cinquanta artisti visionari provenienti da tutto il mondo. Dove: teatri barocchi, centri d'arte contemporanei, club, spazi post industriali, piazze storiche, quartieri creativi. Quando: nella settimana in cui Torino ospita anche ARTissima, Luci d'Artista, e Torino Piemonte Contemporary Art. clubtoclub.it

TOKYO (GIAPPONE) 10 – 11 NOVEMBRE DESIGN FESTA Uno degli edifici più strani di Aoyama, il quartiere di Tokyo conosciuto per le fashion house, i ristoranti, i negozi e i locali, la sede centrale del Design Festa sembra un diorama industriale a ragnatela, e al suo interno si districa appunto una ragnatela di opere d’arte creative, innovative e bizzarre, spettacoli teatrali, esibizioni culinarie (il sushi è squisito) e sfilate. designfesta.com

scrivi a info@thetripmag.com

COPENAGHEN (DANIMARCA) 1 – 11 NOVEMBRE CPH:DOX Il Festival Internazionale del Documentario di Copenaghen è l’evento scandinavo più importante nel suo genere. Ogni anno riempie le sale cinematografiche della città con una selezione di più di duecento documentari provenienti da tutto il globo. L’obiettivo è quello di sostenere film indipendenti e innovativi e presentare le ultime tendenze del cinema non-fiction, di quello artistico e di quello sperimentale. cphdox.dk

mari del sud

TRAVELLING AROUND MUSIC MADEIRADIG FESTIVAL MADEIRA (PORTOGALLO) 30 NOVEMBRE – 3 DICEMBRE CAIRNS (AUSTRALIA) 10 – 16 NOVEMBRE ECLIPSE 2012 Sette giorni a metà novembre, con un’eclissi solare totale la mattina del 14. La città di Cairns sarà la prima e l’unica regione abitata dove la notte prenderà per qualche secondo il posto del giorno. Con una line-up di dj e artisti di spicco, workshop, mercatini, stand culinari e un’area per le cure alternative, il festival si svolge in una zona incontaminata, luogo di riti di iniziazione della tribù Kuku Yalanji. eclipse2012.com

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PAULINIA (BRASILE) 12 – 14 NOVEMBRE SWU SWU, starts with you – começa com você, è un movimento a favore della sostenibilità che vuole sensibilizzare il maggior numero possibile di persone, dimostrando che le piccole azioni quotidiane possono contribuire a rendere questo pianeta un mondo migliore. L’evento, rigorosamente a impatto zero, ospita alcuni dei dj più rinomati, tra cui Sven Väth, Frankie Knuckles e James Murphy. swu.com.br

NANTES (FRANCIA) 15 – 17 NOVEMBRE NUITS DU JAZZ Appuntamento imperdibile della vita culturale occidentale, il festival Notti di Jazz si svolge nell’arco di due serate, una riservata alle imprese del settore, l’altra aperta al grande pubblico. A esibirsi, i più grandi: Craig Adams, pianista e cantante di New Orleans, Catherine Manandanza, per un incontro tra opera e jazz, Fabien Ruiz, il coreografo di The Artist, per un numero incredibile di tip tap... nuitdujazz.com

foto di Alessia Laudoni

Alcuni festival vengono vissuti e ricordati soprattutto come eventi sociali, altri come rivelazioni. Tra questi il Madeiradig International Music Festival, che dal 2004 trasforma durante i primi giorni di dicembre l’isola di Madeira nella culla della cultura digitale. Il verde, il mare oscuro e il cielo intenso fanno da scenario a un festival d’avanguardia nel campo dell’arte digitale. Un discorso sulla musica e l’arte digitale trattato sotto diversi punti di vista dagli artisti coinvolti.

Il centro nevralgico del festival è lo spazio artistico Casa das Mudas Art Centre, un locale immerso nel bosco di Laurisilva, classificato dall’UNESCO come Patrimonio Mondiale Naturale. Il punto d’incontro degli artisti e di coloro che decidono di vivere il festival al cento per cento è l’Estalagem da Ponta do Sol, un hotel situato su una selvaggia scogliera a picco sul mare. Una chicca tra i festival di nicchia per l’ambiente e la qualità della line-up. Tra gli artisti che hanno partecipato nelle passate edizioni: Carsten Nicolai, Murcof, Ben Frost, Fennez, Vladislav Dealy, Agf e Jamie Liddel. Tra gli artisti in programma per l’edizione 2012: Biosfera, Oren Ambarchi, Jana Winderen, Escultura, Palmer Eldricht +p.ma., ZNGR Electroacústica Ensemble + ErikM. Anche

il clima dell’isola e i prezzi dell’evento invogliano a organizzare un weekend nel mezzo dell’Oceano Atlantico in un periodo dell’anno in cui, mentre nel resto d’Europa piove e fa freddo, a Madeira si ha la possibilità di godere delle temperature primaverili. Chi ha vissuto il festival lo descrive come il punto d’incontro ideale per farsi trasportare, grazie alle sonorità esoteriche, in luoghi dai quali non si ritorna piú come prima. Ogni viaggio ha i suoi ricordi, ma Madeira è un isola che non permette di dimenticare neanche un istante delle emozioni vissute. Madeiradig: un festival per riflettere. Madeira: un luogo nel quale perdersi e incontrarsi. madeiradig.com Anna Mastrolitto travellingaroundmusic.com

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INTERVISTA

ALAIN ROBERT alainrobert.com Conosciuto in tutto il mondo come The Human Spider, Alain Robert, arrampicatore francese, ha scalato cento delle strutture più imponenti del pianeta. Arrestato più volte con l’accusa di procurato allarme, compie le sue imprese senza l’aiuto di corde e imbragature. Dall’età di dodici anni, Alain ha fatto dell’arrampicata urbana la sua ragione di vita e adesso, dopo aver compiuto cinquant’anni, non ha nessuna voglia di fermarsi.

l’homme araignée di Paolo Valoppi e Daniele D’Angelo QUANDO HAI INIZIATO A SCALARE? È stato nel 1975 e non era un palazzo, bensì pareti rocciose. Ho iniziato ad allenarmi sulle falaises, le scogliere in prossimità di Valence, in Francia. Da una parte c'era l'Ardeche, dall'altra il Vercors. Era un terreno propizio per arrampicarsi.

QUAND AVEZ-VOUS COMMENCÉ À FAIRE DE L'ESCALADE? C'était en 1975 et ce n'était pas un bâtiment. J'ai commencé à m'entraîner sur les falaises à proximité de Valence, en France. D’un coté il y avait l'Ardèche, de l'autre le Vercors. C'était un terrain propice pour l'escalade.

QUINDI POSSIAMO DIRE CHE HAI INIZIATO A SCALARE IN NATURA? Sì, in effetti la prima volta che ho scalato un edificio è stato piuttosto accidentale. Avevo dimenticato le chiavi a casa dei miei genitori e così, senza tornare a riprenderle, ho

ON POURRAIT DIRE QUE VOUS AVEZ COMMENCÉ À GRIMPER EN NATURE? Oui, en effet la première fois que j'ai grimpé un bâtiment c’était plutôt pas hasard. J’avais oublié les clés de la maison où habitaient mes parents; j’étais obligé de grimper

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INTERVISTA

scalato il palazzo fino al settimo piano; avevo circa undici anni, era nel '73 o nel '74.

l'immeuble jusqu'à au septième étage. A l’époque, j'avais à peu près onze ans, c’était en 1973 ou 1974.

C'È STATA UNA VOLTA IN CUI HAI AVUTO PAURA? In realtà non c'è stata una volta in cui ho avuto più paura. Durante questi trent'anni ho avuto paura abbastanza regolarmente, ma per me aver paura non ha una connotazione negativa.

QUAND AVEZ-VOUS EU PLUS PEUR? En fait, il n'y pas eu vraiment une fois ou j'ai eu le plus peur. Pendant trente ans, j'ai eu peur assez régulièrement, mais pour moi avoir peur ça n’a aucune connotation négative.

ALLORA CAMBIO LA DOMANDA: QUAL È STATA LA VOLTA PIÙ PERICOLOSA? La volta più pericolosa è stata quando ho scalato Pol Pot, una via rocciosa nelle Gorges du Verdon. Per quanto riguarda gli edifici, invece, è stata la Sears Tower a Chicago. Il suo vero nome è Willis Tower ed è stato l’edificio più alto del mondo fino al 1998.

ALORS, ON CHANGE LA QUESTION. C'ÉTAIT QUAND LA FOIS LA PLUS DANGEREUSE? La fois la plus dangereuse c'était quand j'ai escaladé Pol Pot, un parcours rocheux dans les Gorges du Verdon. À propos des bâtiments, c’était la Sears Tower à Chicago. Son vrai nom est Willis Tower, la plus haute du monde jusqu’en 1998.

SEI STATO ARRESTATO DIVERSE VOLTE CON L’ACCUSA DI PROCURATO ALLARME, QUAL È IL TUO RAPPORTO CON LA POLIZIA? Dipende dai paesi. In alcuni stati i rapporti sono molto buoni. A Mosca, per esempio, il commissario della polizia ammirava molto ciò che facevo. Mi ha offerto un bicchiere di vodka e ho capito subito che avevamo fatto amicizia (ride). Negli USA, invece, sono spesso duri e molto stronzi.E posso affermare che in tutti i paesi anglosassoni i poliziotti sono ostili e fiscali. Questo vale per gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e anche per l'Australia dove, ad esempio, sono stato interdetto dal territorio. In quei paesi sono quadrati e stronzi, stronzi e quadrati, quadrati e stronzi...

VOUS AVEZ SOUVENT ÉTÉ ARRÊTÉ PAR LA POLICE, ACCUSÉ DE PROCUREUR ALARME. VOTRE RAPPORT AVEC LA POLICE, COMMENT ÇA SE PASSE T-IL? Ça dépend du pays, il y a des pays où les rapports sont très bons. À Moscou, par exemple, le commissaire de police admirait beaucoup mes enterprises. Il m’a même offert un verre, et j'ai compris qu'on était devenu copains (il rit). Au contraire, aux Etats-Unis ils sont souvent durs et cons; je dirais que dans tous les pays anglo-saxons les flics sont hostiles et intransigeants. C’est pareil aux Etats-Unis, en Grand Bretagne et aussi en Australie, où actuellement j’ai l’interdiction du territoire. Ils sont cons et carrés, carrés et cons, cons et carrés, voilà.

E NEI PAESI ORIENTALI? Lì sono spesso il benvenuto, hanno un’ottima organizzazione. Sono ricevuto ufficialmente da uomini politici molto importanti, numeri uno, primi ministri, eccetera. Ecco, direi che come tipo di accoglienza è decisamente differente.

ET À PROPOS DES PAYS ORIENTAUX? Souvent je suis le bienvenu, ils sont bien organisés. Je suis reçu officiellement par les politiciens plus importants, par les têtes du gouvernement, par les Premiers ministres et les ministres. Voilà, je dirais que l’accueil est tout à fait different.

HAI GIÀ DEI PROGETTI PER IL FUTURO? Ho sempre dei progetti per il futuro, perché l’arrampicata è una passione, si, ma è anche il mio lavoro, ed è cosi che mi guadagno da vivere. Rispondo alla domanda affermativamente. Domani potrei essere in Vietnam, in Cina... insomma, ovunque nel mondo!

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QUELS SONT VOS PROCHAINS PROJETS? J'ai toujours des projets parce que grimper c'est ma passion mais aussi mon job, c'est comme ça que je gagne ma vie. Demain je pourrais être au Vietnam, en Chine… un peu partout sur la planète!


Dal 1978, Ben&Jerry’s conquista i palati dei più golosi grazie a gelati buoni davvero, perché nati rispettando il concetto di sviluppo finalizzato a raggiungere obiettivi di miglioramento economico, sociale e ambientale. Difendere il delicato equilibrio di Madre Natura è molto importante per il brand, come dimostrano gli sforzi compiuti per cercare di ridurre l’impatto ambientale della propria filiera. Perché un pianeta più caldo fa sciogliere prima il gelato! A Ben&Jerry’s, lo sapete, piacciono tutte le idee che contribuiscono a rendere il mondo un posto migliore e a difendere il benessere dell’ambiente. Per questo, sicuramente, gli amici di Ben&Jerry’s apprezzeranno quanto fatto a Portland con il Burnside Skate Park...

BURNSIDE skateboarding is not a crime

di Francesca Rosati foto di Malcolm Lee (esty.com/shop/makerunion) Lo skate non è solamente uno sport. È un modus vivendi che influenza molteplici aspetti della vita di una subcultura giovanile, dall’abbigliamento alla scelta dei luoghi da frequentare, dall’aggregazione sociale alla musica. La vita dello skater non è stata sempre facile: ha conosciuto salite e discese (oltre a quelle percorse sulle ruote) dovute alla preoccupazione per la sicurezza e alle diverse recessioni economiche degli ultimi quarant’anni. Ma nella scena street e underground il movimento non è mai morto, semplicemente perché troppo eccitante per abbandonarlo. Gli appassionati di tutto il mondo chiedono da sempre luoghi adatti e sicuri dove poter volteggiare con lo skate, perché le strutture a disposizione sono sicuramente poche e meno servite rispetto a quelle di altri sportivi, come i campi da calcio nel nostro paese o quelli da basket in America. Nell’estate del Novanta, mentre il movimento skater veniva accusato di atti di vandalismo e le piste erano quasi tutte illegali, il Dreamland Team di Portland

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(Oregon) decise di progettare il Burnside Skate Park. Con la velocità come mestiere, i ragazzi costruirono il circuito in pochi giorni, senza permessi e attrezzature adeguate, sotto il Burnside Bridge, in un ex parcheggio noto come “Hobo Camp”, solitamente frequentato da prostitute, tossicodipendenti e senzatetto. L’area non veniva mai controllata dalle autorità, per questo il Dreamland Team ne approfittò per costruire rampe e ostacoli. Nonostante fosse stato costruito senza autorizzazioni, il Burnside Skate Park fu in seguito legalizzato, sostenuto e riconosciuto come parco pubblico dal Comune di Portland. Burnside è un esempio concreto di azione positiva, che desidera “Ridare indietro alla comunità”, come sostengono i nostri amici di Ben&Jerry’s. La sua crescita e la sua evoluzione, passando per il sudore di una manciata di dediti individui, si è concretizzata in uno dei migliori skatepark del globo. La descrizione che appare sul sito è senza dubbio la più esauriente: “Come una lente d’ingrandimento sotto al sole, Burnside è testi-


mone di una concentrazione di abilità che non si riscontra da nessuna altra parte. Puoi vedere cose davvero folli lì. Vai, guarda, impara, sii umile, eccitato e ispirato. È sorprendente”. Gus Van Sant, nativo di Portland e appassionato di skate, nel 2006 ha scelto di girare qui il suo pluripremiato e apprezzatissimo “Paranoid Park”, tratto dall’omonimo romanzo di Blake Nelson, e presentato l’anno dopo a Cannes. L’immaginario Eastside Skate Park, detto appunto Paranoid Park, era stato anch’esso costruito illegalmente dagli stessi skateboarder. Il film racconta di un adolescente che uccide per sbaglio una guardia, ed è un’introspezione lenta e intimista, alla Gus Van Sant. In un primo momento i frequentatori del Burn-

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side guardarono la pellicola con sospetto, preoccupati che il film potesse offrire una visione distorta del park. Perché la pista, invece, oltre a essere diventata tra le più ambite e difficili del settore, ha permesso di riqualificare la zona. La quotidiana frequentazione degli skater, infatti, ha portato una riduzione sensibile della criminalità e un miglioramento generale della vita sociale di quella parte della città. Il progetto, nato con funzione principalmente ricreativa, ha conquistato anche una certa risonanza internazionale: i creatori del parco, come dei veri e propri pionieri, hanno dato vita al modello degli skatepark costruiti dalla comunità, fenomeno ormai diffuso in tutti gli Stati Uniti, a dimostrazione che

quelli visti in passato come luoghi di perdizione possono invece diventare strumento di riqualificazione di luoghi marginali. Perché molto spesso sono le piccole azioni a permetterci di raggiungere quei traguardi e obiettivi che possono farci sentire meglio. Questa la filosofia di Ben&Jerry's, la stessa pensata e adottata dai ragazzi del Burnside Park di Portland. skateoregon.com facebook.com/benjerryitalia twitter.com/benjerryitalia benjerry.it

nelle immagini: l’ex parcheggio noto come Hobo Camp sotto il Burnside Bridge, oggi skate park. Portland (Oregon)


RACCONTO DI VIAGGIO

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sabbie di quarzo e polvere d'ocra

Seduta nel fuoristrada guardo le grandi dune nel deserto del Namib. Non ne ho mai viste di così rosse. Sabbie di quarzo che tendono sino al viola. Hanno delle forme dolci e armoniose, si muovono e cambiano aspetto grazie al vento. CI FERMIAMO PER SCALARE LA DUNA 45, LA PIÙ FOTOGRAFATA AL MONDO. PRENDE IL NOME DAL QUARANTACINQUESIMO CHILOMETRO DELLA STRADA CHE PORTA DA SESRIEM A SOSSUSVLEI, che ricorderò per il caldo e la grande fatica nel percorrerla. Fatica premiata una volta arrivata in cima grazie agli scatti che le dune, gli alberi anneriti, le loro ombre e i giochi di colori mi hanno permesso di portare a casa. Il giorno seguente il gruppo si divide, io colgo la possibilità di prendere un piccolo Cessna a quattro posti per arrivare alla città di Swakopmund, sulla costa. La vista dall'alto è unica. Una dopo l'altra ci lasciamo alle spalle, con gli occhi

estasiati, le imponenti dune colorate. Ognuna di loro forma disegni fatti di curve e linee, semplici ed eleganti. Questo spettacolo della natura mi fa dimenticare solo per qualche istante che sto volando su di un aereo grande quanto un Apecar, tra l’altro guidato da un ragazzo forse appena maggiorenne. Mi distrae dal pensiero un'ondata di freddo, il deserto finisce tragicamente a strapiombo sull'oceano. Abituata all'assenza di ogni forma di vita, ecco che una concentrazione di migliaia di otarie riunite sul bagnasciuga mi fa tornare alla mente la macchina fotografica. Il pilota comincia a guardarsi freneticamente intorno, come se ci fosse un problema al velivolo. In pochi secondi mi immagino ogni disgrazia possibile. Apre il finestrino dell'aereo e inizia a sbracciarsi, mentre un altro Cessna ci supera volando a pochi metri da noi. I piloti volevano solo salutarsi… Siamo a Swakopmund, recente cittadina turistica fondata dai tedeschi nel

1892. È abitata maggiormente da bianchi e artisti, e frequentata da numerosi turisti in cerca di tessuti, pietre semi-preziose o diamanti. Abbiamo poco tempo e andiamo via. A Cape Cross incontriamo altre otarie; a Walvis Bay, un attivo porto peschereccio e commerciale, avvistiamo fenicotteri e pellicani a volontà. Poi decidiamo di affittare dei quad nel deserto e giochiamo a inseguirci come bambini. Il tempo di stuzzicare qualcosa e poi tutti a letto, sprofondiamo in un sonno profondo. Ma manca qualcosa. È ormai una settimana che percorriamo spazi enormi, in auto e per almeno cinque ore al giorno. Suggestive pianure sconfinate. Gli incontri con gli animali selvatici sono tutti emozionanti, i paesaggi mi lasciano senza fiato come poche volte sono rimasta nella mia vita. Ma c'è ancora qualcosa che non mi soddisfa. Inizia a crearsi un vuoto dentro e mi si legge negli occhi. Dov'è la gente? Voglio conoscere chi abita questi luoghi.

testo e foto di Paolina Sturni paolinasturni.com

PAESE NAMIBIA / VISTO NON È RICHIESTO PER I CITTADINI ITALIANI / VACCINI NESSUNO / COSA MANGIARE LE OSTRICHE DI SWAKOPMUND € 1.50 L'UNA. LA TORTA DI MELE PIÙ BUONA D'AFRICA, NEL BAR SOLITAIRE, VICINO A SESRIEM QUASI 3 ETTI, € 2. BILTONG, STRISCE DI CARNE SECCA € 1 L'UNA / CONSIGLI GUIDARE CON PRUDENZA, O CON UNA GUIDA, SOPRATTUTTO NEL DESERTO

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RACCONTO DI VIAGGIO

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relitto nel deserto della Skeleton Coast

La fortuna è dalla mia. In questi giorni ho legato molto con la nostra guida namibiana, Charles, esperto e amante di ragni velenosi e scorpioni dai morsi mortali. E, soprattutto, persona dal cuore grande. Per mostrarmi la periferia mi propone di svegliarci alle quattro del mattino, sacrificando le poche ore nelle quali poteva riposarsi prima di mettersi alla guida. Usciamo dall'albergo con il buio, e una volta fuori dal centro passiamo nel quartiere residenziale della città: lussuose ville con piscine e giardini si susseguono in viali verdi e alberati. Dopo poco giungiamo alla meta, in realtà vicinissima al punto di partenza. Non ci sono altre auto, ma centinaia di persone camminano nel senso opposto. Ragazzi e uomini indossano tute blu dirigendosi verso le fabbriche. Bambini in uniforme bianca si apprestano a raggiungere le scuole. Vedendo le baracche di legno e cartone da dove escono mi stupisco di come siano tutti così curati. I vestiti

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puliti e stirati, i capelli delle femminucce acconciati con fermagli colorati o treccine di ogni genere. Parcheggiamo e cominciamo a camminare tra le loro case. Charles mi insegna alcune semplici parole in afrikaans per salutare e presentarmi alla gente. All'inizio mi guardano sospettosi. Una volta spiegato loro dal mio amico che sono lì per conoscerli e, solo con il loro consenso, per fare delle foto, mi dimostrano con enormi sorrisi la loro felicità. NON C'È ELETTRICITÀ E PRENDONO L'ACQUA DAI POZZI PAGANDOLA CON DEI GETTONI CHE SI VENDONO IN CITTÀ. Hanno poco spazio e le casette che sembrano volare via alla prima folata di vento sono piccolissime e sovrappopolate. C'è una scuola nido che permette a tutti i genitori di andare al lavoro. La maestra ci invita a entrare, fiera del lavoro che conduce con questi bambi-

ni. Ne parla come fossero tutti figli suoi. Nonostante la povertà, questa scuola è curata nei minimi particolari. Un posto solare e allegro, pieno di disegni e di alfabeti colorati sui muri. Contigua alla scuola c’è la sua casa, pochi metri quadri dove vive con i suoi veri sei figli e la madre sessantenne. Spiega che preferisce dedicare lo spazio alla scuola, troppo piccola per tutti. In un paese grande tre volte l'Italia ma con una densità di popolazione pari a neanche tre abitanti al chilometro quadrato, il mio viaggio in macchina si trasforma in un percorso introspettivo e di riflessione. Passiamo nella regione del Damaraland, anche questa semi desertica e arida. Ci fermiamo sulla strada per conoscere gli abitanti di un piccolo villaggio sulle colline, appartenenti al gruppo etnico dei Damara. Uno di loro con un accenno d’inglese ci spiega come vivono. Dice che qui la terra appartiene alla gente e che molte aree sono tutelate e

protette. Ci presenta Johanna, sua nonna, che a ottantaquattro anni si sveglia all'alba per portare al pascolo il gregge. Di fronte a noi c’è una Mazda verde acceso che l'uomo confessa non usare mai e un carretto attaccato a una coppia di asini. Ridendo dice che è un Kalahari Ferrari, il Testarossa del loro deserto. È il momento di un infuocato tramonto che rimarrà indelebile nei miei ricordi. Il giorno dopo percorriamo la Skeleton Coast e i suoi paesaggi struggenti. Numerosi relitti d’imbarcazioni arenate e scheletri di animali. Incontriamo struzzi, orici, springbok, iene e sciacalli. Arriviamo a Opuwo, nel Kaokoland, in uno dei villaggi popolati dagli Himba, una tribù primitiva di pastori semi-nomadi, dove caramelle e farina sono il nostro lasciapassare. Bambini che giocano, donne che allattano. Indossano i loro vestiti tradizionali, gonne di pelle e sandali di cuoio. Il loro corpo è ricoperto da grasso e polvere d’ocra per proteggersi dal

sole e dagli insetti, e che li caratterizza per il colorito rosso e l'odore acre. A ogni età cambiano le acconciature e i gioielli. Collane, cavigliere e bracciali fatti di ferro, cuoio e grandi conchiglie della Skeleton Coast. Si respira un'atmosfera di quiete surreale, di pace e tranquillità. Con la mia Nikon mi sento di troppo. LE DIFFERENZE CON LA NOSTRA CIVILTÀ SONO TANTE, GLI HIMBA VIVONO PASCOLANDO IL BESTIAME PER RICAVARNE IL LATTE, RACCOGLIENDO IL GRANO, GLI UOMINI CACCIANO E LE DONNE HANNO LA POSIZIONE DI COMANDO. Trascorrendo del tempo nel villaggio, noto a malincuore che molte cose sono cambiate anche per loro. I bambini mi chiedono gli occhiali da sole e se li mettono per gioco, alcuni di loro conoscono addirittura la parola money, le donne indossano bracciali di plastica colorati e anelli di una cultura visibilmente

diversa, regalati loro da qualche turista di passaggio. Mi spiegano che ormai alcuni uomini si recano in città a lavorare per guadagnare dei soldi e comprarsi bevande alcoliche. Non è forse ingiusto che io sia lì allora? Il loro mancato contatto con la nostra cosiddetta civiltà gli ha permesso di vivere in pace da sempre, mentre ora qualcosa sta cambiando. Allora cos'è giusto e cosa sbagliato? Chi è il ricco e chi il povero? Dov'è il male e dov'è il bene? Sull'aereo per Roma ripenso a queste domande, e mi dico che tutto è relativo, che bisogna accettare il prossimo anche se diverso, perché potrà capitarti, un giorno, che un bambino di otto anni alla periferia di una piccola cittadina della Namibia ti dia una grande lezione di vita.

in apertura: dune nel deserto del Namib

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CURIOSITÀ

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SOTTO PALERMO

una morte assurda è preferibile a una vita assurda di Pietro Salvatori foto di Monica Forss Una credenza popolare ortodossa vuole che agli onori degli altari della chiesa d’Oriente possano ergersi solamente coloro il cui corpo sia rimasto integro dopo la sepoltura. Fu così che uno dei primi provvedimenti che assunse Lenin per demolire la sovrastruttura religiosa della grande madre patria russa fu quello di scoperchiare le tombe dei venerati dal popolo, per dimostrare la fallacità di una bizzarra credenza antiscientifica. In Italia il buon Vladimiro fece tappa, ma si fermò a Capri. Se fosse sceso nella barocca e porporeggiante Palermo, forse la storia delle Repubbliche Socialiste dei Soviet avrebbe preso un’altra direzione. Merito (o colpa, fate voi) dei frati cappuccini, che dal 1500 coltivano l’usanza di seppellire i morti en plein air. O meglio, con un soffitto sulla testa, ma senza quel pratico involucro di legno che ha reso così accettabile la consunzione dei corpi nelle società contemporanee. Una lunga, macabra e aspra teoria di ossa, in uno strano e allegorico gioco di simboli sacri che da sempre hanno

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stuzzicato la fantasia dei profani. Luoghi che farebbero un figurone in un capitolo del melmoso e intricato Pendolo di Foucault di Umberto Eco. Ma sarebbero anche l’ideale per i roboanti complotti alla Dan Brown. E se il convento dei Cappuccini di Roma è il famosissimo monito alla caducità dei fuochi fatui della via della Dolce Vita, più affascinanti ancora sono le catacombe della capitale sicula. I cunicoli palermitani si raggiungono addentrandosi per le navate della chiesa che li sovrasta. Un’aspra ironia della storia ha voluto che, ancor prima che i frati creassero il proprio macabro caleidoscopio di cadaveri, il luogo consacrato fosse dedicato alla Madonna della Pace. Ma le ottomila salme ricordano piuttosto l’inesorabile e inutile guerra contro il passare del tempo, a cominciare da frate Silvestro, il cui cranio pestato spunta da sotto il saio dando per primo il benvenuto all’avventore. E guarda la scritta apposta da un tecnico burlone, garante delle normative comunitarie: Allarme Antincendio.

Superato l’impatto che più che al mistero della morte rimanda agli scheletri danzanti di Nightmare Before Christmas e agli enigmi di Monkey Island, la cupa allegria della girandola di ossa si infrange incrociando il (non) sguardo della piccola Rosalia Lombardo. Aveva due anni quando il suo corpo fu mummificato e, fra gli ultimi, posto a riposare nel fresco della cripta. Aveva due anni, le guance paffute incorniciate da boccoli castani e da un fiocco rosa. E si risale a respirare una boccata della tumida aria cittadina, con in testa un motivetto agrodolce…

Devoto come un frate cappuccino con gli amici del mattino chi me lo preparerà mi chiedo ora che cosa ne farò dei tuoi capelli d'oro volati sul comò (Brunori Sas)

il convento dei cappuccini a Palermo, nel quartiere Cuba, annesso alla Chiesa di Santa Maria della Pace

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PAESE INDIA / VISTO È NECESSARIO, SIA PER TURISMO SIA PER AFFARI, E VA RICHIESTO ALL’AMBASCIATA D’INDIA A ROMA O AL CONSOLATO GENERALE INDIANO A MILANO CON CONGRUO ANTICIPO RISPETTO ALLA DATA DEL VIAGGIO (MINIMO 7 GIORNI) / VACCINI NESSUNO / TRASPORTI NUOVA DELHI – PUSHKAR IN AUTOBUS NOTTURNO CON POSTI LETTO (PRENDETE IL MATRIMONIALE SE NON VOLETE DORMIRE DENTRO UNA BARA!) 50 RUPIE (€ 1 CA.) / DOVE DORMIRE A PUSHKAR: MAMA LUNA GUEST HOUSE 600 RUPIE (€ 12 CA.) CONTRATTABILI / CONSIGLI DALLO SAVRITI TEMPLE SI PUÒ AMMIRARE LA VISTA PIÙ BELLA DI TUTTA PUSHKAR

a casa del baba testo di Mirta Brignone foto in apertura di Azli Jamil (fb: Azli Jamil Photography) Quando si sente parlare di viaggio spirituale non si può far a meno di pensare all'India. Vengono in mente i primi figli dei fiori, che negli anni Sessanta partivano con la corona di margherite in testa per cercare loro stessi sulle montagne o nei deserti indiani. Quest’immagine mi faceva sorridere. Trovavo alquanto banale e scontata l’idea di andare in India per cercare qualcosa, spesso senza sapere nemmeno bene cosa. Mi sono dovuta ricredere. L'India è un paese talmente intenso e pieno di sfaccettature che è difficile non rimanerne colpito e tornare radicalmente cambiato. E non solo per la povertà evidente di cui si sente tanto parlare e che, onestamente, io non chiamerei così. Loro non sono poveri, sono semplici. Sono semplici d'animo e questa purezza fa sì che non siano sempre alla ricerca del consumo, della perfezione o del denaro. Quello che hanno se lo fanno bastare. Danno poca importanza all'acqua calda o all'elettricità e molta alla famiglia, alla religione, alla loro terra. Mother India, come la

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chiamano loro, è la prima che va rispettata e venerata. L'INDIA È UN POT-POURRI DI COLORI, ODORI, PERSONE E RELIGIONI TUTTO BEN MESCOLATO E COTTO A FUOCO LENTO, MOLTO LENTO, FORSE TROPPO PER LE PERSONE OCCIDENTALI, ABITUATE A NON STAR FERME UN ATTIMO. Vivono diversamente da noi, nel loro caos cittadino e nella pace delle montagne, dove tranquillità e spensieratezza d'animo sono sempre presenti. Dopo un mese e mezzo passato nel Nord del paese, toccando Rishikesh e Hardiwar e poi spostandoci nel Rajasthan, ci siamo fermate nella magica Pushkar, la città più sacra di questa regione. È una cittadina piccolissima costruita intorno a un lago sacro artificiale che viene riempito dai monsoni ogni anno tramite delle dighe. Si trova all'inizio del deserto rajasthano, ma è situata nel bel mezzo di una catena montuosa che la rende ancora più incantata. È l'unico posto in

tutta l'India ad avere un tempio di Brahama, il dio creatore, uno degli dèi più importanti dell'Induismo. La leggenda narra che la moglie di Brahama, Savitri, offesa dal comportamento del marito, ordinò di non costruire altri tempi oltre a questo in suo onore. E così fu. La religione in India è ovunque. Le canzoni, le rappresentazioni teatrali, i balletti raccontano le divinità e le loro storie magnifiche fatte di guerre, principesse, demoni e sortilegi. Ci sono rappresentazioni degli dèi in ogni casa: di cartapesta, legno o creta nelle più umili, di marmo, bronzo o argento in quelle più ricche. Quotidianamente gli indiani invocano Shiva per festeggiare, brindare o anche solo per salutarsi. Hanno fede, ma non sono politeisti come pensa la maggior parte delle persone. Dio è uno, ma viene rappresentato in maniere diverse in tutto il mondo, e così anche loro lo rappresentano in milioni di forme diverse. L'importante è avere un credo, e scegliere sempre la strada più pulita perché è quella che ti accompagnerà

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Kolkata

per tutta la vita. Il famoso karma. E così ho trovato la via pulita anche io. Dopo quasi venti giorni a Pushkar, Pachota, il mio amico baba mi ha chiesto di partire con lui per una settimana. Ho accettato titubante, perché molte sono le storie di baba che si approfittano degli occidentali chiedendo soldi o favori. Siamo partiti di mattina presto, camminando per una decina di chilometri in mezzo alle montagne, attraversando piccoli villaggi, per arrivare a casa di un altro baba, Aloo Baba. Aloo vuol dire patate, e infatti Aloo Baba mangia solo questi tuberi da non so quanti anni. La sua era per metà casa e per metà tempio, il tutto ricavato scavando dentro una roccia, e circondato da un deserto secco e arido. Siamo rimasti qui per quasi una settimana. Si dormiva per terra all’aperto, l'acqua bisognava andarla a prendere al pozzo con i balti, i secchi, e la luce non serviva; al tramonto,

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dopo l'ennesimo mantra cantato, si faceva il fuoco, si preparava da mangiare (ovviamente solo vegetariano), e per le dieci di sera si dormiva sotto le stelle. La sveglia era alle quattro. Il tempo di un chai e poi si meditava fino all’alba. QUESTO, SPIEGANO I BABA, È L'UNICO MODO PER RICEVERE TUTTA L'ENERGIA DEL SOLE, SVEGLIANDOSI E ANDANDO A DORMIRE CON LUI, SURYA, IN MANIERA CHE IL CORPO E L’ANIMA NON SIANO IN RITARDO E QUINDI PIÙ LENTI E STANCHI. Il resto della giornata si trascorreva dando da mangiare agli animali, come ad esempio ai numerosi pavoni che ci venivano a fare visita, facendo yoga, ma soprattutto pulendo e curando il tempio. Molte persone dai villaggi vicini venivano a far visita ai baba, spesso portando offerte, patate soprattutto, oppure solo per passarvi un po' di tem-

po, giocando, cantando o suonando, oppure semplicemente chiedendo consigli. Lì la maggior parte delle persone non parlava una parola d'inglese, e così il mio hindi è migliorato molto. Annotavo tutto su un taccuino per poi ripeterlo. Ma quello che ho davvero appreso è la loro filosofia di vita. Non serve che te la spieghino, la vivi insieme a loro. I baba, con i loro lunghi capelli e barbe, vestiti d'arancione, vivono di tranquillità, di semplicità, di natura e di religione. Lasciano la casa (spesso sono nomadi infatti, non come Aloo Baba), la famiglia, tutti i beni, e vivono senza soldi, perché non ne hanno bisogno: la terra può dare a un uomo tutto quello che gli serve per sopravvivere. Così vivendo, e rispettando animali e natura, cercano di tornare alle origini dell’essere umano. La loro è una scelta, una scelta di rinuncia dei beni materiali per elevarsi spiritualmente e per purificare la

Durga Pooja, Kolkata

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Superdrycliners, Udaipur

loro atma, l'anima. Sono persone molto rispettate per la loro scelta di vita, ma anche per la grande energia che emanano. Vivendo con i baba ho imparato molto. Tutto quello che dai per scontato nella nostra realtà lì non esiste più, e la cosa più sorprendente è che ti accorgi di non averne veramente bisogno. Non c'è stato un momento di sconforto o di stanchezza, nemmeno una volta ho pensato: ma un bel letto comodo? Una doccia? Un piatto o una forchetta? Siamo noi che ci siamo abituati a oggetti superflui per comodità, pigrizia, o sviluppo (anche se più che sviluppo mi sembra un imbarbarimento) e dando importanza a questi beni materiali ci siamo allontanati da valori come la famiglia, i rapporti umani, la connessione con la nostra persona e il rispetto per la terra. Come mi disse Pachota, ci sono quattro elementi che mandano avanti il mondo, e voi in Occidente non siete

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più in contatto con nessuno di questi. Non toccate la terra, portate le scarpe e metri di cemento vi separano da essa. L'acqua dalla sorgente passa attraverso chilometri di tubi o viene imbottigliata in plastica e venduta prima che vi arrivi in mano. L'aria che respirate non è più pura, ma inquinata dalle macchine e fabbriche che avete costruito. Il fuoco, tu non lo sapevi neanche fare un fuoco quando sei arrivata qui. Ed è tutto vero e ti fa pensare. Perché l'uomo occidentale scappa al mare o in montagna in villeggiatura? Perché ha bisogno di stare vicino a questi elementi, e così inconsciamente nei suoi pochi giorni liberi dal lavoro cerca quel benessere che solo il contatto con la terra può dare. Non so se chiamarlo viaggio spirituale o lezione di vita, ma so di aver compreso e sentito cose che hanno cambiato me stessa e la mia visione. Ho una serenità d'animo che mi rende più sicura e feli-

ce. Ho voglia di ritornare a vivere con gente che ride anche se non ha niente, e ti sorride sempre anche se non ti conosce. Ho voglia di tornare dalle persone che mi hanno fatto capire tanto. IL GIORNO CHE SONO ANDATA VIA, ALOO BABA MI DISSE: TU ADESSO TE NE VAI, MA VEDRAI CHE TORNERAI, PERCHÉ ORMAI HAI CAPITO DI COSA HAI BISOGNO. Nel mio scetticismo occidentale ho sorriso, prendendo questa frase un po' sottogamba, ma effettivamente dopo soli due mesi sono di nuovo in partenza.

immagini interne di David Tratting subsquare.at/visual


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PAESE VENEZUELA / VISTO NON È RICHIESTO PER I CITTADINI ITALIANI / VACCINI NESSUNO / COSA MANGIARE LA HALLACA, UNA SPECIE DI PASTA SFOGLIA DI SOIA CHE AVVOLGE UN IMPASTO DI CARNE DI MANZO, MAIALE, POLLO E NOCI. SQUISITO! / CONSIGLI CARACAS È UNA CITTÀ PERICOLOSA. È PREFERIBILE NON GIRARE PER STRADA DOPO LE 17 E NON FERMARSI AL SEMAFORO ROSSO PER EVITARE DI ESSERE ASSALITI

il richiamo del diavolo di Dario Tecchio (darioegabri.too.it) foto di Luca Baldi L’aeroporto è una striscia di asfalto e terra battuta, senza torre di controllo né servizi. C’è un bar con qualche panchina e due banchetti che vendono le solite cianfrusaglie. Non potendo atterrare i grossi aerei, il flusso di turisti non è eccessivo, e conseguentemente non servono grandi strutture ricettive e men che meno strade, auto, ristoranti. Si va a piedi o in barca, in mezzo alla natura. Saliamo in barca, attraversiamo la laguna di Canaima e ammiriamo le numerose cascate che la circondano. Poi a piedi attraversiamo delle zone sabbiose che fiancheggiano il Rio Charrao. Salia-

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mo su rocce levigate di granito, ancora qualche piccola cascata e arriviamo al Salto el Sapo: per proseguire bisogna passare sotto un costone da cui è praticamente impossibile venire fuori asciutti. Per fortuna il clima è caldo e ventilato. Continuiamo la nostra camminata tra torrenti, foreste, salite sulle rocce e scorciatoie. Sono un po’ stanco e inizia a piovere. È un acquazzone, ma si va avanti. La nostra guida è una ragazza venezuelana, Aña, che mastica un po’ d’inglese. A chiudere c’è un altro ragazzo venezuelano, dai caratteri somatici indio, con un coltello e un machete. Fi-

nalmente smette di piovere e in pochi attimi siamo già asciutti. Tutt’intorno c’è una natura florida e rigogliosa: CURIOSO È L’EFFETTO DELLE IMMENSE DISTESE DI SABBIA ROSA E PRATI VERDI, AI PIEDI DEGLI IMPONENTI TEPUY, FORMAZIONI MONTANE CON LE CIME PIATTE. Si sente solo il rumore del Rio Charrao che ci accompagna col suo colore rosa. Aña dice che non possiamo fermarci. Il tramonto arriverà presto. Prima si rideva e si scherzava, ora solo qualche parola. Nulla di più. Ci fermiamo

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in una piccola spiaggia dove ci aspettano due giovani ragazzi venezuelani con una barchetta scoperta e con tutti i nostri bagagli. Partiamo contenti per esserci finalmente seduti dopo circa tre ore e mezza di marcia, ma ricomincia a piovere. Un quarto d’ora, mezz’ora, un’ora e non smette. A un certo punto il motore fa le bizze, borbotta un po’ e si spegne. I due ragazzi, armati di un semplice cacciavite, cercano di sistemarlo. Nel frattempo piove sempre più forte, le gocce diventano sempre più grosse, ormai siamo tutti zuppi e rassegnati. Inizia a tramontare il sole e piove, piove, piove ancora. Si riparte, ma siamo ancora troppo lenti. Aña non nasconde un po’ di preoccupazione. Le chiediamo quanto manca, ma è da un’ora che risponde solo “Fra dieci minuti arriviamo”. A TRATTI IL RIO CHARRAO SI RESTRINGE E DAVANTI A NOI NON SI VEDE CHE QUALCHE METRO D’ACQUA. I RAMI DEGLI ALBERI INVADONO IL LETTO DEL FIUME, INCONTRANDOSI IN QUALCHE PUNTO QUASI A FORMARE UN SOFFITTO. Ogni tanto la barca è costretta a manovre d’emergenza perché la pioggia ingrossa il fiume e alimenta le rapide. Ho freddo. Guardo gli altri. Nessuno parla più. La ragazza di fronte a me sta tremando, non so se per il freddo o per la tensione. Io quasi non riesco a tenere gli occhi aperti per la violenza delle gocce sul viso. Finalmente arriviamo. Ci fermiamo in un’altra spiaggetta con grossi massi di granito e sabbia rosa. E continua a piovere. Ognuno prende il proprio bagaglio e ci incamminiamo. La pioggia finalmente smette e termina il lungo tormento. Raggiungiamo l’accampamento Aonda quando ormai è buio pesto. Ci appare davanti una tettoia costruita con pali di legno e qualche mattone, senza pareti e senza letti. Sì, perché qui si dorme in amaca. Tutti assieme. Solo i bagni sono divisi per uomini e donne. Le docce? Tubi di plastica con acqua piovana. Nulla più. A cena ci sediamo tutti intorno a un’unica

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tavola. Che dire? Sono contento. Contento della fatica che abbiamo fatto per arrivare fin qui e del tragitto sotto la pioggia. Contento di questa grande capanna, contento che tutto è spartano e nel rispetto della natura. Non desidero e non sento il bisogno di una doccia calda, del buffet e di tante altre cose, qui sicuramente inutili. È ora di coricarsi, siamo stanchi morti. È da stamattina alle quattro che siamo in piedi. Prima però diamo un’occhiata a un venezuelano che dorme in amaca, per vedere come si è sistemato. Cerchiamo di fare lo stesso per non svegliarci il giorno dopo con le ossa anchilosate. Penso che stanotte la passerò in bianco, nessuno di noi è abituato a dormire in un’amaca... Zzzzzzzzzzz… Canta il gallo. Mi alzo, guardo alle mie spalle verso la foresta e vedo l’Ayantepui. Una meraviglia. Fa un effetto strano avere a pochi metri un massiccio così imponente. Le pareti rocciose sono a picco sulla foresta e la vetta, un po’ coperta dalle nuvole, è quasi completamente piatta. PENSATE CHE QUESTA MONTAGNA HA UNA SUPERFICIE DI CIRCA SETTECENTO CHILOMETRI QUADRATI, COME L’ISOLA MARGARITA. IL SALTO ANGEL SI GETTA PROPRIO DA QUESTA VETTA CHE IN LINGUA PEMÒN SIGNIFICA MONTAGNA DEL DIO DEL MALE. Il Salto Angel, l’Auyantepui e la zona circostante sono posti entro i confini del Parque Nacional Canaima, il secondo parco nazionale più grande del Venezuela. Quest’area protetta occupa una superficie di trentamila chilometri quadrati e si estende a Est e a Sud verso il confine con il Brasile, abbracciando gran parte della Gran Sabana. Facciamo colazione, andiamo verso la spiaggia sul Rio Charrao, saliamo sulla curiara e risaliamo il Rio Churun, fino all’isola Ratoncito. Qui scendiamo e inizia la camminata in mezzo alla foresta. All’inizio il percorso è semplice poi s’inerpica sempre più. Il cielo quasi non si

vede da quanto è fitta la vegetazione. Gli alberi e le piante ci opprimono: cespugli con foglie grandi come una ruota di un autocarro, radici che creano trabocchetti, foglie taglienti come lamette e le famose formiche 24 ore, chiamate così perché, se ti pungono, provocano un febbrone per circa ventiquattro ore. Proseguiamo fino al Mirador Laime, un affioramento posto proprio davanti al Salto Angel. Alzo gli occhi ed eccola: la cascata più alta del mondo. 979 metri. È il salto ininterrotto più alto del mondo. 807 metri, sedici volte quello delle cascate del Niagara. L’ACQUA PRECIPITA DAL CAÑOÑ DEL DIABLO, NELLA PARTE CENTRALE DELLA PARETE ROCCIOSA, E ARRIVA GIÙ ORMAI RIDOTTA A PULVISCOLO.

Parque National Canaima

In sommità ci sono ancora un po’ di nuvole, la cima s’intravede solo per brevi intervalli. Arriviamo ai piedi di una piccola cascata a circa duecento metri dai piedi del Salto Angel. Forma una vasca dove ci si può bagnare tranquillamente, o appollaiare sulle rocce rosa ad ammirare lo spettacolo. Qualcuno si lascia massaggiare dall’acqua che cade. Tutt’intorno qualche aquila volteggia con impercettibile movimenti d’ali. Il giorno dopo ci prepariamo per il rientro. Man mano che ci avviciniamo alla Laguna di Canaima il gruppo rallenta, qualcuno si ferma, altri si siedono su una roccia. Leggo nei loro volti una certa amarezza. Spesso ci volgiamo indietro come se ci fosse qualcosa che ci chiama, qualcosa che ci riconvoca. Poi si riparte, ma siamo lenti. La stanchezza? Non penso, all’andata è stata più dura, e nessuno si è fermato. È la cascata. Quella magica cascata del Salto Angel che precipita dall’Auyantepui. La nostra anima, il nostro spirito e la nostra coscienza non se ne vogliono separare.

in apertura: Auyantepui, la Montagna del Diavolo (Venezuela)

Salto Angel

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The Lion of Central Asia

reportage fotografico di Francesca Cao francescacao.com









The Lion of Central Asia Quando è stata la prima volta in Kazakhstan nel gennaio del 2008, Francesca Cao ha potuto costatare le ingiustizie subite dagli abitanti della steppa. Mentre una parte della popolazione combatte contro enormi difficoltà, ve n’è un’altra che gode dei proventi del petrolio vivendo nel lusso più sfrenato. L’autrice ha sentito la necessità di fotografare il grande contrasto che l’improvviso potere economico ha causato in questo paese, creando da un lato una città mirabolante come Astana, ma dimenticando dall’altro quella grande parte del paese che ancora vive in condizioni di povertà, subendo le conseguenze di terremoti e inondazioni senza ricevere l’aiuto del governo. Francesca Cao sta attualmente cercando un editore interessato alla pubblicazione dell’intero progetto fotografico “Il Leone dell’Asia Centrale”, curato dalla sua photo editor Arianna Rinaldo.

biografia di Francesca Cao Francesca Cao è nata a Norwich nel 1981. Dopo la laurea in filosofia nel 2005, ha lavorato come assistente del fotografo Mauro Galligano fino al 2006, quando ha lasciato Milano per seguire un corso di fotogiornalismo presso l'International Center of Photography di New York, dove ha vissuto per due anni. Nel 2008 ha vinto il premio Tierney Fellowship con il progetto “Oil business in Kazakhstan”, lavoro esibito nel 2009 al New York Photo Festival. Nello stesso anno Francesca è stata selezionata per la sezione Descubrimientos del PHotoEspaña e ha partecipato all’Eddie Adams Workshop. Ha pubblicato su importanti testate estere e italiane e i suoi lavori sono stati esposti a Milano, Madrid, Valencia e New York.

Francesca Cao was born in Norwich in 1981. After the degree in philosophy in 2005, she worked as assistant for the photoreporter Mauro Galligani until 2006, when she left Milan to attend the photojournalism course at the International Center of Photography in New York, where she lived for two years. In 2008 she won the Tierney Fellowship award for her project “Oil business in Kazakhstan”, which she had exhibited in the 2009 New York Photo Festival. In the same year Francesca was selected in the Descubrimientos section of PHotoEspaña and attended the Eddie Adams Workshop. Her works have been published on the most important Italian and foreign newspapers and magazines, and have been displayed in Milan, Madrid, Valencia and New York.


CURIOSITÀ

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LOS YUNGAS pedalando sulla strada più pericolosa al mondo di Davide Fracasso viaggionelmondo.net La domanda di solito è perché. Per curiosità, un pizzico di incoscienza, adrenalina, o tanta voglia di vedere dal vivo quella che è considerata a tutti gli effetti la strada più pericolosa al mondo. Chi è interessato a percorrerla solitamente parte da La Paz e - si spera - torna nella capitale, a meno che non sia interessato ad andare verso Nord e il poco agevole confine brasiliano. I modi più comuni per percorrere il cammino sono due: o in veicolo, ma è il mezzo che meno consiglio oltre che il meno sicuro, o in bicicletta e qui la cosa si fa interessante. Questo pezzo infatti è diventato quasi luogo di culto per il cicloturismo in quella che è una vera e propria strada di leggenda ahimè nera. Vediamo la storia. El Camino de los Yungas è una strada stretta, sterrata, senza parapetti, con la montagna da un lato e il burrone

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dall’altro, spesso attraversata da una fitta nebbia. Rinominata strada della morte, è un percorso di cinquantasei chilometri che si snoda lungo le Ande. Perdono la vita nel tentativo di raggiungere Coroico da La Paz (o viceversa) dalle duecento alle trecento persone all’anno, quasi sempre per l’uscita di strada del veicolo, a volte per cedimenti del terreno. Lungo la via ci sono le croci a testimoniare il luogo che ha visto il più grande incidente stradale avvenuto in Bolivia, che risale al 1983, con oltre cento persone decedute. Chi l’ha percorsa in auto sostiene che a ogni curva sembra di volare giù. La via è un saliscendi impressionante, con un’atmosfera tra l’emozionato e il teso, viste le aspettative, ma in sé l’esperienza della bici è molto bella, unica nel suo genere anche se durissima, per

le salite e le discese e per l’umidità che non fa prigionieri. Il consiglio, oltre naturalmente di percorrere il tratto solo se ve la sentite e di non partire per Coroico se siete terrorizzati, è di non farlo da soli, di informarvi bene a La Paz su tutti i dettagli e di prendere l’avventura con il giusto spirito adrenalinico ma evitando spacconerie. La modalità usuale è partenza la mattina prestissimo, andata in bici e ritorno a La Paz in serata. Tenete presente un piccolo dato: si parte da La Paz a 3600 metri, si arriva fino a 4700 metri per poi scendere - a bomba - fino ai 1525 di Coroico. Quindi partite leggeri ma attrezzati: maglione, maglietta di ricambio, zuccherini, acqua. È un’esperienza unica, serve un po’ di coraggio ma, come vi racconteranno tutti quelli che l’hanno vissuta, vale dieci volte un viaggio normale.

El Camino de los Yungas, da La Paz a Coroico (Bolivia)

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storm chaser per caso di Alexandra Rosati foto di William T. Reid (stormbruiser.com) agenzia: tempest tours tempesttours.com / info@tempesttours.com

Era dai tempi della scuola che non salivo su un mezzo di trasporto con altre persone per fare un viaggio organizzato, solo che questa volta i miei compagni sarebbero stati degli sconosciuti e le tappe della gita sarebbero state una sorpresa. All’inizio mi sentivo come un pesce in un acquario, non capendo nulla di ciò che si dicevano gli altri componenti del gruppo – tutti americani tranne me e il mio amico Luca – trascorrevo gran parte del tempo con le cuffiette ad ascoltare musica, fingendo uno stato d’animo tranquillo e avendo deciso che l’unica soluzione per affrontare ciò che sarebbe potuto accadere fuori della mia bolla di vetro era una sorta di intrepida rassegnazione. Quella strana vacanza infatti non era frutto di una mia iniziativa, e non credevo che esistessero

organizzazioni che portassero a caccia di tornado. Ne avevo sentito parlare per caso in qualche film, e quasi per caso in quel momento mi trovavo lì. IL PERCORSO CHE AVREMMO SEGUITO ERA IL COSIDDETTO TORNADO ALLEY, NOME UTILIZZATO PER INDICARE LA REGIONE DELLE GRANDI PIANURE, SITUATA NELLA PARTE CENTRALE DEGLI STATI UNITI, DOVE I TORNADO SI PRESENTANO CON ALTA FREQUENZA, E COMPRENDE DIVERSI PAESI. Quelli che avremmo imprevedibilmente attraversato noi sarebbero stati l’Oklahoma, il Kansas, il Texas e il New Mexico. Mi ritrovavo così a far parte di un’allegra brigata di appassionati, muniti di cineprese e macchine fotografiche, che a

bordo di un van erano all’inseguimento di super-celle (forti temporali caratterizzati dalla presenza di vortici d’aria) e uragani di ogni tipo e dimensione. Si trattava, letteralmente, di un’avventura: ogni spostamento era preceduto da un accurato studio delle carte metereologiche, che servivano alle nostre guide per intercettare le zone dove si sarebbero verificati i fenomeni atmosferici di maggiore rilievo. Io seguivo le operazioni con un certo distacco, visto il gap linguistico, nonostante Luca mi facesse da interprete. Essere in una situazione così sui generis senza poter comunicare era abbastanza alienante. E durante il tempo in cui percorrevamo centinaia di chilometri, con loro che si scambiavano informazioni e opinioni su ciò che tutti speravano accadesse, ossia incontrare

nei pressi di Emmetsburg, Iowa (11 giugno 2004)

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RACCONTO DI VIAGGIO

il ciclone senza finirci dentro, la mia attenzione era tutta verso l’esterno. Così mentre gli altri erano intenti a seguire le indicazioni dei radar con connessione satellitare, io osservavo le immense pianure, le cittadine simili a scenografie da film western e i passanti dall’abbigliamento curiosamente country. Macinavamo chilometri masticando beef jerky, carne essiccata che esiste fin dai tempi degli Inca, che compravamo in buste al posto delle patatine fritte per dare un sapore ancora più esotico al nostro viaggio. La maggior consumatrice dell’atipico snack era una ragazza americana, dalla stazza considerevole, che era al suo secondo o terzo tempest tour, e raccontava con orgoglio di lavorare per mettere da parte i soldi e partecipare a nuove cacce. I PRIMI GIORNI TRASCORSERO ALL’INSEGNA DI CAMBIAMENTI CLIMATICI STUPEFACENTI, IN POCHI MINUTI SI PASSAVA DA UN CIELO TERSO CON UN SOLE SPLENDENTE A UNA CONCENTRAZIONE DI NUVOLE CHE RABBUIAVA L’INTERO

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PAESAGGIO CON TONI ROSSASTRI, SPESSO ACCOMPAGNATA DA FORTI VENTI E ROVESCI TEMPORALESCHI. L’apparizione di mulinelli d’aria suscitava in me strane reazioni, miste di timore ed eccitazione, incondivisibili col resto della truppa che si preoccupava di raccogliere testimonianze attraverso scatti e riprese. Era tutto incredibilmente diverso da quello che avevo visto prima: mentre l’adrenalina degli altri cresceva con fanatica esaltazione, le mie emozioni erano altalenanti, e il pensiero che al posto di un mulinello d’aria, all’improvviso, avremmo potuto incontrare un tornado vero e proprio mi toglieva il fiato. Erano i primi di maggio, uno dei periodi di maggiore concentrazione delle tempeste, e il nostro Storm Chaser, esperto climatologo, ci aveva guidato fino in Texas. Quel giorno la comitiva era più eccitata del solito, e ci si stava preparando a un’esperienza che avrebbe segnato le nostre vite. Io seguivo tutto dalla mia bolla, ma con una maggiore inquietudine che divenne puro terrore

quando capii che quella concentrazione di nuvole nere e tutto quel vento si sarebbero trasformati in un tornado. L’entusiasmo degli altri, però, non mi permise di abbandonarmi al panico e, seppur frastornata quando vidi l’enorme tromba d’aria che dalla nube toccava terra cominciare a roteare su se stessa e a spostarsi, ebbi la consapevolezza di assistere a uno spettacolo unico e che forse non avrei rivisto mai più. Risalimmo di corsa sul van, con l’ultimo passeggero che faticava a chiudere la portiera per rubare gli ultimi scatti. COMINCIÒ LA CORSA LUNGO LA STRADA: NOI NE AVEVAMO SOLO UNA DA FARE, IL TORNADO NO, POTEVA DECIDERE IN QUALSIASI MOMENTO LA DIREZIONE, E SEMBRAVA MOLTO ATTIRATO DALL’ASFALTO. Per diversi chilometri sembrò ci inseguisse, ricordo che ci fermammo sotto un enorme ponte, insieme ad altri, per cercare di capire cosa fare, e dopo poco la corsa ricominciò finché non lo

vedemmo sparire alle nostre spalle. Ero piuttosto incredula, emozionata e felice di essere fuori pericolo. Si trattava del grande tornado di Happy. Un paio di giorni dopo c’imbattemmo in un'altra tempesta in Kansas: come di norma le nostre guide, contemporaneamente ad altri cacciatori che avevano avuto le stesse avvisaglie, diedero l’allarme. All’improvviso il cielo diventò sempre più nero, cominciarono a piovere chicchi di grandine che sembravano palline da ping pong, all’interno del van il rumore era assordante e il tetto del veicolo si stava evidentemente danneggiando. Fotografai un chicco di grandine nel palmo della mia mano: lo riempiva completamente. Arrivammo nella cittadina di Pratt di sera, mentre suonavano le tornado warning, sirene che servono a mettere in allerta gli abitanti affinché possano raggiungere appositi rifugi. Scesi faticosamente dal van non riuscimmo a entrare nelle camere del motel, c’era un blackout, e le chiavi magnetiche non funzionavano. Restammo un po’ di tempo sotto la tettoia abbaci-

nati da un’indimenticabile tempesta di fulmini: fu meraviglioso, ma più trascorreva il tempo più la mia paura aumentava. Dall’altro lato della strada intravidi incredula un negozio di lapidi, mi venne da ridere, per la prima volta provai rabbia per non poter fare delle fotografie. Sotto tuoni e fulmini, la visione di quelle lapidi colorate a forma di stivale con lo sperone, cappello da cowboy, coppia di cuori, chitarra o coniglietto a braccia aperte era divinamente grottesca. Finalmente tornò la luce, io entrai in camera e mi misi seduta sul letto, mentre gli altri correvano da una parte all’altra scambiandosi informazioni in modo concitato e continuando a riprendere con le telecamere. Non mi ero levata né giacca né cappuccio, ero paralizzata di fronte a tanta confusione, quello che sapevo era che un tornado sarebbe passato in quella zona. Presi in mano il cellulare per chiamare mia madre, non c’era segnale, lo rimisi in tasca. Per la prima volta in vita mia ebbi paura di morire, e non so come quella notte riuscii ad addormentarmi. L’indomani mattina sapemmo

dalle nostre guide che il tornado era passato dall’altra parte della strada che divideva in due la cittadina, e ci rimettemmo in moto. LA ATTRAVERSAMMO TUTTA, E VEDEMMO CHIESE DAL TETTO SCOPERCHIATO, ALBERI DIVELTI CHE AVEVANO ABBATTUTO INTERE ABITAZIONI, CADAVERI DI MUCCHE SPARSI QUA E LÀ. Per gli addetti ai lavori era quasi normale, probabilmente ne avevano viste di peggiori, ma per me fu impressionante: pensai che il rischio fosse troppo alto. Raggiungemmo Oklahoma City, e ci fermammo a cena in un ristorante nel quale vendevano alcolici: durante tutto il nostro viaggio non ne avevamo trovato uno che ne vendesse. Il giorno dopo avevamo l’aereo di ritorno: ordinai un boccale di birra da mezzo litro, e lo bevvi tutto d’un fiato.

nei pressi di Harper, Kansas (29 maggio 2004)

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CURIOSITÀ

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SODOMA & GOMORRA alle origini della perversione di Veronica Gabbuti foto di Francesco Iervolino Questa è una storia che non si trova sulle guide turistiche e con ogni probabilità non è neanche vera. Ma Hassan Hussein, driver, amico e compagno del mio viaggio in Giordania, ne ha descritto i particolari con tanta convinzione e tanto orgoglio da meritare che fosse raccontata ancora. Le città bibliche di Sodoma e Gomorra sorgevano nei pressi del Mar Morto ed erano note per la diffusione delle pratiche omosessuali tra i loro abitanti. Ovviamente, Dio decise di distruggerle. Proprio come Noè nel Diluvio Universale, fu la volta di Lot ottenere la salvezza dietro raccomandazione dello zio Abramo. Per questa ragione a casa sua furono inviati due angeli cui offrì ospitalità per la notte, come da miglior protocollo mediorientale. Ma gli angeli, si sa, sono creature bellissime e i sodomiti chiesero di poterne abusare. In quanto ospiti, gli angeli dovevano essere rispettati, dunque Lot offrì le proprie figlie vergini ai cittadini, che le

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rifiutarono poiché donne. A quel punto per Sodoma e Gomorra non ci fu più nessuna speranza. Alla famiglia di Lot fu concesso di fuggire, a patto di non voltarsi indietro a guardare la distruzione delle due città. La moglie, disobbediente, fu trasformata in una statua di sale. Quella che poco prima era una pianura verdeggiante fu inondata da una pioggia di fuoco e di zolfo, il sale riempì il mare trasformandolo in salamoia e uccidendo ogni forma di vita presente, la terra si spaccò per chilometri creando un canyon immenso, il Wadi Mujib, che oggi è la riserva naturale più bassa del mondo, con alcuni punti a 410 metri sotto il livello del mare. Si estende dal Mar Morto a Nord fino ai monti di Madaba, e a Sud fino a Karak, arrivando sulla sommità a circa novecento metri sopra il livello del mare. Al suo interno le cascate di acqua dolce e freddissima della sorgente sulfurea di Hammamat Ma’in si alternano a massi

sospesi a mezz’aria che lasciano filtrare la luce creando ombre e disegni sulle pareti ripide e lisce. Il Mujib è un luogo di Bibbia, di colpe, di errori, di Giudizio, di sale, di zolfo, di trekking e di turisti. Non è un luogo qualunque. L’ultima puntata di questa oscura vicenda biblica narra del buon Lot che, ubriaco di vino, si unisce con le sue figlie per generare i Moabiti e gli Ammoniti, progenitori del popolo giordano. Il mio amico Hassan ha però voluto sottolineare che in tutta questa storia non contano più di tanto i costumi sessuali, la distruzione o, chessò, l’incesto. Ciò che davvero è importante è l’ospitalità. E così sia. Nessuno sa esattamente se Sodoma e Gomorra sorgessero proprio sopra il canyon, ma non ho potuto fare a meno di notare una stalagmite di sale attraverso cui, in una minuscola fessura, si vede il blu del cielo: l’occhio blu della povera moglie di Lot.

interno del Wadi Mujib (Giordania)

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RACCONTO DI VIAGGIO

Padrino Alfredo e Madrina Rita durante una sessione di Daime

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scorcio di Ceu do Mapia (Brasile)

casa Regina della Pace (Assisi)

l’universo nel bicchiere di Fulvio Benelli (luogo.org) foto di Filippo Barbieri (iloyoli.net) Ayahuasca. Esperienza mistica eppure di fondamentale importanza per il futuro sociale dell’uomo. Perché fin tanto che non sapremo come guardarci dentro, non saremo in grado di cambiare il mondo fuori.

La prima volta è stata in un casale in provincia di Reggio Emilia, nella settimana di Natale di tre anni fa. A dirigere la sessione era Adrian, un polistrumentista britannico che a prima vista, per via della barba, mi sembrò nientemeno che Dio in persona, quello di Michelangelo nella Cappella Sistina. Capii di essere nel posto giusto. Eravamo circa quaranta, disposti a spirale, tutti vestiti di bianco. Eravamo lì per brillare. Poi c’è stata Assisi, l’epicentro della dottrina in Italia. Casa Regina della Pace è il luogo perfetto. La campagna umbra,

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ricca di frutti e pettinata, la luce ben temperata, è uno scenario che aiuta il lavoro interiore. Qui a dirigere c'è Tiziana, la prima fardata d'Europa. Il solo incontrarla vale il viaggio. La lezione ancora viva di San Francesco fa il resto. Infine - coronamento di un percorso non solo metaforico - il Brasile. Ho bevuto al confine tra Mato Grosso e Amazzonia, dove questa storia è iniziata, quasi cento anni fa. Prima c’erano solo gli sciamani. Il curatore decideva se ammetterti al viaggio, e nel caso dovevi attaccarti saldamente alla scia della sua prua.

NEGLI ANNI ‘30 DEL SECOLO SCORSO UN UOMO ANALFABETA, ALTO DUE METRI, FIGLIO DI SCHIAVI AFRICANI, FU SPEDITO TRA GLI ALBERI DELL’AMAZZONIA A LAVORARE IL CAUCCIÙ. LÌ INCONTRÒ LA SOSTANZA CHE VENIVA E VIENE CHIAMATA LA LIANA DEGLI SPIRITI. La bevanda che gli venne offerta era, infatti, un decotto ricavato dalla bollitura di una liana e di una foglia, attraverso un procedimento lungo e scrupoloso che coinvolge i quattro elementi. L’acqua. L’aria. La terra. Il fuoco.

Santo Cruzeiro, il simbolo sacro del Daime

Sotto l’effetto dell’ayahuasca all’uomo apparve la Regina della Foresta, quella che per gli occidentali è la Vergine Maria. Fu lei in persona a dirgli di fondare una Chiesa, per permettere agli uomini di ogni dove di riunirsi e bere il sangue di Cristo. L’uomo obbedì. Il suo nome è Raimondo Irineu Serra e oggi è venerato da centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo che si riferiscono a lui come al Mestre. Il maestro. Irineu Serra è scomparso nel 1971. Nel cuore della foresta ha composto (anzi, gli sono stati rivelati) 132 inni che per i suoi seguaci sono il ter-

zo testamento. Un testamento in cammino che è arrivato fin qui e nel resto del mondo, in questo preciso momento. Intorno all’assunzione di ayahuasca è sorto negli ultimi anni un vero e proprio culto, quello del santo Daime, che in portoghese significa dammi. I partecipanti infatti cantano “dammi forza, dammi luce, dammi amore” e quando i conquistatori li udirono per la prima volta diedero alla disciplina questo nome. Daime. Da quel momento antropologi, chimici e studiosi di varie discipline hanno analizzato il rito e la sostanza in ogni

suo aspetto. Si è appreso che l’effetto ha a che fare con la DMT, una sostanza che l’essere umano produce naturalmente nella ghiandola pineale, come la melatonina e la serotonina. In gergo tecnico, è una sostanza endogena. AFFLUSSI MASSICCI DI DMT AVVENGONO SPONTANEAMENTE ALLA NASCITA. DURANTE I SOGNI. E NEL MOMENTO DELLA MORTE. In breve, il principio attivo dell’ayahuasca è un inibitore che evita la degrada-

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RACCONTO DI VIAGGIO

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foto del Mestre Ireneu Serra, Tomba di padrino Sebastião, Villaggio Ceu do Mapià (Brasile)

zione naturale della DMT nello stomaco e gli permette dunque di agire in tutta la sua forza. È per questo motivo che, sebbene le autorità di molti Paesi abbiano provato a bandirla, nessuno è riuscito a proibire il culto dell’assunzione di ayahuasca. Lo scienziato Terence McKenna sostiene che la dimetriltriptamina non sia una molecola pericolosa per la salute, a meno che uno non muoia dallo stupore. Non vi racconterò gli effetti della liana su di me, perché non riuscirei. Mi capirete. Se chiamati a compierli, certi viaggi

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si possono fare solo di persona. Quello che posso dire però è che, tomando Daime, ho appreso l’importanza del corpo. Sì, certo, è la mente che permette l’estasi del viaggio spalancato, per molti una vera e propria esperienza mistica di ascesa al divino. Ma quello che entra nella corrente che si genera tra le persone mentre cantano e ballano a ritmo delle maracas - come prevede il rito - è il corpo. È il suo lavoro che consente ai piani superiori di fondersi con le molecole della Creazione e divenire pura energia. Ma per giungere fin là, il corpo

Rio Garapé, Amazzonia (Brasile)

deve imparare a conoscersi e disciplinarsi. Mollare molti pesi. E noi dobbiamo riallinearci per ricevere le energie più sottili che sono presenti nell’atmosfera ma che non siamo capaci di assimilare senza uno sforzo cosciente. Per cambiare di frequenza, è richiesto un tipo d’attenzione mai praticato perché sconosciuto. L’AYAHUASCA SI RIVELA UN PREZIOSO ALLEATO NELL’APPRENDIMENTO, ANZI È IL MAESTRO. A PATTO CHE CI DISPONIAMO ALLA COLLABORAZIONE.

Il corpo sa collaborare meglio della testa che è il continente dove l’Ego detta le regole della sua tirannia e non vuole rogne. Prova a interferire in ogni modo, perché è spaventato. Ha paura di volare. Se ci affidiamo al corpo, scopriamo che è un genio. Fa la maggior parte delle attività che rendono possibile la nostra vita, senza che noi ci arrechiamo il minimo disturbo per cooperare. Cose come respirare, intendo. Il corpo ha un senso del servizio e una responsabilità nei nostri confronti che commuovono. Non lo contraccambiamo mai abba-

stanza. Nel rito del Santo Daime, come nella meditazione, scopriamo che è possibile espandere questo corpo, arrivare a formarne uno di quaranta, cinquanta, duecento persone. Un corpo capace, perché plurale, di aprirsi a una corrente che guarisce e fortifica. Un’esperienza talmente intensa che invoca spesso devozione, convertendo di centottanta gradi l’individualismo della personale vanagloria. Una volta esperito infatti, ci viene voglia di formare un corpo ancora più grande con i regni animale, vegetale e minera-

le. Fino a voler afferire al corpo del Mondo. E nel cammino, ci spogliamo sempre più di noi stessi, per riempirci dell’altro e dell’Altro fino a smarrire i confini. È come la compassione dei Buddisti: nulla è loro estraneo. Così come a noi riguarda contemporaneamente il dolore di una spalla e quello di un ginocchio, perché ci appartengono entrambi ed entrambi vanno compresi e curati. Mestre Ireneu Serra diceva che noi ci apparteniamo tutti. Siamo tutti la stessa Famiglia e stiamo tornando a casa.

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CHI CI CREDE ANCORA

Sono le 20.30, e dal fiume ancora niente. C’è moltissima gente. Tanti, troppi turisti, ma per fortuna intorno a me sento forte l’accento romano. Sono a Trastevere, nel cuore di Roma, e quella che aspetto sulle sponde del Tevere non è una Madonna per tutti. È la Beata Vergine del Carmelo, la Madonna dé Noantri. Da quasi mezzo secolo, quando secondo la leggenda nel 1535 una statua della Vergine fu rinvenuta alla foce del Tevere e donata ai frati carmelitani, nella capitale questi festeggiamenti si concludono con la processione della Madonna fiumarola. Anche chi non vive più nel quartiere prende la macchina, sfida caldo e traffico e aspetta paziente che da Castel Sant’Angelo il battello percorra il fiume fino all’isola Tiberina. Qui la statua viene affidata alla confraternita del Santissimo Sacramento e al grido di viva Maria parte la processione. C’è chi una volta vista la Madonna si allontana velocemente (sembra bastargli) e chi invece resta piantato al suo posto finché non gli passa accanto. La saluta, le chiede la grazia e poi la segue per tutto il quartiere fino a Santa Maria in Trastevere, una delle chiese più antiche della capitale.

I più pigri aspettano direttamente in piazza. I più furbi sono già accomodati in chiesa. Intorno a me hanno tutti i capelli bianchi. La signora accanto mi affida la sua macchinetta fotografica, ancora in pellicola, e mi dice “Tieni lellè, io nun ce vedo. Mi raccomanno, ‘ste foto devono annà in Argentina”. Così si conclude la Festa de’ Noantri, che durante tutta la seconda metà di luglio riempie di bancarelle le strade e le piazze. Oggi si è perso quel carattere popolare di un tempo perché ormai i trasteverini sono rimasti in pochi, ma ogni anno ne viene rievocato lo spirito per turisti e romani. Non che io rimpianga i tempi passati, la semplicità con cui ci si abbandonava al volere di qualcosa che ci dicevano essere più grande di noi, ma è impossibile non cadere nella trappola del paragone. Non ci crediamo più ai miracoli. Quella che ha percorso le acque del Tevere ed è stata trasportata a fatica fin dentro la chiesa è solo una statua. Non c’è niente dentro ne dietro. Allora perché mi emoziono? Mentre guardo con distacco i miei coetanei crederci, mi commuovo per tutte quelle signore che potrebbero essere mia nonna e che ci credono ancora. La genuinità del loro trasporto è lontanissima dalla Chiesa moderna. I loro peccati saranno perdonati.

a cura di Claudia Bena

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ARTE

l'elegia del male di Carolina Pozzi immagine di Gianni Politi (giannipoliti.com) La forza che anima l’intero lavoro di Gianni Politi (Roma, 1986) muove dal tentativo instancabile - continuamente inseguito e puntualmente smentito dalla sua paradossalità - di affrontare e metabolizzare il più grande tra i mali. Fortemente radicata in un vissuto personale che si è misurato con la lacerazione fisica e interiore, con il tema della perdita e del distacco, la sua ricerca avanza per momenti di intima autoanalisi, nei quali l’atto creativo concretizza immagini e visioni in bilico tra lucidità e confusione, affermazione e negazione, dando corpo ad archetipi iconografici dal grande valore emotivo e insieme concettuale. Nelle grandi tele bianche, nelle sculture in bronzo, nei disegni, così come nelle performance, Politi si muove nello spazio epico e universale in cui è possibile affrontare la dimensione della tragedia e della morte, traducendo in segno, gesto e azione il contrasto atavico tra creazione e distruzione, attrazione e repulsione, eros e thanatos. Le otto tele degli Esercizi - la parte più saturnina della serie Viva la Muerte, che introduce sin dal titolo l’ossimoro sul quale insiste Politi - rappresentano altrettanti tentativi di ritrarre un oggetto presente da tempo nello studio dell’artista: un modellino anatomico di scheletro umano, memento silenzioso dell’inevitabile destino di decadenza e dispersione che attende la carne e insieme a lei le passioni degli uomini. Tracciate con un carboncino precedentemente rotto e sbriciolato in acqua - quasi a voler trattare la materia pittorica

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ancora prima di applicarla, per rendere anch’essa empaticamente frantumata, deperibile e sofferente - le figure oscillano tra riconoscibilità e indeterminazione. Le visioni anatomiche di scapole, costole e vertebre emergono in maniera netta per venire immediatamente contraddette da errori e cancellazioni, addensamenti di pigmento scuro, colature verticali di materia che abbandona i resti di un corpo vuoto e consumato dal tempo, valicandone i limiti fisici e spirituali. Attraverso una rappresentazione reiterata, Politi percorre il territorio simbolico di un’immagine antica, celebrandone il valore intrinseco per arrivare ad accogliere e accettarne tutti gli aspetti: monito all’impermanenza e al decadimento fisico, ma anche metafora della natura intima e occulta delle cose, come del cammino alchemico verso la riduzione a pura essenza. L’opera d’arte entra così a far parte di un percorso rituale che comprende il sacrificio come atto necessario per la ri-generazione di forma e senso: ancora una volta Politi si confronta con il male e le sue forme, osservandone da vicino i tratti e offrendo a chi osserva i frutti di una lotta consapevolmente fallimentare.

nell’immagine a destra: Esercizio #1/7 carboncino e acqua su tela (2011) di Gianni Politi


PERSONAGGIO

samurai virtuale di Serafino Murri foto di Gerald Bruneau (blackarchives.it) “L’hacker è una figura di frontiera. Non è al di là del bene e del male, diciamo che è tra i pochi privilegiati che può ancora scegliere da che parte stare - fermo restando che bene e male, in questo intramondo, possono assumere aspetti e motivazioni che corrispondono poco o nulla ai valori che, nella superficie, si intendono con queste parole”. Così parlò - tra il profetico e il post apocalittico - Fabio Ghioni, classe 1964: l’hacker italiano più celebre nella superficie del mondo reale. Volto segaligno protetto da occhialetti rettangolari, essenza proteiforme tra il guru e il nerd, tra il consulente aziendale e il pirata informatico, Ghioni parla come “uno che sa”, muovendosi con disinvoltura sulla sottile linea rossa che divide il lecito dall'illecito nello sconfinato pluriverso del cyberspazio, frontiera virtuale senza più nazione né confini, alla ricerca di verità nascoste dietro la grande facciata della Rete. Quella dell’hacker non è una professione. Semmai, è qualcosa che si professa: una filosofia di vita, uno state of mind. Hacker lo si diventa sul campo, dove si lascia, a furia di smanettare, la vecchia pelle dello user, l’utente webdipendente nella sua attività passiva, imposta dall’alto dei siti, imparando a usare i microscopici varchi che ogni sistema informatico è costretto a lasciare aperti. Tra i molteplici significati di una delle parole più sfuggenti e sfruttate del nostro tempo, il verbo to hack, non a caso, c’è proprio “aprirsi un varco”. L'inafferrabile identità di Ghioni, però, è balzata al (dubbio) onore delle cronache dei business media nel 2010, quando era al comando di un segretissimo “Tiger Team”, drappello di supereroi della digital security incaricati dalla Telecom Italia di proteggere i confini virtuali nazionali dalla minaccia dei cracker. Ovvero, gli hacker che hanno scelto la parte del male: mercenari al soldo di servizi segreti o industrie private, dediti al sabotaggio e al furto delle banche dati che celano i segreti economici, finanziari, militari e politici del pianeta. Una Mission Impossible che lo ha portato in cella d'isolamento a San Vittore per aver inserito dei trojan (file-spia) nei blindatis-

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simi computer della Kroll, beffando la più grande agenzia investigativa statunitense, multinazionale dell’indagine sui sistemi finanziari, che ficcava il naso nel nostro spazio virtuale. Rischi del mestiere, a quanto pare, se Ghioni è subito tornato in pista, e la sua (controversa) fama lo ha portato a essere trasformato persino in eroe dei fumetti con il nickname di “Hero-Z”: una graphic novel techno-thriller che ha spopolato negli USA. Ma il successo è una iattura, per i solitari Samurai dell'inframondo virtuale. L'identità anagrafica è meglio perderla in un meme come quello di Anonymous, l’Avatar da anni in prima linea in ogni battaglia di principio nella Rete: un’idea che vive di vita propria, indipendentemente dagli individui che di volta in volta la portano avanti. Ghioni, sornione e impassibile, qualche indizio dell'intramondo e della sua filosofia ce lo dà, spiegandoci nella sua bibbia personale, il libro Hacker Republic, che la tecnologia è il nuovo oppio dei popoli, qualcosa che ci usa mentre crediamo di usarla. E così, laddove il resto dei comuni mortali è monitorato dalle intelligenze centrali di tutti i servizi segreti della Terra mentre svende senza saperlo tutti i diritti sulla sua identità reale a social network e affini, l’hacker costruisce percorsi e nonluoghi alternativi, dove lo scambio tra persone non sia carne da cannone per spam e cybervenditori, e le trame oscure possano essere intercettate e messe in mutande. Una battaglia segreta per la libertà, dunque, dove le grane con il mondo reale e le sue insidiose leggi di controllo del cyberspazio sono all'ordine del giorno: basti pensare alle peripezie di Julian Assange con Wikileaks. Una battaglia che tutti, non solo gli hacker, saranno presto chiamati a combattere, usando quello che Ghioni definisce l'antivirus più sofisticato: il proprio cervello.

nella foto: Fabio Ghioni


MODA

an anarchist in the UK di Marianna Kuvvet illustrazione di aleXsandro Palombo (humorchic.blogspot.com) Teschi e borchie. Yawn, noia. Leitmotiv visti, rivisti, riciclati e copiati. Se lo sono diventati però è perché un designer in particolare li ha resi iconici, riuscendo a conciliare alla perfezione la cura maniacale per la qualità e i dettagli e una personalità ribelle. C’era una volta Alexander McQueen, enfant prodige della moda inglese morto suicida nel 2010, a soli quarant’anni, pochi giorni dopo la scomparsa della madre. Un personaggio controverso che ha combattuto battaglie personali per tutta la vita, perdendo l’ultima e forse la più difficile, riuscendo però nell’intento di lasciare dietro di sé un lavoro che non ha finito di esistere con lui. E se c’è riuscito è perché ha messo l’anima, la sua anima, nelle proprie creazioni, dando sfogo con tessuti, cuciture e colori alla sua creatività senza freni e limiti imposti, creatività folle che tanto ha affascinato le innumerevoli persone che lo hanno definito un genio visionario. Definizione azzeccata per un designer che aveva il talento necessario a creare una giacca o un abito impeccabili ma senza accontentarsi mai, che rendeva ogni sua sfilata un vero e proprio show con contenuti talvolta sociali, talvolta politici, spesso inquietanti e shockanti, sempre inneggianti a un’idea di bellezza forte e sicura con pezzi perfetti nella loro artigianalità e avanguardia. Autodefinitosi un romantico schizofrenico, ha rappresentato con il suo lavoro gli aspetti più profondi, spesso oscuri, della sua personalità, rivoluzionando il mondo della moda a livello creativo con trucchi gotici e silhouette esagerate, trasmettendo live in streaming i suoi show e presentando un ologramma in 3D di Kate Moss, ma anche a livello umano. Nel 1999 porta in passerella l’atleta disabile Aimee Mullins per far volutamente sentire a disagio gli spettatori e obbligarli quasi con violenza a riflettere su tematiche scomode. Nato a Londra nel 1969, il più giovane di sei figli, da un padre tassista e una madre insegnante, fin da bambino dimostra un interesse non comune per la moda, andando contro le aspettative paterne e guadagnandosi le prese in giro dei

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compagni di scuola, i quali, con l’innocenza e la bontà tipiche dei bambini, gli affibbiarono il soprannome di McQueer. Fin da subito si trova quindi a dover combattere per le proprie convinzioni e sviluppare una personalità forte che gli impedisca di soccombere alle idee e opinioni altrui. All’età di sedici anni lascia la scuola e inizia a lavorare prima con dei sarti e poi con dei costumisti teatrali, ed è facile capire come entrambi abbiano influenzato il suo lavoro in età adulta. Da lì in poi iniziano a susseguirsi le esperienze in case di moda prestigiose e un (immancabile) corso alla St. Martins. A questo punto la strada di McQueen si incrocia con quella di un altro personaggio controverso e malato, Isabella Blow. Fashion editor, icona internazionale, musa di Philip Treacy e talent scout, la Blow acquistò la collezione che McQueen presentò al termine del corso di studi, dall’inquietante titolo Jack the Ripper Stalks his Victims, e da lì instaurò con il designer un rapporto sia lavorativo che umano di stima e collaborazione. Quando la donna, a cui era stato diagnosticato un disturbo di bipolarità, si ammalò gravemente di depressione, una sua amica lo attribuì fra l’altro agli eventi recenti che avevano visto lo stesso McQueen vendere il proprio marchio a Gucci senza interpellare e mettendo da parte la Blow, la quale “si era ormai persa per strada. Tutti gli altri ebbero un contratto e lei ricevette un vestito gratis”. Isabella Blow morì suicida all’ennesimo tentativo nel 2007. La vita di Alexander McQueen è stata segnata tanto da grandi soddisfazioni lavorative quanto da esperienze personali forti che lo hanno portato a divenire un personaggio visionario ma anche cinico e disilluso, che ha analizzato la realtà, a volte cruda, che lo ha circondato, e la ha rappresentata nel suo lavoro. “Io credo nel rappresentare ciò che succede - ha detto una volta - Sono un grande anarchico. Non credo nella religione, o in qualunque essere umano che vuole governare su qualcun altro. Questi temi emergono dai miei show e continueranno a farlo”. È vero, continuano.

Alexander McQueen Humor Chic by aleXsandro Palombo



DISTRIBUZIONE ROMA 40 GRADI Via Virgilio 1 ALTROQUANDO Via del Governo Vecchio 80 ASSOCIAZIONE GRUPPO IDEE Casa CircondarialeRebibbia N.C. BAR DEL FICO Piazza del Fico 26 BAR DUE FONTANE P.zza Pierin del Vaga 13 BARNUM CAFÈ Via del Pellegrino 87 BLACK MARKET Via Panisperna 101 BUCAVINO Via Po 45 CAFFÈ LETTERARIO Via Ostiense 95 CAFFE PROPAGANDA Via Claudia 15 CARGO Via del Pigneto 20 CASA CLEMENTINA Via Clementina 9 CIRCOLO DEGLI ARTISTI Via Casilina Vecchia 42 CONTESTA ROCK HAIR Via del Pigneto 75 Via degli Zingari 9/10 DEGLI EFFETTI Piazza Capranica 79 DELLORO ARTE CONTEMPORANEA Via del Consolato 10

GALLERIA MUGA Via Giulia 108/9

PEAKBOOK Via Arco dei Banchi 3/A

GOA CLUB Via Giuseppe Libetta 13

PIFEBO Via dei Serpenti 141 Via dei Volsci 101/B

HAPPY SUNDAY MARKET Lanificio Factory Via di Pietralata 159/A

RASHOMON CLUB Via degli Argonauti 16

MILANO BOND Via Pasquale Paoli 2 BITTE Associazione Culturale A.R.C.I. Via Watt 37 CALIFORNIA BAKERY Piazza Sant’Eustorgio 4 Viale Premuda 449 Largo Augusto (Via Verziere ang. Via Merlo 1)

IED Via Alcamo 11 Via Giovanni Branca 122

RGB46 Piazza di Santa Maria Liberatrice 46

IL BARETTO Via Garibaldi 27

SALOTTO 42 Piazza di Pietra 42

IN-ES.ARTDESIGN Piazza della Suburra 6

SANTA SANGRE TATTOO Via dei Latini 34

JARRO IL QUATTORDICESIMO Piazzale di Ponte Milvio 32

SOFA WINE BAR Via Cimone 181

KINCK KNACK YODA P.zza Risorgimento 11

S.T. FOTO LIBRERIA GALLERIA Via degli Ombrellari 25

LET’sART Via del Pellegrino 132

STONE ISLAND Via del Babbuino 73

LIBRERIA DEL CINEMA Via dei Fienaroli 31

SUPER Via Leonina 42

F.R.A.V. Via Vetere 8 (ang. Corso Porta Ticinese)

LONDON CALLING Via XXI Aprile 2

TIEPOLO Via Giovanni Battista Tiepolo 3

FRIP Corso di Porta Ticinese 16

MAXXI (LIBRERIA MONDADORI

TREE BAR Via Flaminia 226

HUMANA VINTAGE Via dei Cappellari 3

ELECTA) Via Guido Reni 4/A

ULTRASUONI RECORDS Via degli Zingari 61/A

INTRECCI Via Larga 2

MONOCLE Via di Campo di Marzio 13

URBAN STAR Via Enrico Fermi 91/93

JAMAICA Via Brera 32

NECCI Via Fanfulla da Lodi 68

VILLA BALESTRA Via Ammannati

LA SACRESTIA Via Conchetta 20

N’IMPORTE QUOI Via Beatrice Cenci 10

VOY Via Flaminia 496

THE HUB Via Paolo Sapri 8

CAPE TOWN CAFé Via Vigevano 3 CIRCUSTUDIOS Via Pestalozzi 4 EXPLOIT Via Pioppette 3 FONDAZIONE ARNALDO POMODORO Via Andrea Solari 35

OFFICINE FOTOGRAFICHE Via Giuseppe Libetta 1

TRATTORIA TOSCANA Corso di Porta Ticinese 58

DULCAMARA Via Flaminia 449

OSTERIA DEGLI AMICI Via Nicola Zabaglia 25

WOK Viale Col di Lana 5/A

FABRICA Via Girolamo Savonarola 8

PANAMINO BAR Parco Y. Rabin 23 Via Panama

FRENI E FRIZIONI Via del Politeama 4/6 FULL MONTI Via dei Serpenti 163 GALLERIA DOOZO Via Palermo 51/53

PARIS Via di Priscilla 97/99 PASTIFICIO SAN LORENZO Via Tiburtina 196



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